L’importanza di essere interattivi. Le nuove tecnologie e lo spettacolo dal vivo. Testo di Mark Coniglio, traduzione Anna Monteverdi
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L’importanza di essere interattivi. Le nuove tecnologie e lo spettacolo dal vivo
di Mark Coniglio (traduzione di Anna Maria Monteverdi)

Originariamente su digicult.it 

Io e la mia collaboratrice Dawn Stoppiello abbiamo fondato il gruppo di danza Troika Ranch Company nel 1994; il nostro scopo era quello di creare opere d’arte dinamiche, mutevoli e che fondessero elementi tradizionali della danza, della musica e del teatro con i media digitali interattivi. Eravamo convinti che collegando direttamente le azioni del performer al suono e alle immagini, saremmo approdati a nuove modalità di creazione artistica e performativa, ed infine anche a una nuova forma d’arte dal vivo. Mentre non possiamo ancora affermare di aver raggiunto questo ultimo obiettivo, piuttosto ambizioso, abbiamo focalizzato la nostra attenzione sulla performance interattiva e sulla sua importanza sia per il performer sia per il pubblico. L’obiettivo del nostro testo è presentare questo punto di vista, ma prima di proseguire penso che valga la pena di rispondere a una semplice domanda: pria di tutto, perché un artista dovrebbe desiderare di creare opere d’arte come queste?

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Live media/Dead media
La risposta pate da un dispositivo che ho creato nel 1989 denominato MidiDancer, un sistema sensoristico che utilizza sensori di flessione senza fili per segnalare la posizione delle giunture del ballerino a un computer. Il software interpreta così le informazioni del movimento, che possono a loro volta manipolare i media digitali in numerosi modi:
1.facendo partire il nastro registrato delle note o delle frasi musicali;
2. manipolando le immagini video live o preregistrate;
3. controllando le luci di scena.
Queste sono appena tre delle possibilità del Midi Dancer.
Ma MidiDancer non era tanto una risposta alla domanda posta all’inizio. La tecnologia dei pc di quel tempo ci aveva permesso di utilizzare il movimento del danzatore per generare un accompagnamento musicale. In altre parole, lo abbiamo fatto perché era diventato possibile farlo. Non avevamo però ancora un’idea chiara sul perché fosse essenziale per l’espressione estetica.
Una chiara risposta alla domanda del “perché” mi si presnetò solo nel 1996.
A quell’epoca Dawn e io avevamo ottenuto una residenza a STEIM (STudio for Electronic Instrumental Music) ad Amsterdam. Durante i primi tre giorni di quella residenza quattro persone a turno, passandomi vicino mi chiesero: “Jorgen non ti ha ancora portato nella sua stanza ?”
Jorgen, la cui la specialità era la creazione elettronica, era uno dei tanti ingegneri di talento che a STEIM aiutava gli artisti in residenza a realizzare i loro progetti. Incuriosito, lo cercai e gli chiesi piuttosto intimidito: “Jorgen, posso vedere la tua stanza?”
Dopo un cenno affemativo del capo mi condusse su per quattro rampe di scale molto ripide e strette fino alla soffitta dell’edificio. Di fronte a noi una sola porta bianca, che Jorgen aprì con un certo fare cerimonioso. All’interno, la più elaborata e completa collezione di sintetizzatori analogici degli anni Sessanta e Settanta che io avessi mai visto, raccolta in uno stesso luogo!
Dopo avermi mostrato tutto lo spazio, iniziò a farmi sentire parecchi esempi della sua musica usando un solo sequencer analogico per controllare ogni strumento nella stanza. Eravamo nel 1996, e poiché mi ero personalmente saldamente radicato nell’idea di utilizzare la tecnologia digitale, mi venne da chiedergli: “n questa stanza c’è qualche cosa di digitale?”
Mi fulminò con uno sguardo e rispose “Oh, nooo.”
Quando gli chiesi: “Perché no?” mi rispose piuttosto seriamente: “Perché è sempre lo stesso”.
In quel momento mi sono reso conto che ciò che amavo dei mezzi digitali era esattamente ciò che lo rendeva inappropriato per un uso della performance live: cioè era davvero sempre lo stesso.
I media digitali sono straordinari perché possono essere duplicati all’infinito e/o essere presentati senza timore del più piccolo cambiamento o degrado. Ma è proprio questa specifica qualità (l’”immortalità” dei media) a essere antitetica con la natura fluida, sempre mutevole della performance dal vivo. Ogni volta che si rappresenta una performance, ogni ordine di fattori può cambiare significativamente come è realizzata in quel momento – forse la cosa più significativa che cambia è la relazione (“interplay”) tra la capacità e il temperamento dei performer e l’attitudine e impegno del pubblico. Il fallimento dei media digitali registrati è che riduce questa fondamentale fluidità, impedendo agli esecutori di cambiare le caratteristiche del materiale volta per volta.

