Robert Lepage alla ricerca della Lanterna magica
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Robert Lepage ci riprova con la scrittura collettiva. Dopo l’esperienza folgorante di Théâtre Répere degli anni Ottanta (La trilogie des dragons) e dei primi spettacoli anni Novanta firmati Ex machina (Le sept branches de la riviére Ota) in cui la drammaturgia era creata da un laboratorio di giovani attori-creatori di cui faceva parte anche la talentuosa Marie Brassard, Lepage oggi ritenta il lavoro di gruppo con Jeux de Cartes. Si tratta di una quadrilogia ispirata ai semi delle carte –e relative simbologie- e ai tarocchi, al cui studio Lepage si è dedicato con tanto di consulenza di Jodorowsky; il secondo episodio legato al seme di Cuori ha avuto il debutto mondiale in Europa, a Essen precisamente nelle aree ex industriali del distretto carbonifero di Zollverein in Renania all’interno del Festival diretto da Heiner Goebbels.

E’ uno degli spazi artistici non teatrali che avevano aderito al progetto 360° creato intorno a Jeux de cartes che, prevedendo una scenografia molto speciale e anomala, a pianta centrale, intende privilegiare spazi non tradizionali. Il primo episodio della quadrilogia, Pique era stato ospitato in un circo a Chalons en Champagne e a Londra in un ex gasometro. Ma se in Pique la scrittura a più mani aveva lasciato insoddisfatta la critica, non sempre generosa con Lepage, qua l’operazione trova una sua convincente ed efficace soluzione drammaturgica. Nell’incontro al Museo di Essen in occasione del debutto, Lepage ha parlato del difficile processo creativo che porta, dopo lunghe sedute di idee esposte collettivamente, da un canovaccio improvvisato alla formazione di un’idea teatrale convincente. La metafora del regista-vigile è quella preferita da Lepage, il quale rinuncia a ogni ruolo centrale e imperativo rispetto alla materia per preferire la strada più accidentata della creazione a più voci in cui lui cerca di “dirigere il traffico delle idee che passano”. In questo lavoro –che più del precedente rivela il suo debito con l’altro capolavoro assoluto a firma collettiva (Le sept branches de la riviére Ota)– gli elementi di base e probabilmente alcuni dei personaggi, erano stati già forniti da Lepage; la soluzione, come si vedrà, dell’intrusione di figure storiche note, legate alla tecnica, collegate a vicende attuali, ricorda il procedimento usato per Vinci (uno dei primissimi lavori) e per il “solo show” Andersen project.

L’ingranaggio della scrittura, con i destini dei suoi personaggi che si incrociano al momento opportuno, come i meccanismi di un vecchio orologio –che non a caso, è perfettamente riprodotto col suo quadrante nella verticale della scena- funziona straordinariamente bene. In questo nuovo lavoro ritroviamo il Lepage degli anni d’oro, come avrebbe detto Franco Quadri. Rintracciamo la forza dirompente delle sue storie nella trama ben ricamata e ricca di annodamenti imprevisti, punteggiata da molti personaggi tra passato e presente e che si estende in un cinquantennio abbracciando America, Europa e Africa; una fabula che lascia sempre più il posto a un intreccio libero di viaggiare avanti e indietro nel tempo, senza coerenza, seguendo piuttosto una logica cinematografica. Così si passa dal Québec di oggi, dove convivono vecchie lacerazioni e nuovi separatismi, all’Algeria di ieri, quella della guerra di indipendenza dove un Fronte di Liberazione Nazionale combatte contro la Francia e gli ultimi retaggi del colonialismo.

In mezzo alla grande Storia le memorie di resistenti, quei partigiani che hanno combattuto valorosamente o coloro che hanno vissuto clandestinamente o attraversato illegalmente i confini e sono arrivati sino in Québec, nascondendo la loro vera identità persino a figli e nipoti. Memorie di torture, quelle stesse raccontate nel terribile libro di Henri Alleg, direttore della rivista d’opposizione “Alger républicain”, perseguitato e imprigionato dai francesi. La storia nella finzione teatrale va all’indietro, come un flashback filmico, ma senza regole, in una continua persistenza della memoria che sembra segnare profondamente le vite degli uomini di oggi. In questo sguardo à rebours si incontrano sulla scena: il pioniere della fotografia Nadar nel suo viaggio ad Algeri mentre immortala il giovinetto seduto sulla banchina del porto e mentre vola con palloni aerostatici, l’illusionista e prestigiatore francese Robert-Houdin, e il “cinematografista” George Meliès anche lui specialista di illusioni magiche e di visioni ineffabili.

