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IL newyorchese Caden Manson, leader del Big Art Group, è il creatore di House of no more.

Il precedente spettacolo del Big Art Group, Flicker, era una divertente e distruttiva parodia dei reality show televisivi, delle dirette sui luoghi della tragedia, delle cronache in tempo reale, che imperversano in ogni Tv: era costruito come un real time film, un film che mentre si realizza è già contemporaneamente in onda e in scena. Sopra un palco erano posizionate tre telecamere; le riprese realizzate nella parte superiore della scena (una sorta di upper stage) venivano mostrate in diretta su tre schermi posti perpendicolarmente in basso. Alle tre telecamere corrispondevano tre postazioni e 8 attori che gestivano a turno e “personalmente” il proprio “occhio digitale” e contemporaneamente incarnavano un personaggio della storia e prestavano braccia, testa e busto per l’inquadratura di un altro. Tre schermi contigui in pratica davano vita a un’unica immagine.

L’elemento sorprendente dello spettacolo era che pur con telecamere fisse, la macchina predisposta da Manson giocava abilmente a creare “artigianalmente”, mediante sagome e cartoncini, la sensazione di movimenti di ripresa, l’alternarsi di campi e controcampi, carrellate e primi piani. Il teatro svelava i trucchi del cinema e della televisione.

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Con il nuovo spettacolo House of no more, l’elegante e schivo Caden Manson prosegue nella sua ideale messa alla berlina della comunicazione mediatica. Ancora un real time film, il terzo della saga, che produce un effetto “allegramente sovversivo”. Un commento, questo del New York Post che in effetti sancisce quello che è la realtà di questo spettacolo, una, tutto sommato, bonaria e tiepida critica ai media.

Riassumendo: la trama è un evento di cronaca nera, vero o presunto, di una madre che cerca disperata la propria bambina scomparsa, probabilmente rapita. Forse è lei stessa la colpevole, in uno sconcertante sdoppiamento di personalità. Pare che questo fatto sia stato l’evento su cui Cnn e le altre sorelle mediatiche statunitensi, all’inizio della guerra in Iraq, abbiano cercato di spostare l’attenzione del pubblico televisivo americano, troppo sconvolto dalle immagini giornaliere dei bombardamenti nella regione mediorienale.

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Una specie di détournament abilmente orchestrato dai grandi media e su cui chissà cosa avrebbero potuto scrivere sociologi della comunicazione come John Berger, Régis Debray e Kevin Robins. Anzi, forse si potrebbe riprendere in mano il libro di quest’ultimo, Oltre l’immagine, in cui l’autore riflette sull’imperialismo dell’immagine, sulla proliferazione iperreale e sul trattamento delle imagini al tempo della Guerra del Golfo.

Esplicitando questo riferimento ai media al tempo della guerra, Caden Manson avrebbe forse potuto colpire più direttamente il bersaglio. In questo senso House of no more poteva essere la versione popolare e semplificata di alcuni dei concetti di Kevin Robins: all’interno infatti del capitolo Visioni di guerra, c’è un paragrafo intitolato Lo schermo infestato, in cui lo studioso analizza la stretta relazione tra un omicidio ad opera di un serial killer e la efferrata strategia della comunicazione e della “costruzione del mostro” all’epoca della guerra contro Saddam Hussein.

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Rimane, in House of no more, l’uso di una telecamera per ciascun attore che registra qualcosa che non avrà una corrispondenza sugli schermi, mostrando l’evidenza che le immagini trasmesse dalla televisione altro non sono che il risultato di una composizione-manipolazione della realtà. Rispetto a Flicker è stata aggiunta la tecnologia in green screen, che complica un po’ le cose ma che permette un’aggiunta di ambienti sempre diversi e soprattutto “real time” grazie al chromakey e a un banco di regia video digitale a vista che controlla le posizioni degli attori, li scompone e li scontorna in diretta.La realtà è spudoratamente sostituita da una finzione. In House of no more prevale l’aspetto della cronaca cruenta vissuta in diretta televisiva. Julia crede che la sua bambina sia stata rapita e uccisa ed un amico l’aiuta nella sua folle ricerca: ma è vero o è solo frutto di immaginazione o peggio del suo desiderio che la storia venga trasmessa in tv?

images (6)

In House of no more , nell’epoca dell’imperialismo dell’immagine, i personaggi brutalizzano ogni loro sentimento per darlo in pasto alla telecamera; le antenne tv per la protagonista sono l’unica ragione di vita. Vivere è amplificare: “Gente di questo mondo desolato, sono una celebrità! Ascoltatemi!” Una giovane storia quella del BAG, come ci racconta lo stesso Caden Manson da noi incontrato presso il Teatro La Fenice di Senigallia, “Ho fondato il Big Art Group nel 1999 perché volevo creare un linguaggio contemporaneo per la performance , per il teatro. Volevo incorporare l’uso delle immagini in movimento esattamente così come vengono fatte, mostrare come ci rappresentiamo attraverso di loro e come esse ci rappresentano. Ma non ho un background di teatro o cinema,  e nemmeno esperienze specifiche di multimedia . Uso il video perché voglio parlare un linguaggio che tutti parlano, noi tutti parliamo attraverso le immagini, le immagini parlano e le immagini non devono essere tradotte”. Su questo stesso tema Kevin Robins avverte però che “(…) non è che viviamo ora nel regno dell’immagine, piuttosto vi è ora, nella nostra cultura, una sorta di meccanismo collettivo, sociale, di separazione. L’iospettatore è disimpegnato moralmente, galleggiando in un oceano di immagini violente. L’io-attore è intrappolato in una realtà in cui la violenza è spesso moralmente schiacciante. ( Kevin Robins, Oltre l’immagine ). Un green screen , tre megaschermi, quattro videocamere, un banco di regia digitale in diretta è l’equipaggiamento scenografico e tecnico di House of No More .

