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La damnation de Faust di Robert Lepage/Carl Fillion 2008 su operaonvideo #liberiamogliarchivi
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https://www.operaonvideo.com/la-damnation-de-faust-met-2008-giordani-graham-relyea/#information

https://www.metopera.org/season/on-demand/opera/?upc=811357012154

Affama l’algoritmo. Il teatro di ombre e di macchine di Kentridge e Lepage debutta a Roma e Québec.
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Due eventi teatrali di importanza internazionale di fine estate hanno rimesso al centro dell’attenzione la scena-immagine: il debutto all’Opera di Roma di Anatomy of a Sybil di William Kentridge (abbinato alla riproposta dello spettacolo Work in progress con le originarie scenografie di Calder) e quello rappresentato, a sei ore di fuso orario di distanza, a Québec per la regia di Robert Lepage, ovvero il remake de Les sept branches de la riviére Ota.

Se il primo era evidentemente un appuntamento mondano e di gala, il secondo pur nell’importanza doppia del debutto e dell’inaugurazione del nuovo Teatro Le Diamant di Lepage/Ex machina nel cuore della vecchia Québec, era stato promosso come un evento cittadino molto informale.

In entrambi gli spettacoli emerge una scena che, come da costante degli autori, per quanto spesso abbinati a un’idea tecnologica del palcoscenico, ha richiami espliciti più al teatro dell’origine che non a quello della videocultura contemporanea. Questi gli elementi che li contraddistinguono: le ombre (viventi e animate) e le macchine (dispositivi scenici o congegni macchinici). Lepage e Kentridge pur nella diversità delle proposte, rimettono in circolazione modalità artistiche rétro, tecniche inconsuete e obsolete, mostrando l’innovazione tecnologica come la naturale evoluzione di un sapere tecnico antico che appartiene “geneticamente” al teatro. Che lo sguardo à rebours evidenziato da questi due spettacoli possa essere interpretato come un’affermazione fortemente politica in epoca di dominio algoritmico, è molto più che un sospetto.

Calder e Kentridge

Kentridge e il suo music theatre commissionato dal Teatro dell’Opera, divideva la serata con uno dei più grandi scultori del ventesimo secolo, Alexander Calder e il suo storico Work in progress (1968) ricostruito filologicamente (immagini coordinate da Giovanni Carandente
e presentate da Filippo Crivelli su musiche elettroniche di Niccolò Castiglioni, Aldo Clementi, Bruno Maderna).

Untitled 1937 Alexander Calder 1898-1976 Accepted by HM Government in lieu of tax and allocated to Tate 2002 http://www.tate.org.uk/art/work/T07920

Una scena quella di Calder, arricchita dalle sue famose sculture cinetiche, oscillanti e sospese, fatte di fili metallici, e stoffe coloratissime dette mobiles e stabiles (così chiamate rispettivamente da Marcel Duchamp e Jean Arp) che diventano personaggi inanimati ma “mossi” (meccanicamente, o tramite soffi d’aria). Il teatro diventa volutamente un circo (forma di spettacolo popolare da lui ben conosciuta e amata) con gli attori come marionette, a volte ciclisti dentro un moto perpetuo, o ancora, ombre o perfino, all’occorrenza attrezzisti. Nella loro breve apparizione da sogno, forme astratte, sagome di animali ritagliati su carta e giochi di luci cangianti sono i veri protagonisti, rubando la scena letteralmente agli attori-manovratori, attori-oggetto.

Waiting for the Sybil

Nella seconda parte William Kentridge (presente in sala alla prima) firma la regia, la scenografia e l’intero concept di questo capolavoro di teatro musicale che è Waiting for the Sybil. In scena 5 danzatori 4 cantanti e vari coristi su musiche africane (in parte) registrate e composte per l’occasione da Nhalanhla Mahlangu e Kyle Shepherd, tutti di Johannesburg.

Il pubblico romano non è certamente nuovo alla visione delle sue creazioni (al Teatro dell’Opera era andata in scena la Lulu da Berg, il monumentale murale di 550 metri Triumphs and Laments è visibile sui muraglioni del Lungotevere; la mostra Vertical Thinking con l’installazione The Refusal of Time è stata presentata al Maxxi). Waiting for the Sybil è una specie di congiunzione tra quella potente installazione al Museo d’arte contemporanea di Roma in cui Kentridge aveva realizzato un ambiente a mo’ di collage dinamico con una proiezione sincronica a cinque canali, di film animati, ombre, sculture in movimento, e l’allestimento lirico di The nose da Shostakovich. Nel primo caso l’artista aveva usato l’intero armamentario del suo immaginario pre-tecnologico: megafoni di latta, vecchi orologi, macchine da scrivere, nel secondo invece aveva usato prevalentemente collage di carta, usando in particolare le pagine del giornale. Kentridge per Anatomy of a Sybil (35 minuti) ricorda la figura della Sibilla Cumana ritratta anche da Michelangelo nella Cappella Sistina, i cui responsi sul destino degli uomini erano scritti su foglie di quercia che il vento provvedeva a disperdere in modo che nessuno avrebbe trovato quello che lo riguardava.  Così Dante:

Così la neve al sol si disigilla;

così al vento ne le foglie levi

si perdea la sentenza di Sibilla.

(Dante Alighieri, Paradiso XXXIII, 64-66).

La Sibilla interpretata da una cantante africana al centro della scena, funge nello spettacolo da amplificatore dei dubbi, dei disagi dell’uomo: lei ingoia nelle proprie cavità, con una gestualità inequivocabile le domande, le paure che raccontano l’angoscia di esistere; divora tutto ciò che sfugge al controllo umano, i mostri che dominano la vita, il terrore dell’imponderabile. La verità è occultata perché il potere controlla ogni terrore, sottomette ogni mostruosità, delimita i confini dell’agire libero. Noi siamo responsabili della nostra distruzione, non forze sovrannaturali; ci consegniamo spontaneamente alle macchine, agli apparati, ai sistemi politici e burocratici, fino ad arrivare ai media che confondono le parole della Sibilla, le disarticolano e le rendono incomprensibili, vuote, irrisolvibili.  Si leva il disperato grido della Sibilla che è quello latente in tutti noi, ed è un’epifania necessaria: il futuro è già scritto dalle macchine ma solo per chi non ha fede nella propria forza.

https://vimeo.com/337293283

Nello spettacolo i fogli con le risposte che volano via, diventano dischi rotanti proiettati, fogli di giornale con disegni al carboncino animati e scritte che contengono parole che pesano e tra le tante, quella che ci è rimasta impressa è: “Affama l’algoritmo”. In questo senso lo spettacolo è anche una specie di manifesto della sua arte che più che guardare al passato guarda all’uomo. La menzogna, l’errore, sono scanditi proprio dai fogli di giornale che scivolano via, così come le gambe delle sedie che non reggono. In un mondo dove l’uomo non sa stare in piedi perché deve condividere lo spazio con la macchina, rimane solo una difesa, l’urlo. O il silenzio di una macchina interrotta.

In scena il coro e i cantanti indossano vestiti squadrati, geometrici che ricordano Leger, Schlemmer o la Popova e rendono gli interpreti, loro stessi sculture viventi “alla Calder”; ma poiché anche Kentridge ha composto sculture aeree mobili, l’omaggio all’artista degli anni Trenta diventa quasi un modo per citare sé stesso. In un’intervista l’artista sudafricano dice che le opere di Calder gli hanno sempre ricordato “qualcosa che si muove in circolo”, e questo circolo per lui erano le domande senza risposta alla Sibilla. Rimane in scena l’immaginario che arricchisce il repertorio di Kentridge: le ombre animate di figure umane in processione, simboli di riscatto nel Sudafrica post apartheid.

L’ombra del remake: Les sept branches de la riviére Ota di LEPAGE

Robert Lepage ha definitivamente abbandonato la vecchia sede della sua compagnia multidisciplicare Ex machina, la Caserne Dalhousie, a due passi dal fiume San Lorenzo, per trasferirsi in una struttura decisamente più moderna e appena inaugurata: il Teatro Le Diamant nel cuore della vecchia Québec. Per chi ha voglia di sentire la storia del cambiamento nei decenni della struttura che oggi accoglie Le diamant, ecco il racconto che ne fa Lepage con il supporto di immagini

Il primo spettacolo con cui ha aperto le porte al pubblico è una riproposta di un lavoro del 1995, Les sept branches de la riviére Ota, all’epoca commissionato dal governo del Giappone per i 50 anni dalla bomba atomica su Hiroshima.

Le modifiche dalla originaria versione non sono molte e la tecnologia più attuale fa fatica a rallentare il passo per assomigliare a quella video in voga in quegli anni; certamente le immagini digitali sono più pulite e fluide. Vale la pena ricordare che proprio questo fu il primo spettacolo su cui si misurò il talento di Carl Fillion, lo scenografo di Ex machina (oggi passato al Cirque du soleil), anche se nel riallestimento ha fatto solo da supervisore. In gergo tecnico la scena, nella sua assoluta semplicità, è costruita da sette “pannelli a coulisse” (pannelli armati) con movimento orizzontale a scomparsa; i pannelli sono guidati su binari che trascinano una o più porte trasparenti che rappresentano una tipica casa giapponese, permettendo svariati cambi di scena. Proprio questi cambi, effettuati a mano dai personaggi, determinano il lungo viaggio narrativo che va dal 1945 al 1995. La trasparenza della casa, la presenza di specchi permettono moltiplicazioni di figure, proiezioni di ombre, effetti visivi che si uniscono (oggi come ieri), alle videoproiezioni con un gioco di sovrapposizioni molto artigianale e efficace (l’attore incastrato in mezzo ai pannelli che viene colpito dalle luci sul fondale, diventando ombra, e come tale partecipa “qui e ora” all’azione video pre-registrata).

Il pastiche narrativo del “Project Hiroshima” assembla in una logica cinematografica “paratattica” già molto apprezzata all’epoca, l’occupazione americana del Giappone, Georges Feydeau, la danza Butoh, Madame Butterfly, i comici americani degli anni Cinquanta Abbott e Costello e il campo di concentramento di Terezin, raccontando l’unione (nel dolore della distruzione e nella speranza della ricostruzione) dell’Occidente e dell’Oriente ma anche del comico e del tragico. Il fotografo americano Luke O’Connor viene incaricato subito dopo la guerra, di fotografare i danni materiali della bomba atomica su Hiroshima e si innamora di una hibakusha (una “sopravvissuta”): questa semplice trama genera un fiume di storie che si intrecciano inaspettatamente, raccontando ciascuna, come anche dalle peggiori atrocità si possa generare una vita.

Lo spettacolo va oltre il 1995 e arriva, nella nuova versione, sino a noi, con i giovani artisti che si confrontano con la memoria di una storia che non hanno mai conosciuto. La tecnologia semplificata e ridotta a videoproiezioni che si alternano all’azione recitativa, con l’uso tradizionale delle ombre, rimane ancor oggi la cifra stilistica di questo lavoro; la scenografia trattiene i corpi in forma di ombre come davvero accadde nei muri di Hiroshima a causa dell’esplosione, diventando una lastra “fotosensibile” e una scrittura di luce, metafora di un percorso di memoria, di illuminazione e di conoscenza.

Il teatro all’epoca del Lorem Ipsum. Il debutto di Kanata di Robert Lepage/Théâtre du Soleil-Saggio di AMM su ARABESCHI (link alla pagina)
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Sull’ultimo numero di ARABESCHI l’articolo di Anna Monteverdi su KANATA di ROBERT LEPAGE/Theatre du soleil

Lo spettacolo Kanata-Episode 1. La controverse ha debuttatoil 15 dicembre 2018 alla Cartoucherie, sede storica della compagnia del Théâtre du Soleil; in questa occasione, per la prima volta, Ariane Mnouchkine ha rinunciato alla regia per lasciare la guida della sua compagnia al pluripremiato regista franco-canadese Robert Lepage. Con KanataMnouchkine e Lepage intendono mostrare la condizione attuale degli Indiani del Canada: una comunità sterminata in cinquecento anni di storia coloniale, oggi emarginata nelle riserve, costretta a dipendere da sussidi di Stato e da una coercitiva assimilazione nella società canadese. A partire da una ricognizione storica del fenomeno, il saggio affronta la controversiainternazionale sorta attorno alla scelta dei registi di non portare in scena degli indiani autoctoni, affidando invece a degli attori la rappresentazione delle loro vicende. Tale decisione, infatti, è stata vista dalla comunità delle Prime Nazioni come una forma di ‘appropriazione culturale’; concetto che viene esplorato attraverso la ‘crisi della presenza’ trattata da Ernesto de Martino ne Il mondo magico, e la ‘realtà proxy’, la politica del sostituto, smascherata dall’artista giapponese Hito Steyerl.

http://www.arabeschi.it/il-teatro-allepoca-del-lorem-ipsum-debutto-di-kanata-robert-lepagethctre-du-soleil-/

Saggio on line sulla digital scenography del Ring di Lepage
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Segnaliamo l’ottimo approfondimento sul Ring di Lepage e la sua complessa scenografia su

Digital scenography and the mimetic aporia of Richard Wagner’s Ring Cycle

https://www.tandfonline.com/doi/full/10.3402/jac.v7.28238#_i6

Jason R. D’Aoust (2015) Digital scenography and the mimetic aporia of Richard Wagner’s Ring Cycle, Journal of Aesthetics & Culture, 7:1, DOI: 10.3402/jac.v7.28238

 

Memoria Maschera e Macchina nel Teatro di Lepage a Genova-Museo dell’Attore
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A Genova Mercoledì 16 gennaio alle ore 17,30 all’interno del Museo-Biblioteca dell’Attore (via del Seminario 10)Anna Maria Monteverdi presenterà il suo libro Memoria maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage(Meltemi, 2018).

L‘Autrice sarà introdotta dal prof. Eugenio Buonaccorsi.

Il volume è stato presentato al Festival Flipt del Potlach (Fara Sabina), a Inequilibrio (Castiglioncello), al Piccolo Teatro di Milano per Book city, all’Accademia di Belle Arti di Napoli e di Lecce, a Libriamoci (Sp), al Fla (Pescara).

Memoria maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage (Meltemi editore).  di Anna Maria Monteverdi.

Con introduzione di Fernando Mastropasqua.

Memoria, maschera e macchina sono termini interscambiabili nel teatro di Robert Lepage, regista e interprete teatrale franco-canadese considerato tra i più grandi autori della scena contemporanea che usa i nuovi media; se la sua drammaturgia scava l’io del personaggio portando alla luce un vero e proprio arsenale di memorie personali e collettive, la macchina scenica video diventa il doppio del soggetto, specchio della sua interiorità più profonda. La perfetta corrispondenza tra trasformazione interiore del personaggio e trasformazione della scena determinano la caratteristica della macchina teatrale nel suo complesso che raffigura, come maschera, il limite tra visibile e invisibile.

Anna Maria Monteverdi è ricercatore di Storia del Teatro all’Università Statale di Milano e docente aggregato di Storia della Scenografia. Esperta diDigital Performance ha pubblicato: Nuovi media nuovo teatro (FrancoAngeli 2011), Rimediando il teatro con le ombre, le macchine e i new media(Ed.Giacché 2013), Le arti multimediali digitali (Garzanti 2005), Frankenstein del Living Theatre (2005), La maschera volubile (2002). E’ videodocumentatrice teatrale (Nuovo Teatro in Kosovo, La cura del Teatro: Tomi Janezic; La faccia nascosta del teatro: Robert Lepage; Angelica: Andrea Cosentino) ed esperta di digital performance. www.annamonteverdi.it

Eugenio Buonaccorsi è stato professore ordinario di Storia del teatro e dello spettacolo presso l’Università di Genova. Nell’Ateneo ligure ha creato i Corsi di laurea in Dams e in Scienze dello spettacolo, di cui ha assunto la guida come Presidente. È autore di libri, articoli e saggi su vari momenti e figure della storia dello spettacolo, in particolare sul ”Grande Attore” dell’800, la scena futurista, il teatro di Brecht in Italia, Govi e la drammaturgia in Liguria. Ha fondato il Teatro dell’Archivolto, di cui è stato per qualche anno direttore artistico. Per un decennio ha svolto il ruolo di Presidente del Museo-Biblioteca dell’Attore.

