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VERSO UNA NUOVA SCRITTURA SCENICA. Dagli atti del convegno CREATION NUMERIQUE, LES NOUVELLES ECRITURES SCENIQUES 2003 | 2004
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Le théâtre dans la sphère du numérique.

 VERSO UNA NUOVA SCRITTURA SCENICA (Anna-Maria Monteverdi)

Il panorama del teatro di ricerca italiano che si è arricchito della presenza dei media in scena come è stato rilevato da più critici e storici del teatro e studiosi di nuovi media da Brunella Eruli a Anna Maria Sapienza a Andrea Balzola ha un grande debito nei confronti del Teatro-immagine degli anni Settanta (tra i protagonisti Carlo Quartucci, Memé Perlini, Mario Ricci, Leo De Berardinis) alla cui definizione contribuiscono alcune esperienze a metà tra il teatro e le arti visive ed eventi videoperformativi. Teorizzatore di questa tendenza è stato Giuseppe Bartolucci, uno dei critici militanti che ha portato contributi notevoli alla diffusione e alla promozione del teatro di ricerca italiano come organizzatore di alcune delle rassegne che hanno prodotti i “manifesti” e sancito i principi del Nuovo teatro. Questa prevalenza dell’immagine sulla parola sarà riconosciuta ufficialmente in Italia alla rassegna di Salerno Incontro/Nuove tendenze (1973). I differenti metodi di composizione e di espressione sperimentati, nel comune rifiuto del testo drammatico, propongono l’elaborazione di una scrittura scenica innovatrice che privilegiasse, come ricordava Bartolucci, i tre elementi di: spazio, immagine, movimento temi che ci riconduncono anche ai padri fondatori della regia, la cinetica scenica di Craig, lo spazio-immagine di Appia.

Il teatro della post-avanguardia (inaugurato ufficialmente dal convegno di Salerno del 1976) accentuerà ulteriormente le caratteristiche antinarrative e visive, visionarie e oniriche inaugurate dal teatro-immagine: ne sono protagonisti la Gaia scienza di Giorgio Barberio Corsetti e il Carrozzone (primo nucle dei Magazzini Criminali, oggi solo Magazzini) e in seguito Falso movimento di Mario Martone (1977 col nome di Nobili di Rosa), Krypton di Giancarlo Cauteruccio quest’ultimi insieme con il Tam teatromusica di Michele Sambin e Pierangela Allegro creeranno le premesse per il fenomeno del cosiddetto media-teatro o videoteatro ancora una volta inaugurato con una rassegna a Roma dal titolo Nuova Spettacolarità nel 1981.

chromakey

Il videoteatro è un termine che è andato genericamente a definire sia la produzione videografica di ispirazione teatrale legata a uno spettacolo -quella che Valentina Valentini definisce una videodrammaturgia residua– sia creazioni completamente autonome (videodocumentazioni, biografie videoartistiche, produzioni di teatro televisivo pensiamo alle sperimentazioni televisive di Ronconi, Carmelo Bene e Martone); ma videoteatro è sopratutto, performance tecnologiche o spettacoli teatrali che utilizzano l’elettronica in scena. In queste produzioni entra con chiara contaminazione l’esperienza contemporanea della metropoli, l’universo cinematografico, i fumetti, la musica rock, e le tecnologie elettroniche. In Martone l’uso di macchine elettroniche è senz’altro più limitato ma l’attenzione è volta all’assimilazione del linguaggio e dell’espressività tecnologica che va al di là degli strumenti usati. Corsetti protagonista assoluto di questa stagione videoteatrale introduce una struttura complessa di dialogo tra corpo e ambiente, luce e spazio, immagine video e presenza attoriale in tre spettacoli di cui ricordiamo La camera astratta. Camera astratta (1987) di Corsetti con Studio azzurro presentato a Dokumenta kassel e poi vincitore del premio Ubu massimo riconoscimento per il teatro di ricerca. Paolo Rosa parla di un percorso del gruppo video Studio azzurro verso il teatro, di una espansione in senso teatrale delle videoinstallazioni; teatro “latente presente in embrione come ambito in cui sconfinare”; in Camera astratta si mette in scena il “carattere bicefalo del video” come ricordava Philpe Dubois, “dispositivo e immagine-processo”: c’è una doppia scena, una materiale e una immateriale, una visibile e una invisibile, un set e un retroset dove gli attori vengono ripresi e la loro immagini riproposte in diretta nella parte frontale del palco. I monitor in scena che scorrono su binari o appesi in aria e in una complessa articolazione di movimenti, incorporano e scompongono il corpo dell’attore. Corsetti parla della presenza elettronica che “rafforza le potenzialità dell’azione teatrale”. La presenza del monitor agisce come elemento linguistico e drammaturgico nuovo in un contesto teatrale.

Giacomo Verde. www.verdegiac.org E’ videomaker, tecnoartista, mediattivista legato alla sperimentazione delle tecnologie povere con le quali mostra nelle installazioni e a teatro come la creatività non dipenda da un forte dispiegamento di mezzi. Le sue oper’azioni sono da sempre una critica al “consenso mediatico” e variazioni sul tema della necessità di un uso politico delle immagini e di una riappropriazione-socializzazione dei saperi tecnologici. A teatro l’accento è posto sul live, sulla performatività dei media per comprendere questa realtà tecnologicamente aumentata, come scrive in un suo bel testo: “Per un teatro tecno.logico vivente. Verde parla di una tecnonarrazione che rivitalizzi l’antica arte della narrazione orale con i nuovi strumenti comunicativi e che faccia sentire lo spettatore necessario alla rappresentazione; la tecnologia deve essere un mezzo che amplifica il contatto, il tempo reale e non una gabbia che detta regole e ritmi preregistrati e immutabili”. Verde è attore-narratore autore di videocreazioni teatrali, e di videofondali live e/o interattivi progettati per performance, reading poetici, concerti. Il teleracconto, ideato nel 1989 e inaugurato con Hansel e Gretel (H & G Tv), coniuga narrazione teatrale realizzata con piccoli oggetti e macroripresa in diretta. Una telecamera inquadra in macro alcuni oggetti collocati vicinissimo alla telecamera; questi, attraverso la riproduzione televisiva e soprattutto attraverso la trama del racconto orale associata alla disponibilità immaginativa del pubblico si trasfigurano fino a diventare quello che la storia ha necessità di raccontare.