La critica della società delle immagini avviene attraverso un procedimento davvero ben coreografato di azioni effettuate davanti all’occhio delle telecamere, con lo sfondo verde che serve per poter aggiungere in tempo reale, in video, sfondi e ambienti “posticci”. Dettagli di corpi ripresi in video vengono poi montati in diretta a formare un’unica immagine proiettata sugli schermi, come una sorta di meccano virtuale. I corpi si raddoppiano, si moltiplicano, si sostituiscono: “C’è il linguaggio della cinepresa che qui deforma la realtà sotto gli occhi del pubblico”, spiega Caden Manson stesso, “ci sono i personaggi non più uomini o donne ma cyborg , la frenesia moderna del telecomando, l’uso reiterato di immagini invalso dall’11 settembre in poi e spezzoni di film che si sono stampati nella nostra mente, ma c’è anche l’umorismo di una disperazione insostenibile, e la rabbia dell’essere presi in giro dalla violenza politica. Raffiguriamo atti polimorfi, multipli. La matrice è New York ma l’isteria è quella della vita che incombe su tutti. Non vogliamo avere il marchio di compagnia americana. Il nostro lavoro ha a che fare con Francis Bacon e con i culti del voyeurismo. Non escludiamo che, se visto in America, questo modo di fare teatro possa avere avuto valore politico; in fondo mettiamo in scena il pericolo di essere assuefatti allo sconvolgimento della verità, alla prepotenza della comunicazione”. La perizia registica sta nella calcolata simulazione visiva della profondità di campo, della alternanza di soggettive e oggettive, di campi lunghi e primi piani, pur rimanendo la scena sostanzialmente statica. Ciò che si vede negli schermi non sembra avere alcuna attinenza né coerenza con l’azione teatrale generatrice, ma se il pubblico guardasse solo l’aspetto teatrale non capirebbe assolutamente niente.

Così, se quello che si vede sugli schermi tende ad avere una qualche coerenza narrativa, quello che accade sul set teatrale è una sarabanda di frenetici cambi di costume e posizioni, raddoppiamenti continui di gesti e personaggi. Chi guarda solo quello che fanno gli attori in carne e ossa non capirebbe assolutamente nulla, perché il codice per interpretare il loro linguaggio è altrove (ovvero nelle regole cinematografiche che presiedono al montaggio del film proiettato sugli schermi). Rimane il gioco già perfettamente riuscito in Flicker, e ora portato al parossismo e all’esibizione virtuosistica, della “coreografata sincronia di movimenti degli attori”, intenti a cercare il punto in cui potranno diventare, grazie alla telecamera (ma solo nella composizione dell’immagine dentro lo schermo), da separati a uniti, da lontani vicini.

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Il gioco sta quindi nello scarto tra ciò che si vede (ciò che il pubblico teatrale vede) e la manipolazione video-televisiva. Tra continuità e discontinuità dell’immagine fuori schermo. Un modo divertente per ricordarci, se ancora ce ne fosse bisogno, che il vero più vero spacciato dalla televisione è frutto di una totale invenzione/deformazione della realtà. La telecamera non registra solamente ma riscrive, struttura. Nessuna immagine è quindi obiettiva; la televisione rende credibile la finzione.

Alla fine dello spettacolo appaiono un po’ di proclami sottotitolati che dovrebbero evidenziare il carattere politico dello spettacolo: Io sono l’informazione, Io sono i media.. Slogan che non sono affatto sufficienti a fare dell’operazione teatrale, formalmente straordinaria e di indubbio impatto visivo, una reale e seria critica ai media. Specie in epoca di guerra.


www.bigartgroup.com

Nuovi media nuovo teatro?
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Le definizioni, la mutazione, gli schermi

Pubblicato su “Il castello di Elsinore”

Definizioni 
Virtual (Reality) Theatre (o VT o VTheatre o VR performance), Digital Puppet Theatre, Virtual Puppetry, Interactive Theatre, Augmented Reality Theatre, Artificial Theatre, Enhanced Theatre, Expanded Performance, Cyborg Performance, Cyber Performance, Mobile Performance, Digital Performance, Computer Theatre, Mixed Reality Stage, Real Time Performance, Instant Digital Theatre, Live Online Performance, Net Drama, E-Theatre, Internet Theatre, Net Theatre, Chat Performance, Id Theatre, Webcam teatro, Hacker teatro, Web Streaming Performance, Web-based Drama, Digital Story Telling, Telematic Performance, Performance in Remote Connection, Networked Theatre, (Computer) Mediated Theatre, Intermediated Performance, Hyperdrama, Interactive Generative Stage, Multimedia Interactive Performance, Intelligent Stage, Activation Space, Multidisciplinary Media Performance, Trans-media Performance, Electronic Theatre, Live Cinema, Interfaced Theatre, Image-based Theatre, Synesthetic Theatre, Crossmedial Performance, Fractal Theatre, Machinic Performance, Recombinant Theatre, Chromakee Performance, Mocap Performance

Queste definizioni possono dare un’idea, oltre che della corsa ai neologismi nell’ambito dei nuovi media, del variegato panorama di proposte – almeno terminologiche – con cui il multimedia digitale off line e on line è sbarcato sulla scena.
Forse dovremmo aggiungere anche la riformulazione della “drammaturgia” che diventa iperdramma ovvero “una nuova scrittura ipertestuale che utilizza le nuove tecnologie audiovisive, digitali e interattive”(1); o, secondo Marcel.lí Antunez Rocasistematurgia, cioè

“una drammaturgia che ha bisogno dell’informatica, basata sul principio della gestione della complessità del computer. La sistematurgia è un processo interattivo che indaga attraverso nuovi prototipi, un arco di mediazione che include l’interfaccia, il calcolo e i nuovi mezzi di rappresentazione; sta al servizio di una narrazione, di un racconto, di un organismo teatrale ma lo fa in maniera interattiva usando uno strumento ipermediale.“(2) 

Originali anche le definizioni dei nuovi tecno-interpreti, reali o virtuali: mediattore, cybernarratore, synthetic actor, digital story teller, hyperactor (3), networked news teller (4).
Flavia Sparacino parla di “mediattori” per definire “gli agenti software digitali dotati di intelligenza percettiva e di abilità espressive e comunicative simili a quelle di un performer” (5); Lance Gharavi parla invece di “agente aggiunto” (e conia il termine di VED, Virtual Environment Driver) per definire colui che nelle sperimentazioni dell’Institute for Exploration of Virtual Reality (i.e.V.R., fondato con Mark Reaney e Ronald Willis) manipola in real time l’ambiente di realtà virtuale e guida a vista sul palco, la navigazione del pubblico attraverso i mondi virtuali (6). I cambi d’abito o di personaggio sono anch’essi virtuali (7). I costumi prendono infatti forme insolite: protesi esoscheletriche, servo-meccanismi pneumatici, potenziometri, appendici elettromagnetiche o sensori di posizionamento. Osserva il digital stage designer Paolo Atzori:

Computer indossabili contengono protesi percettive, microcamere, microfoni, sensori ecc, la sua posizione, i suoi movimenti e persino certe funzioni vitali vengono costantemente registrate, con reti di sensori e sistemi di motion tracking e video capture, in-put che vengono campionati, elaborati ed eventualmente trasferiti come informazioni per altri sistemi, come, per esempio, reti neurali con programmi per il riconoscimento gestuale.” (8) 