SLĀV, une année de bruit et de silence; A Year of Noise and Silence. Un texte de Robert Lepage
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EX MACHINA·VENERDÌ 28 DICEMBRE 2018

Un texte de Robert Lepage

« Peu importe de quel côté on a pu se ranger pendant la controverse entourant le spectacle SLĀV, force est d’admettre qu’elle aura au moins eu pour effet de susciter au Québec une réflexion nécessaire qui s’imposait depuis longtemps. Malheureusement, comme c’est souvent le cas chez nous, les débats sociétaux d’importance ont parfois tendance à se transformer en dialogue de sourds, dans le cadre duquel le discours s’embrouille et ne devient qu’un empilage d’idées et d’opinions où règnent le bruit et la confusion.

Au cours de la dernière année, on m’a souvent reproché de ne pas m’être assez exprimé sur le sujet et, surtout, de ne pas m’être prêté au jeu des médias. Mais il me semblait que pour émettre une opinion, il me fallait être capable de l’articuler. Je dois avouer que même aujourd’hui, bien qu’elle ait évolué, ma position est encore loin d’être claire. C’est pourquoi il m’apparaissait plus sage de garder le silence que d’ajouter ma voix à la cacophonie générale.

J’avais le sentiment que la durée d’une entrevue accordée à un journal télévisé ou dans le cadre d’une tribune radiophonique est toujours insuffisante pour traiter d’une question délicate comme l’appropriation culturelle, à laquelle s’ajoutent, dans le cas de SLĀV, les enjeux non moins complexes de la représentativité sur scène des minorités et de la décolonisation des arts. Mais je savais bien qu’en choisissant de me taire, je prenais le risque que d’autres parlent à ma place et que les arguments de mes défenseurs ne soient pas toujours en phase avec mes opinions.

Ce débat a soulevé en moi beaucoup plus de questions qu’il ne m’a fourni de réponses, et j’aurais bien aimé pouvoir m’adresser à mes détracteurs directement, en dehors de l’espace public, sans avoir à passer par l’habituel arbitrage des médias électroniques et des lignes éditoriales de la presse écrite.

À la fin de l’automne, après plusieurs mois d’hésitation et de scepticisme, j’acceptais l’invitation du groupe « Slāv Résistance » à aller les rencontrer en personne. Prenant mon courage à deux mains, je me rendais dans un lieu déterminé à leur convenance, résolu à me faire embrocher et à rôtir à feu vif. Mais, contrairement aux irascibles militants d’extrême gauche dépeints par certains médias, j’étais accueilli par des gens qui faisaient preuve d’une grande ouverture et qui se sont avérés très sensibles, intelligents, cultivés, articulés et pacifiques. Prévenu à tort par quelques personnes que j’allais probablement avoir affaire à une bande d’« anglos radicalisés de l’Université Concordia », tout mon argumentaire avait été préparé en anglais. Mais quand j’ai compris que la grande majorité d’entre eux étaient francophones et que la discussion allait se dérouler principalement dans la langue de Molière, je dois avouer que je me suis retrouvé démuni et balbutiant.

Étaient présentes une quinzaine de personnes afrodescendantes, dont Lucas Charlie Rose et Ricardo Lamour. Ces personnes étaient pour la plupart des artistes ou actrices de changement dans leurs communautés, et se trouvaient rassemblées autour d’un même engagement social qui, au cours de l’été, semblait les avoir beaucoup éprouvées. Malgré le fait que leur geste de contestation ait eu pour effet de faire retirer notre spectacle de l’affiche du Festival international de Jazz de Montréal, leur attitude était loin d’être triomphante et leur prise de parole leur avait valu d’être démonisées par l’opinion générale. Leurs interventions devant le Théâtre du Nouveau Monde avaient généré un emportement qu’elles n’avaient pas soupçonné. Elles affirmaient être désormais associées à une violence qu’elles n’avaient jamais souhaitée et dont elles n’étaient pas responsables. Certaines d’entre elles avaient même perdu leur emploi, tandis que d’autres avaient vu s’évanouir de précieuses collaborations. Continuellement harcelées et insultées par des groupes d’extrême droite, certaines avaient même été la cible de menaces de mort. Et tout comme moi, toutes ces personnes avaient perdu des amis.

Durant la rencontre, notre premier constat était aussi frappant que désarmant; nous ne ressemblions, ni d’un côté ni de l’autre, aux portraits que l’opinion générale et les médias avaient faits de nous. Malgré nos divergences d’opinions, nous rencontrer plus tôt aurait eu pour effet de mieux nous comprendre, tout en s’évitant bien des égratignures.

Dans ce climat d’ouverture et de transparence, il était plus facile pour moi d’admettre mes maladresses et mes manques de jugement et de tenter d’expliquer le bien-fondé de notre démarche. Il m’était également important d’admettre que la version de SLĀV que nous avions présentée en juin dernier était loin d’être aboutie et que ce n’était peut-être pas par hasard que les problèmes dramaturgiques dont souffrait le spectacle correspondaient exactement aux problèmes éthiques qu’on lui reprochait. Si nous avions pu jouer plus longtemps, nous aurions sûrement pu faire mieux, mais bon… D’ailleurs, j’aimerais mentionner ici que depuis juin dernier, le contenu de SLĀV a été soumis à une réécriture et à une révision complète de son contenu.

Pendant les quatre heures de notre discussion, parsemée de témoignages émouvants et de nombreux éclats de rire, nous nous sommes écoutés attentivement, dans un respect mutuel. Nous en sommes arrivés à la conclusion que, bien que nous n’allions pas résoudre tous les tenants et aboutissants des problèmes liés à la question de l’appropriation culturelle, une ouverture au dialogue venait de s’opérer.

À la fin de la rencontre, il m’est apparu évident que, de tous ceux présents à cette rencontre, j’étais le seul qui ait la visibilité, le pouvoir et les moyens de poser les premiers gestes réparateurs.

J’ai donc senti l’importance de me commettre sur certains engagements afin de continuer à faire évoluer notre réflexion. D’abord, inviter l’un ou l’une d’entre eux à venir assister aux répétitions de SLĀV avant sa reprise en janvier afin de témoigner des nombreux changements apportés au spectacle. De plus, leur offrir une tribune afin d’échanger avec le public et les artistes à la suite de certaines représentations. Enfin, opérer des changements structurants à l’intérieur même de l’organisation Ex Machina et assurer une représentation significative de la communauté afrodescendante de Québec au sein de la programmation du futur Diamant.

En ce début d’année, je me propose d’essayer de faire mieux. Mais il est évident que ces résolutions n’arriveront jamais à satisfaire tout le monde. Elles me semblent tout de même être quelques pas dans la bonne direction afin de signifier qu’à travers tout ce vacarme, il nous est possible de dialoguer calmement.

Robert Lepage Metteur en scène

Foto di Lepage dal sito di Toronto Star

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SLĀV: A Year of Noise and Silence

An essay by Robert Lepage

No matter what side you took in the debate about SLĀV, you have to admit that it at least prompted some long-needed reflection in the province of Quebec. Unfortunately, as it often happens here in Quebec, important social debates sometimes end up leading to a situation where everyone’s talking and nobody’s listening. The discourse gets muddied, becoming just a heap of ideas and opinions overrun by noise and confusion.

Over the last year, people have criticized me often for not having spoken out enough on the subject and especially for not having played the media’s game. But in order to express an opinion, I needed to be able to articulate it. Even now, I have to admit that though my opinion has evolved, my position is far from being clear. That’s why I felt it was wiser to stay quiet instead of adding my voice to the cacophony.

The length of an interview on a television newscast or radio show seemed insufficient to tackle a sensitive subject like cultural appropriation, which, in the case of SLĀV, is tied to equally complicated issues of minority representation onstage and the decolonization of the arts. Yet I knew that by choosing to keep silent, I was taking a risk that others would speak in my place and that my defenders’ arguments wouldn’t necessarily always align with my opinions.

This debate brought up more questions for me than answers, and I would have liked to have been able to address my critics directly, outside the public arena, without having to pass through the usual arbitration of electronic media and the editorial comments of print media.

Toward the end of autumn, after several months of hesitation and skepticism, I accepted the SLĀV Resistance Collective’s invitation to talk with them in person. Mustering my courage, I made my way to the meeting place they had suggested, fully expecting to get raked over the coals. But, unlike the angry far-left extremists depicted in certain media, the people I met with were welcoming, open, perceptive, intelligent, cultivated, articulate and peaceful. Wrongly warned by several people that I’d probably be meeting with a group of “radical anglophones from Concordia University,” I had prepared all my thoughts in English. When I realized that the majority of them were francophone and that the discussion would mostly be in French, I was destabilized and felt as if I were fumbling for words.

There were about 15 people of African descent at the meeting, including Lucas Charlie Rose and Ricardo Lamour. Most of them were artists or community activists who had come together because of their social responsiveness, which had, over the course of the summer, significantly tested them. Even though their protests had led to our show being pulled from the Festival international de Jazz de Montréal’s programme, their attitude was far from triumphant. Their speaking out had resulted in them being demonized by the general public. Their actions in front of the Théâtre du Nouveau Monde had created a reaction that they hadn’t expected. They shared their experiences of being associated since then with violence that they had never wanted and for which they weren’t responsible. Some of them had even lost their jobs, while others had seen precious collaborations crumble. Continually harassed and insulted by far-right groups, several had even received death threats. And, like me, all of them had lost friends.

Our first realization was as shocking as it was disarming: none of us were like the portraits the media had painted of us. Even with our differences of opinion, meeting each other sooner would have helped us better understand each other as well as avoid a whole lot of conflict.

In this environment of openness and transparency, it was easier for me to acknowledge my clumsiness and misjudgements and to try to explain the merits of our process. It was also equally important to admit that the version of SLĀV that we were presenting last June was far from finished and that perhaps it wasn’t by chance that the show’s dramaturgical problems corresponded exactly to the ethical problems the show was criticized for. If the show had run longer, we surely could have done better, but well…. By the way, I’d like to mention that, since last June, the content of SLĀV has been reworked and rewritten.

During our four-hour discussion—sprinkled with moving statements and numerous bursts of laughter—we listened attentively to each other with mutual respect. We came to the conclusion that although we weren’t going to solve everything related to cultural appropriation, we had opened up a dialogue.

At the end of the meeting, I realized that I was the only one present who had the visibility, power and means to take the first action steps to work toward healing.

To continue deepening our reflection, I felt it was important to commit to certain actions. The first step is to invite a member of the group to come to rehearsals of SLĀV to see the numerous changes before the show is remounted in January. The second is to offer the group a time to exchange with the public and artists following certain performances. The next step is to make internal structural changes within the organization of Ex Machina and to ensure a significant representation of people of African descent from Quebec City in the programming of the future Diamant.

As this new year begins, I resolve to do better. Of course, these commitments won’t make everyone happy, but, even so, they seem to be several steps in the right direction of coming together to dialogue calmly across all the noise. ”

Robert Lepage Stage Director

TESTO DI LEPAGE DALLA PAGINA SOCIAL DI EX MACHINA pubblicato il 28 dicembre 2018.

RACCOLTO DA ANNA MONTEVERDI

Kanata – episode I – controversy. Robert Lepage & Theatre du Soleil
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C’est la première fois, en cinquante-quatre ans de son histoire, qu’Arianne Mnouchkine confie la troupe du Théâtre du Soleil – officiel à un metteur en scène invité – le Canadien Robert Lepage. La pièce imaginée par ce dernier assemble les fragments d’une vaste épopée retraçant deux-cents ans d’histoire de son pays — « kanata » est le mot iroquoien, signifant « village », qui a donné son nom au Canada — et scelle la rencontre, par comédiens interposés, entre deux géants de la mise en scène qui sont avant tout deux humanistes, convaincus que l’artiste doit être le témoin de son temps.

The story of an admiration

(from Théâtre du Soleil – officiel)

There was a time when painters, sculptors, writers, theatre leaders spoke, thought and, without necessarily loving each other, understood themselves. They exchanged their doubts and tremors. Their lights too, sometimes. And even, around a glass or several, some pipes and manufacturing secrets. Rivalry did not exclude companionship. Admiration caused a lucid and stimulating jealousy.
Kanata – episode I – controversy comes from such admiration. Of this long-standing kinship, and now chosen, between Robert Lepage and I, Ariane.
It was simple at first. In 2014, an enthusiastic invitation to work with the actors and technicians of the sun was accepted with all the enthusiasm and, for the first time in the history of the theatre of the sun, the main show, the “Admiral ship” Was going to be led by another director who, since his foundation, had had the honour, the fever and the joy of directing the thirty shows of our troupe (and who, since I am asked, and if the Gods of the theatre give me the strength, intend to continue to do it a few short years again).

Kanata, so, the show, not the controversy. Controversy, some of you may have heard, which has since been confused and which we will certainly be debating, but which is not the point of this message. This message, even if it is a different tone, is, like all previous letters to our audience, perhaps even more than our previous letters, a call to act quickly.
Indeed, you have always been our heralds. No Poster, no expensive advertising, no journalistic criticism has the same legitimacy or effectiveness as what is called mouth-to-ear. That’s you.

Yes, it is thanks to those of you who come in scouts from the first month, from the first week of representations and who, so far, love our shows and do it immediately and powerfully know that the sun succeeds in doing this Which is for him absolutely vital: to play from the first day in front of a full room.
More than ever, this time we need our heralds. Indeed, the conditions in which the sun is brought to produce kanata are the least that can be said, risky, not to say dangerous. As always, we will say. Yes, as always, but… much more. We will also need sou… No, no support, but witnesses. Witnesses in good faith, honest and sincere, who can say whether or not the show is too. If, yes or no, he respects the essential, written or unwritten laws of the love of all humanity. If, yes or no, he is the lawyer of reconciliation or if, in this chaotic and grinning world that, gradually, desperate people blindly entrust the worst demagogues, he adds division to division, hatred To hate, lie to lie.
I read my message and find him a tone of tocsin that might seem exaggerated to some.
How can we end on a brighter and more faithful note to our deepest feeling, that is, an unshakeable trust in human beings and an unquenchable love for our art, theatre?
Well, once we have reported the loyal and steadfast support of the Autumn Festival in Paris, I think I will leave the word to our “companion” Forever:

” there is a human transespèce, or rather humanimale, a population composed of beings who are of a hospitable nature, the living of a cloth that I find wonderful, still in weaving and mixing. Their nature escapes territorial, National and identity definitions. If they have taken their source in different fences, geopolitics, if they are “born” Afghan, Chinese, miq maq, French, togolese, Norwegian, mapuche, faroese, Khmer, Uruguayan, Ethiopian (to follow…) they have by The suite transported their course across countries and continents. By meeting many others and rubbing their brains to your brains, always exposing themselves, happily, to many others, open to the risk of surprise, they are open, wide, and always in metamorphosis, passing from age to age Sex,-Year-old octogenarians, curious geniuses, time adventurers, resistant in practice to lazy temptations of belonging and own.
They’re not ghosts or people of dreams. They have papers. They get visas. But naturally, they don’t take their papers. More like poems, and still in translation. They listen, they have the greedy ear and the enchanted language. These friends of love rather than hate, you’ll have recognized them, won’t you?
They’re the actors.”

So, once you read this text by hélène cixous, if you care about us, as we care about you, you will find all the information you need.

Ariane Mnouchkine

Presentazione del volume Memoria Maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage al Piccolo Teatro di Milano per Book City
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Il libro di Anna Monteverdi sul teatro di Robert Lepage da Libriamoci a Book city, Milano
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Sbarca a MIlano il 16 novembre all’interno dell’affolata kermesse editoriale BOOK CITY il libro di Anna Maria Monteverdi  Memoria maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage (Meltemi editore).  presentato la scorsa settimana alla Spezia, rassegna LIBRIAMOCI.

Parlando di teatro non poteva che essere scelto il luogo teatrale per eccellenza a Milano, il Piccolo Teatro Strehler e l’autrice sarà introdotta dal direttore del Dipartimento di Beni culturali della Statale di Milano nonché ordinario di Storia del Teatro prof. Alberto Bentoglio e dal critico letterario, teatrale e cinematografico Fabio Francione. L’incontro si intitola Un’irrequieta ricerca. Il Teatro di Robert Lepage.

L’appuntamento è per il 16 novembre alle ore 17 Piccolo Teatro Strehler 

Memoria, maschera e macchina sono termini interscambiabili nel teatro di Robert Lepage, regista e interprete teatrale franco-canadese considerato tra i più grandi autori della scena contemporanea che usa i nuovi media; se la sua drammaturgia scava l’io del personaggio portando alla luce un vero e proprio arsenale di memorie personali e collettive, la macchina scenica video diventa il doppio del soggetto, specchio della sua interiorità più profonda. La perfetta corrispondenza tra trasformazione interiore del personaggio e trasformazione della scena determinano la caratteristica della macchina teatrale nel suo complesso che raffigura, come maschera, il limite tra visibile e invisibile.