Il perfomer è narratore che manipola oggetti e le immagini di questi oggetti ripresi in diretta, gioca sullo spiazzamento percettivo.Coi Teleracconti Verde ci mostra come è facile attraverso una telecamera “far credere che le cose sono diverse da quelle che sono”, in altre parole, che le immagini trasmesse dalla televisione non sono quelle della realtà ma quelle di chi vuole fissare per noi un punto di vista sul mondo. Si può considerare una continuazione o prolungamento del teleracconto OVMM acronimo da Ovidio metamorfoseon, dalle metamorfosi di Ovidio. L’attore Marco Sodini racconta con parole con azioni e coreografie i miti di trasformazione. Sullo sfondo, immagnini create in dretta da Verde. Verde presente e visibile in scena mette in atto un doppio dispositivo di ripresa, la webcam che riprende lo spazio con l’attore e la videoproiezioni, e la videocamera che riprende sullo schermo del computer le immagini della webcam sulle quali vengono sovrapposti piccoli oggetti, materiali e riflessi. Le immagini sono tutte in tempo reale e seguono il ritmo della scena, si moltiplicano attraverso l’azione dell’attore. Anche la musica e i suoni rispondono al principio del live, suoni campionati che sono un tappeto sonoro continuo vengono trasformati in diretta con variazioni di intensità, sovrapposizioni ed echi della voce del protagonista. Nella primavera del 1998 Giacomo Verde e il drammaturgo e critico Andrea Balzola pongono per la prima volta mano ad un progetto di narrazione teatrale con uso di tecnologia interattiva ispirandosi, per la stesura dei testi, alla forma e al significato del Mandala, guida della meditazione e simbolo della trasformazione spirituale dell’individuo. E’ Storie mandaliche di Giacomo Verde e Zonegemma. La scelta della tecnologia va inizialmente al sistema Mandala System per Amiga, e contestualmente si pongono le premesse per la scelta dell’iconografia e il primo abbozzo di un testo che viene concepito con caratteristiche ipertestuali, ovvero connessioni, incastri, corrispondenze tra i personaggi e i luoghi. Balzola li definisce “iperracconti”. Sono sette storie di trasformazioni nei diversi regni: umano, minerale, vegetale, animale e divino, ovvero sette storie di personaggi “linkate” tra loro a formare una rete e un labirinto: il bambino-uomo, il mandorlo, la principessa nera, il corvo, il cane bianco, la pietra del parco, l’ermafrodita. Ogni storia e ogni personaggio è associato a un colore, ad un elemento e ad un punto cardinale. La struttura del mandala è concentrica: ha quattro porte che corrispondono ai punti cardinali. Le storie portano sempre al centro: il mandala è la determinazione di un percorso che conduce all’illuminazione attraverso un rito di orientamento. Nel Mandala System è possibile fondere insieme sfondi, ambienti bidimensionali con oggetti tridimensionali attraverso la videocamera: la videocamera riprende in diretta il corpo o la mano del narratore che viene digitalizzata in tempo reale e la sagoma della figura ripresa, appare sovrapposta alle immagini e agli oggetti generati, invece, dal computer. Lo spettacolo ha attraversato diverse fasi ed è appena terminata una sua ulteriore metamorfosi con le animazioni in flash MX (programma per animazioni audiovisive 2 d usato in Internet) delle immagini che sostituiscono il Mandala system per un’ipotesi anche di futura fruizione Web. Il cyber contastorie (la definizione è di Giacomo Verde, che ci tiene a definire il narratore sulla base dell’immagine del tradizionale raccontastorie) anziché la tela disegnata, ha davanti a lui immagini in videoproiezione che lui stesso può trasformare seguendo il ritmo in tempo reale del suo racconto.

Motus. www.motusonline.it

Motus è uno dei gruppi di punta della cosiddetta generazione Novanta, o terza ondata, fenomeno esploso agli inizi degli anni Novanta che ha come epicentro la Romagna; è lì che si crea un terreno favorevole e le premesse per una nuova ricerca teatrale da parte di giovanissimi romagnoli grazie anche alla presenza del Teatro delle Albe e della Socìetas Raffaello Sanzio; gruppi che, date le caratteristiche simili, formali e contenutistiche, vengono accorpati insieme dalla critica a farne una etichetta un movimento, che contraddistingueva una nuova tendenza del teatro. I nuovi gruppi teatrali dopo essere stati per lungo tempo invisibili (questo era anche il nome di una rassegna che li proponeva a San Benedetto del Tronto) nati e cresciuti nella semiclandestinità, nelle pieghe e nell’ombra della cultura ufficiale, in spazi underground, in circuiti alternativi, extrateatrali decentrati in Romagna in centri sociali o spazi occupati (Link a Bologna, Interzona Verona) ottengono una loro visibilità di pubblico grazie al Festival Crisalide, Opera prima di Rovigo e Teatri 90: Motus, Fanny e Alexander, Teatrino clandestino, Masque teatro Teatro degli Artefatti Nuovo complesso camerata. Teatro dai forti connotati visivi, legato a un vero culto dell’immagine caratterizzato anche dall’eccesso di visione, una visione mediatizzata, televisione, video, cinema (Cronenberg), pittura e fotografia (da Warhol a Muybridge), pubblicità e che scopre ispirazione e tematiche e spazi di rappresentazione dall’ambito urbano metropolitano (dai metrò alle discoteche alle camere d’hotel); ossessiva indagine sulle tematiche del corpo (postorganico, cyber, corpo fagocitato nell’intero meccanismo tecnologico; corpo mostrato, violato, nei suoi aspetti estremi di violenza e di sesso); attenzione verso i meccanismi di visione del corpo stesso: esposto a obiettivi fotografici, e video, costretto dentro teche trasparenti. Il tema del teatro come sguardo, della ricerca di particolari dispositivi di visione è una delle costanti del giovane gruppo riminese fondato nel 1990 da Enrico Casagrande e Daniela Niccolo. Il loro teatro attraversa da sempre i territori più svariati della visione: cinema, video, architettura, fotografia. Sguardo catturato in scena da una fotocamera in Catrame tratto da Ballard e che guarda a Crash di Cronenberg; corpo dell’attore rinchiuso in teche di plexiglass e costretto in una struttura circolare in movimento in Orlando furioso, trasgressivo spettacolo che li ha imposti all’attenzione del pubblico. La caratteristica del loro teatro è che lo spettacolo nasce dapprima come installazione, come scultura scenica perché protagonista è il luogo come dispositivo scenico che si impone con le sue grandi proporzioni nello spazio dell’archittettura del teatro.