In Italia resistono ancora il termini generici come “teatro tecnologico” o “scena digitale”, ma le definizioni inglesi e angloamericane sottolineano più propriamente alcuni caratteri chiave, in uno scambio (che qualcuno ha definito “dialogo tra simili”) fattivo tra teatro e digitale: l’ibridazione, la sinestesia, la multidisciplinarietà, l’ipertestualità, l’interazione-reattività tra soggetto-ambiente-pubblico, la nuova percezione aumentata dai sistemi informatici immersivi, la dislocazione spazio-temporale dell’evento, la connessione tra reale e virtuale, oltre alla specificità delle tecnologie e dei sistemi (ambienti interattivi, realtà artificiale, sistemi di captazione del movimento) e delle modalità di comunicazione e “trasmissione” usati (via modem, via streaming audio/video o via mobile). Ma soprattutto focalizzano il carattere “attimale”, istantaneo del digitale: il “qui e ora” della comunicazione teatrale diventa nella sua versione tecnologica il real time on site, on line, on air oltre che on stage, naturalmente.
In questo elenco c’è un elemento innegabile: l’impossibilità a classificare in una sola definizione onnicomprensiva una pratica, una tipologia d’arte in costante evoluzione e che a causa (o in virtù) della sempre maggiore sua tendenza alla transdisciplinarietà(9), sembra sfuggire a ogni tentativo di categorizzazione. Le opere d’arte digitali (media arts), come è stato rilevato da più parti (10), si rivelano infatti in una forma mutante e combinatoria: “ibridi, eterocliti, stratificati, multi-supporto” (11). Sollecitano esperienze plurisensoriali attraverso interfacce che richiedono una partecipazione fisica, intellettiva ed emotiva integrale, anche a distanza (12).
Il teatro interlacciato con il digitale va a delineare un vero e proprio “ecosistema” (13) fatto di simbiosi-innesti-migrazioni tra linguaggi e codici. Insomma, si inaugurano “un nuovo tipo di spettacolo, di percezione e di partecipazione” (B. Picon-Vallin) e un nuovo spazio di rappresentazione, inteso come “ambiente non più luogo neutro contenitore di eventi, ma spazio sensibile, estensibile, modellante e modulabile” (14).

Spesso però una modalità non ne esclude un’altra: progetti concepiti per sofisticati sistemi di realtà virtuale in scena possono prevedere contestualmente anche modalità più tradizionali; o reincarnarsi in forma di installazioni o di operazioni intermediali; o approdare in rete e collocarsi così potenzialmente dappertutto, in un “crossing” tecnologico che sviluppa modaliltà di attraversamento e di integrazione sempre più complesse e interminabili. Le cross-ibridazioni (15) o le commutazioni (Couchot) tra sistemi, scritture, dispositivi di visione e di ascolto, complice il comune codice digitale, sono infatti potenzialmente infinite. Come ricorda Andrea Balzola,

Il testo, o meglio l’ipertesto drammaturgico, il progetto scenico, la partitura sonora-musicale, l’installazione, il video, il software, lo spettacolo, non appartengono più a generi diversi ma divengono fasi di un processo aperto, tassello di un mosaico spaziale e temporale mutante, flessibile e comunicativamente forte”. (16)

Quello che ci interessa verificare è se i nuovi media stanno effettivamente cambiando anche il teatro, quali sono le nuove forme espressive di scrittura scenica, ovvero – per prendere spunto dall’interrogativo di Manovich: “Come possono le nostre nuove capacità – archiviare masse di dati, classificarli, indicizzarli, collegarli, ricercarli automaticamente e recuperarli istantaneamente – realizzare nuove tipologie di narrazione?” (17)

Nel cyber teatro il racconto diventa una tecnonarrazione (Giacomo Verde). I materiali vengono traslocati da un linguaggio a un altro (Peter Sellars, Motus, Xlab). E’ un teatro digitale che espande il concetto di presenza alle nuove possibilità di performance globale telematica e di teleazione a distanza (Electronic Disturbance Theater; Fake), che crea un dialogo interattivo e interdipendente tra attore, spettatore e immagine attraverso dispositivi multivisione e protesi esoscheletriche (Fortebraccio Teatro, Marcel.lí Antunez, Reaney-Gharavi). Sostituisce l’attore con una presenza virtuale ma non dimentica la tradizione e l’artigianalità delle macchine antiche (Lepage e Kentridge). Innesca virus nel corpo sociale in una prospettiva politica e interventista del teatro (Critical Art Ensemble). Infine, auspica una prossimità e un’interazione con lo spazio scenico inglobando il pubblico in un environment immersivo (Dumb Type; Granular Synthesis), sollecitando memorie e percezioni multisensoriali collettive (Studio Azzurro; Giardini Pensili) e percorsi narrativi non lineari, labirintici e rizomatici (Zonegemma, TPO), trasformando l’opera in un’esperienza relazionale e socializzante vissuta all’interno di un sistema aperto (l’hacker theatre di Giacomo Verde e Jaromil).

In questa prospettiva il palcoscenico è solo uno dei possibili teatri dell’azione performativa, che può estendersi (spazialmente e temporalmente) in più ambienti interconnessi: le piattaforme multitasking dove diverse applicazioni possono operare contemporaneamente, le community web, le mailing list e i diversi network telematici (wireless, telefonia, instant messagging), in una strategia di territorializzazione multipla che non ha precedenti.

MUTAZIONE, VARIABILITA’ E TEMPO REALE 

Per Lev Manovich la variabilità (conseguenza della rappresentazione digitale e della organizzazione modulare delle informazioni) è il principio base, la “condizione essenziale” dei nuovi media all’epoca della convergenza digitale (18). Questa caratteristica “mutabile e liquida” (Manovich) applicata alla materia teatrale ha dato vita a un serie di esperienze artistiche e addirittura a nuovi format – il live cinema (19) – che giocano sulla possibilità di intervenire grazie al digital processing (il trattamento digitale delle “immagini che rispondono” secondo Edmond Couchot) sul corpus delle immagini e dei suoni in real time, dando vita a “composizioni sceniche” in costante divenire.
La metamorfosi, l’intercambiabilità e l’interattività, insieme all’immediatezza, sono dunque la caratteristica dei nuovi media, esattamente come il teatro, caratterizzato, secondo la distinzione di Kowzan (20) da:
1) compresenza fisica reale di emittente/destinatario;
2) simultaneità di produzione e comunicazione.
Béatrice Picon-Vallin sottolinea la “trasformabilità tecnologica” della nuova éra, in cui il nuovo teatro sottomettendovisi, ritrova l’antica radice:

“Sottomettere il palcoscenico a questo principio di trasformabilità e non più soltanto a quello della riproducibilità, è una nuova prova che implica senza dubbio il rafforzamento della natura stessa dello spettacolo, effimero e che cambia ogni sera.”