Il volume contiene interviste a Robert Lepage e allo scenografo Carl Fillion, e un’antologia critica con saggi di Massimo Bergamasco, Vincenzo Sansone, Erica Magris, Giancarla Carboni, Francesca Pasquinucci, Andrea Lanini, Ilaria Bellini, Sara Russo, Elisa Lombardi, Claudio Longhi.

Qua il book trailer a firma di Alessandro Bronzini.

Anna Maria Monteverdi è ricercatore di Storia del Teatro all’Università Statale di Milano e docente aggregato di Storia della Scenografia. Insegna Cultura digitale alla Alma Artis Academy di Pisa ed è coordinatrice della Scuola di Arti e Nuove tecnologie dell’Accademia. Esperta di Digital Performance ha pubblicato: Nuovi media nuovo teatro (FrancoAngeli 2011), Rimediando il teatro con le ombre, le macchine e i new media (Ed.Giacché 2013), Le arti multimediali digitali (Garzanti 2005). www.annamonteverdi.it

 

Fernando Mastropasqua parla di Robert Lepage
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Fernando Mastropasqua ha scritto l’introduzione al libro di ANNA MONTEVERDI MEMORIA MASCHERA E MACCHINA NEL TEATRO DI ROBERT LEPAGE

Fernando Mastropasqua è nato nel 1941 a Chiusi in provincia di Siena. Ha insegnato Storia del teatro e dello spettacolo nelle Università di Pisa, Trento e Torino. Tra le sue pubblicazioni: Le feste della rivoluzione francese, Milano, Mursia, 1976; Metamorfosi del teatro, Napoli, ESI, 1998; In cammino verso Amleto (Craig e Shakespeare), Pisa, BFS, 2000; Teatro provincia dell’uomo, Livorno, Frediani, 2004; La scena rituale, Roma, Carocci, 2007. In collaborazione con Ferdinando Falossi ha pubblicato L’incanto della maschera e La poesia della maschera, Torino, Prinp, 2014 e 2015. Collabora alla rivista “Critica d’Arte”.

 

Sulla rivista interuniversitaria ARABESCHI l’articolo su 887 di LEPAGE di Anna Monteverdi
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Il saggio di Anna Monteverdi sullo spettacolo di LEPAGE  887 nella sua veste di “racconto autofinzionale” è stato pubblicato nella rivista interuniversitaria di Catania ARABESCHI  n.11

Lo spettacolo 887 dell’eclettico artista teatrale canadese Robert Lepage è un’incursione nel mondo della memoria, una storia che inizia nei suoi ricordi di infanzia. Attraverso la costurzione di un allestimento scenografico ʻtrasformistaʼ, l’autore si immerge nel cuore della propria memoria, interrogandosi sui suoi meccanismi (Perché ricordiamo il numero di telefono della nostra gioventù, quando dimentichiamo il presente? Perché le informazioni inutili persistono, mentre altre, più utili, evadono?). Il saggio prende in esame il processo creativo dello spettacolo di Lepage alla luce della tecnica dell’ʻautofinzioneʼ, che permette all’artista di alimentare la realtà autobiografica con elementi a metà tra verità e fantasia.

The show 887 directed by the eclectic theatrical Canadian artist Robert Lepage is a foray into the world of memory, a story that begins in his childhood memories. Through the set-up of a scenographic setting ʻtransformativeʼ, the author immerses himself in the heart of his memory, questioning about his mechanisms (Why do we remember the phone number of our youth, while we forget the current one? Why does useless information persist, while others, more useful, escape?). The essay examines the creative process of the Lepage’s show in light of the ‘autofiction’ technique, which allows the artist to feed the autobiographical reality with elements halfway between truth and fantasy.

http://www.arabeschi.it/authors/anna-maria-monteverdi/

 

 

Presentazione del libro “Memoria Maschera e Macchina nel teatro di Robert Lepage” al Festival Inequilibrio di Castiglioncello il 20 giugno. Presenta l’Ing. Massimo Bergamasco del Sant’Anna
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Memoria maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage (Meltemi editore).  di Anna Maria Monteverdi

Il volume appena edito da Meltemi con introduzione di Fernando Mastropasqua, sarà presentato per la prima volta a Castiglioncello il 20 giugno alle ore 16 nell’ambito del  Festival di Teatro “Inequilibrio” diretto da Fabio Masi e Angela Fumarola.

L’incontro vede la partecipazione insieme all’autrice, dell’assessore alle Politiche giovanili del Comune di Rosignano Veronica Moretti  e di Massimo Bergamasco, docente di Ingegneria Meccanica alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

L’ incontro è legato al Contest Giovani Innovatori 2018 promosso dal Comune di Rosignano Marittimo.

Memoria, maschera e macchina sono termini interscambiabili nel teatro di Robert Lepage, regista e interprete teatrale franco-canadese considerato tra i più grandi autori della scena contemporanea che usa i nuovi media; se la sua drammaturgia scava l’io del personaggio portando alla luce un vero e proprio arsenale di memorie personali e collettive, la macchina scenica video diventa il doppio del soggetto, specchio della sua interiorità più profonda. La perfetta corrispondenza tra trasformazione interiore del personaggio e trasformazione della scena determinano la caratteristica della macchina teatrale nel suo complesso che raffigura, come maschera, il limite tra visibile e invisibile. Il volume contiene interviste a Robert Lepage e allo scenografo Carl Fillion e un’antologia critica con saggi di Massimo Bergamasco, Vincenzo Sansone, Erica Magris, Giancarla Carboni, Francesca Pasquinucci, Andrea Lanini, Ilaria Bellini, Sara Russo, Elisa Lombardi, Claudio Longhi.

Anna Maria Monteverdi è ricercatore di Storia del Teatro all’Università Statale di Milano e docente aggregato di Storia della Scenografia. Insegna Cultura digitale alla Alma Artis Academy di Pisa ed è coordinatrice della Scuola di Arti e Nuove tecnologie dell’Accademia. Esperta di Digital Performance ha pubblicato: Nuovi media nuovo teatro (FrancoAngeli 2011), Rimediando il teatro con le ombre, le macchine e i new media (Ed.Giacché 2013), Le arti multimediali digitali (Garzanti 2005 ). Ha realizzato documentari teatrali per Rai5.

Massimo Bergamasco: Ordinario di Meccanica Applicata presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, è Direttore dell’Istituto di Tecnologie per la Comunicazione, Informazione e Percezione della Scuola. Ha fondato nel 1991 il Laboratorio di Robotica Percettiva, dove svolge attività di ricerca su temi di Robotica Indossabile, Interfacce Aptiche e Ambienti Virtuali.

 

Uscita per la Meltemi la monografia su Robert Lepage di Anna Maria Monteverdi. Con antologia critica e interviste a Lepage e Carl Fillion
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A marzo 2018 è uscito per la collana LINEE di Meltemi il volume monografico Memoria Maschera e macchina nel teatro di Lepage di Anna Maria Monteverdi.

La teatrografia di uno dei più importanti registi e interpreti contemporanei è raccolta in un libro di 420 pagine che sottolinea alcuni aspetti determinanti del lavoro scenografico, drammaturgico e interpretativo di Lepage in collaborazione con la sua compagnia Ex Machina e con lo scenografo Carl Fillion.

Qua l’introduzione di Fernando Mastropasqua:

Era il 2005 quando uscì in Italia, scritta da Anna Monteverdi, la prima monografia su Robert Lepage, uno dei maestri della regia contemporanea.

Canadese (Québec City, 1957), formatosi alla scuola di Lecoq, si è fatto conoscere in Europa con spettacoli di alto rigore stilistico e di innovativa ricerca tecnologica, come La trilogie des dragonsPolygrapheLes aiguilles et l’opiumLa face cachée de la lune. Anna Maria Monteverdi, che ha potuto accedere ai materiali d’archivio conservati a Québec nella sede della sua struttura teatrale e multimediale Ex Machina e seguire la produzione di spettacoli a Montréal, gli dedica questo secondo volume che ne tratteggia la complessa personalità e ricostruisce il multiforme itinerario della sua ricerca visiva, mettendone in rilievo sensi ed esiti.

In tale ritratto puntuale della sua attività, nel quale l’autrice non trascura il milieu del teatro contemporaneo del Québec né l’ispirazione sostenuta dalla conoscenza delle tradizioni sceniche europee (mimica, scenotecnica, improvvisazione, ecc.), emerge il ruolo fondamentale che Lepage riveste nella ricerca teatrale dopo la seconda avanguardia novecentesca, che ha avuto per protagonisti il Living Theatre, Grotowski, Brook, Wilson.

Il teatro di Lepage viene così, a buon diritto, inserito nella feconda dialettica del nuovo teatro, per le soluzioni originali e ancor più per le prospettive che inaugura riguardo i molteplici piani della invenzione, dalla scrittura scenica alla recitazione, dalla illuminotecnica alla tecnologia di scena. Particolare attenzione dedica, lo studio, alla macchina scenica per La face cachée de la Lune e alle metamorfosi della scena per Elseneur. Ne risulta indubbiamente un saggio storico sul nostro più recente teatro ma anche una discussione critica riguardo i più incalzanti problemi tecnico-formali della nuova scena.

A ragione rilevava Oliviero Ponte di Pino, nella Prefazione al primo volume di Anna Monteverdi su Robert Lepage (per BFS editore), che “l’argomentazione della Monteverdi fa piazza pulita di alcuni fuorvianti luoghi comuni, riconducendo l’uso della tecnologia alle origini del teatro, alla maschera, e dunque all’essenza profonda del fatto teatrale, alla sua dimensione rituale”. Si leggano i capitoli dedicati all’attore-specchio-macchina, all’arte come veicolo, al teatro-immagine, ai legami con il cinema, alla creazione infinita:

La realizzazione è dunque, sempre provvisoria per definizione. L’opera è sempre un non finito, lo spettacolo è sempre una questione di spazio e di tempo: quando è stata fatta e dove è stata fatta. Questo significa che anche dopo la prima presentazione pubblica la forma dello spettacolo continua a modificarsi, si evolve con le nuove idee, con motivi e con tematiche con cui l’autore viene in contatto. La forma, come affermava Carlo Ludovico Ragghianti in riferimento a ogni manifestazione del linguaggio visivo, si identifica col suo processo costruttivo.

Riguardo l’acceso dibattito intorno alla tecnologia a teatro, di particolare interesse il capitolo: “La tecnologia è la reinvenzione del fuoco”, nel quale, facendo propria una immagine dello stesso Lepage, l’autrice affronta il problema dell’uso delle macchine a teatro secondo una originale prospettiva che ampia l’orizzonte della discussione, il più delle volte confinato nella esaltazione o denigrazione delle attuali sperimentazioni. Lo sguardo si rivolge indietro, alle origini del teatro e invita a riflettere sulle contaminazioni che la poetica della macchina scenica produsse nel Novecento. E, ricordando in particolare Edward Gordon Craig, richiama la funzione che la luce da sempre ha avuto nella storia del teatro, dalla pietra ad arte levigata che proiettava ombre narranti se sapientemente illuminata dal fuoco, agli accecanti bagliori dei moderni generatori. Lepage pone la tecnologia in stretta relazione con una comunità di uomini che si ritrova a teatro: “All’inizio del teatro molti secoli fa, l’attore parlava, davanti a lui c’era il fuoco e dietro l’ombra […]. Il fuoco è stato rimpiazzato dalla tecnologia, ma la gente viene ancora a teatro per sedersi intorno al fuoco […]. Io devo reinventare l’utilizzo del fuoco ogni volta”.

La macchina, a teatro, invece di togliere umanità all’uomo è ciò che gli permette di riconquistare la dimensione perduta, nell’uso inconsulto e maniacale delle macchine del vivere quotidiano, che isolano ma non radunano, che distruggono memoria e narcotizzano.

Di nuovo, come per Antonin Artaud, per Julian Beck, per Gordon Craig, il teatro, anche per mezzo della sua tecnologia, si pone come la casa dell’uomo” dalla quale è stato allontanato e alla quale inevitabilmente, sente di dover tornare.

 

Robert Lepage, Ex Machina et Betty Bonifassi présentent SLĀV
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En grande primeur mondiale dans le cadre de sa 39e édition, présentée par Groupe Banque TD en collaboration avec Rio Tinto, le Festival International de Jazz de Montréal est ravi de recevoir SLĀV, signé Robert Lepage, produit par Ex Machina et mettant en vedette Betty Bonifassi. Les billets pour ce spectacle, qui sera présenté au Théâtre du Nouveau Monde du 26 au 30 juin 2018 à 20 h, seront mis en vente le vendredi 24 novembre à midi. Prévente exclusive pour les abonnés de l’Infolettre Spectra (infolettrespectra.ca) : le jeudi 23 novembre, de 10 h à 22 h.

Incubateur d’un théâtre nouveau duquel surgit nouvelles formes artistiques et croisements de genres, la compagnie Ex Machina, connue pour déployer des univers visuels inventifs et surprenants, réservera au Festival International de Jazz de Montréal la primeur de son nouveau spectacle : SLĀV. Présenté quelques soirs seulement au Théâtre du Nouveau Monde, le spectacle offrira une odyssée théâtrale à travers les chants d’esclaves afro-américains, immortalisés dans les années 30 par l’ethnomusicologue Alan Lomax.

À la mise en scène, l’artiste multidisciplinaire Robert Lepage est réputé à l’échelle internationale pour l’originalité de sa démarche, bouleversant les standards en matière d’écriture scénique, notamment par l’utilisation de nouvelles technologies.

Parmi les interprètes figurent six choristes, ainsi que la chanteuse à la voix incomparable Betty Bonifassi, dont les albums Chants d’esclaves, chants d’espoir et Lomax, vibrants hommages à la force de résilience, à la dignité et à la beauté des esclaves africains déportés en Amérique, sont au cœur des influences du projet.

SLĀV s’attarde à quelques familles de chants : les call songs qui accompagnaient l’éveil des esclaves, les work songs qui rythmaient les gestes mille fois répétés sur des chantiers de chemins de fer, les gandy dancers’ railroad songs, qui ponctuaient justement les efforts physiques collectifs requis pour mettre en place des voies ferrées, les field songs moins cadencées qui atténuaient la routine de la cueillette du tabac et du coton, les prisoners’ songs, qui parlaient de liberté perdue, et les complaintes et berceuses qui marquaient la fin d’un autre jour de labeur, ou exprimaient l’espoir d’être un jour libéré.

SLĀV est une odyssée du Sud au Nord, qui va de l’esclavage à la ségrégation, puis à l’incarcération massive qui trouve encore des exemples aujourd’hui, et en arrive enfin au mouvement d’affirmation amorcé dans les années 50. Et comme il s’agit d’une mise en scène de Robert Lepage, le propos est abondamment illustré : projections de films d’archives, scénographie composée de rails qui se déploient au sol comme dans les airs, rappels des codes brodés sur des courtepointes qui guidaient les esclaves fuyant vers la liberté par le chemin secret de l’underground railroad… En somme, une proposition hautement visuelle et théâtrale.

Chose certaine, cette collaboration laisse présager des propositions scéniques remarquables au cœur d’une grandiose célébration musicothéâtrale de la liberté de l’humanité. Un projet d’envergure qui donne déjà des frissons d’exaltation !

Conception et interprétation : Betty Bonifassi et six choristes
Conception et mise en scène : Robert Lepage
Conception et direction de création : Steve Blanchet
Production : Ex Machina
Durée : 100 minutes, approximativement

Billets en vente dès vendredi Prévente exclusive aux abonnés de l’Infolettre Spectra : demain de 10 h à 22 h
Théâtre du Nouveau Monde : 84, rue Sainte-Catherine Ouest ; 514 866-8668 — tnm.qc.ca

La 39e édition du Festival International de Jazz de Montréal se déroulera du 28 juin au 7 juillet 2018.

intervista a Robert Lepage di Anna Monteverdi-Anteprima del volume Memoria maschera e macchina nel teatro di Lepage, Meltemi editore,
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In anteprima la mia intervista inedita a Robert Lepage realizzata a Lione che verrà inserita nel volume MEMORIA MASCHERA E MACCHINA NEL TEATRO DI ROBERT LEPAGE per Meltemi editore (pubblicazione prevista per aprile 2018). Si parla di 887, delle scenorafie per il Ring al Metropolitan, dell’importanza della memoria nel teatro, della creazione collettiva, della sua formazione artistica tra Pina Bausch e Peter Gabriel…Buona lettura (e per ogni feedback anna.monteverdi@unimi.it)

Anna Monteverdi: Il 13 novembre 2015 sei andato in scena qua a Lione con 887 ed era il giorno terribile dei fatti di sangue di Parigi. Il tuo spettacolo parla tra le altre cose, del Québec negli anni degli attentati terroristici legati al separatismo. Oltre a una tua considerazione sui fatti come uomo e come artista, volevo chiederti: credi che il teatro debba trovare dopo questi avvenimenti una maggior urgenza, una rinnovata necessità?