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Organico>elettronico
Sono stato spesso testimone della tensione tra mezzi registrati e live performance quando frequentavo una piccola realtà di danza moderna alternativa a New York City. E’ quasi un dato acquisito che in queste situazioni i danzatori lavorino con musica pre-registrata su cd. Ogni sera questi esecutori hanno la potenzialità di conferire alle performance di una vita, data la giusta combinazione di abilità, una comprensione del loro strumento (cioè il loro corpo) rispetto al materiale che devono rappresentare, e una consapevolezza del nebuloso (ma reale, come sa ogni esecutore) ciclo di retroazione (loop) tra performer e pubblico. Ma quando i performer tentano di sottolinare un gesto o una frase in risposta ai rapporti sopra accennati, un compagno inesorabile e inconsapevole – la musica registrata digitalmente – li contrasta. In questa maniera non possono davvero ottenere un equilibrio spettacolare perché nel cercarlo la musica correrebbe davanti a loro e se loro tentassero di raggiungerla, la frase di danza successiva ne subirebbe le conseguenze.
Così, la risposta alla mia propria domanda è: io fornisco il controllo interattivo all’esecutore in modo da imporre il caos dell’organico sulla natura fissa dell’elettronica, assicurando però che i materiali digitali rimangano sempre fluidi e vivi come gli stessi performer.
Ci sono due implicazioni che derivano da questo approccio:
1. Dobbiamo fornire ai performer la giusta “latitudine” (le coordinate, ndt) per improvvisare se vogliono avvantaggiarsi da tale interattività;
2. Il pubblico deve avere una certa comprensione dell’interazione per completare fino in fondo il ciclo di retroazione tra loro e il performer