Biosensori, sistemi di motion capture e motion tracking, convertitori di segnali MIDI: assistiamo alle più svariate tecnomutazioni digitali dell’attore, e contestualmente anche a quelle della scena, che indossa gli attributi altrettanto proteiformi e metamorfici della maschera elettronica: vere performing machines sono gli automatics ideati dalla Fura dels Baus che negli spettacoli interagiscono con gli attori sul palcoscenico e con il pubblico (21). Robot musicali sono quelli creati dal software e robot designer catalano Sergi Jordá per Afasia di Marcel.lí Antunez Roca: un quartetto di robot costituito da chitarra elettrica, violino, batteria e cornamusa suonano grazie agli impulsi generati dai sensori indossati da Marcel.lí Antunez, che consentono anche animazioni interattive sullo schermo. In scena compare una nuova macchina, umanizzata ed “emancipata”, che “non racconta più sé stessa ma che racconta” (Studio Azzurro); le sue inattese interruzioni permettono di “far rigenerare su un palcoscenico, quella vibrazione aperta all’imprevisto, alla casualità, ai tempi di reazione” (Studio Azzurro).
Performance con la macchina o addirittura della macchina “processore di media”, ovvero l’altra metà del palcoscenico, sono quelle dei gruppi Troika e Palindrome. Questi ultimi usano il software Eyecon ed elettrodi applicati al corpo (a uso di elettrocardiogrammi e elettroencefalogrammi) per controllare suono, luci e immagini: “Il performer deve “interpretare” il sistema interattivo così che i media siano veramente parte della performance live”.

Le performance si differenziano anche per il tipo di software, oggetto mediale (22) o “grafo” utilizzato. Per la gestione live dell’archivio di immagini Roberto Castello e Giacomo Verde hanno usato il programma Arkaos (normalmente in uso per concerti di vjing); Renzo Boldrini gestiva in sintonia con la propria narrazione le animazioni in Flash per Dg Hamelin; Davide Venturini creava in Photoshop i disegni per Storie zip, mentre il mixaggio live delle immagini e il lumakey creato in diretta in Elsinore e in The Seven Streams of the River Ota di Robert Lepage creava le suggestioni coloristiche in sincrono con la rappresentazione; per Animalie e Qual è la parola Roberto Paci Dalò ha utilizzato il software Image/ine di Steim creato da Tom Demeyer. Catherine Henegan con The Shooting Gallery realizza con la rete una networked performance 2006.

L’aspetto di regia audio si impone sempre di più sulla mera creazione di una “colonna sonora”. Voci e musiche di sintesi, landscape sonori, morphing audio in real time in relazione con le potenzialità e le simbologie della narrazione acquistano una rilevanza sempre maggiore. Come afferma Mauro Lupone sound design di Xlab:

“Considerando che il suono investe lo spazio e si svolge nel tempo, articolare processi di elaborazione della voce significherà anche agire sulla memoria e su processi di percezione e di ascolto. Non solo quindi modificazioni timbriche-morfologiche, ma anche azioni in cui si esplora il sistema in relazione ai concetti di spazio e di tempo: illusioni sonore o dissociazioni visive-sonore, tendenze entropiche e accelerazioni/rallentamenti psicopercettivi connessi all’informazione, memorie e sedimentazioni che riemergono, esplorazioni nelle zone di limen del suono, moltiplicazione delle sorgenti e dei movimenti spaziali ad esse associati“.(23) 

Per la cybernarrazione Storie mandaliche con ipertesto drammaturgico di Andrea Balzola, Lupone ha creato grazie al sistema di spazializzazione audio IMEASY una gestione direzionale quadrifonica live della complessa spettromorfologia che sottostava alle sonorizzazioni delle storie (24); nell’Ospite la compagnia Motus ha utilizzato un sistema simile di spazializzazione per la gestione in tempo reale, della traiettoria di 24 fonti audio (25).

SCHERMI: teatro o cinema (e TV)? 

E’ un dato di fatto che la scena digitale monitorizzata e cablata assomigli sempre più a un set televisivo o cinematografico, dato che da tempo ne ha ormai incorporato persino i codici, oltre che le definizioni (26). Se già negli anni Settanta Wilson si appropriava del linguaggio cinematografico (ripetizioni, ralenti, flashback, fermi immagine) bidimensionalizzando la scena, nel 1998 in Monster of Grace usava pionieristicamente come sfondo un film stereoscopico in animazione 3D. Alla fine degli anni Ottanta Robert Lepage portava in teatro con Le Polygraphe un vero e proprio “spettacolo cinematografico”: simulazioni di riprese, punti di vista insoliti come fossero inquadrature di una macchina da presa, applicazione del montaggio alternato alla drammaturgia, uso frequente del flashback e del flashforward. In The Merchant of Venice Peter Sellars introduceva intensi primi piani televisivi trasmessi in diretta nei monitor, che andavano a scavare l’interiorità del personaggio, mentre il BAG ricreava un set cinematografico con la messa in mostra teatrale degli effetti cinematografici (le macchine da truquage, come le definiva Méliès).
In Twin Rooms Motus lavora sulla diretta televisiva: l’incubo mediatico descritto da De Lillo in Rumore bianco si innerva nel tessuto organico dei protagonisti: perseguitati da un invisibile occhio satellite che li raddoppia tra specchi e pareti lucide e trasparenti: nella proliferazione di corpi che contrasta con la loro solitudine, incarnano l’incubo psicotico della videosorveglianza.
Nella scena organizzata spazialmente come una composizione a intarsio, il miglior esempio di integrazione di dispositivi multischermo con la scena è senz’altro rappresentato da The Seven Streams of the River Ota (1994) di Robert Lepage, primo lavoro nato in collaborazione con Ex Machina, l’equipe multidisciplinare da lui fondata a Québec City. La scena è strutturata come la facciata di una tradizionale casa giapponese, bassa e lunga, con sette schermi-pannelli trasparenti fatti di spandex su cui vengono proiettate (e retroproiettate) immagini video e ombre: l’effetto di “incrostazione” tra l’immagine video e corpo dell’attore e tra la figura e lo sfondo monocromo luminescente (quasi un chromakey) genera un surreale dialogo tra corpi e luce, e rende quasi alla lettera il senso più profondo dello spettacolo: il legame indissolubile tra Oriente e Occidente e l’impossibilità di cancellare dalla memoria collettiva l’Hiroshima della bomba atomica. La scena attraversata dalla luce del video diventa così una lastra “fotosensibile”, una scrittura di luce, metafora di un percorso di memoria, di illuminazione e di conoscenza.
La scena contemporanea ha sviluppato insolite modalità di proiezione su superfici diverse. Se Svoboda nel 1958 all’Expo di Bruxelles inaugurava la multiproiezione (il polyécran), oggi si ricerca l’effetto evanescente dell’immagine: proiezione su doppio strato di tulle con l’attore reale incastonato in mezzo o su materiali che mantengono una “memoria di forma”, e perfino su elementi naturali e gassosi come l’aria e l’acqua vaporizzata. Fabio Iacquone con il suo Digital Versatile Theatre sta sperimentando proiezioni su gas e fumo, ricreando il mito delle apparizioni fantasmatiche. L’artista visiva Paola Lo Sciuto prova a ottenere l’effetto di “miraggio nel deserto” con un sistema scenotecnico da lei brevettato.
La sfida più attuale è quella di restituire, grazie ai nuovi materiali di matrice polimerica e plastiche fotosensibili, volumetricità e tridimensionalità interattiva all’immagine, progettando nuove architetture immateriali e liquide, pieghevoli e arrotondabili, occultando in trasparenza la superficie piatta degli schermi di proiezione e la relativa cornice di separazione. Non ci si immerge più, non c’è più nemmeno bisogno di display a cristalli liquidi, occhiali con lenti binoculari o sistemi multimonitor per ampliare il campo visivo: ora sono gli oggetti a “fuoriuscire” dal loro mondo e ad affacciarsi direttamente nel nostro.