Twin Rooms , Motus
Twin Rooms , Motus

Motus : da Vacancy room a Twin rooms.

Twin room è costruito intorno ad una struttura “abitabile”. Una camera d’albergo: bagno e camera da letto contigui e comunicanti percorsi a vista dagli attori in coppia, a gruppi o singoli; quasi una sensazione di immobilità di azione in questa rigida delimitazione dello spazio, e di uscita dal tempo. E’ il luogo stesso a suggerire questa dimensione astratta: la camera d’albergo è un (non) luogo intimissimo e anonimo insieme La struttura è quadro che isola e insonorizza dal mondo. E’ anche la scatola ottica davanti alla quale poter esercitare, la propria (voc)azione voyeuristica (in quanto spettatori). Lo svolgimento dello spettacolo rivela molte affinità con il procedimento filmico. Il soggetto stesso è un vero e proprio topos a lungo esplorato e rivisitato dalla cinematografia e da un certo film di genere. Il progetto teatrale è terminato con la creazione di un ulteriore dispositivo di sguardi: una struttura modulare che raddoppia la stanza: una digital room che duplica i personaggi: le immagini proiettate provenienti da telecamere in mano agli attori e da microcamere fisse contribuiscono a dare l’impressione di assistere ad un “doppio film” .Le immagini preesistenti vengono mixate live con quelle girate in diretta. La regia teatrale diventa regia di montaggio. Twin room è ispirato a DeLillo (Rumore bianco) ha avuto una prima visione in forma installattiva al Museo Pecci di Prato; in scena un “contenitore” d’ambienti: camera d’albergo e bagno che si impone quale macchina dello sguardo e simbolo di una esasperata ricerca di uno spazio interiore; un luogo riempito di oggetti, parole, suoni e immagini evocati dal cinema e dalla letteratura.Il ruolo del video in Twin rooms: moltiplicatore di sguardi, introspettivo, narcisistico, mnesico. Video come una finestra sull’io. Per certi aspetti il video esaspera operazioni come The merchant of Venice di Peter Sellars. Un eccesso di visibilità e anche un incrudelimento e una morbosità dell’occhio della telecamera che si sofferma sui corpi. E questo è in De Lillo, interessato a quello che il consumo cannibalico delle immagini potrebbe dirci sull’inconscio collettivo politico e culturale. I personaggi di De Lillo parlano sullo sfondo di immagini televisive di morte e disastri, da Piazza Tienanmen, alla tragedia allo stadio di Hillsborough. In De Lillo i personaggi passeggiano tra i grandi magazzini e si vedono ripresi dalle telecamere, i loro volti andare in diretta in televisione. Le tecnologie negli spazi urbani ci coinvolgono , nelle strade, nelle banche, vediamo immagini di noi stessi ovunque. La sorveglianza non viene soltanto assunta da istituzioni pubbliche e ufficiali, sta assumendo caratteristiche individuali e familiari. Scrive in un romanzo De Lillo: “La gente agisce in terza persona, si trasforma via via nella propria succursale di spionaggio, nella propria compagnia televisiva, nella propria stazione televisiva. Filma le percosse della polizia, i maltrattamenti delle baby sitter ai bambini che custodiscono”. C’è una video vigilanza diffusa. La città viene a costituire un mosaico di microvisioni e microvisibilità. Il video in scena quindi integra il procedimento del romanzo: lo shock dell’immediatezza, il senso di alienazione e di perdita di identità nel flusso della rappresentazione del sé: “Una sera camminavano accanto a un grande mafazzino,andavano a zonzo. E Marina guardando verso un televisore in vetrina vide la cosa più sorprendente, una cosa talmente strana che dovette fermarsi a fissarla, afferrandosi saldamente a Lee. Era il mondo che andava dal di dentro verso il di fuori. Stavano a bocca aperta a fissare se stessi dallo schermo tv. Era in televisione!” (Don DeLillo).

L’écran contre la scène (tout contre): Motus, René Pollesch, Frank Castorf, par Didier Plassard
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publié dans  J.FERAL et E.PERROT (dir.),Le Réel à l’épreuve des technologies, Presses Universitaires de Rennes,2013.

Quand la photographie électrique, en séries, sera introduite sur la scène, […] la projection pourra se dire toute-puissante et peu de choses lui seront refusées. Adolphe Appia[1].

 Effets d’absence ou scène augmentée ?

 L’analyse la plus courante, lorsqu’on se penche sur l’intégration de l’image vidéo dans la mise en scène contemporaine, repose sur le postulat que la palette expressive du théâtre s’en trouverait à chaque fois élargie : écrans et moniteurs permettraient d’accroître l’efficacité de la représentation théâtrale, faisant même naître selon certains chercheurs une forme de « scène augmentée »[2], au sens où l’on parle d’une « réalité augmentée » pour désigner l’hybridation du réel et du virtuel. La complexification des modes de présence de l’interprète, le croisement des espaces-temps fictionnels ou le développement de niveaux narratifs autonomes, tels qu’ils résultent de l’introduction de ces images sur la scène, viendraient simplement enrichir des moyens scénographiques et dramaturgiques déjà éprouvés, sans remettre en cause leurs modes de fonctionnement ordinaires.

 Ce postulat d’une addition des langages de l’image et de la scène, qui était déjà celui des avant-gardes historiques lorsque, dès 1916[3], elles imaginaient d’associer projection cinématographique et représentation théâtrale, mérite aujourd’hui d’être réexaminé. Depuis le milieu des années 1990, en effet, sont apparus des dispositifs scéniques qui, en privilégiant des écrans de très grandes dimensions, l’absence durable des acteurs sur le plateau ou le caractère intrusif de l’appareillage technique, inaugurent une nouvelle direction de travail dans l’histoire déjà longue des relations entre la scène et l’image projetée : la variation des registres de présence[4], explorée par Jacques Poliéri, Josef Svoboda et la scène expérimentale américaine dans les années 1960, puis systématisée par tant de metteurs en scène et de chorégraphes au cours des décennies suivantes, laisse en ce cas la place à ce que je serais tenté d’appeler des « effets d’absence ».