Desidero esaminare questi punti in dettaglio, usando i modelli musicali di performance che sono resi più espressivi dall’interazione in tempo reale. Per quanto riguarda il controllo interattivo e l’importanza dell’improvvisazione, consideriamo l’esempio dell’orchestra classica. La musica suonata dall’orchestra (i “media”) è stata scritta molto tempo prima della performance. Eppure facendo affidamento sulla stessa abilità, consapevolezza e risposta dal pubblico citati sopra, è il direttore d’orchestra che determinerà i tempi della musica e le dinamiche da momento a momento, e la sua realizzazione finale. (Questo modello sembra particolarmente adatto alle prestazioni interattive di danza, poiché entrambi contano sul gesto come mezzo di controllo interattivo.) Il direttore di un’orchestra classica non riformula la musica in modo così radicale da alterare la natura dell’opera, anche se ciò sarebbe certamente possibile. E poiché il direttore a un qualche livello improvvisa, è possibile che tale riformulazione possa anche accadere qualche volta.
Si potrebbe affermare che potendo cambiare soltanto due parametri (ripetiamo: tempo e dinamica) il direttore non può cambiare in maniera sostanziale un’opera musicale.
Ebbene, mi è stato dimostrato proprio il contrario nel corso di un’esercitazione di cui sono stato testimone come allievo. Il mio insegnante Morton Subotnick aveva dato a una dozzina circa di compositori nel mio corso le prime due pagine della Sonata n. 1 per piano di Pierre Boulez con le seguenti istruzioni: dovevamo cambiare a piacimento le dinamiche e le trasposizioni in ottave delle note, ma non potevano alterare nessun altro parametro. La settimana successiva ciascuna delle nostre versioni rimaneggiate veniva eseguita, ma senza identificare chi aveva svolto il compito. Con mio grande stupore trovai che potevo riconoscere gli autori delle diverse versioni della composizione perché ero intimamente vicino allo stile dei miei colleghi. Anche lasciando aperti alla possibilità di cambiamento solo due parametri, i risultati erano assolutamente personali. Allora ne consegue che un esecutore interattivo esperto potrebbe ugualmente imporre la propra personale interpretazione su materiali digitali composti in precedenza sotto il suo controllo – anche se il numero di parametri che possono essere cambiati è limitato. Questa consapevolezza si è trasformata in una strategia interna nel mio approccio a creare arte interattiva live.
Vale la pena di notare che, se nell’esercizio potevamo maneggiare soltanto due parametri, potevamo comunque farlo senza alcuna limitazione. Per applicarlo all’interazione live, questo ci dice che mentre il numero di parametri che un performer può manipolare può essere limitato, la gamma di quelle manipolazioni deve però essere abbastanza ampia da permettere al performer di “piazzare” il suo personale marchio interpretativo sul materiale.
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Improvvisazione essenziale
Un altro modello musicale da considerare è il jazz, per le sue implicazioni sull’improvvisazione e sulla comprensione del pubblico rispetto al processo improvvisativo. Prendiamo lo specifico esempio di un pianista di jazz. Può sembrare ovvio ma grazie all’esperienza storica o a quella personale sappiamo che quando si appoggia un dito sul tasto, il tasto si abbassa e viene prodotta una nota musicale. Questo presupposto ci permette di sapere che il pianista sta suonando il suo strumento e noi lo osserviamo suonare (in effetti scoppiò un certo scandalo quando il pubblico scoprì che questo rapporto era finto: vedi l’esempio di Milli Vanilli negli anni Novanta). Se conosciamo la forma del jazz, giungiamo alla comprensione e all’aspettativa che la musica verrà creata al momento della performance. Così proviamo una certa emozione quando osserviamo un performer organizzare istantaneamente e suonare con abilità i propri materiali sotto i nostri occhi. La natura real time della creazione musicale è così integra che è parte integrante del suo significato. Non comprendere questo significa non essere in grado di apprezzare completamente la forma artistica.
Una simile considerazione potrebbe essere valida anche per le performance interattive ma di fatto subentrano vari ostacoli.
Quando presentiamo questi lavori non possiamo a priori confidare nella stessa aspettativa e nella comprensione per la performance che ha un pubblico jazz. Infatti:
1. il pubblico può non essere consapevole del fatto che sta accadendo un qualche livello di improvvisazione;
2. perché il pubblico non ha una comprensione a priori degli strumenti con cui il performer controlla quella manipolazione.

Ho preso in considerazione questi due punti in riferimento ai lavori di teatrodanza della mia compagnia Troika. I lavori vengono spesso presentati su un palcoscenico che storicamente ospita lavori che sono composti in precedenza. Così mentre diamo ampio spazio alla latitudine improvvisativa dei perfomer, il pubblico generalmente pensa che quello che sta vedendo non è affatto improvvisato, a causa del luogo in cui avviene la performance.
Questo problema di percezione aumenta con la scarsa conoscenza degli strumenti usati per manipolare i media. I nostri danzatori usano sensori wireless posizionati sui loro corpi, e questo permette loro di manipolare in tempo reale i media digitali Questi strumenti interattivi sono piuttosto simili alla loro controparte musicale: infatti traducono i gesti in altre forme. Dunque si potrebbe dedurre che il pubblico può comprendere facilmente la loro funzione. Ma questi strumenti interattivi sono nuovi, unici e non familiari, il pubblico non ne ha un’esperienza storica o personale. Così in pratica è piuttosto difficile per il pubblico percepire che una performance dei Troika Ranch è molto simile a una di quelle performance jazz descritta sopra.
Ache se con questo non voglio affermare che un lavoro interattivo non possa essere apprezzato per il suo valore esteriore.

Nel nostro esempio del pianista jazz, persino quelli che non comprendono il funzionamento interno di un pianoforte, o che non si rendono conto che il performer stia improvvisando, possono pur sempre apprezzare il risultato – la musica. Così dovrebbe essere per la performance interattiva. Ma una comprensione da parte del pubblico del fatto che il performer ha una padronanza virtuosistica del proprio strumento e che sta creando qualcosa nel momento stesso della performance aggiunge ancora un altro livello di liveness all’esperienza del pubblico: questo, secondo me, è un motivo chiave per aggiungere l’interattività al mix degli altri elementi.