Kathleen Ruiz, AVA project, trans-media performance.

Nuovi sviluppi riguardano le avveniristiche tecnologie per i display che avvicinano sempre di più il teatro all’immaginario fantascientifico di Matrix e di Minority Report. Secondo le ottimistiche previsioni commerciali della Liquavista, neonata società della Philips specializzata nelle tecnologie applicate ai display, gli schermi LCD lasceranno presto il posto alla tecnologia O-led (Organic Light Emitter Diode, nata però già nel 1985) che si basa su strati di polimerici organici flessibili e elettroluminescenti interposti tra due elettrodi per proiezioni tridimensionali dall’effetto simil-olografico, che creano l’illusione di immagini sospese nel vuoto. Un’altra alternativa è l’Electrowetting Display, nato nel 2003: lo schermo è composto da particelle microscopiche sospese in un mezzo denso che dà simultaneamente la diffrazione, la riflessione e la trasmissione di tutte le lunghezze d’onda della luce.

L’elemento strabiliante di questa tecnologia è che la scena dietro lo schermo è chiaramente visibile nell’area nella quale non ci sono immagini proiettate. L’applicazione è per ora limitata al campo dell’intrattenimento (discoteche o concerti e parchi divertimento) o della moda (show room). Il gruppo rock Gorillaz, che ha legato la propria immagine in videoclip ai fumetti, ha letteralmente “mandato in scena” a suonare agli Mtv Awards alcuni dei loro personaggi a cartoni animati in computer graphics, con tanto di asta di microfono, basso e batteria, proiettati su un invisibile e impercettibile schermo (27), con effetto di immagine simil-olografica come avrebbe potuto immaginarla Dennis Gabor: l’evento è stato universalmente riconosciuto come punto di svolta della virtualizzazione dei supporti.

Ricorda Lev Manovich che se tutte le azioni avverranno in un prossimo futuro nello spazio del virtuale e della simulazione, lo schermo (ultima appendice della cornice, intesa come spazio fisico separato che impedisce il movimento di chi osserva) scomparirà del tutto a vantaggio di un effetto compositivo che ricerca, “scorrevolezza e continuità” (28):

L’apparato della realtà virtuale si ridurrà a chip impiantato nella retina e connesso via etere alla rete. Da quel momento porteremo con noi la prigione non per confondere allegramente le rappresentazioni e le percezioni (come nel cinema) ma per essere sempre in contatto, sempre connessi, sempre collegati. La retina e lo schermo finiranno per fondersi”. 

Ma per ora in teatro gli schermi, più che eliminati, si sono invece ingranditi. A caratterizzare la scena degli ultimi anni il fenomeno del gigantismoEnormi schermi delimitano la circonferenza dello spazio della rappresentazione in Ta’ziyé di Kiarostami, un’elaborazione teatrale che recupera un antico rito iraniano. Ugualmente enormi sono i fondali elettronici in alta definizione dell’Ospite di Motus, quello di Voyage e il ciclorama semicircolare di (Or), due spettacoli di Dumb Type; di Aladeen, di Gorky, le alte pareti avvolgenti come un gasometro di Granular Synthesis.

Del resto le gigantesche proiezioni ormai fanno parte del paesaggio metropolitano e costituiscono l’armamentario basico della pubblicità, raggiungendo formati terraquei (il maxischermo pubblicitario da 24 metri inserito in un dirigibile formato da centinaia di led luminosi che lo rende visibile a 4 chilometri di distanza). Anche lo show design li ha impiegati, anche se in modi sempre più creativi: vedi le straordinarie invenzioni videosceniche e luministiche di Mark Fisher per i concerti rock dei Pink Floyd e degli U2, quelli di Robert Lepage per il Secret World Tour e il Growing Up Tour di Peter Gabriel e quelli a led con software generativo degli United Visual Artist per i Massive Attack.