 En 1994, le monologue Slight return, de l’auteur et metteur en scène new-yorkais John Jesurun, enfermait l’interprète, pour toute la durée de la représentation, à l’intérieur d’un cube de bois de 2 mètres de côté posé sur la scène. Seule une rangée de 5 moniteurs vidéo, suspendus devant ce cube aveugle, permettait aux spectateurs de suivre ce qui se passait à l’intérieur et de voir indirectement l’interprète. La même année, Le Marchand de Venise de Shakespeare, dans la réalisation de Peter Sellars, accompagnait la presque totalité de l’action scénique par sa captation vidéo, filmée en direct depuis la scène, puis retransmise sur des moniteurs suspendus au-dessus des rangées du public. Aucun emplacement dans la salle ne lui permettant de regarder simultanément le plateau et le moniteur le plus proche, le spectateur était donc conduit à diriger ses yeux alternativement vers l’un ou vers l’autre, conscient de ce que chacun de ses choix l’obligeait à renoncer aux informations venues de la scène (réelle ou électronique) qu’il cessait un instant de regarder, et même dans une certaine mesure de voir. Par ailleurs, la présence insistante sur le plateau de micros et de caméras (souvent portés par des acteurs), comme de moniteurs et d’ordinateurs, créait autour des interprètes tout un « arsenal électronique »[5] qui modifiait en profondeur les relations interpersonnelles en interférant de manière répétée dans leur jeu.

 Ces exemples, choisis parmi d’autres, constituent les prémices d’une évolution qui, en quelques années, s’est accentuée. Bien loin de contribuer à la mise en place d’une « scène augmentée », ajoutant aux prestiges les plus anciens du théâtre l’écho des technologies les plus récentes, l’intégration à très fortes doses de l’image électronique dans la représentation théâtrale tend, chez différents metteurs en scène, à s’accompagner d’une raréfaction, d’une destructuration, voire d’une quasi-disparition de l’action scénique. Ce sont ces « effets d’absence » que je me propose ici d’examiner en prenant appui sur deux productions allemandes et une italienne, réalisées entre 2002 et 2004 : Le Maître et Marguerite, mis en scène par Frank Castorf d’après le roman de Boulgakov[6] ; Pablo au supermarché Plus, spectacle conçu et réalisé par René Pollesch[7] ; et Twin rooms, une création de la compagnie Motus[8]. En préalable, cependant, je présenterai rapidement le cadre interprétatif général dans lequel s’inscriront ces analyses.

 Révolution numérique et spectacle vivant

 Parmi les multiples mutations que connaissent les sociétés contemporaines, il en est deux qui entraînent des conséquences importantes pour les arts de la scène, conduisant à une redéfinition des protocoles et des enjeux de leurs manifestations. La première est ce qu’il est convenu d’appeler la « révolution numérique », l’extension, à des domaines toujours plus nombreux de la vie sociale ou privée, des technologies de l’informatique et des réseaux. Celles-ci, sans que nous en soyons toujours conscients, transforment en profondeur nos systèmes de représentations, au sens le plus littéral du terme : c’est-à-dire les stratégies par lesquelles nous construisons une série d’états intermédiaires (donc de transitions, de négociations, etc.) entre la présence et l’absence, le « da » et le « fort » du jeune enfant que regardait jouer Sigmund Freud[9]. Les nouvelles technologies de l’information et de la communication – c’est une banalité de le remarquer – nous amènent de plus en plus souvent à composer avec ces états intermédiaires, ces absences rendues presque présentes, ces présences partiellement absentes, dont la gamme ne cesse de s’étendre. D’où l’hypothèse, formulée notamment par Hans-Thies Lehmann, selon laquelle les arts de la scène, mettant en jeu la présence plutôt que la représentation[10], assumeraient aujourd’hui une fonction compensatrice en regard de la place grandissante qu’occupent les simulacres techniques dans nos vies : le théâtre et la danse permettraient de retrouver l’épaisseur et le grain de la présence corporelle, chargeant celle-ci d’une aura (au sens de Walter Benjamin) dont aucune image enregistrée, fût-elle interactive, ne peut se revêtir. La présence physique constituerait ainsi le nouvel horizon d’attente des arts de la scène, la performativité leur nouvelle grammaire.

 La seconde mutation est le fractionnement des collectivités préexistantes, des solidarités familiales, locales ou professionnelles, et l’isolement croissant de l’individu dans une masse humaine qui, physiquement présente, lui demeure pourtant étrangère. Pour reprendre les analyses de David Le Breton[11], le sujet occidental contemporain se construit à partir d’une série de coupures symboliques par rapport au monde, à ceux qui l’entourent mais aussi à sa propre existence corporelle. La perception en commun d’une même œuvre, dans un même temps et dans un même lieu, prend de ce fait une valeur particulière. Sans aller jusqu’à penser, comme Denis Guénoun, que le rassemblement du public dans une salle confère, à lui seul, une dimension politique au théâtre[12], on peut considérer que le partage du sens et de l’émotion, dont Schiller faisait déjà l’une des clés de l’utilité morale du théâtre[13], permet la construction d’un sentiment de communauté rendu plus précieux encore aujourd’hui. Comprendre et ressentir, de manière éphémère, ce que comprennent et ressentent les inconnus assis autour de lui devient ainsi un élément fondateur de l’expérience du spectateur de théâtre, à la différence de celui de cinéma dont l’attention, sans cesse relancée par le montage, se concentre presque exclusivement sur l’écran.

 Il résulte de ces différents facteurs que le double phénomène de la coprésence (du public face aux acteurs, des spectateurs entre eux) constitue très vraisemblablement l’un des enjeux principaux de la « séance théâtrale » aujourd’hui : si nous nous rassemblons encore au théâtre, c’est en premier lieu pour y voir des acteurs en vrai et pour vivre à plusieurs, simultanément, la même expérience artistique. Suivant cette hypothèse, l’introduction des nouvelles technologies sur la scène, qui résulte de la nécessité pour le théâtre de nouer plus fortement le lien avec le monde actuel en mettant en jeu nos façons de vivre, de communiquer, de penser, entre donc en contradiction avec l’attente d’une forme même éphémère de refondation communautaire. Sans doute est-ce là l’une des raisons pour lesquelles se trouve généralement privilégié le traitement en direct de l’image, puisqu’il conserve la dimension temporelle (et parfois même spatiale, lorsque l’action filmée est visible sans l’intermédiaire de la caméra) de l’expérience partagée. Dans ce régime, largement dominant, l’image vidéo permet de regarder différemment une action scénique elle-même directement visible des spectateurs. Ainsi peut-elle servir, paradoxalement, à maintenir d’une certaine façon le sentiment de coprésence entre la scène et la salle, en s’inscrivant dans une boucle de validation réciproque : l’écran, recevant la trace lumineuse de l’action scénique, lui prête l’effet d’autorité et de vérité qui émane de toute image enregistrée, tandis que le plateau témoigne de la conformité entre ce que montre l’écran et ce qui s’accomplit sur ses planches.