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Un incremento fondamentale

Voglio anche introdurre un’affermazione di una qualche utilità fatta da un mio collega. Vale a dire, l’uso da parte mia dei modelli musicali sopra descritti sarebbe reazionario perché impone un tipo di visione a tunnel, inibendo lo sviluppo di nuove grammatiche/strategie per la creazione e la realizzazione di nuove performance. Dal mio punto di vista, questo discorso non funziona perché presuppone che l’uso delle tecnologie sensoristiche e dei media digitali costituisca una svolta radicale nella natura della performance in sé. La questione va oltre gli obiettivi di questo saggio, ma voglio prendere in considerazione quella ce possiamo considerare un’innovazione tecnologica rivoluzionaria: la fotografia. La capacità di catturare all’istante e riprodurre un’immagine ha cambiato l’esperienza pubblica del mondo quasi dal giorno alla notte.

Prendiamo come esempio le prime orribili immagini dei soldati sparsi sopra il campo di battaglia durante la guerra civile degli Stati Uniti. Queste fotografie ampiamente difuse e pubblicate hanno portato a chi le guardava un’esperienza della guerra immediata e fino a quel momento inconcepibile, e ha formato un’opinione pubblica su quella guerra. Se l’integrazione della tecnologia più innovativa nel teatro fosse altrettanto radicale, il suo impatto non sarebbe altrettanto immediato e incontenibile come quello della fotografia?
Nella nostra epoca, abbiamo la vaga sensazione che qualunque tecnologia nuova e non sufficientemente familiare porterà alterazioni radicali del tessuto della società. Questo luogo comune si basa in gran parte sulle innovazioni tecnologiche trasformative della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo. E’ anche frutto delle tesi assai discutibili di un marketing che ha raggiunto il suo apice al culmine del boom di Internet.
E nel campo delle tecnologie della performace live, gli artisti hanno spesso rivendicato il potenziale delle nuove forme rivoluzionarie (devo dichiararmi colpevole, ma l’ho fatto solo durante i primi tempi del MidiDancer – non che all’epoca non lo credessi possibile). E tuttavia ritengo che le innovazioni portate dai nuovi media e dalla tecnologia sensoriale nelle performance siano più incrementali che fondamentali.
Un programma come Photoshop fornisce un esempio utile. La sua metafora centrale, quella della pittura su tela, è radicata in una tradizione che tutti comprendono. La capacità di conservare le versioni multiple, la nozione di “undo” e l’introduzione dei processi algoritmici che possono essere applicati all’immagine (cioè i filtri) cambia il processo di lavoro in modo significativo. Ma, mentre possiamo essere d’accordo sul fatto che artisti esperti hanno utilizzato questo attrezzo per fare immagini interessanti, sorprendenti o belle, la natura dell’immagine in sé non è cambiata. E’ moto diverso da uello che è accaduto con la fotografia, che ha rappresentato il mondo con un senso della realtà (che implica sia verità che obiettività) che non era mai stato sperimentato prima: la fotografia ha ridefinito l’immagine.
Ora, il mio collega potrebbe ragionevolmente sostenere che la ragione per cui Photoshop non ha ridefinito l’immagine era perché la sua metafora era basata sui modelli pre-esistenti di creazione delle immagini. Risponderei affermando che non era possibile andare oltre i modelli esistenti perché Photoshop semplicemente non ha alterato l’essenza della nozione di immagine.
L’impatto della nuova tecnologia e dell’interattività sulle performance live è molto più simile a quello di Photoshop che alla fotografia. Dunque mi sembra che applicare modelli esistenti alle performance aumentate tecnologicamente sia valido e utile;e analogamente penso che l’uso dell’interattività nelle performance live sia essenziale.
Le performance live sono forse la più inefficiente forma di arte contemporanea, perché con loro non puoi fare quello che puoi fare con altre opere d’arte digitali: duplicarle e distribuirle senza grosse spese a un ampio pubblico. Ma è proprio questa qualità ineffabile del “liveness” che mi spinge a creare e frequentare le performance. Usando nuova tecnologia per far sì che che i nostri esecutori diventino creatori in tempo reale e chiedendo al pubblico di essere presente alla loro arte volatile, noi ci assicuramo che ciascuna performance sia assolutamente irripetibile. E questa potrebbe essere la più coraggiosa mossa in assoluto.