NOTE

“Il passaggio dalla macronarrazione lineare alla micronarrazione non sequenziale fa seguito a due innovazioni portate dall’evoluzione interattiva dei media. La prima è lo zapping, cioè l’uso televisivo del telecomando che frammenta la fruizione di un programma e consente una visione parallela di più programmi. La seconda innovazione, ancora più radicale, è quella aperta dai nuovi media digitali, on line come il web e off line come cdrom e dvd, dove lettura-visione-ascolto non sono più lineari ma sviluppano una navigazione non sequenziale e ipertestuale. Allora la scrittura drammaturgica o si frantuma caoticamente come nella narrazione destrutturata, oppure elabora delle unità testuali minimali e nomadi, ma compiute, che possono agganciarsi e sganciarsi nell’ipertesto spettacolare” (A. Balzola, Verso una drammaturgia multimediale, in A. Balzola-A. Monteverdi, Le arti multimediali digitali, Milano, Garzanti, 2005).
2 Intervista di Anna Maria Monteverdi a Marcel.lí Antunez Roca in www.ateatro.it .
3 E’ Claudio Pinhanez a dare una definizion dell’hyperactor: “Un iperattore espande il corpo in modo da far accendere le luci, attivare suoni o immagini su uno schermo nel palcoscenico; controllare la risultante sembianza laddove la sua immagine o la sua voce sia mediata attraverso il computer; espandere le sue capacità sensorie ricevendo informazioni attraverso cuffie o occhiali-video o controllare strumenti fisici come videocamere, parti del set, robot o altri macchinari teatrali” (C. Pinhanez, Computer Theatre in www.cybertsge.org; cit da Pericle Salvini, Tesi su Teatro e tecnologia, Università di Pisa).
4 “Il Networked News Teller è un attore di strada che porta con sé un computer indossabile con un occhio privato. Il computer esegue un programma che aggiorna le notizie costantemente sull’occhio privato dell’attore. Costruisce poi una pagina web che riporta la stessa notizia secondo i diversi punti di vista dei differenti news provider. Dopo aver scelto la notizia da discutere attraverso il suo occhio privato, il News teller interroga i passanti chiedendo la loro opinione. Il performer può recitare la notizia per strada basandosi sull’interazione con il pubblico e con le notizie che appaiono sul portatile… Questa ricerca tecnoartistica è direttamente ispirata al lavoro teatrale dell’attrice Anna Deavere Smith chiamato Twilight” (F. Sparacino, La realtà aumentata nella danza e nel teatro, in A. Menicacci-E. Quinz, La scena digitale. Nuovi media per la danza, Venezia, Marsilio, 2001).
5 F. Sparacino, La realtà aumentata nella danza e nel teatro, cit., p. 101: “Definiamo mediattori immagini video, suoni, discorso, oggetti testuali in grado di rispondere al movimento e al gesto in modo credibile, estetico, espressivo e divertente. I mediattori sono agenti software la cui personalità influisce non soltanto sul loro stato interno (sentimenti) ma anche sulla percezione del comportamento dell’interprete (intenzioni) e sulle aspettative riguardo a interazioni future con attori umani”.
6 Un resoconto dettagliato di Play di L. Gharavi, spettacolo in realtà virtuale dell’i.e.V.R,. è on line su www.ateatro.it n.101,
7 Ci riferiamo all’interessante progetto di teatro d’opera The Jew of Malta, libero riadattamento da Christopher Marlowe con musica originale di André Werner e uso di sistemi di motion tracking commissionato dalla Biennale di Monaco. Protagonista centrale è Machiavelli: le coreografie e la scenografia sono basate sull’idea che tutto ruota intorno a lui. Così la topografia dei luoghi e gli ambienti virtuali sono generati real time dall’attore che interpreta Machiavelli grazie a un sistema di rilevamento ottico del movimento. Pochi attori interpretano tutti i personaggi dell’opera e i rapidi cambi di costume (anche questi virtuali) sono possibili grazie a proiezioni di trame e stoffe sui loro stessi corpi. tracciati real time da videocamere a raggi infrarossi.
8 P. Atzori, Activation space, p. 347 in A. Menicacci-E. Quinz, cit.
9 Accogliamo il concetto di trasndisciplinarietà riferito alle arti digitali come l’ha espresso da Sally Jane Norman nel Rapport d’étude à la Délégation aux Arts Plastiques Ministère de la Culture (1997) dal titolo appunto«Transdisciplinarité et Genèse des Nouvelles Formes Artistiques »: «La transdisciplinarité est une notion polysémique par excellence ( . …) Avant tout, nous avons voulu que la transdisciplinarité serve de point de départ à un dialogue sur le rôle et la place de l’art, dans une société profondément transformée par les technologies de l’information et de la communication».
10 Cfr. Claudia Giannetti, Aesthetic paradigms of media art inserito nella rivista digitale Media art dello ZKM www.medienkunstnetz.de; e inoltre E. Couchot-N. Hillaire, L’art numerique, Paris, Flammarion, 2003.
11 E. Quinz, cit.
12 Sul tema delle interfacce vedi il numero monografico Interfaces, “Anomalie_digital arts” n. 3, Paris, 2003; e inoltre L. Poissant (a cura di), Interfaces et sensorialité, Presses de l’Université du Québec, 2003.
13 Sull’ecosistema tecno-teatrale vedi l’introduzione di Anna Maria Monteverdi al suo Il meglio di ateatro-Teatro e nuovi media. “Con la parola ecologia – come è ormai dato acquisito grazie agli studi sulla fenomenologia di Merleau-Ponty, sull’epistemologia genetica di Piaget, sull’ecologia della mente di Bateson e sull’ecologia sociale e della cultura di Ingold – non si intende unicamente l’ambiente naturale circostante ma la relazione complessa tra gli elementi che compongono una certa “nicchia ecologica” (dunque animali, esseri umani ed oggetti tecnologici compresi) e la loro interazione sociale e ambientale. L’approccio metodologico “ecologico” si presta a nostro avviso a un’analisi integrata e non “riduzionista” degli elementi chiavi del tecnoteatro: ibridazione, connettività, scambio, simbiosi, interazione, rizomaticità. Dobbiamo inoltre a Bonnie Marranca il riferimento sistematico al teatro come “ecologia”: nel suo libro Ecology of Theater la studiosa americana fondatrice del “Performance Art Journal” offre una singolare interpretazione teatrale “ecocritica” dei giganti del teatro sperimentale degli anni Settanta-Ottanta: Wilson, Monk, Shepard, Breuer, Mabou Mines alla luce dell’idea di una “drammaturgia come ecologia”. Come è noto, inoltre, numerosi sono gli studi sul rapporto tra sistemi digitali, realtà virtuale e pensiero ecologico: l’ambiente virtuale come ecosistema digitale auto-organizzato, l’evoluzionismo tecnologico (Longo, Sini), la “connettività del sapere” e l’ecologia cognitiva di Pierre Lévy in base alla quale “non c’è più soggetto o sostanza pensante, né materiale, né spirituale… in una rete in cui dei neuroni, dei moduli cognitivi, degli umani, delle istituzioni di insegnamento, delle lingue, dei sistemi di scrittura, dei libri e dei calcolatori si interconnettono, trasformano e traducono delle rappresentazioni” (Lévy, 1992).
14 A. Balzola, cit.
15 Prendo in prestito questo termine assai chiarificatore da Derrick de Kerchove (“Perform Arts”, estate 2006).
16 A. Balzola, cit.
17 L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, p. 294
18 Un nuovo oggetto mediale non è qualcosa che rimane identico a se stesso all’infinto, ma è qualcosa che può essere declinato in versioni molto diverse tra loro: L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, p. 57 e seg.
19 Il vjng, trans-genere per eccellenza, è una performance video live che il digitale sta evolvendo in forme sempre più elaborate. E’ stato “nobilitato” anche nel nome, diventando live cinema: il prestigioso festival di arte elettronica “Transmediale” di Berlino edizione 2005 lo ha elevato al rango di altre storicamente forme di espressione tecnologica, ben più radicate, dedicandogli una sezione curata da Hans Beekmans (che ne è anche diventato il “teorico”). Molto diffuso in ambiti artistici oltre che nell’area dell’intrattenimento musicale, il vj come il dj – che facut’n’mix e scratching di tracce musicali preesistenti tramite campionatori- usa o mixer analogici o programmi digitali di gestione