L’écran comme scène rivale

 Bien autrement en va-t-il des réalisations scéniques qui, comme celles précédemment évoquées de Castorf, de Pollesch ou de la compagnie Motus, prennent le parti de déjouer avec une radicalité beaucoup plus grande les protocoles de la double coprésence : celle de la scène et de la salle, de par l’absence durable d’acteurs sur le plateau ; celle des spectateurs entre eux, de par la transformation partielle d’un public de théâtre en public de cinéma, c’est-à-dire en un regroupement d’individus séparés les uns des autres par le pouvoir de fascination des images. L’attente d’un instant de partage se trouve ainsi déçue, la représentation théâtrale refusant de constituer, devant la performance d’interprètes de chair et d’os, le rassemblement d’une communauté de sens et d’émotions.

D’autres productions – de Denis Marleau et Zaven Paré, par exemple[14] – poussent ce refus plus loin encore, jusqu’à l’exclusion complète des interprètes vivants sur la scène, en ne donnant à voir que des masques sur lesquels sont projetés les traits des acteurs. À la différence de ce « théâtre de l’effacement »[15] intégral, cependant, les trois productions dont il sera question ici ont pour caractéristique commune de nouer la présence à l’absence : les acteurs participent physiquement à la représentation, mais l’action scénique, en les dérobant à notre regard ou en ménageant des obstacles à celui-ci, nous interdit l’accès direct à leur performance. La tension est ainsi plus forte de ce que l’objet du désir est là, que nous le savons, mais que la jouissance nous en est refusée.

 Dans la mise en scène du Maître et Marguerite par Frank Castorf, par exemple, le dispositif scénique de Bert Neumann est constitué principalement d’un long bungalow vitré occupant presque toute la largeur de la scène, et que surmonte un écran de projection de grandes dimensions. À sept reprises, pendant des plages temporelles de six à quinze minutes totalisant exactement un quart du spectacle (62 minutes sur quatre heures de représentation), aucun acteur n’est physiquement présent sur la scène : seule la médiation de diverses caméras et de l’écran nous permet d’assister aux séquences interprétées en temps réel derrière le décor, dans une forme de studio de télévision ou de « coulisse électronique » (pour reprendre cette expression à Giorgio Barberio Corsetti[16]) où sont reconstitués la Judée de Ponce Pilate et les immeubles de Moscou. La clinique psychiatrique du docteur Stravinski, elle aussi visible uniquement sur l’écran, est figurée par une cellule et une cabine de douche formant un sas entre le bungalow vitré et le studio de télévision. Quant aux scènes qui se déroulent dans la maison du Maître ou dans celle de Marguerite, elles sont jouées dans une petite chambre construite au-dessus du bungalow et jouxtant l’écran du côté cour : les acteurs peuvent alors être simultanément aperçus dans l’encadrement de la fenêtre de cette chambre, comme si le public les regardait depuis une rue, et vus de très près sur l’écran, grâce au cameraman qui les filme à l’intérieur de la pièce. Le sentiment de frustration qui naît de la prise de conscience que les actions visibles sur l’écran ont lieu en direct, mais dans un hors champ visuel, se trouve encore renforcé du fait que les acteurs, lorsqu’ils sont physiquement présents sur la scène, restent presque toujours séparés des spectateurs par la paroi transparente formant la façade du bungalow, lui-même placé en retrait sur le plateau – un dispositif que le scénographe Bert Neumann a déjà réalisé pour une autre mise en scène de Castorf : Les Démons, d’après Dostoievski, en 2000. Aussi n’est-ce qu’à travers le double obstacle de la distance et d’une vitre de plexiglas que déplacements, mimiques et gestes nous parviennent généralement, comme en partie désincarnés, lorsqu’ils n’apparaissent pas seulement sur l’écran. Ce choix scénographique n’est évidemment pas sans incidence sur la perception : la captation du spectacle conservée par la Volksbühne permet ainsi d’entendre l’interpellation, suivie d’applaudissements, d’une spectatrice demandant de parler plus fort aux acteurs qui dialoguent derrière la paroi transparente.

Dans Pablo au supermarché Plus, de René Pollesch, les parts respectives de la présence réelle et de la présence à l’écran sont exactement l’inverse de celles du Maître et Marguerite : pour un spectacle d’une heure et demie, les apparitions physiques des acteurs ne totalisent guère plus qu’une petite vingtaine de minutes[17], tandis que l’écran vidéo qui surplombe la scène de la Rollende-Road-Schau[18] de la Volksbühne de Berlin ne s’éteint jamais. Aussi, plus fortement encore que dans la mise en scène de Frank Castorf, les interprètes évoluant sur scène ou bien parmi les spectateurs ont-ils à rivaliser avec ceux qui, souvent en très gros plan, continuent d’occuper l’image. La plus grande part de l’action scénique, filmée en direct, est dissimulée aux yeux du public par un vaste container rouge qui, disposé latéralement du côté cour, fait à la fois office de loge et de « coulisse électronique », tandis qu’une estrade latérale, côté jardin, est destinée à la régie technique. Quelques rares et minuscules instants de jeu à l’intérieur du container peuvent toutefois être aperçus grâce à une ouverture ménagée telle une fenêtre sur sa façade, mais partiellement occultée par un rideau de lanières scintillantes et l’inscription « BILLIG » (‘pas cher’). Machine à produire la frustration du public de théâtre, ce dispositif scénique semble n’avoir pour fonction que d’attester de la présence des acteurs à l’intérieur du container, tout en les soustrayant à la vue en direct pendant les trois-quarts du spectacle.

 Twin rooms, pour sa part, repose sur un principe entièrement différent. Dans cette réalisation de la compagnie Motus, librement inspirée du roman Bruits de fond (White Noise) de Don DeLillo ainsi que de films d’Abel Ferrara, de Gus Van Sant et de Wong Kar-wai, le public se trouve face à un double espace scénique que surmonte, de façon gémellaire, un double écran de projection vidéo : tandis que le décor construit sur le plateau représente, séparées par une cloison percée d’une porte, la chambre et la petite salle de bains d’un motel américain, les deux écrans disposés juste au-dessus ont exactement la même forme et les mêmes dimensions que l’encadrement des deux pièces. À l’exception de quelques brefs noirs à l’écran ou de moments d’obscurité sur la scène, ces quatre fenêtres ouvertes sur l’action mobilisent alternativement le regard du spectateur sans que celui-ci parvienne à percevoir la totalité de ce qui s’accomplit sous ses yeux : prenant brusquement conscience d’une modification survenue dans l’un ou l’autre des espaces concurrents, il est sans cesse conduit à déplacer le foyer de son attention.