Robert Lepage: Prima di tutto ci si pone la domanda se si debba andare in scena oppure no. E io sono dell’idea che si debba recitare, perché in circostanze quali quelle dei fatti di Parigi, recitare diventa un atto di resistenza. E’ come dire: “Non distruggerete mai del tutto la creatività, non distruggere mai del tutto la gioia di vivere, non distruggerete mai del tutto la poesia”. Diventa pertanto, un atto di resistenza accettare di recitare e accettare di assistere allo spettacolo. E penso che proprio oggi più che mai, la gente abbia bisogno di riunirsi, di radunarsi. E il teatro è un luogo d’incontro per eccellenza, più che il cinema o qualsiasi altro spazio di ritrovo, perché è un luogo d’incontro vero dove le persone non comunicano tra di loro ma condividono delle cose. C’è una comunione. E la comunione è molto diversa dalla comunicazione. E questo è molto importante soprattutto in un momento di crisi: le persone hanno bisogno di riunirsi, hanno bisogno di proiettare la situazione o la crisi che stanno attraversando su una storia o su dei personaggi e se è possibile, su qualcuno che sia capace di ricevere tutto questo e che sia in grado di trasformarlo.

Anna Monteverdi: Parliamo di 887. Intanto dopo due spettacoli con molti attori in scena e una scrittura drammaturgica collettiva come Jeux de cartes, cosa ti ha spinto a tornare a recitare per un solo show ?

Robert Lepage:  Mi mancava molto recitare sulla scena. E purtroppo sono unicamente dei progetti di “solo show” quelli che mi danno l’occasione di recitare. Nelle creazioni collettive a cui do’ vita, un tempo potevo anche recitare, ma ora sono talmente impegnato in così tanti progetti che non posso andare in tournée con lo spettacolo; penalizzerei la creazione, e proprio per non penalizzare le creazioni collettive mi sono tirato indietro e non ho partecipato come attore in queste produzioni collettive (Jeux dex cartes, ndr). Era già da un bel po’ di tempo che non recitavo, ma il caso ha fatto sì che quest’anno sia in scena a lungo, non solo con 887, ma anche con un altro spettacolo che si chiama The Quills dove interpreto il Marchese De Sade. Dunque è un anno in cui faccio ritorno a un luogo che trovo confortevole e che amo molto che è la creazione nel cuore stesso della scena. Trovo difficile fare come un pittore che sta all’esterno e che si limita a guardare, preferisco stare al centro. E questo mi mancava molto: non solo di recitare ma di stare al centro del processo creativo

Anna Monteverdi: Lo spettacolo è impostato sulla memoria, la tua memoria autobiografica e quella della comunità a cui appartieni. Tu hai detto a Remi Charest a proposito della memoria e della pratica del ricordare “La nostra società ha perso la sua memoria orale. Noi ci affidiamo sempre di più a documenti scritti per archiviare le cose che ricordiamo, la nostra storia; e come risultato, la nostra memoria non distorce più i fatti filtrandoli”. In questo spettacolo la costruzione “creativa” della memoria quale funzione ha?

Robert Lepage: La forma dello spettacolo o lo stile dello spettacolo è quello che viene definito un’ “auto-finzione”. La parola “auto-finzione” è un po’ ambigua perché vuol dire che raccontiamo la verità, dunque è la vera memoria. Ma poiché nello stesso tempo è anche una finzione, è la memoria trasformata. É la memoria più o meno giusta, è una memoria poetica. Dunque c’è molta libertà nell’auto–finzione, questo mi permette di essere autentico e vero, di essere sincero ma al tempo stesso mi permette anche di conservare un certo pudore, di non dire proprio tutto ma di dire le cose in modo da toccare le persone, da risvegliare la loro intelligenza e la loro sensibilità. Bisogna che ci sia della verità ma come dire, un po’ “aggiustata”, un po’ “modificata”.

Per questo non è necessario che tutto sia vero, ma che tutto si basi su qualcosa di vero. Cito sempre Picasso che diceva ”L’arte è una menzogna per esprimere meglio la verità”. E credo che questa frase sia appropriata per lo spettacolo, perché spesso ho “smussato gli angoli”, ma proprio per questo motivo lo spettacolo è ancora più vero.

https://www.youtube.com/watch?v=QPOpakbsERE

 

Anna Monteverdi: Perno della storia è il poema Speak white che al suo interno contiene le rivendicazioni di una generazione, del Québec e la memoria del clima degli anni Settanta, quindi anche una memoria politica…

Robert Lepage: Non mi sarei mai permesso di raccontare queste cose se le avessi vissute in età matura o adulta; se tutto fosse accaduto quando ero in età per votare non avrei mai raccontato nulla. Mi permetto di raccontare queste storie perché all’epoca ero un adolescente, avevo un’età in cui la politica mi interessava ma non avevo ancora un punto di vista critico, avevo un punto di vista sensibile, impressionista, poetico. Dunque tutte le immagini, gli estratti di giornali, i documentari, tutto ciò prende un’altra sfumatura nello spettacolo, proprio perché viste attraverso la memoria di un bambino, non attraverso la memoria precisa di un giornalista. Una memoria poetica, e dunque mi permetto di farlo.

Anna Monteverdi: Consideri il tuo lavoro come una forma di teatro politico?

Robert Lepage: Mi interessa molto la politica, ma non voglio essere una persona che parla della sua storia in maniera politica. Ho l’impressione che la politica, soprattutto nell’arte, si manifesti attraverso elementi poetici, emozionali; non penso che potrei andare lontano a usare un  approccio alla politica come faceva Brecht, per esempio, un’autore che si interessava veramente alla dialettica e che sentiva il dovere di mettere la poesia teatrale al servizio della politica. Io lascio che la politica emani del mio lavoro, lascio che trovi il suo spazio ma non lo impongo. Mai.

Anna Monteverdi: La funzione del prologo in 887: perché questa esigenza di parlare con lo spettatore, di appellarsi direttamente.

Robert Lepage: Il prologo di 887 è, in effetti, un po’ particolare; ho notato che lo spettatore in generale ha paura del teatro, trova il teatro difficile. È strano andare al teatro… si entra una sala, ci sono persone truccate, con i costumi, che sanno che cosa sta succedendo. Io trovo che lo spettatore è sempre un po’ indisposto verso il teatro e che gli ci vuole molto tempo per entrare nelle convenzioni del teatro. Quindi si perde del tempo prezioso… E allora voglio che il mio contatto col pubblico sia rassicurante: “Non sarà teatro, parleremo…non ci sarà artificio”. Ma c’è anche l’idea che lo spettatore, quando arriva il teatro, è ancora immerso nelle sue cose, è ancora al lavoro; mentre noi al teatro stiamo già parlando di cose molto complesse, ho l’impressione che lui nella sua testa, nei primi 20 minuti, stia ancora pensando a dove ha parcheggiato la macchina, alla prenotazione del ristorante, se la baby-sitter sa che mio figlio allergico a quel prodotto… È ancora nei suoi pensieri ed io cerco di tenere conto di questo fatto. Mi dico che bisogna invitare lo spettatore a sedersi e lasciare la sua vita civilizzata dietro di sé, ma è uno sforzo enorme! Se invece ci prendiamo il tempo di metterci in connessione con lui, di parlare con lui, di dire ad esempio: “Le toilette sono laggiù”.

È un esperimento che sto facendo con questo prologo, non so fino a che punto funziona e se questo approccio ha dei limiti… C’è anche un altro elemento che è il tono da conferenza del prologo: le persone hanno meno paura di una conferenza che del teatro. Questa è una cosa di cui sono sicuro. Anche questo permette delle libertà: “Non ci sarà teatro, sarà una conferenza; non ci saranno personaggi… scenografie… faremo come in una conferenza con PowerPoint, con cifre e magari anche delle immagini”.

E poi lentamente tu vai verso il teatro. Il teatro arriva molto tardi nello spettacolo. Quello che noi chiamiamo drammaturgia, la recitazione, la mise en abîme, arriveranno più tardi ma il pubblico sarà pronto grazie al fatto che abbiamo introdotto tutto come in una conferenza.

Anna Monteverdi: La tecnologia e la memoria, perché hai voluto precisare questa relazione?

Robert Lepage: In 887 lo spettacolo non usa solamente la tecnologia ma la mette in discussione, dice: “La memoria ora è qui. La tecnologia nell’idea della memoria è un tema; il pubblico riconosce la propria tecnologia, perché nello spettacolo usiamo il telefono cellulare, la telecamera… la tecnologia non è unicamente il modo di espressione di 887, è anche uno dei temi importanti, perché si parla di affidare la nostra memoria alla tecnologia.

Anna Monteverdi: Nello spettacolo citi direttamente l’antico sistema mnemotecnico del palazzo della memoria e sembri anche riferirti al famoso teatro della memoria di Furio Camillo e ai sistemi mnemotecnica del 500. Avete fatto uno studio su questo?

Robert Lepage: Ho fatto molte ricerche e avevo delle persone intorno a me che, facendo un lavoro drammaturgico, mi fornivano elementi di ricerca. Non abbiamo studiato approfonditamente questa idea di teatro della memoria, soprattutto l’esempio che tu mi dici di questa esperienza italiana, ma ero al corrente di questi studi e di queste esperienze. Una cosa che mi tocca molto (e che si è manifestata nel XVI secolo in Italia), è la Torre di babele cioè la volontà di mettere tutte le conoscenze umane in uno stesso luogo. E io penso, da vecchio geografo -perché io mi sono sempre interessato alla geografia- che la memoria è intimamente legata ai luoghi.

Affinché io mi possa ricordare di qualcosa, la memoria deve essere associata a un luogo o è necessario che sia messa in uno spazio, come una carta geografica della memoria. Esattamente come per i palazzi della memoria, che erano un sistema di mnemotecnica risalente ai Greci, tutti i tentativi di affinare queste tecniche, usano sempre la collocazione nello spazio, come se associassimo un ricordo, una memoria a una carta geografica. E io in scena pensavo che non sarei stato capace di fare un esercizio sulla memoria se non avessi creato quel palazzo con piccoli appartamenti, esattamente quello di via Murray 887. Avevo bisogno che fosse là, che esistesse davvero. E visto che era incarnato nello spazio, mi permetteva di parlare della memoria; se non lo avessi avuto, sarebbero state tutte delle evocazioni fittizie.

Il fatto di localizzare la memoria è molto importante, nello sforzo talvolta vano, di provare a riunire tutte le conoscenze nello stesso luogo.

Anna Monteverdi: L’utilizzo di stili diversi in 887: la rima poetica, la conferenza, la finzione teatrale. E’funzionale alla drammaturgia o anche questo un sistema mnemotecnica?

Robert Lepage: Un po’ tutte due le cose. Sicuramente il fatto di lavorare con delle parti del testo in rima, mi permetteva di portare una certa forma di teatralità in uno spettacolo dove c’erano due cose che non stavano bene insieme: lo stile da conferenza e il teatro.

Non riuscivo a creare un legame tra le due parti, era troppo scioccante passare dallo stile di conferenza a quello teatrale! Tra i due ci voleva una forma di narrazione che stava in mezzo, tra il racconto e il teatro.

L’idea di usare le rime alessandrine, come passaggio da uno all’altro, mi sembrava buona. Gli spettatori accettavano che la narrazione diventasse all’improvviso in rima, prendendo una forma poetica, ma anche una forma teatrale, visto che erano degli alessandrini. Questo permetteva di scivolare pian piano verso il teatro. Questo è il primo motivo per cui ho scelto di fare così, poi mi sono reso conto anche che era più facile memorizzare un testo che era difficile da imparare, visto che il mio teatro è improvvisato e poi a partire da un certo momento le improvvisazioni vengono cristallizzate e diventano testo. In questo caso bisognava che io calcolassì gli alessandrini, in dodecasillabi, la rima A B A B… molto complesso… ma è stato un esercizio interessante perché mi ha permesso di condensare pagine e pagine di scrittura in poche strofa. Questo è stato molto interessante.

La cosa importante è per me era che il tema della memoria fosse all’interno della forma teatrale, perché il teatro la memoria sono intimamente legati. Spesso dico che il teatro è grande sport della memoria: il primo atto che facciamo è apprendere, memorizzare. Il primo complimento che si fa un attore di solito è “Che memoria che hai!”. Quindi vuol dire che il teatro è necessariamente associato alla memoria. È un atto di memoria. C’è una cosa che mi ha motivato e che non si ritrova nello spettacolo: un giorno sono stato avvicinato dal direttore artistico del teatro di Catalogna che mi ha offerto di fare la regia di un King Lear o una Tempesta. E mi ha detto: “Sai, ora in Catalogna abbiamo degli attori abbastanza vecchi per recitare King Lear o Prospero”;  io gli chiesi perché soltanto ora avevano attori così vecchi, e lui mi spiegò che durante la guerra civile Franco fece uccidere tutti gli attori che recitavano in catalano. E fece anche bruciare tutti i testi di teatro catalano. Vietarono agli attori di recitare in catalano, volevano eliminare il catalano. Gli attori erano gli unici che sapevano a memoria i testi, quindi venivano assassinati: così non si ammazzava soltanto un attore, ma si ammazzava tutto il teatro catalano, questa era la loro idea. Un attore porta in sé la memoria di una cultura. Se su tutta la terra venissero bruciati i libri, i dvd, gli hard disk, le pellicole, la memoria degli attori sarebbe l’unica cosa che resterebbe per ricordarsi dei testi.

Penso che quello che c’è di triste e drammatico nel mestiere del teatro, sia il fatto che bisogna accettare l’idea che quello che facciamo è effimero, che il teatro è l’arte dell’effimero. Pochi si ricorderanno di quello che abbiamo fatto: non è un’arte che va in televisione e non è cinema. Il teatro in quanto tale, è una cosa effimera, è come la memoria. Ci viene ricordato come recitava bene Sarah Bernhardt o Edmund Kean, il grande attore shakespeariano del XIXº secolo. Non ci sono ovviamente registrazioni, quindi noi possiamo solo immaginarci chi erano e come recitavano. Di Sarah Bernhard c’è qualche registrazione perché alla fine della sua carriera sono riusciti a registrare la sua voce; ma restano soprattutto degli scritti sulla loro recitazione e le descrizioni che non sono probabilmente fedeli; quindi abbiamo una memoria del teatro che è essa stessa la memoria erronea degli avvenimenti della vita. Quindi dobbiamo accettare l’effimero del nostro mestiere.

Anna Monteverdi: L’aspetto tecnico e l’aspetto artistico nel tuo teatro comunicano perfettamente, come due lati di una stessa medaglia, come hai spesso ricordato. Puoi spiegarci qual è la filosofia di questo approccio?

Robert Lepage: La questione è: “Come vediamo il mondo?” A teatro, anche nei teatri cosiddetti socialisti o molto orientati a sinistra, c’è una gerarchia decisamente capitalista. C’è l’autore, il regista, gli attori, poi gli scenografi, e infine i tecnici. Alcune persone dicono di vedere il mondo in una certa maniera, ma poi nella pratica della scrittura, nel loro mestiere artistico applicano una gerarchia capitalista molto imperialista. E questo mi stupisce sempre molto; io invece cerco di applicare una pratica più democratica. Democratica perché permetto, anzi invito gli attori a scrivere con me, anche agli scenografi ai collaboratori, ai tecnici. I tecnici sono lì dal primo giorno. E non è certo il mestiere dei tecnici quello di scrivere, non sono artisti ma visto che sono dei tecnici di teatro, hanno una certa sensibilità artistica, dunque possono contribuire alla scrittura. E quello che rimarrà alla fine di questo processo, sono gli elementi più eloquenti, che non vuol dire solo il testo, la recitazione o la scenografia. Tutti gli elementi contribuiscono, sarà l’elemento più eloquente che reggerà un certo argomento. Spesso si parla di scenografia, specialmente con gli americani o nel mondo anglofono in generale, si parla di décor; vuol dire che la partecipazione dell’architettura è di natura decorativa. In francese si dice scenografia e c’è la parola grafia quindi si parla di scrittura, scrittura scenica. È una forma di scrittura. E nel mio teatro questo è presente dal primo giorno: non so come sarà il décor alla fine ma ci sarà sempre un elemento scenografico che permetterà, libererà la scrittura. Quindi la questione è: come vediamo il mondo; non si possono fare discorsi pro-democratici e poi non applicarli nella pratica del nostro mestiere.