I nuovi formati del teatro mediale
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Pubblicato su Interactive-performance.it

Nuove frontiere per il teatro si aprono grazie alle caratteristiche di immersione, integrazione,ipermedialità, interattività, narratività non lineare propri del sistema digitale: dall’evoluzione nel web delle performance alla creazione di ambienti interattivi, all’elaborazione di una nuova scrittura e drammaturgia multimediale. I nuovi media di oggi non equivalgono ai nuovi media di ieri per le caratteristiche tecniche innovative, per i meccanismi sociali che innescano e per l’impatto comunicativo che determinano, ma di una comunicazione di nuova generazione, ramificata, orientata all’immediatezza, all’interattività, allo scambio, alla creazione di reti di relazioni, proiettata cioè, al network.

Emerge una nozione di scena aumentata (enhanced theatre è la definizione di teatro digitale data da Dan Zellner) che ha a che fare con il trattamento/processamento in tempo reale di informazioni multimediali, con il coinvolgimento sensoriale del pubblico e con la mediazione tra performer e computer. Una scena aumentata negli effetti e animazioni tridimensionali, nelle immagini in movimento, nella scena interattiva e in quella virtuale che sostituisce quella reale, negli attori sintetici che recitano in una live action insieme ai loro doppi in carne ed ossa, nella percezione del pubblico sollecitato a una visione multipla, a una compresenza di punti di vista.

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Uno stile ambivalente e mimetico per il teatro tecnologico: Dumb Type e Masbedo.

Teatro e digitale, per usare una terminologia cara a Marshall McLuhan, si stanno ibridando, anzi forse oggi siamo già alla seconda generazione tecnologica che sta dando vita a quello che si può definire, prendendo a prestito un termine dalla biologia, un teatro-chimera, un teatro dal doppio codice genetico caretterizzato da un libero nomadismo e mimetismo dei linguaggi.

Le immagini in movimento, le animazioni, i sistemi interattivi, i programmi informatici per una gestione live del materiale audiovisuale sono stati già da tempo assorbiti nella materia teatrale inaugurando un nuovo genere al confine con le altre arti (installazioni, concerti, film, opere video). L’ibridazione, ovvero per usare l’esatta definizione mcluhiana, ‟l’interpenetrazione di un medium nell’altro” in questa generalizzata computerizzazione della cultura, produce una fenomenologia artistica mutante derivante dal web, dal fumetto, dal videoclip, dalla videoarte, dal vjing, dalla motion graphics, al passo con le tecnologie digitali, altrettanto metamorfiche e “mimetiche”.

L’arte digitale è arte dell’ibridazione” afferma Edmond Couchot, una elaborazione interna alla scrittura, alla composizione, alla visione, alla forma della creazione d’arte di cui sarebbe responsabile proprio la natura “mutevole” dell’oggetto artistico multimedializzato. Le cross-ibridazioni tra sistemi di informazione, scritture, dispositivi di visione e di ascolto, complice il comune codice digitale, sono potenzialmente infinite: dai radiodrammi alle video performance, dalle installazioni performative, ai live set fino alla drammaturgia ipertestuale e on line in un’evoluzione continua e in una serie pressoché infinita di possibilità trasformative. Il testo, o meglio l’ipertesto drammaturgico, il progetto scenico, la partitura sonora-musicale, l’installazione, il video, il software, lo spettacolo, non appartengono più a generi diversi ma divengono fasi di un processo aperto, tassello di un mosaico spaziale e temporale mutante, flessibile e comunicativamente forte (A. Balzola).

Se Rosalind Krauss proponeva in Art in the age of the post modern condition (2005) di tracciare una riga definitiva per eliminare la parola medium “così da seppellirla come tanti altri rifiuti tossici della critica e procedere nel mondo della libertà lessicale”, Zygmunt Bauman in Modernità e ambivalenza (2010) individua nel concetto di “ambivalenza” che romperebbe la pratica del modello strutturale normativo, dell’ordine classificatorio delle categorie estetiche, uno dei temi chiave del postmoderno:

La situazione si fa ambivalente se gli strumenti di strutturazione linguistica si rivelano inadeguati: o il caso in questione non appartiene a nessuna delle categorie individuate dalla linguistica, oppure si colloca in più classi contemporaneamente. In una situazione ambivalente nessuno dei modelli appresi è quello giusto ovvero se ne potrebbe applicare più di uno (…) L’ideale che la funzione nominatrice/classificatrice si sforza di raggiungere è una sorta di ampio archivio che contenga tutte le cartelle che contengono tutti gli oggetti che il mondo contiene: ogni cartella e ogni oggetto sono però confinati in un loro posto distinto. E’ l’impossibilità di realizzare un simile archivio che rende inevitabile l’ambivalenza (…) Classificare consiste negli atti di includere e escludere. Ogni volta che diamo un nome a qualcosa, dividiamo il mondo in due: da un lato le entità che rispondono a quel nome; dall’altro tutte quelle che non lo fanno (…) L’ambivalenza è un effetto collaterale del lavoro di classificazione (…) Quella all’ambivalenza è una guerra suicida.5

 Ambivalenza delle tecnologie in atto quale potenzialità di scambio: Dumb Type, Motus, Masbedosono emblematici di questa “tendenza ambivalente” del teatro. Privilegiano infatti, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno-artistico affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo e derivante indistintamente dal videoclip, dalle installazioni, dai concerti, dal vjing, dalla graphic art, fino al cinema di animazione e persino alla videogame art.

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Nelle performance dei giapponesi Dumb Type la partecipazione dello spettatore è di natura immersiva, ricca cioè, di stimolazioni sensoriali multiple (dalle sub frequenze al noise, dalle immagini distorte, velocizzate ai video multipli), come se fosse un’installazione audiovisiva sperimentale.