 La discontinuité et le sentiment de confusion qui résultent de ces multiples réagencements oculaires sont encore agravés par les jeux de redoublement, de variation, de prolongement visuel ou de contrepoint expressif que produisent l’alternance, sur les écrans, des images filmées en direct depuis différentes caméras fixes ou mobiles, ainsi que l’introduction de quelques séquences enregistrées. Enfin deux techniciens, l’un tenant une caméra, l’autre un micro au bout d’une perche, viennent fréquemment s’interposer entre les acteurs présents sur la scène et le public, de sorte que la perception pleine et entière du jeu se trouve contrariée : celui-ci, le plus souvent dirigé vers les caméras plutôt que vers le public, tend d’ailleurs à se rapprocher des codes cinématographiques, donnant aux spectateurs le sentiment d’assister non à une représentation théâtrale, mais au tournage d’un film. La construction même de l’espace scénique, encombré de meubles et fermé par des murs parallèles qui rendent difficile la perception du fond de scène, renforce cette impression d’un plateau destiné à être filmé plutôt que regardé par un public de théâtre.

 

 

 

Le théâtre affaibli

 À l’intérieur de chacune de ces trois productions, l’action scénique se trouve donc déplacée, occultée ou gênée par le (mais aussi au profit du) dispositif filmique, tandis que l’image vidéo, de grandes dimensions, puissamment éclairée et surplombant la scène à la manière des écrans géants utilisés dans les concerts de rock ou certains meetings politiques, s’impose brutalement aux regards. Le théâtre cesse ici de se définir comme le lieu de la manifestation de corps vivants, ou même comme celui de la rencontre ou de l’hybridation entre la réalité physique et l’image projetée, pour devenir celui d’un combat inégal entre, d’une part, une scène matérielle affaiblie ou marginalisée, et d’autre part une « scène » électronique usant de tout son pouvoir de sidération.

 Cet affaiblissement des moyens propres du théâtre ne résulte pas seulement du dispositif scénique ni de la relégation d’une grande partie de l’action hors de la sphère de visibilité immédiate. La rivalité de la scène et de l’image s’accompagne en effet, chez Castorf et Pollesch, d’un déséquilibre très accentué entre leurs fonctions dramaturgiques respectives. Dans Le Maître et Marguerite, l’écran se fait l’instrument privilégié du gag visuel (la démarche chaloupée d’un chat de dessin animé pour accompagner Woland chantant Sympathy for the devil[19], la tête de Berlioz tranchée par les roues du tramway, les mésaventures du directeur du Théâtre des Variétés transporté loin de Moscou), du gag verbal (les messages publicitaires d’une salle de cinéma porno), en même temps qu’il accueille un grand nombre des moments-clés du roman de Boulgakov (la confrontation de Ponce Pilate et de Yeshoua, les scènes de la clinique psychiatrique, la rencontre de Marguerite et d’Azarello, l’envol vers la nuit de sabbat, etc.), traitées de manière dramatique ou comique. Le bungalow vitré, en revanche, abrite un médiocre snack-bar décoré de l’inscription au néon « I want to believe » et un salon équipé d’un billard. Dans cet espace entièrement dédié à l’attente, les personnages bavardent, fument, boivent, déplacent les sièges, font un peu de rangement, paressent sur un canapé, pique-niquent, etc. Son rôle peut même apparaître plus dérisoire encore, à la faveur de certaines brèves entrées en scène : on voit par exemple l’un des pensionnaires de la clinique sortir de l’écran, pousser la porte du sas qui le conduit sur le plateau, directement à la vue du public, prendre une boisson dans le réfrigérateur du snack-bar puis s’en retourner dans sa chambre à l’écran, réduisant ainsi l’espace théâtral à la fonction d’une simple réserve d’accessoires dans le hors-champ de l’image.

 Par contraste avec une action scénique si ténue ou si ralentie, l’écran se charge d’un jeu beaucoup plus intense : cadrés en plan serrés, regardant très souvent la caméra ou même s’adressant à elle, les acteurs surenchérissent en expressivité à la façon des utilisateurs amateurs d’une webcam. Ainsi, lorsque Marguerite a perdu la trace du Maître, voyons-nous l’actrice Kathrin Angerer, miaulante de colère et de désespoir, errant à quatre pattes entre des immeubles miniatures, regarder alternativement l’objectif et les fenêtres éclairées ; puis, lorsqu’elle apprend du démon Azarello qu’elle pourra sauver son amant si elle accepte de se rendre à une nuit de sabbat, la jeune femme, multipliant les grimaces, les balbutiements comiques et les manifestations d’étonnement face à une caméra qui étire ses traits tant elle s’est rapprochée, prend longuement les spectateurs à témoins devant l’étrangeté du personnage et de sa proposition.

 Dans Pablo au supermaché Plus, les rares apparitions matérielles des acteurs s’accompagnent de brusques décharges d’énergie (cris, explosions de colère) ou d’instants ludiques (boniment et vente au public, jeux, brèves traversées de la scène) formant contraste avec l’action qui se déroule à l’intérieur du container, presque entièrement constituée de prises de parole à l’écran. Pour ces dernières, le regard-caméra, micro tenu à la main juste devant la bouche, est de règle : les interprètes, cadrés en gros plan, s’adressent de façon posée, complice ou détendue aux spectateurs comme s’ils parlaient à la télévision. Violemment éclairés, démesurément agrandis par la projection, accompagnés d’une musique d’ambiance syncopée aux tonalités latino-américaines, leurs visages s’imposent visuellement au-dessus de la scène. Et si les propos, comme souvent chez Pollesch, sont autant de textes-manifestes inspirés d’études sociologiques, ponctués de grossièretés, et qui semblent aléatoirement distribués entre les interprètes, ils affirment cependant des prises de positions politiques ou socio-économiques qui font de l’écran une tribune[20]. L’entrée en scène, dès lors, n’apparaît que comme une parenthèse dans la série de ces prises de paroles, un bref instant d’exutoire pour les frustrations dont elles témoignent – à moins que, comme dans le numéro de karaoké sur lequel s’achève la représentation, elle ne scelle définitivement l’asservissement de la performance théâtrale à l’image médiatique.