Ci sono due avvenimenti che mi hanno confortato nel mio lavoro: quando ho cominciato lavorare in Giappone negli anni Novanta, qualcuno mi aveva presentato a qualche persona del teatro che non sapeva che cosa facessi. Mi chiese: “Tu reciti lato testa o lato croce?”

Gli chiese cosa volesse dire e mi spiegò che in Giappone per “croce” si intende quello che sta dietro e per “testa” quello che sta davanti. E per la prima volta incontravo qualcuno che mi spiegava che uno valeva l’altro, cioè che in teatro, quello che sta davanti è importante come quello che sta dietro. Si tratta dell’equilibrio, lo Ying e lo Yang del teatro. Io ero molto stupito di questo e  dissi che io lavoravo piuttosto “lato testa”, ma che lavoravo anche un po’ “lato croce”.

Sentivo che il mio lavoro cercava di trovare un equilibrio nella scrittura e nella responsabilità di quello che facevo, ma forse perché venivo dall’Occidente, non mi permettevo di pensare in quella maniera espressa dalla persona in Giappone.

Abbiamo fatto diversi spettacoli tra cui il solo show Andersen project dove i tecnici intervenivano con parecchie manipolazioni in diretta, con cavi tirati, oggetti che entravano in scena, c’erano molte cose. Era uno spettacolo molto marionettistico. Siamo stati invitati a recitare a New York in un teatro off Broadway, dove ci dissero che volevano il nostro spettacolo ma che il sindacato diceva che non voleva lavorare con i nostri tecnici. Ci spiegarono che anche i loro tecnici erano molto bravi, ma noi rispondemmo che dovevano essere i nostri perché loro erano più che tecnici, erano manipolatori che davano vita agli oggetti che entravano scena. Questo per dire come noi esigiamo che chi partecipa al nostro lavoro sia un marionettista,  un attore, che abbia una sensibilità artistica.

Quindi in due contesti completamente diversi ho potuto misurare delle differenze di concezione della gerarchia nel teatro: in Oriente questo equilibrio sembra essere raggiunto. Quello che produce delle ombre dietro lo schermo è considerato di pari dignità di chi fa la narrazione nel teatro delle ombre. In Giappone gli attori del kabuki non vengono da soli a salutare il pubblico. La loro è una concezione di teatro molto democratica.

Anna Monteverdi: Negli ultimi spettacoli come Jeux de cartes hai usato una scenografia circolare, che complica l’aspetto narrativo e anche quello tecnologico nel teatro. A cosa è dovuta questa scelta?

Robert Lepage: Per molto tempo ho fatto degli spettacoli all’italiana, in maniera frontale. Mi ritrovavo spesso di spettacolo dove c’era una proiezione video, a volte mi trovavo come in un sandwich tra una proiezione e l’altra e mi rendevo conto che lo spazio era molto limitato: c’era uno schermo un tulle, un altro schermo. E a un certo momento mi sono stufato di questo, mi dicevo che c’era qualcosa nell’integrare queste nuove tecnologie che ci obbligava a diventare noi stessi degli schermi, degli uomini-sandwich. Avevo voglia di liberarmi di tutto questo e mi sono detto: raccogliamo la sfida del cerchio, della teatralità scritturale, dove lo spettatore è cosciente della sua presenza, lui si siede e dall’altra parte dietro l’oggetto teatrale, vede il suo equivalente. Dunque è necessario che quello che sta al centro sia una specie di incantatore, interessante, affinché lo spettatore dimentichi di essere al teatro. È una sfida immensa. Così facendo, non solamente si recupera il teatro di scrittura, ma c’è anche l’obbligo di lavorare in maniera verticale. Per me il teatro, a differenza del cinema, è un’arte verticale: a livello basso, delle tavole del palcoscenico c’è il uomo, sopra di lui ci sono le sue aspirazioni, gli déi, il destino… E ci sono molte trappole che lo possono portare all’inferno. Così era presentato il dramma dell’uomo da secoli e secoli, nel teatro all’italiana o nel greco. Dunque il palco circolare ci obbliga a ritornare a questo. E ravviva il teatro, e ci fa tornare all’essenza del teatro.

Anna Monteverdi: Tu hai fatto collaborazioni con artisti come Peter Gabriel e con il Cirque du Soleil, che portano a un discorso di teatralità e di spettacolarità più vasto. Puoi parlare di queste esperienze e come hai immaginato progetti artistici per loro?

Robert Lepage: Bisogna prima di tutto capire che il mio interesse per il teatro non mi è stato inculcato dal teatro… quando ero bambino e adolescente, il teatro era inaccessibile, era solo per la borghesia e noi non potevamo permettercelo. Quindi il teatro non era presente nella mia vita. Ma la teatralità era molto presente ad esempio nel rock di quell’epoca… suonavano con dei costumi, creavano personaggi, c’erano delle scenografie, raccontavano delle storie con degli atti, era quasi dell’opera. In seguito ci fu il teatro danza di Pina Bausch, che andava aldilà della danza, erano dei personaggi,  era teatro. La danza contemporanea aveva espulso la teatralità, il suo lavoro invece era molto teatrale. E negli Stati Uniti c’era il movimento della performance art, con artisti visuali o musicisti che facevano della performance teatrale.

Io ero molto interessato dalla teatralità ma il teatro che riuscivo a vedere non era teatrale, era cinematografico o come un brutto telefilm. Quindi più tardi, quando ho cominciato a fare teatro, le influenze venivano piuttosto dal rock’n’roll, dalla danza tedesca e dalle performance americane. E ho trovato il senso di questo pensiero quando ho cominciato a fare il circo o l’opera lirica. Ho ritrovato lì quella teatralità, la vera performance, lo sport del teatro. L’opera è molto sportiva, così come il circo. Quando lavoravo per il circo in America, dove si fa una  netta distinzione tra sport e cultura, capivo che il circo era le due cose insieme. Pensavo: “Se il teatro fosse sia sportivo che culturale?” Quindi mi sono permesso di prendere in prestito delle cose da queste altre discipline che io considero più teatrali del teatro stesso; é come se il circo e l’opera dessero delle lezioni al teatro. Bisognava ridare al teatro il ruolo che aveva : la teatralità.

Anna Monteverdi: Quindi anche Peter Gabriel faceva parte degli artisti da cui ti sei lasciato influenzare da giovane?

Robert Lepage: Si, assolutamente, una delle più grandi influenze da quando avevo quattordici anni è stato proprio Peter Gabriel. Era molto teatrale, cambiava costume ad ogni canzone, interpretava personaggi. Se avessi avuto il talento musicale di Peter Gabriel avrei sicuramente provato a fare musica pop, rock teatrale, invece mi sono indirizzato verso il teatro. Non avrei mai pensato che la persona che mi aveva così influenzato in gioventù sarebbe entrata nella mia vita. E’ interessante perché è successo in un momento particolare: quando ho fatto spettacolo a Londra lui si è riconosciuto nel mio lavoro. Un lavoro che a lui sembrava molto nuovo ma io gli ho spiegato che era una derivazione da quello che vedevo quando ero giovane. Il vocabolario tra noi era molto organico ed è stato molto facile, per esempio, c’erano delle cose dette in un’intervista alla BBC dove mi lamentavo del fatto che gli attori recitano troppo ma non giocano abbastanza.

Dicevo che sono degli “acteur” e non dei “player”. Questa è effettivamente l’éra dell’attore e non del giocatore. “Le jeu” si dice in francese e significa giocare: sì, ma dov’è il gioco?

Non vedo molto “ludism” (gioco di parole tra ludico e luddismo ndr) in teatro, questo dicevo alla BBC. Peter Gabriel vide questa intervista, e quando lavoravamo insieme spesso si interrompeva per dirmi “Too much acting, not enough playing” citando quella mia frase.

E ho capito che l’energia di Peter Gabriel è proprio un’energia ludica. Tutto quello che lo anima sul piano creativo è necessariamente il risultato di un gioco, della sua voglia di giocare in scena, ed è stato molto facile lavorare con lui, anche se siamo molto diversi; questa idea del gioco, del “ludism” comporta che tu inviti il pubblico a giocare. Non si può giocare da soli. Non c’è niente di più noioso che vedere delle persone che giocano da sole. Lui invita al gioco e questo rende grandi le sue performance.

Anna Monteverdi: Anche Gabriel ha sperimentato l’idea dell’acrobazia, della verticalità del teatro che tu spesso proponi agli attori e anche ai cantanti lirici mettendo in crisi non solo alcune modalità recitative ma anche la distanza istituzionale tra i generi teatrali: circo, lirica, concerto, teatro. Come nasce questo aspetto acrobatico nel tuo teatro?

Robert Lepage: Nell’opera lirica c’è una cosa molto importante che tutti fanno finta che non esista, ed è il corpo, la fisicità, la fisionomia, perché la lirica è un’arte che è “portata” dalla voce, il centro dell’opera è la voce, una voce fuori dal normale, che ti permette di cantare cose impossibili, straordinarie, questo è il significato della voce. Per produrre questa voce bisogna avere coscienza del proprio corpo e una forma fisica eccezionale. Non importa il proprio peso –ci sono molti cliché sui cantanti lirici sovrappeso, anche se oggi non sono rare le soprano magre-, ci sono vari tipologie di fisico nell’opera ma il corpo è la base, quello che produce la voce e la grande sfida quando lavorammo al Met per il Ring fu dire ai cantanti: “Ognuno dei vostri passi sarà una sfida fisica sia a causa dell’inclinazione della scenografia, sia perché è in movimento e perché sarete sospesi. Ciascuna di queste cose metterà in discussione come vi muoverete, per cui dovrete trovare in un modo diverso, la via per il vostro “appoggio” per la voce o per rinforzare il modo in cui appoggiate la voce”. Questo richiedeva uno sforzo fisico e una comprensione del proprio corpo da parte dei cantanti i quali per la maggior parte davano per scontata la loro voce. C’è un’espressione in inglese: “Park and bark” (E’ un modo di dire inglese assai colorito, quando nella lirica il cantante non fa alcun tentativo di interpretare un ruolo e semplicemente sta in piedi e canta. ndr) ebbene qua è il contrario; il cantante deve entrare, trovare degli appoggi, degli equilibri, deve prendere consapevolezza del proprio corpo, cosa di cui non si preoccupa mai quando canta. Per questo mi sono fatto molti amici e anche molti nemici. Alcuni sono stati molto collaborativi, altri hanno opposto resistenza. Ma questo faceva parte dell’avventura. Tutto lo staff e lo stesso direttore generale Peter Gelb supportavano questa idea. Ci siamo impegnati molto, la macchina scenica talvolta faceva dei rumori che non avrebbe dovuto fare e nel mondo sacro dell’opera questo non era tollerabile.

Anna Monteverdi: Quali sono state le critiche maggiori?

Robert Lepage: Nella sala molte persone venivano con lo spartito sulle ginocchia, non guardavano neanche, prendevano nota su chi aveva interpretato diversamente, o su chi aveva sbagliato; in questo caso c’erano rumori e molti sono rimasti scioccati, e io dico “Avete diritto di essere melomani, perfezionisti dell’opera, ma non venite all’opera se volete la perfezione perché l’opera significa persone che sono in carne ed ossa, che camminano, che si dimenticheranno di qualcosa, che faranno cose non previste dallo spartito”. Ed è stato uno shock per loro.

Ma c’è una cosa che ci interessava sin dall’inizio, ed era creare uno spettacolo che fosse contemporaneamente molto avanguardista e molto tecnologico ma rispettando un’immagine fondatrice, che è molto classica, tradizionale. Abbiamo creato questa piattaforma fatta di 24 assi che è viva, non è a servizio di chi entra ed esce di scena: questa è l’immagine fondatrice della scenografia. C’era l’idea che le 24 assi facessero delle combinazioni tra di loro nello spirito di Wagner che come è noto, ha scritto quasi 15 ore di musica basandosi sui leit motiv (quello del sangue dell’amore, dell’onda..) e sulle loro combinazioni.

Ci siamo detti che l’importante era che la musica fosse l’éco del décor; è importante che il décor agisca, vada a combinarsi con i diversi leit motive dando nomi ai luoghi in modo organico.

E’sicuramente un progetto difficile perché ambizioso; mentre avanzavamo la tecnologia inseguiva  il progetto e sicuramente quando abbiamo fatto la ripresa, lo spettacolo è cambiato. Lo spettacolo stava dietro alla tecnologia. All’inizio del progetto non c’era la tecnologia adatta.

Anna Monteverdi: Il tema del teatro come work in progress è una costante dei tuoi lavori: quanto è produttivo e quanto è difficile lavorare con questa idea di non finito?

Robert Lepage: Il teatro finché non lo femiamo è imprendibile, è come un animale selvaggio: si modifica che lo si voglia o no; c’è un attore che non vuole più continuare a fare lo spettacolo ed è rimpiazzato da qualcun altro che va a portare altra energia, ci sono correzioni, tagli…c’è l’epoca, gli avvenimenti che modificano quanto hai scritto e così continua e dura …”as long as it loose” (dura finché non si allenta, ndr)…cioè fino a quando lo spettacolo va a maturare e invecchia e poi quando lo si cattura, lo si ammazza, allora lì si può scrivere. E in quel momento si può dire: “Ecco che cos’era questo testo!”. E così che concepisco il teatro. Bisogna che lo spettatore abbia l’impressione, che sia cioè, cosciente che quello che vede si sta creando in quel preciso momento e la definizione di “gioco delle parti” del teatro non è altro che dare l’impressione che stiamo inventando il testo in quel momento, e lo stiamo dicendo spontaneamente, anche se è già stato scritto.

Un buon teatro è quello che dà l’impressione di inventarsi davanti a noi. E più lo spettacolo cambia,come un work in progress, nel corso delle prove, con vari tentativi,  più ci sono dei rischi, e più lo spettatore vede qualcosa di vivo perché il teatro è un’arte vivente (viva?) e io difenderò quest’idea del teatro, anche se qualche volta lo spettacolo non è perfetto. Io non trovo conforto a fare qualcosa che uguale tutte le sere, provo sempre a cambiare, per esempio in 887, che è uno spettacolo che ho recitato per 400 volte, ha vissuto molte metamorfosi e trasformazioni. Quando lo abbiamo presentato a Roma ho deciso di fare una parte in italiano, ho dovuto imparare e tradurre il testo francofono e dirlo in italiano è stata l’occasione per riscriverlo. Quando sono tornato alla versione francese non potevo più recitarlo uguale perché era stato modificato dalla versione italiana. Ci sono tanti generi di “incidenti” o “limitazioni” che aiutano il testo a precisarsi e a riscriversi. Ovviamente questo non è un mestiere per chi ha un cuore fragile, ma per chi è pronto a rischiare qualcosa e mettersi in pericolo, come fa l’acrobata di un circo. Ci si mette in pericolo anche se il pubblico vede solo l’illusione del pericolo perché nel nostro caso nessuno si fa male, ma si affronta sempre comunque, un rischio.

 

Intervista al M°FABIO LUISI sulla Tetralogia di Wagner con la regia di Robert Lepage produzione MET
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L’Orchestra e il Coro del Maggio Musicale Fiorentino, diretti dal Maestro Fabio Luisi, eseguiranno 5 luglio alle 21.15. a Pistoia  la Sinfonia n. 2 di Gustav Mahler proprio dal palco di Piazza Duomo. Arts. Noi lo avevamo incontrato nello splendido foyer del Carlo Felice e gli avevamo fatto alcune domande relative alla sua collaborazione con uno dei massimi registi teatrali contemporanei, Robert Lepage per la produzione del RING di Wagner del Metropolitan di New York. L’intervista sarà parte del documentario in corso di realizzazione sul teatro di Robert Lepage.

Fabio LUISI è nato a Genova ed è Direttore principale al Metropolitan di New York. Attualmente è Direttore musicale  anche dell’Opera di Zurigo

Fabio Luisi ha vinto un Grammy Award per la sua interpretazione delle ultime due giornate del Ring des Nibelungen: l’intero ciclo prodotto in DVD da Deutsche Grammophon, considerato la migliore registrazione operistica del 2012. La sua vasta discografia comprende opere di Verdi, Salieri e Bellini; brani sinfonici di Honegger, Respighi e Liszt; musiche di Franz Schmidt e Richard Strauss e una premiata esecuzione della Nona sinfonia di Bruckner. Nel 2015 ha inaugurato la collana discografica della Philharmonia Zurich incidendo musiche di Berlioz e Wagner, nonché Rigoletto di Verdi, cui recentemente si è aggiunta la versione originale dell’Ottava sinfonia di Bruckner, raramente registrata in disco.  La sua biografia è straordinariamente ricca di successi e di riconoscimenti e rimandiamo al suo sito per approfondimenti. Ci piace ricordare che oltre a dirigere grandi teatri e orchestre internazionali, Luisi è anche direttore musicale del Festival della Valle d’Itria e dell’Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti” a Martina Franca promossa e organizzata dalla Fondazione Paolo Grassi di cui è presidente il prof. Franco Punzi e direttore Rino Carrieri.