Il video Glima di Masbedo, nato dall’esposizione di una proposizione base, sviluppata dagli attori senza indicazioni registiche dettagliate, come una performance corporea di enorme fisicità e di grande impatto, si è incarnato prima in un’installazione monocanale, poi in uno spettacolo vero e proprio con attori che interagivano in una scena video live con doppia proiezione. Da un formato video di breve durata si genera, stretchandosi, lo spettacolo. Un uomo e una donna lottano legati da vincoli di lacci in pelle come un’appendice organica che rimanda a un rito di possessioni sadomasochistiche e afflizioni autoindotte; intorno a loro una terra vulcanica, un paesaggio video-esistenziale: l’Islanda con la sua particolare orogenesi, con la sua attività vulcanica e la presenza della dorsale media-atlantica il cui processo tettonico sta spezzandola in due tronconi alla velocità di due centimetri l’anno, va a definire coordinate geoestetiche potentissime. Questi paesaggi fisici raccontano simbolicamente la distanza tra uomo e donna, ma anche il desiderio di riscatto, il disperato tentativo di opporsi a una deriva di rapporti umani e sociali basati su banalità e prevaricazione.
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Il paesaggio non è estraneo, entra nella violenza perpetrata nei corpi dove alternativamente uno diventa carnefice e l’altro vittima; in questo rituale della coercizione sotto cui si può leggere la generale volontà a non integrarsi, a non piegarsi e a non sottomettersi alle regole del mondo e la generale riluttanza ad obbedire all’ordine sociale, i protagonisti hanno abbandonato la civiltà ma non la disponibilità a combattere magari in nome di un’ipotetica causa comune che presuppone l’unirsi degli uomini in una catena umana a difesa del proprio patrimonio di valori. La performance con due schermi e una pedana ad altezza del pubblico proposta al Festival DRO e a ROMAEUROPA (2010), ripropone l’identica performance ma il paesaggio reale dove agivano i personaggi nel video, in teatro viene evocato dall’elettronica7.

 Motus sperimenta da sempre la contemporaneità di teatro-cinema in scena (da Twin rooms a X-racconti crudeli della giovinezza) e introduce anche la grafica animata (Rumore rosa); gli statunitensi Big Art Groupcon il ciclo di spettacoli definito “real time film”(Flicker, House of no more) ricreano un vero set cinematografico (usando un green screen) con la messa in mostra degli effetti da truquage. Approda a teatro una “composizione digitale” che unisce in una continuità senza cesura, televisione, cinema e teatro secondo una nuova estetica – seguendo Lev Manovich – “anti-montaggio” ovvero, “una creazione di spazi contigui in cui interagiscono diversi elementi (…)Nella composizione digitale gli elementi non sono più contrapposti ma miscelati; i loro confini vengono cancellati più che enfatizzati”.

Come Amleti irrequieti, vaganti nel vuoto pneumatico di una condizione tragica, evocata nella sua abissalità da una camera iperbarica o da interminabili silenzi, i protagonisti vivono distillandosi l’ossigeno per una rinascita, o almeno, per una via di fuga.

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La loro è un’arte intermediale in cui la musica il cinema, il video e la performance sono sempre strettamente collegati. Il riferimento principe per Masbedo è il territorio multidisciplinare dell’arte video della metà degli anni Sessanta, fecondo terreno per sperimentazioni di incroci, attraversamenti e transizioni. In quel contesto di effervescenza creativa e sperimentale, il medium video ha vissuto in perfetta promiscuità con le altre arti con le quali si è intrecciato, mescolato, confrontato. Citando le pionieristiche esperienze video performative di Nam June Paik, ma anche quelle successive di Laurie Anderson, Peter Gabriel e Metamkine, Masbedo allestiscono le loro performance a partire da originarie videocreazioni per poi arricchirle ed espanderle –alterandole radicalmente- con una componente musicale live (Schegge d’incanto in fondo al dubbio, Glima). Schegge d’incanto in fondo al dubbio di MASBEDO è nata come videoinstallazione per due schermi sincronizzati per la Biennale di Venezia (2009) ed è diventata una performance di live video con musica suonata sul palco da Lagash dei Marlene Kuntz.

La donna, novella Antigone, opponendosi all’omologazione del mondo, alla vita umiliata, compie un gesto impetuoso e solenne di ribellione: trascina nell’acqua a fatica, oggetti che rappresentano la vita vissuta e il quotidiano; infine, si immobilizza come statua, su un piedistallo in mezzo al mare, con gesti ricchi di pathos evocando miti tragici e archetipi del femminile che raccontano come la vita umana, pur nelle difficoltà e nel dolore, lasci dietro di sé schegge di bellezza. La donna mostra una maschera tragica del dolore, un urlo muto che porta con sé tutto il lamento dell’esistere. Il video trasmette proprio quel senso profondo e necessario di purificazione e metamorfosi dell’essere e quel bisogno di rivelazione da cui nasce la tragedia attica antica e che ci è stato trasmesso dalle pitture vascolari greche e dai frammenti orfici: “desistere dal ciclo prendere fiato dalle miserie”(frammento da Proclo cit. da G. Colli, La sapienza greca).

Contemporary Performance Network
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Contemporary Performance Network is a resource and community organizing tool for artists, scholars and audiences. The term Contemporary Performance is used to describe hybrid performance works and artists that travel between the fields of Experimental Theatre, Dance, Video Art, Visual Art, Music Composition and Performance Art without adhering to one specific field’s practice.

 Caden Manson is Editor and Curator of Contemporary Performance Network and co-founder and artistic director of Big Art Group, a New York City performance company founded in 1999. The company uses the language of media and blended states of performance in a unique form to build culturally transgressive and challenging new works. Since its inception, it has toured nationally and internationally and produced critically acclaimed works including the ‘Real Time Film’ trilogy Shelf Life, Flicker, and House of No More, SOS; and its reality-based theatre series The People. He has co-created, directed, video and set designed 11 Big Art Group productions. Manson has shown video installations in Austria, France, USA and Germany; performed PAIN KILLER in Berlin, Singapore and Vietnam; Taught in Berlin, Rome, Paris, Montreal, and Bern; his ensemble has been co-produced by the Vienna Festival, Festival d’Automne a Paris, Hebbel Am Ufer, Rome’s La Vie de Festival, Theatre Garonne, and Wexner Center for The Arts. He is a recipient of the 2001 Foundation For Contemporary Art Fellowship, is a 2002 Pew Fellow and received a 2009 Fellowship from the Pennsylvania Council on the Arts. He lives in New York City.

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