La présence recomposée

J’avançais précédemment l’hypothèse selon laquelle le sentiment de coprésence entre la scène et la salle peut connaître une forme de réélaboration – voire, en certains cas, de renforcement – par l’intromission des écrans, la diffusion en direct de l’image venant offrir un autre point de vue sur une action théâtrale déjà visible des spectateurs, dans un double système de validation réciproque. Ce n’est cependant pas ce qui se vérifie avec Le Maître et Marguerite de Castorf : d’abord parce que, comme dans le spectacle de René Pollesch, l’écran n’y redouble généralement pas la scène physique, chaque site développant ses propres séries d’actions plus ou moins autonomes ; mais aussi parce que, dans les rares moments où cela se produit, la relation entre les deux points de vue s’établit plutôt suivant le modèle du trucage à l’image et de son explication sur le plateau. Ainsi le vol de Woland et de sa troupe est-il réalisé par les acteurs couchés sur le dos et agitant les jambes dans le salon du bungalow, leur reflet dans un miroir oblique placé au-dessus d’eux étant filmé par une caméra puis projeté sur l’écran.

Twin rooms, pour sa part, use largement du dispositif vidéo pour donner aux spectateurs un autre point de vue sur l’action scénique, mais à l’intérieur d’une économie toute particulière, car c’est l’image qui restitue sa pleine lisibilité à un jeu théâtral éloigné et difficilement perceptible en raison de l’encombrement du plateau. Grâce à elle, nous n’avons pas seulement accès au détail de l’expression ou des gestes des acteurs ; nous découvrons aussi, par exemple, que la sortie de l’une des protagonistes, Eva, n’est qu’une feinte, et que celle-ci reste cachée près de la porte-fenêtre de la chambre pour épier les conversations ; puis que la même Eva, quelques temps plus tard, se glisse entre deux lits sans que les autres personnages s’en aperçoivent et que là, allongée sur le sol, elle regarde une série de clichés photographiques. Caméras et techniciens contruisent donc un espace sous contrôle, une « scène surveillée »[21] où rien ni personne ne paraît pouvoir échapper aux regards.

Mais c’est aussi l’image vidéo qui, par le montage des plans (ou par leur juxtaposition sur les deux écrans contigus, à la manière d’un effet de split-screen), peut rapprocher les corps et raccorder les regards d’interprètes éloignés l’un de l’autre ou semblant s’ignorer sur le plateau, alors même qu’ils sont en train de dialoguer. Procédé habituel au théâtre puisqu’il permet au public de se percevoir comme destinataire indirect de la réplique, le décrochage du face-à-face entre les interlocuteurs se trouve ainsi corrigé par le système de projection. De façon comparable, monologues et confessions, dits par les acteurs face à l’objectif, se révèlent sur l’écran être adressés aux spectateurs. Véritable machine de vision, au sens développé par Paul Virilio[22], le dispositif formé par les diverses caméras, la régie technique et les écrans, s’il contribue en premier lieu à disloquer l’image scénique en quatre fenêtres concurrentes, permet donc en certains cas de recomposer les situations énonciatives et de restituer à l’action dramatique sa cohérence, sans qu’il soit toujours possible de décider si celle-ci a été déconstruite sur le plateau pour produire un effet de surthéâtralisation ou pour recréer les conditions d’un tournage.

Accueillant parfois, sous forme de séquences pré-enregistrées, les souvenirs ou les rêveries des protagonistes, les écrans servent aussi à piéger l’attention du public, en particulier dans les séquences qui reprennent, pendant de longs instants, les plans fixes en provenance de caméras de surveillance. Alors qu’il a pu vérifier, depuis le début du spectacle, que l’image électronique de la salle de bains coïncide exactement avec son original sur le plateau, le spectateur découvre à plusieurs reprises un certain nombre de différences : assis sur les W.-C., le protagoniste masculin, Jack, est entièrement habillé à l’écran alors qu’il porte seulement un pantalon dans la réalité. Un peu plus tard, un caniche, qui n’apparaît qu’à l’image, fait son entrée dans la même salle de bains : sans que le public ait pu s’en rendre compte, la captation en direct depuis la caméra de surveillance a laissé place à une séquence pré-enregistrée par celle-ci. Répétée en boucle, l’entrée du petit chien prend alors le sens d’un prolongement imaginaire – et ironique – du dialogue : deux acteurs, sur scène, rejouent en effet une situation extraite du film de Gus Van Sant My own private Idaho, dont on peut entendre simultanément la bande sonore :

(Voix de Mike) : Si j’avais eu des parents normaux, une éducation à peu près correcte, j’aurais pu devenir un mec assez équilibré je crois.

(Voix de Scott) : Ça dépend de ce que t’appelles normal.

(Voix de Mike) : C’est vrai ouais. Enfin, je veux dire des gens normaux, du genre papa, maman, avec un chien, ce genre de conneries… Normaux… normaux. Non, j’avais pas de chien.[23]

Par ces légers décrochages, l’image vidéo commente et, dans une certaine mesure, élargit les significations de l’action scénique ; mais, dans le même temps, le jeu des différences, en focalisant durablement l’attention, détourne les spectateurs de l’interprétation des acteurs et parasite la communication théâtrale. L’effet de distraction qui en résulte tend donc à se rapprocher de celui des procédés, bien plus appuyés, dont use Frank Castorf dans sa mise en scène du Maître et Marguerite : par exemple lorsque, dans les premiers instants de la représentation, l’écran fait défiler comme sur un affichage lumineux les slogans publicitaires burlesques d’une salle de cinéma porno (« Vous ne voulez pas vous FÂCHER avec votre FEMME ? OK ! OK ! OK ! Restez tranquillement chez vous et regardez ARD ou ZDF[24] – MAIS – MAIS – MAIS RÉFLÉCHISSEZ BIEN, chez nous aussi vous êtes assis au PREMIER RANG »), tandis que les acteurs interprétant les deux écrivains Berlioz et Biezdomny ont commencé d’échanger leurs points de vue sur la personnalité réelle de Jésus à l’intérieur du snack-bar.