 Oltre alla musica, coltiva anche un’altra passione: quella di creare profumi artigianali, da lui stesso personalmente realizzati, le cui vendite, attraverso flparfums.com, servono a finanziare la Luisi Academy for Music and Visual

Anna Monteverdi: Lepage e Wagner, teatro, musica e tecnologia: quanto a suo avviso l’innovazione tecnologica può contribuire a far conoscere non solo l’opera musicale ma anche il messaggio di opera d’arte totale di Wagner?

Fabio Luisi: L’opera lirica come del resto qualunque rappresentazione teatrale, è per definizione destinata a mutare nel tempo; questo cambiamento avviene normalmente durante la storia di questa opera d’arte che non è come un’opera d’arte figurativa a sé stante, chiusa nell’epoca in cui è stata concepita. Lepage è il testimone più congeniale di opera d’arte che muta nel tempo; in questo senso il suo approccio molto tecnologico alla tetralogia di Wagner è stato stimolante e interessante, e Wagner ne sarebbe stato piuttosto contento. 

Anna Monteverdi: Quale è stato il rapporto tra direzione musicale e direzione registica e quali sono stati i passaggi chiave di questa drammaturgia musicale?

Fabio Luisi: Lepage è una personalità straordinaria, sa esattamente come realizzare ciò che desidera e per me è stato molto educativo, lui è un uomo di teatro visionario con un accento su ciò che si deve vedere,  per noi musicisti l’aspetto visivo è secondario rispetto a quello musicale. Il suo modo di lavorare è estremamente rispettoso dei cantanti e della musica; non essendo musicista si è dovuto instaurare un dialogo tra noi e gli ho dato qualche suggerimento per quei momenti in cui bisognava sottolineare visivamente certi accenti come li abbiamo in musica e lui è stato comprensivo e ha accettato; tutto è stato condotto con una calma davvero inusuale nel nostro campo. I passaggi chiave sono stati quelli che richiedevano un colore e un carattere speciale reso visibile, in questo Lepage è stato straordinario, i cambiamenti di scena, i grandi “coup de théâtre” che ci sono anche in questa opera monumentale, sono stati risolti in maniera eccezionale e hanno provocato “pelle d’oca” a spettatori e anche agli esecutori. Lo sforzo tecnico è stato enorme, ed è stato una sfida per tutto il team della produzione perché non si erano mai trovati a mettere in pratica un’idea così tecnologica quale quella concepita da Lepage.

Anna Monteverdi:Qual è la Specificità musicale del Siegfried e come ha impostatola direzione musicale?

Fabio Luisi: Sigfried, se si considera la Tetralogia come una grande sinfonia  è lo scherzo; è estremamente vivace, è tra le quattro, a parte Das Reinhgold, che è un prologo complesso, quella che maggiormente si presta a soluzioni sceniche originali, ed è anche l’opera che presenta la maggior linearità di narrazione. In un cerro senso è quella più facile, ma date le proporzioni anche più difficile, che può presentare soluzioni sceniche più eclatanti: abbiamo questo clima da favola del bosco, con l’uccello che parla a Sigfried, dell’uccisione del drago, del risveglio della Valchiria, del bacio di Sigfried alla Valchiria. E questa idea di storia è quella che è probabilmente più facile da realizzare di tutta la tetralogia.

Anna Monteverdi: Considerato il lavoro di Lepage nell’ambito del teatro tecnologico non ha avuto paura che la macchina predominasse sulla musica?

Fabio Luisi: La macchina era l’elemento predominante di tutta la visione di Lepage durante le 15 ore di musica del Ring. Sarebbe sciocco dire che abbiamo cercato di nascondere la macchina perché c’era ed era ben visibile.Era un elemento portante della sua regia, può essere considerato in modo positivo o meno, ma c’era. Considerando le proporzioni di quest’opera direi che l’approccio tecnologico è stato assolutamente giustificabile, e personalmente lo ritengo più che valido nella rappresentazione visiva, scenica e anche nel fatto che spiega scenicamente cosa succede nella musica. Il bravo regista è colui che riesce a comunicare quello che succede nel testo, benché lo spettatore non ne conosca la lingua e in questo Lepage c’è riuscito benissimo; ma sinceramente la macchina era visibile ed è rimasta visibile per tutte le quattro opere.

Anna Monteverdi: Lepage in questa regia è stato definito “Tradizionalista e modernista”. lei come la definirebbe?

Fabio Luisi: La regia è stata più che leggibile, su questo non ci sono dubbi, per questo si è attirato critiche di tradizionalismo, perché è stata estremamente leggibile, non ci sono state interpretazioni a meta livelli. Dal punto di vista della spiegazione e della narrazione non ci sono stati affatto dei problemi.

Carl Fillion et le travail avec Robert Lepage pour la scénographie
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Carl Fillion, né en 1966 dans la province de Québec au Canada, est diplômé de la section scénographie du Conservatoire d’Art Dramatique de Québec en 1991. Fort de son expérience technique, Carl Fillion est très rapidement en demande pour concevoir plusieurs scénographies avec les professionnelles les plus en vues du milieu du théâtre au Québec. Rapidement il se démarque avec des conceptions scénographiques théâtrales originales par des espaces en mouvements et par l’utilisation de moyen technologique. Il compte maintenant plus de 40 créations scénographiques de théâtre, opéra, cirque, spectacle multimédia, musicale et muséologique.

En 1993 le metteur en scène Robert Lepage fait appel aux services de Carl Fillion pour concevoir la  scénographie du spectacle, Les 7 branches de la rivière Ota, qui sera présenté dans plusieurs villes d’Europe et du Japon. Suite à cette première collaboration, Carl Filion devient un des concepteurs privilégié d’Ex Machina et signe plus d’une quinzaine de productions au côté de Robert Lepage, dont Elseneur en 1995, Le songe d’une nuit d’été en 1995, La géométrie des miracles en 1997, La Celestina en 1998, Jean-Sans-Nom en 1999, l’opéra La Damnation de Faust en 1999 au Japon repris par la Bastille de Paris et ensuite par le Metropolitan de NY, La casa azul en 2001, La Celestina en 2004, l’opéra 1984 en 2005.l’opéra The Rak’s Progress en 2005, l’opéra Le Rossignol et autres petites fables en 2009. Totem en 2010 pour le Cirque du Soleil. Cette collaboration qui se fait dans le cadre de productions de théâtres, d’opéras et de spectacles musicaux explore et renouvelle à chaque production le mouvement de l’espace scénique en utilisant des moyens technologiques de pointes et contribue à démarquer le travail originale de Carl Fillion, ce qui lui à permi d’acquérir une expertise forte et unique en son genre. Fillion et Lepage travaillent présentement sur de nouveaux projets d’opéra dont la tétralogie de Wagner Der Ring des Nibelingen au Metropolitan de New York en 2010-11-12.

Outre le travail avec Robert Lepage, Carl Fillion participe comme créateur à d’autres spectacles de théâtre et d’opéra avec différents metteurs en scène au Québec et en Europe, dont The Burial at Thebes (Antigone) au Abbey Theater de Dublin en 2004. Simon Boccanegra au Liceu de Barcelona en 2008,

Parallèlement à son travail de concepteur, Carl Fillion a participé à la formation de nouveaux scénographes en enseignant pendant 10 ans au Conservatoire d’art dramatique de Québec de 1992 à 2002, et à l’École nationale de théâtre de Montréal de 2000 à 2002.

Conférence du scénographe Carl Fillion à l’École d’architecture le 18 janvier 2011. En collaboration avec le Conservatoire d’art dramatique de Québec, le LANTISS de l’Université Laval et le Centre d’études collégiales de Montmagny.

The Machinery of Vision in the Theatre of Robert Lepage
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(In “The scenographer”, 2007)

 Canadian-born Robert Lepage is one of the most acclaimed directors and interpreters of contemporary theatre. Together with the stage designer Carl Fillon and with the technical staff of his multimedia team Ex Machina, based in Quebec City he has planned and given life  to some of the most emblematic examples of the dramaturgical use of scenography as well as the technique and integration of video onstage.

THE ANDERSEN PROJECT

The story-line

The story’s main character is Frederic Lapoint, successful lyricist for rock singers, an albino from Montreal in the throws of an emotional crisis following a temporary separation from his wife, who is commissioned by the Opéra Garnier in Paris to rewrite Andersen’s fairy tale, “The Dryad”. It is the fable of a woodnymph that lives in the hollow of a tree and who renounces immortality in order to visit Paris for a day.

The person who called him, in fact, aims to produce a children’s musical. The other lead is the French manager who has to organise the event; extremely busy and always tied up in lengthy phone calls, who is obsessed with sex, which he satisfies by frequenting a red-light club run by a Moroccan graffiti artist, Rashid. Hans Christian Andersen in person also comes on the scene, with his passion for travelling and his unrequited love for Jenny Lind. In addition to being based on “The Dryad”, reference is also made to another Andersen fairy tale, “The Shadow”.

All the characters, interpreted by the eclectic Lepage, coexist with a shadow that reveals not only their interior personality and ideal aspirations but also their material objectives and sexual deviations. A shadow that, if left unfettered, as in Andersen’s tale, can lead to personal ruin. Frederic arrives in Paris full of hope but will remain disappointed; the manager is abandoned by his wife, while Rashid freely roams the Metrò to let loose with his spray can.

The set like a giant eyeball

For The Andersen Project Lepage and the young Le Bourdier on his first theatrical stage design project, having previously collaborated with Ex Machina by designing the sets for the film version of The Far Side of the Moon, together invent a decidedly original scenic structure, pulling references from Baroque stagecraft and demonstrating how it is possible to achieve the same perceptive illusion of virtual reality by using a combination of traditional craft techniques and optical effects.

For the show Lepage creates a scenario comprising various levels of depth and action (as already experimented in The Seven Streams of the River Ota) in order to vividly recreate a period such as the late nineteenth century, so full of technical and scientific discovery; he attempts to theatrically recreate the effect of astonishment and wonder universally experienced by the new optical devices. Great use of depth is made, with the stage area blocked into different areas of action corresponding to as many scenic mechanisms within a framework, which enables the “tricks” (the machinery and the runners) to be concealed beneath the stage area and in the wings.

To the rear is a large cubic volume in perspective, a “panorama” (called “the landscape” by the technical crew) covered in a special cloth which, thanks to a pneumatic system, can either cling to the interior of its walls or can expand towards the exterior thereby distorting the image projected frontally onto its surface to give the effect of a shell or an eyeball. The magic of this technique enables a mechanised and efficient integration of body and image (thanks to a slight raising of the central part of the structure), restoring the illusion of depth, or rather, a false 3D, with an invisible and rapid transition from one state to another (concavity-convexity); the moving back and forth of the entire panorama on tracks creates an additional depth of field to the stage area.

The concept of threedimensionality, as we know, is linked to stereoscopy: we have two eyes and we perceive the threedimensionality of objects. We see one image but one eye views it differently from the other. After all, virtual reality is based on this three-dimensional perception, in that it makes a pair of eyes see two different images. Here, the perspective, manipulated much in the way that is characteristic of seventeenth-century stage design “loses its illusionist character and starts to become the instrument of identification between real space and the scenic space” (F.Marotti).

The genesis of the work: Hans Christian Robert?

As Robert Lepage himself admits, The Andersen Project represents a ‘sum’ of all his work, not just the socalled one-man shows. In fact, here again we find the themes of solitude, of abandonment, incommunicability, of unsatisfied sexuality and romantic tension for a love or for a renown that is not realized, already present in Needles and Opium, Vinci, The Far Side of the Moon, and Elsinore; but we also recognize the figure of the independent artist, free of the imperatives of the art market, as touched upon in Vinci and Busker’s Opera; and the technical and visual solutions previously used in The Seven Streams of the River Ota. The recurring biographical theme is that of the renowned artist, as in Vinci (Leonardo), La casa azul (Frida Kalho/Diego Rivera) and Needles and Opium (Jean Cocteau and Miles Davis), to which the contemporary character compares himself.

The Danish author of children’s literature is thus backlit and visible through the lives of contemporary characters who find themselves faced with personal choices in part similar, though a century later. The central figure becomes a kind of model before which the characters (mostly visual artists) love to face and examine themselves: Leonardo da Vinci (incarnating the union of art and technology) and Jean Cocteau (sublime example of artistic eclecticism) are among the topical themes in Lepage’s show, also in the form of iconographic citations or quotations from their works. The scenographic theme of the mirror image (or of the mirroring of characters) is an almost obsessive constant in Lepage’s shows and, according to the critic James Bunzli,would introduce an unequivocal autobiographical element: the character and hismanifold doubles would be none other than Lepage himself, who would speak of himself by literally creating a reflection of himself in their moral dilemmas, in their crises of love, their solitude, in their doubts on art and life.

In The Andersen Project Lepage in effect reveals a surprising affinity with the Danish author Andersen, not least in their sharing the same love for travel and an insatiable sexual desire. “The Life of a Storyteller” by Jackie Wullschlager and his diaries, made available by the show’s commissioners, The Andersen Foundation, reveal a wealth of information. They in fact unveil unknown facets in the life of the nineteenth-century author; and it is these aspects that the show hinges on: the double life that would be hidden behind Hans Christian Andersen’s romanticism, that will never have him marry his beloved Jenny Lind: “In the Romantic era men would write passionate letters to each other, yet it didn’t mean they wanted to sleep together; Andersen’s romanticism, though, went over the top and he wrote open love letters to a lot of young men. He also had great passions for a few women, although they were women he was pretty sure it would be impossible to love – Jenny Lind, for example, one of the great Swedish sopranos, whose touring schedule made a relationship out of the question. It was discovering that this man best known for writing children’s stories had a double life, a strange, troubled personal history, that made me agree to do a show about him”.

As Lepage himself points out, there are a number of points that his personality has in common with Andersen, other than a voracious sexual appetite: a troubled childhood, the question of language – always an underlying theme in his shows, inextricably linked with the fierce political arena of French Canadian separatism – and the quest for international recognition of his work: “It’s hard to talk about what Andersen and I have in common without sounding pretentious, but there’s a lot about him that I identify with – not least his insatiable sexual desire and constant mood of sensuousness. There is a connection between sexuality and creativity, and one of the themes in The Andersen Project is to do with the imaginative and sexual development of children. Reading fairytales to children expands their imaginations. As they grow older, they replace their bedtime stories with masturbation and sexual fantasy. I always worried that I was a sex maniac because I thought about sex all the time, but actually it’s part of the imaginative process. If you’re a storyteller and spend your time imagining things, your sexual imagination is likely to be just as vivid. Perhaps Andersen’s sexual uncertainty reflects his difficult childhood. It’s no coincidence that it was Andersen who wrote “The Ugly Duckling”, a metaphor for the awkwardness of childhood and the blossoming of adulthood. I can identify with this, too: where Andersen was tall and ungainly, I had alopecia. Both of us experienced how cruel children can be. That can be tough, but being put through the mill very young can also be an advantage because you don’t see the world in the same way. Another thing that connects us is the need to travel. A lot of artists in the 19th century felt that they had to travel outside their own country to be recognised. But Andersen felt he had more reason than most. First, he wrote in Danish, a language that, for a lot of people in Europe, was like speaking backwards. Second, he wrote for children, so he wasn’t taken seriously. To be recognised, he had to go Germany and France to mingle among the great writers of the day. He’d come back to Denmark with all of that recognition. If you are a Quebecois artist, as I am, you feel the same impulse. Even an English-Canadian feels he has to be approved by London, Paris or NewYork. But Andersen sometimes did things for thewrong reasons – just like the heroes in his stories”.

The theme of sexuality voluntarily repressed or experienced as a conflictual state would therefore be the core theme of the show: “My first idea for The Andersen Project was to do with masturbation. The theme came about not in a sleazy, crass way, but as a way of trying to understand Andersen. I don’t want to shock – I just want to show Andersen’s lucid vision of the human condition. And the theme makes extra sense because a solo show is the most solitary form of performance and masturbation is the most solitary form of sex!”.