L’elettricità che darà vita alla modernità è la stessa usata dagli aguzzini contro i corpi dei prigionieri algerini. Incroci e destini di uomini, incroci e destini di macchine. La scatola dove spariscono per poi ricomparire subito, le giovani fanciulle in un pezzo di teatro leggero a Parigi, diventa un attimo dopo il pozzo dove gli uomini scompaiono, ma per sempre, per colpa della guerra e della vendetta. Tutto parte da un algerino di oggi in Québec, che al momento della morte del padre, vuole conoscere la sua storia, ripercorrendo le tracce del nonno, partigiano del FLN; un percorso che non sarà felice ma portatore di sventura poiché la memoria degli antichi odi è ancora viva. Le passioni e le fedeltà, come per i tarocchi rovesciati, possono rivoltarsi nel loro segno opposto e cambiare destini. La fidanzata, ricercatrice all’Università specializzata nel cinema delle origini, lo aspetterà invano, confortata dall’anziana madre di lui ma rifiutata dalla famiglia dopo aver sposato la religione musulmana. In questa storia, continuamente spezzata nella sua linearità di récit, si incastrano sia le vicende e le esibizioni di Robert-Houdin e il suo curioso approdo in Algeria, invitato da Napoleone III per mostrare le superiori abilità magiche alla popolazione locale ribelle, sia i famosi film di Méliès con le sparizioni “meccaniche” fatte con la tecnica della sospensione della ripresa, come la famosa “Escamotage d’une dame”. Méliès acquistò dalla vedova il Teatro di Robert-Houdin che ancor oggi esiste a Parigi di fronte al Castello di Blois e si specializzò in trucchi teatrali e cominciò a usare la lanterna magica e altri congegni di “ottica fantastica”.

Il teatro di Lepage trabocca di congegni antichi, ed è una scatola di invenzioni e attrazioni a disposizione di una storia. Così riviviamo dal vero il trucco della scatola magica di Houdin, con l’attrice che si colloca con bravura contorsionistica, dentro un angusto doppiofondo suscitando ancor oggi, vivo stupore nel pubblico che applaude sia il pezzo di magia che l’abilità dell’interprete teatrale. Come tipico della poetica del regista canadese, lo spettacolo si struttura sulla base di prestiti linguistici diversi, primo fra tutti il cinema. Se non facciamo fatica a individuare una vera e propria tecnica di montaggio nella strutturazione delle storie come vengono presentate ovvero, in una discontinuità di racconto, diventa quasi un’operazione filologica capire che il cambiamento di scena è assimilabile a una vera dissolvenza incrociata. Infatti talvolta i personaggi scompaiono ma gradualmente, rimanendo in scena anche in alcuni momenti delle azioni successive. La storia del cinema ci ricorda che questa tecnica di pre-montaggio fu usata per la prima volta proprio da Mèliés in Cendrillon (1899), una delle due versioni di Cenerentola. Si chiamavano vues fondantes, letteralmente vedute fuse.

Tutto avviene senza soluzione di continuità nello spazio di un palcoscenico girevole a pianta centrale con un sottopalco che contiene i meccanismi, gli elevatori, i trucchi del teatro e i manovratori della macchina, e la scena apparentemente spoglia che si trasforma continuamente grazie a botole che si aprono, tavoli che appaiono, veli che si alzano per proiettare paesaggi o dettagli di interni. Quello che Lepage crea per Jeux de cartes è un vero “teatro di magia”, tanto amato da Méliès e incarnato nella figura di Robert-Houdin e soprattutto dalla carta del “Mago” dei tarocchi, raffigurato tradizionalmente mentre solleva la sua bacchetta magica davanti al suo tavolo di lavoro. A questa carta degli Arcani maggiori è consacrato lo spettacolo.

Una straordinaria macchina-congegno mossa a mano che come sempre negli spettacoli di Lepage, è l’altro attore in scena. Un attore-automa. Gli interpreti nella loro doppia incarnazione di autori-attori ( Reda Guerinik, Ben Grant, Catherine Hughes, Marcello Magni, Olivier Normand, Louis Fortier, Nuria Garcia) e nelle loro molteplici maschere di personaggi, hanno dato vita a uno spettacolo che riesce a raccontare vicende drammatiche e appassionate insieme, lontane e vicine allo stesso tempo, come in un’unione degli opposti. Se, come ha ammesso lo stesso Lepage nell’incontro al Museo di Essen coordinato dal critico tedesco Renate Klett, la macchina al momento del debutto non era ancora perfettamente oliata, tutto fa pensare che la soluzione sia sul punto di essere trovata. Lepage ha sottolineato il piacere di aver ritrovato in questa modalità di scrittura collettiva, la forza e il valore di una ricerca che gli appartiene da sempre.

(crediti fotografici di Erick Labbé)

Visto al festival di Essen il 6 ottobre 2013