 

 

Every solo show that Lepage stages deals with the main character’s solitude. Solitude that manifests itself in the painful search for a way out through the other or through self analysis. From Vinci to Tectonic Plates (Les Plaques tectoniques) the character undergoes an exterior and interior transformation throughout the course of the show, thanks to a salvificmirroring with his other self. A recurrent theme of all his shows is that of looking within oneself, of examining oneself in a way that we have never before seen, of understanding the anguish that assails us and the contradictions of our life in order to overcome them. The initial cause is always a rupture, of an emotional, psychological or moral nature; the social drama – declared Victor Turner – begins with a loss: the drama, read in a ritual and anthropological sense, is in fact, according to Turner, “part of a disharmonious process that arises out of a situation of conflict”. In “From Ritual to Theater: the Human Seriousness of Play” and in “The Anthropology of Performance”, Turner expounds on the theme of social drama, which occurs when in the course of a community’s daily life a break in the traditional rules of living is created, generating opposition, which in turn transforms into conflict.

In order to be resolved, this necessitates a critical reappraisal of particular aspects of the established, legitimate social-cultural order. Thus a rupture marks the beginning of the “social drama”, the crisis opens the way for the “dramaturgical phase”. All Lepage’s solo shows stemfroma deficiency, an imbalance, (in Greek, hamartia), from a bereavement (in Vinci, Philippe is spurred by the idea of travelling following the suicide of his friend Marc; in The Far Side of the Moon the two protagonists meet on the occasion of their mother’s death; in Needles and Opium, the protagonist experiences the anguish of being abandoned by his love), by a crime (Polygraph), by a marriage in crisis (The Andersen Project); in some cases such drama would hint at autobiographical episodes of an extreme and painful nature. The Far Side of the Moon was created soon after the death of Lepage’s mother, scenically associated with the image of the moon, universally a female symbol. Elsinore (Elseneur) was inspired more by the death of his own father than by Shakespeare’s Hamlet.

Between Romanticism and Modernity: the triumph of technology

“The Dryad” was written on the occasion of Andersen’s visit to the Paris Expo of 1867, the year marked the death of Baudelaire, who had dedicated to modernity the essay entitled “Le Peintre de la Vie Moderne”. At the 1867 Expo important new technologies and improvements in already patented optical and mechanical instruments were presented, among which a great number of stereoscopic photographic items on display. The contrast between the characters in the show is precisely like the contrast between Romanticism and Modernism.

As Lepage explains: “The Universal Exposition of 1867 signifies the end of Parisian Romanticism and the dawn of Modernism. And in Modernism Andersen sees fairy tales, amazing machines, a masculine world, a realist, mathematical universe founded on objects that are very concrete … I may be accused of Romanticism in both my private and professional life, but these are recurring themes in my shows: the fact that romantic individuals find themselves in a very concrete world where there is little space for poetry, for excess, for passions”.

If we want to find an ulterior connection between Andersen and Lepage in terms of their common fascination with technology, we need only look at Montreal, Lepage’s homeland, which in 1967 hosted an international Expo where the Czech set designer Joseph Svoboda, in his country’s pavilion, demonstrated a multi-projection video installation that further developed on the polyécran system invented for the Prague Expo of 1958.

887, lo spettacolo di Lepage sulla memoria. Recensione su Teatro e critica
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Robert Lepage è andato in scena a Nantes con un’anteprima del nuovo spettacolo, 887. Recensione e approfondimento di Anna Maria Monteverdi su Teatro e critica.

Leggi l’articolo integrale qua

 

foto Erick Labbe

PH E. Labbe’

È prima di tutto una straordinaria prova d’attore questo 887, il nuovissimo solo show con cui Robert Lepage ritorna a recitare sul palcoscenico dopo aver firmato le due regie di Jeux de cartes(Spade e Cuori) ancora in tour, e aver diretto il Ring di Wagner per il Metropolitan di New York, la cui versione per la Deutsche Grammophon diretta da Fabio Luisi e James Levine ha vinto il Grammy Award come miglior Opera registrata.

L’ Avant première di marzo a Nantes presso lo spazio Lieu Unique sold out da mesi, nel quadro della rassegna Oupalaï (hop-là in quebecchese) dedicata al Québec e che ha coinvolto una ventina di teatri nella Regione della Loira, anticipa il debutto definitivo che si terrà a Toronto a luglio, per le Pan Am Games. A settembre pare che lo spettacolo sia opzionato perRomaeuropa Festival. A questo proposito Lepage ci rivela che vorrebbe recitare il prologo in italiano, lasciando i sottotitoli per tutto il resto dello spettacolo. Il prologo, come da consuetudine nei “solo show” di Lepage, è una parte fondamentale, perché l’autore annuncia le motivazioni personali e talvolta intime o autobiografiche di una scelta tematica e prevede sempre un dialogo diretto col pubblico.

RICORDO, BIOGRAFIA E STORIA

Lo spettacolo 887, dall’indirizzo della via in cui Lepage ha vissuto con la famiglia in Québec (Rue Murray 887), è un tuffo nella memoria personale, intima e insieme collettiva. La domanda da cui scaturisce lo spettacolo è: «À quoi nous sert-il de nous rappeler? De quelle façon le théâtre fondé sur l’exercise de la mémoire, est-il toujours pertinent aujourd’hui?».

foto Erick Labbe

PH E. Labbe’

La memoria è innanzitutto un tema teatrale e specificamente attoriale, ed è proprio da qui che si parte: come spiega l’artista al pubblico, lo spunto per lo spettacolo gli venne da un episodio – vero o presunto che sia – riguardante la sua difficoltà a memorizzare un componimento poetico in occasione del Festival dei 40 anni della Poesia contemporanea in Québec. Il componimento Speak white (Parlez blanc) scritto da Michèle Lalonde nel 1968 parlava anch’esso di memoria, una memoria politica, la memoria delle vicende del Québec separatista. Il titolo del poema altro non è che l’ingiuria sprezzante rivolta ai franco-canadesi da parte degli inglesi. In qualche modo lo spettacolo a questo punto è già definito: un contesto storico e geografico di riferimento – che unisce, se non tutti, almeno quelli che conoscono la breve ma intensa stagione caratterizzata dal Fronte di Liberazione del Québec (FLQ) degli anni Settanta – e un racconto autobiografico, quello del giovane Lepage, terzo di quattro fratelli, figlio di un tassista e di una casalinga, che coltiva in giovane età la sua vocazione attoriale. (continua su Teatro e critica)

Robert Lepage e la nuova epica orale di 887

Robert Lepage e la pittura
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Pubblicato su HYSTRIO: numero speciale su Teatro e Pittura.

Robert Lepage premio Europa 2007 è giustamente ricordato per alcuni spettacoli che rimarranno delle pietre miliari della Storia del Teatro contemporaneo, primo fra tutti Les sept branches de la riviére Ota (1995) memorabile esempio di epopea teatrale dedicata alla tragedia di Hiroshima in cui le proiezioni video e i relativi supporti che componevano le sette porte di una casa giapponese, risultavano perfettamente integrati all’epico racconto teatrale di 50 anni di storia dell’umanità. In tutti i suoi spettacoli i riferimenti alle “arti della visione” (considerando cioè sia pittura che cinema, citando Ragghianti) sono molteplici, talvolta espliciti, talvolta sotterranei, altre volte si tratta solamente di citazioni che impreziosiscono la materia teatrale (e forse per questo motivo Longhi, proprio a proposito dei mille riferimenti de I Sette rami del fiume Ota –da Madame Butterfly a Hiroshima mon amour- parla di un emblematico caso di “teatro postmoderno”).

In Vinci (1986) il protagonista, un artista quebecchese in visita a Firenze alla ricerca del senso della vita e della sua arte, incontra Mona Lisa che sorseggia una Coca in un Burger King e Leonardo stesso in un bagno pubblico. Vengono poi proiettati in scena i disegni di Leonardo, simbolo del superamento di quella mentalità che contrapponeva le arti liberali alle arti meccaniche e riprodotti la sua scrittura “al contrario”, i suoi quadri, i disegni preparatori e i progetti per la costruzione di macchine da guerra (che diventano il motivo del dilemma morale dell’artista). Tra le opere, anche il Canone delle proporzioni, il cartone per l’affresco de La Madonna col bambino e Sant’Anna, La Gioconda proiettati in negativo fotografico.

In Polygraphe (1987) i riferimenti sono evidentemente più cinematografici, legati all’ambito delle spy stories. Nello spettacolo è più volte evocato lo spettro della morte: nella scena iniziale al corpo della protagonista Lucie si sovrappone in proiezione l’immagine spettrale di uno scheletro che ha il suo corrispettivo nella scena finale: il corpo nudo di François sospettato di omicidio e sottoposto alla macchina della verità (polygraphe, in francese) diventa uno scheletro. Lo scheletro come presenza funesta anticipatrice di eventi tragici (come nella scena della Danse macabre di Saint-Saens presente ne La règle du jeu di Jean Renoir, 1939) non può che richiamare sia le iconografie delle medioevali danze macabri o i Trionfi della Morte che raccontano l’umana Commedia o la moralité, che le pitture surrealiste di Dalì e gli inquientanti manichini dei quadri metafisici di De Chirico. Come nel surrealismo e nella metafisica lo scheletro funziona quale dépaysage, oggetto insolito ed estraneo alla generale collocazione della storia inserito per associazione illogica e psichica, a metà strada tra visionarietà onirica e proiezione inconscia dei personaggi.

In Les Aguilles et l’Opium (1991) la spirale in movimento ciclico, simbolo della dipendenza che angoscia il protagonista altro non è che un frammento della scena dell’ermafrodito tratta dal film Le sang d’un poète di Cocteau, 1930 con una citazione anche dai Rotorelief di Duchamp. Ne The geometry of miracle (1996) protagonista è l’architetto americano Lloyd of Right e la sua amicizia con il filosofo russo Georges Gurdjeff.  Coreografie sincronizzate, visualità, movimenti e scene simultanee sono le caratteristiche dello spettacolo mentre un unico tavolo da disegno, molta elettronica e luci colorate formano la scenografia e l’atmosfera visiva. L’architetto è circondato dagli allievi-seguaci della scuola-comunità di Taliesin (concepita all’opposto da quella della Bauhaus, con una familiarità di vita e di lavoro dei giovani con il maestro). Proprio la personalità dell’architetto modernista, creatore di Casa Kauffmann e del Museo d’arte moderna Gugghenheim, il suo richiamo all’Oriente, all’arte giapponese – arte dell’essenzialità -, la formulazione teorica e pratica di un’architettura come composizione organica, l’edificio come organismo, elemento naturale che armonizza l’interno con l’esterno, si rivela determinante per definire la scena di Lepage in quei termini di “semplicità” e di integrazione di cui parla lo stesso Wright.  La parte tecnologica prevedeva un uso di giganteschi video fondali che illustravano i progetti architettonici di Wright per la Chicago degli anni Trenta. In Andersen Project (2006) vengono rievocate in proiezione attraverso la struttura scenografica cava dotata di un originale sistema pneumatico, i “panorami” e i costumi di fine Ottocento attraverso le viste fotografiche dell’Expo di Parigi che Andersen, uomo moderno e attratto dalle tecniche del suo tempo, visitò.

Lo spettacolo con una maggiore presenza “pittorica” è senz’altro quello dedicato alla tormentata biografia di Frida Khalo e scritto con Sophie Faucher, La casa Azul; Lepage ha strutturato l’intero spettacolo sul piano della “visualità”, riducendo al minimo l’apparato tecnologico. La scena rievoca episodi della vita della pittrice messicana traducendo in scena i suoi quadri molto amati dai surrealisti e struttura il palco come fosse un gigantesco schermo (o se si preferisce, come fosse un enorme parete di murales) incorniciato dentro la boite teatrale davanti (e dietro) al quale gli attori agiscono. La scenografia è ridotta a pochi elementi di arredo: l’appendiabiti, il cavalletto, i ponteggi ed infine il baldacchino, che una volta privato delle quattro aste diventa, nel corso dello spettacolo, tavolo o letto d’ospedale, oppure sollevato in verticale, finestra o telaio che inquadra un dipinto. Ancora una volta caratteristica della scena di Lepage è, dunque, la trasformabilità. Il baldacchino/letto di morte evoca molti soggetti dei quadri della Khalo e il cavalletto è l’oggetto davanti al quale l’attrice Sophie Faucher con i lunghi abiti da tehuana, avvolta nel rebozo dipinge. Le pitture di Frida e del muralista Diego Rivera sono restituite in proiezione nella loro vivacità di forme e colori che riempiono la scena con una vera esplosione di immagini, mentre le parole del famoso diario multicolore della Khalo vengono mostrate nella loro calligrafia originaria, diventano così una vera e propria “scrittura di luce. Particolarmente intenso il momento della separazione in cui Lepage sceglie di proiettare il Doppio ritratto: è il quadro più famoso, anche quello più importante quanto a dimensioni (i quadri della Kahlo, come i retablos votivi, hanno piccole dimensioni). È la Frida addolorata per i continui tradimenti di Rivera. Con un bisturi recide la vena da cui scorre il suo stesso sangue. Il cuore è esposto. Herrera la definisce una “immagine di autonutrimento: Frida conforta, protegge o fortifica se stessa”. O ancora la rievocazione del grave incidente avuto in gioventù che non le permise di avere figli, e nonostante questo, con ostinazione non volle rinunciare a provarci.  Dopo un taglio cesareo, un secondo aborto spontaneo quando era in America, a Detroit, il 4 luglio 1932, la Khalo finì in un lago di sangue.  Dallo schermo del palco si intravede dentro una vasca da bagno inclinata, Frida  immersa nel suo stesso sangue. Nel buio della scena fuoriescono solo i contorni della vasca intinti di un rosso denso, le braccia intorno alla testa in una posa da farfalla e un’abbagliante luce bianca. La scena ricalca nella scelta dell’insolito punto di vista sottinsù, il quadro della Kahlo Ciò che l’acqua mi ha dato in cui l’acqua e il contenuto della vasca  sembra quasi rovesciarsi addosso all’osservatore.

Anna Maria Monteverdi – Algeria e Québec nel teatro multiculturale di Robert Lepage
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pubblicato su Histosycast

Il regista e attore canadese Robert Lepage (nato a Québec City nel 1957) è uno dei più acclamati artisti scenici contemporanei. Consensi unanimi e riconoscimenti per il suo teatro senza frontiere, caratterizzato da una narrazione prossima a quella cinematografica, sono arrivati dai maggiori teatri e festival mondiali. Il suo è un teatro multiculturale, ricco anche di riferimenti (critici) alla tematica del separatismo québecois. Gli esordi sono caratterizzati dalla famosa Trilogie des Dragons (1985) che ripercorre 75 anni di storia (1910-1985), vissuti da tre generazioni di immigrati cinesi nelle Chinatown di Québec city, Toronto e Vancouver. Il messaggio implicito nell’adozione non solo delle modalità tipiche del teatro orientale ma persino della lingua cinese, era quello di un’apertura verso nuove culture, oltre il nazionalismo imperante e lontano da ogni rivendicazione restauratrice. Nella Trilogie Lepage adotta una vera e propria “strategia di non traduzione” mantenendo in scena alcune parti interamente dialogate in cinese, testimoniando il particolare clima politico e sociale canadese e la trasformazione in atto all’interno della regione del Québec, con le successive ondate di immigrazione dall’Estremo Oriente e la contrastata relazione con la lingua e la cultura inglese. La Trilogie è stata recentementre riallestita mentre la prima parte (Le Dragon blue) è diventato spettacolo a sé, inaugurato nel 2008.

Queste le tappe più significative della storia del Québec: la nascita della Nuova Francia (1534), la fondazione del Québec (1608) e quella della Confederazione canadese (1867), la Guerra tra Francia e Inghilterra (la “Conquista”: 1812-1814), la Rivoluzione Tranquilla (1960-1966), la Loi sur les langues officielles (1969-1974: l‘Assemblea legislativa del Québec adotta il progetto di legge 22 e il francese diventa lingua ufficiale della provincia del Québec, nella pubblica amministrazione, nelle professioni, nel commercio, nell’insegnamento:), l’Ottobre (1970) e i referendum sull’indipendenza (1980 e 1995). Nel referendum popolare del 1980, che seguì di qualche anno la nascita del partito indipendentista, il Parti Québecois (1976), una minoranza sia pur consistente della popolazione del Québec (il 40%) si pronunciò a favore del separatismo, condizionando tutta la politica della Regione fino ad oggi, anche se di fatto, il referendum non diede vita ad alcuna svolta nazionalista o secessionista. Il secondo referendum sull’indipendentismo del 1995 portò i fautori del separatismo a un scarto di voti inferiore all’1% e a un riconoscimento da parte del governo federale del Québec come “società distinta”.

Il Canada ha fatto del multiculturalismo –sia a livello delle province sia a livello federale- la sua politica ufficiale: ha promulgato sin dal 1971 il Multiculturalism Act mentre la legge 101 del 1977 del Québec che rendeva obbligatoria per gli immigrati la frequenza a scuole di lingua francese, favoriva una maggior assimilazione degli stranieri all’interno della comunità francofona, disperdendone però, le peculiarità, le tradizioni, la lingua. Con la legge 101 –la Charte de la langue française- il francese diventa anche lingua di Stato e delle Leggi. Lo scopo era di franciser l’economia e rendere questa lingua il vettore privilegiato per l’inserimento nel mondo del lavoro. Come ricorda Antonella Crudo (Identità fluttuanti. Italiani a Montréal e politiche del pluralismo culturale in Québec e Canada, Luigi Pellegrini 2005) questa politica però, è “attraversata da tensioni e contraddizioni, tra il centro e le periferie, tra le nozioni di due popoli fondatori, i francofoni e gli anglofoni, le rivendicazioni dei popoli autoctoni, e degli altri gruppi che reclamano sempre di più un proprio spazio e un maggior riconoscimento politico del loro fondamentale apporto alla costruzione del Paese”.

Il Front de Libération du Québec (FLQ), l’organizzazione separatista che aveva come manifesto il volume di Pierre Vallières Negri bianchi d’America (scritto in carcere a New York nel 1966 col significativo sottotitoloAutobiografia precoce di un “terrorista” del Québec), nasce nel 1963 e sarà responsabile del sequestro e uccisione del ministro Pierre Laporte (1970);  la successiva Crisi di Ottobre segnò una durissima repressione contro i simpatizzanti dei gruppi separatisti culminata nell’imposizione da parte del governo federale guidato da Trudeau, della Loi de mésures de guerre. La vittoria del Parti Québecois e di Lévesque con lo slogan Maitres chez nous (Padroni a casa nostra) sembrava riproporre l’utopia di un Québec nazione-stato.

Nel teatro si hanno poche tracce di questi eventi. Dominique Lafon ricorda che, tranne poche eccezioni, i drammaturghi e i registi del Québec di questo periodo preferiscono sviluppare tematiche più psicologiche che ideologiche, e non intraprendere la strada di un teatro politico engagé: è una “congiura del silenzio che ha escluso dalla scena teatrale come da quella politica, non solo i protagonisti degli avvenimenti degli anni Settanta ma il discorso insurrezionale di cui erano i porta voce”. (D.Lafon, Des coulisses de l’histoire aux coulisses du théatre: la drammaturgie québecoise et la Crise d’Octobre, in “Theatre Research International”, n. 1, 1998).

Si discosta da questo quadro il cosiddetto Cycle Shakespeare dalla tradaptation (traduzione-adattamento) di Michel Garneau in québecois di Coriolano, La tempesta e Macbeth scritta agli inizia degli anni Settanta in piena ondata nazionalista. Sul piano letterario l’esperimento di Garneau, ricco di tracce, prestiti linguistici, arcaismi del francese del Québec, e presenza del joual, la parlata popolare dei canadesi francofoni, anticipa le prime iniziative del governo Lévesque, tra cui appunto, la Loi 101 che faceva del Québec una provincia interamente francofona. Molti letterati hanno voluto dare dignità e legittimità alla lingua “québecoise“: una lingua che ha le sue radici proprio nella valorizzazione della specificità del Québec, come veicolo di contestazione della propria indipendenza. Il joual è stato anche adottato da un’importante corrente letteraria come strumento di espressione privilegiato: così il drammaturgo Michel Tremblay che ha scritto opere interamente in joual: “Non c’è più bisogno di difendere il joual, si difende da solo. Il joual fino a che resterà così è straordinario; è più vivace che mai……Qualcuno che si vergogna del joual, è qualcuno che si vergogna delle sue origini, della sua razza, che ha vergogna di essere del Québec”.

Le scelte registiche di quegli anni, quindi, inseriscono Lepage all’interno del dibattito politico in corso sull’indipendentismo di cui Garneau fu portavoce. Lepage però, prende le distanze dal separatismo; in un articolo per “Time magazine” (9 agosto 1999) auspica un giusto equilibrio tra nazionalismo e patriottismo, tra il preservare la propria cultura e condividerla in un’ottica mondiale, oltre l’anglofonia e la francofonia. A Rémy Charest confida la propria idea di una necessità di allargare i propri orizzonti geografici: in Québec, dice Lepage, il protezionismo culturale e linguistico ha creato una mentalità xenofoba e razzista. A Josette Fèral racconta l’importanza e il ruolo degli artisti per far conoscere il proprio paese; in relazione al problema linguistico del Québec si scaglia contro l’immobilismo e il radicamento anacronistico alla propria terra (J. Fèral, L’attore deve avere sete di sapere. Conversazione con Robert Lepage, “Teatro e Storia”, n.17, 1995, p. 303).

Inevitabilmente, anche laddove non ne fa esplicito riferimento, il teatro di Lepage ricorda proprio la difficile posizione del Québec, in eterno conflitto culturale, linguistico e politico tra l’anglofonia e la francofonia e costantemente alla ricerca delle proprie radici storiche e di una non facile affermazione della propria identità.

In Les aiguilles et l’opium (1989) il protagonista Robert, artista québécois a Parigi per un lavoro di doppiaggio, al proprio psicoanalista che gli domanda come mai si occupava di teatro, risponde con una lunga metafora sulla storia del Canada, letta ironicamente come “una tragedia shakesperiana in 5 atti”, concludendo con uno scetticismo di fondo sulle strade intraprese sia dalla parte più rivoluzionaria che da quella più moderata:

Non so cosa lei sappia del Canada e del Québec ma sono società molto “teatrali”. Quello che deve fare è guardare gli ultimi cinquanta anni della sua storia politica e vedrà che è scritta come un brutto dramma. No, non una commedia, direi che è più simile a una tragedia shakesperiana in 5 atti, una della più antiche, come Tito Andronico. Il primo atto è ambientato nel 1950, e accadde quello che è chiamato il “rifiuto globale”. Era il manifesto firmato da artisti e intellettuali che decisero di fare le cose a modo loro. E’ l’equivalente di quello che accadeva a Parigi nello stesso periodo con l’esistenzialismo, con Sarte, Albert Camus, Simone de Beauvoir. Nel 1960 c’era un movimento chiamato “la Rivoluzione tranquilla”. Non so perché si chiamasse così, forse perché c’era una rivoluzione in corso ma nessuno l’aveva notato. Poi nel 1970 abbiamo avuto l’Ottobre. C’era un gruppo di separatisti, terroristi che rapirono un diplomatico inglese (…) Nel 1980 ci fu un referendum sull’indipendenza con la risposta che tutti conoscono…La risposta fu No, conosci la domanda, era molto lunga e confusa sulla sovranità, l’associazione…E’ come divorziare ma vivere nella stessa casa, quel tipo di situazioni lì, io tengo i bimbi tu i mobili, non mi è permesso di parlare ai bimbi ma posso parlare ai mobili. Penso che la risposta sia confusa come la domanda. L’anno seguente era il 1990 e tutti in Canada speravano che sarebbe stato il quinto e ultimo atto e che ci sarebbero state le riforme costituzionali per comprendere meglio la parte inglese del Paese, quella, francese, in nativi. Come vede, molte cose accaddero in Québec negli anni con uno zero, ma niente in mezzo.

Molte delle regie di Lepage che prevedono una situazione conflittuale tra personaggi (anche quando sono interpretati da un solo attore) vengono rese scenicamente con l’uso contemporaneo del francese e dell’inglese. E anche laddove questo escamotage non viene restituito nella sua evidenza, sembra sempre che il riferimento sotterraneo sia alla questione québécoise mai irrisolta, talvolta suggerita con i caratteri della vecchia commedia, con gli stereotipi assegnati dalla tradizione ai due diversi gruppi linguistico-culturali dominanti del Québec.

In La face cachée de la lune (2001) due fratelli del Québec non riescono a comunicare da molto tempo a causa della diversità di vita e di scelte, ma la morte della madre li farà avvicinare; Romeo and Juliet rappresentato a Saskatoon (1989) venne reso con le due famiglie dei Capuleti e Montecchi che si contrastavano parlando rispettivamente gli uni l’inglese e gli altri il francese.

L’ultimo in ordine di tempo è lo spettacolo Jeux de cartes (2013). Nel secondo episodio, Cuori, della quadrilogia dedicata al gioco delle carte (e relative simbologie), il conflitto da cui si generano le storie – che spaziano, grazie a una straordinaria tecnica drammaturgica, dalla contemporaneità all’Algeria coloniale alla Francia di fino Ottocento- è ambientata proprio in Québec: una giovane ricercatrice di Storia del cinema delle origini, conosce casualmente, nella multietnica Montréal, un taxista marocchino e se ne innamorerà. Lo scontro di natura religiosa e culturale tra la famiglia musulmana di lui e la tipica famiglia del Québec di lei, con il padre inglese e la madre francese, dà vita a una serie di sequenze esilaranti in cui possiamo identificare ben definiti gruppi sociali e mentalità tipiche: perbenismo, concretezza pratica, riservatezza, autocontrollo e puro aplomb inglese del padre, e frivolezza e protezionismo per la madre francese. Entrambi condividono una visione un po’ razzista della società –nonostante il pluralismo culturale sia considerato una conquista precoce della società canadese- e non accettano la nuova religione della figlia. Infatti la ragazza deciderà di sposare l’Islam e indossare il velo, lo hijab.

Da questo quadro familiare non confortante e non edificante, ambientato in Québec, dietro cui possiamo riconoscere altri e ben più belligeranti scontri, si torna all’indietro –senza soluzione di continuità e mantenendo una struttura narrativa “parallela”- in Algeria, dove il giovane marocchino sbarca a seguito della morte del padre, per rintracciare le proprie origini familiari e trovare le memorie del nonno; qui scopre che le sue radici non sono affatto marocchine, ma algerine da alcune fotografie dalle quali constata anche che il nonno era uno dei capi partigiani della guerra per la decolonizzazione e l’indipendenza dell’Algeria, un membro del Fronte di Liberazione Nazionale. Uscito dalla clandestinità il FLN darà inizio alla rivolta, diventata poi guerra di massa dopo le rappresaglie delle truppe francesi contro la popolazione civile (battaglia di Algeri, 1957). E’ un omaggio di Lepage all’Algeria proprio nell’anno delle celebrazioni dei 50 anni di indipendenza: infatti proprio il 15 settembre del 1963 nasceva la Repubblica democratica e popolare d’Algeria con una Costituzione che apriva le porte a un regime presidenzialista e monopartitico con a capo Ben Bella. La trama, ben ricamata e ricca di annodamenti imprevisti, è punteggiata da molti personaggi tra passato e presente e si estende in un cinquantennio abbracciando America e Africa sotto il minimo comune denominatore del viaggio verso la libertà; una fabula che lascia sempre più il posto a un intreccio libero di muoversi avanti e indietro nel tempo, senza coerenza, seguendo piuttosto una logica cinematografica. Così si passa dal Québec di oggi, dove convivono vecchie lacerazioni e nuovi separatismi, all’Algeria di ieri, quella del colonialismo e della guerra di indipendenza. In mezzo alla grande Storia le memorie di resistenti, quei partigiani che hanno combattuto valorosamente o coloro che hanno vissuto clandestinamente o attraversato illegalmente i confini e sono arrivati sino in Québec, nascondendo la loro vera identità persino a figli e nipoti. Memorie di torture, quelle stesse raccontate nel terribile libro di Henri Alleg, direttore della rivista d’opposizione “Alger républicain”, perseguitato e imprigionato dai francesi. L’elettricità che darà vita alla modernità (rappresentata in scena dalla nascita del cinema) è la stessa usata dagli aguzzini contro i corpi dei prigionieri algerini. Incroci e destini di uomini, incroci e destini di macchine. L’Algeria colonizzata dalla Francia è oggetto poi, di un curioso excursus drammaturgico in cui alcuni artisti legati alle sperimentazioni tecniche (il fotografo Félix Nadar, il regista Georges Méliès) si intrecciano con le loro storie come in un ingranaggio di orologio, auspice la figura dell’illusionista Jean Eugène Robert- Houdin (che ispirò il grande Houdini), primo ad usare per le sue magie l’elettricità. In un possibile universo parallelo incontriamo, nello spazio del palcoscenico girevole, molti personaggi che, sotto il segno della Storia, vanno alla ricerca di una propria identità, di una memoria, in un cammino non facile verso la verità, per dare concretezza e solidità alle proprie vite.

Robert Lepage, The Buskers Opera
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Un (video)teatro in fuga dalla cornice…
Pubblicato su Exibart
The Busker’s opera liberamente tratto da L’opera da tre soldi di Brecht, mette in campo l’abilità di “gioco” del geniale e poliedrico Robert Lepage che usa Brecht per ironizzare (e accusare) i mass media e immaginario collegato, usando con grande disinvoltura le tecnologie video della diretta e permettendosi anche un formidabile corto circuito tra musica e spettacolo teatrale vero e proprio.
Brecht aveva concepito L’opera da tre soldi con “ballate da leggere e da cantare” e Lepage celebra a suo modo l’attualità del drammaturgo regista tedesco e del suo dramma di un mondo votato alla perdizione, in cui ladri e sfruttatori sono vittime dello stesso sistema e dove si dimostra il fondamentale assunto politico secondo cui i metodi della malavita e quelli dei gentiluomini si equivalgono.
Lepage usa un grande schermo al plasma telecomandato in grado di muoversi su guide per tutta la profondità e in tutta l’altezza del palco, libero da supporti a terra. Lo schermo nasconde al suo interno una telecamera, e il dispositivo complessivo (occhio che riprende, schermo che diffonde) diventa ironico correlativo oggettivo di stati d’animo; il dispositivo video sorveglia e insegue i personaggi che all’istante vengono televisivizzati, incorniciati, diventando personaggi di una reality tv, ospiti di un talk show, attori di una soap, protagonisti luccicanti di un video clip.
Dà l’avvio alla storia il giovane artista di strada, percussionista di piatti, legnetti, bicchieri e latte di benzina, impegnato in un concerto povero quanto straordinario per raccogliere i soldi per la sopravvivenza quotidiana. La storia tra la giovane e virtuosa Polly (che si esercita allo scratching disco) e il bandito Macheath (un cantante alla Beach Boys) nel mascheramento spettacolare, diventa una fiction dalle tinte forti, mentre il signore e la signora Peachum sono l’uno il cantante easy listening e l’altra una specie di Ivana Trump che si esprime con vocalizzi alla Callas.
Tutta la trama dell’opera è spostata sui nuovi luoghi di potere a cui l’arte si svende (l’industria musicale e i media, e tra tutti il tubo catodico) per necessità o per sete di successo. Un solo elemento scenografico caratterizza lo spettacolo, una cabina telefonica che aprendosi, srotolandosi, può diventare qualunque luogo, da un interno domestico, a locale a luci rosse, alla galera. L’orchestra è ben visibile e ampio spazio è lasciato ai “solo” dei musicisti-attori che incarnano le diverse personalità dell’opera brechtiana rivisitati e interpretati alla luce dei “generi” musicali che incarnano al meglio la loro personalità: jazz, rock, ska, disco, melodico, rap, classica.
Il messaggio è chiaro: quando l’arte viene inglobata cannibalicamente dentro la cornice, insomma nel triturarifiuti dello show business, non c’è più scampo, tutto diventa commestibile. Unica salvezza per la libertà creativa dell’artista, l’uscita dalla finzione spettacolar-televisiva che fa ritornare i protagonisti sulla strada. Come buskers.
Gallery:  Trailervideo
bio
Robert Lepage (Quebec City, 1957) è attore e regista teatrale, cinematografico e d’opera. La sua biografia è costellata di una serie di successi internazionali Vinci, Geometry of miracle, The seven streams of the river Ota, The Needle and the Opium, La face cachée de la lune con musiche originali di Laurie Anderson e Apasionada. Strabilianti le macchine sceniche dei suoi spettacoli che prevedono l’uso del video, ideate dallo stage designer Carl Fillion. Ha fondato Ex machina, struttura teatrale e multimediale che ha sede a Québec e In extremis images, società di produzione cinematografica.