 Pour ce qui concerne Twin rooms, cependant, le principal obstacle à l’établissement d’une relation directe entre acteurs et spectateurs réside, comme je l’ai déjà évoqué, dans le caractère intrusif de l’appareillage technique. En plus de deux caméras de surveillance placées dans la salle de bains, on peut d’abord relever la présence de deux ou trois techniciens (selon les représentations), munis de caméras sur pied et placés au milieu du public, qui filment l’action scénique depuis des angles de vue identiques à ceux des spectateurs, mais avec des effets de zoom ou de cadrage modifiant l’échelle et orientant la vision. Surtout, un perchiste et un cameraman, évoluant à l’avant-scène puis à l’intérieur du décor, s’imposent visuellement dans la proximité immédiate des comédiens, quand leurs silhouettes ne se découpent pas tout simplement devant eux ; au bout d’une vingtaine de minutes (soit environ au quart de la représentation), ces deux hommes, par leur comportement de plus en plus étrange et envahissant, commencent de s’affirmer comme personnages autonomes, sur les marges de l’action principale. Nous les voyons ainsi se filmer eux-mêmes, prendre la parole pour se désigner comme Vladimir et Damir, poser devant les caméras de surveillance de la salle de bains, écrire sur son miroir, dialoguer entre eux (pour rejouer, par exemple, l’extrait de My own private Idaho précédemment cité), mais aussi commenter d’une mimique humoristique ou imiter les échanges entre les deux protagonistes, les amants Jack et Cate qui vivent la fin de leur relation amoureuse. Ponctuée d’extraits de la bande sonore et de situations empruntées à Snake eyes (Dangerous game) d’Abel Ferrara, lequel prend justement pour argument la réalisation d’un film sur la défaite d’un couple, l’action de Twin rooms multiplie donc les parallélismes et les interférences entre fiction théâtrale, fiction cinématographique, tournage d’un film et préparation d’un spectacle, allant jusqu’à interrompre les acteurs dans leur jeu pour faire entendre les conseils que leur donne, en voix off, l’un des deux metteurs en scène de la compagnie Motus, Enrico Casagrande[25].

 Ce n’est toutefois pas seulement la pleine jouissance d’une action dramatique, portée par des acteurs sur un plateau de théâtre, qui se trouve ainsi refusée dans ces trois productions par le dispositif de captation et de projection vidéo : l’image, elle aussi, connaît de fréquents parasitages dus aux apparitions, en amorce dans le cadre, de la perche d’un preneur de son, d’un micro, voire d’une autre caméra et du cadreur qui la manipule. Même la présence à l’écran des interprètes et le déroulement du récit filmé sont ainsi contrariés par les approximations volontaires du dispositif technique, le média cessant d’opérer comme une simple médiation pour agir à la manière d’une gêne ou d’un encombrement.

 Les relations interpersonnelles à l’intérieur de la sphère mimétique, par exemple, se voient fréquemment déconstruites par la présence de la caméra et le pouvoir d’attraction qu’elle semble exercer sur les comédiens, selon un régime qui relève des usages télévisuels, non de la fiction cinématographique. C’est en particulier massivement le cas dans Pablo au supermarché Plus : à lui seul, le recours systématique au micro tenu à la main signifie que le véritable destinataire de la réplique n’est en aucun cas un autre « personnage » (pour autant qu’on puisse encore utiliser ce terme dans l’analyse des spectacles de René Pollesch), ni même simplement un partenaire de jeu, mais bien, comme dans une émission télévisée, le public devant l’écran. Les gros plans sur les visages face à l’objectif et la succession des prises de parole détachées confirment donc ce qu’annonce la simple visibilité du dispositif de prise de son : le refus de constituer toute apparence de dialogue à l’image autant que sur une scène. Cette juxtaposition de discours solipsistes apparaît d’ailleurs d’autant plus surprenante que les interprètes multiplient les gestes de tendresse ou de complicité les uns à l’égard des autres. L’enlacement familier des corps, souvent filmés au repos (assis ou couchés) à l’intérieur du container, fait ainsi contraste avec un dispositif énonciatif exclusivement orienté vers le spectateur.

 Comme j’y ai déjà fait allusion, plusieurs séquences filmées du Maître et Marguerite voient elles aussi des interprètes se détourner de leurs partenaires de jeu pour regarder avec insistance la caméra : prise à témoin, interrogation muette, expression d’inquiétude, d’amusement ou d’embarras. C’est en particulier ce que font à diverses reprises Marguerite face aux étranges propositions d’Azarello ou de Woland, le directeur du Théâtre des Variétés Stepan Likhodieiev devant le contrat prétendument signé de sa main que lui présente le même Woland, ou bien Biezdomny dans sa cellule, expliquant au directeur de la clinique psychiatrique curieusement allongé à côté de lui qu’il a parlé avec un homme ayant vécu à l’époque de Ponce Pilate, puis l’entendant dire qu’il peut quitter la clinique quand il le veut. Dans chacune de ces situations, l’interpellation du spectateur par le regard-caméra crée une forme de déliaison de la relation dialoguée (les autres interprètes présents à l’image continuant de s’adresser à leur partenaire comme si de rien n’était), en même temps qu’une mise en perspective de la situation de double énonciation propre à la communication théâtrale. C’est donc, à certains égards, la recomposition d’un effet de coprésence (et peut-être, par là, une rethéâtralisation) qui s’opère à l’intérieur du dispositif vidéo, l’adresse au public par le biais de l’image venant renouer une relation que l’interposition du média électronique travaille par ailleurs à défaire.

Le vivant comme désordre

On pourrait encore relever, dans la mise en scène de Castorf comme dans le spectacle de la compagnie Motus, plusieurs moments de jeu avec les caméras de surveillance : par les poses affectées qu’ils prennent devant elles, ou par les regards qu’ils leur lancent, les personnages soulignent qu’ils sont conscients d’être filmés, voire tentent d’établir une communication avec ceux qu’ils imaginent être en train de les regarder depuis leurs écrans de contrôle. De tels instants ludiques, qui contribuent eux aussi, au moins indirectement, à rétablir l’adresse au public, participent par ailleurs d’un régime particulier de la relation aux images, lequel mérite d’être examiné plus attentivement. Car si l’image vidéo est omniprésente dans ces trois productions, si son intégration à l’intérieur de la représentation théâtrale déplace, menace, mais sans doute aussi recompose les modes opératoires de celle-ci, les formes qu’elle adopte sont loin d’être indifférentes.

Il est frappant de constater, en premier lieu, qu’un spectacle aussi nourri de souvenirs cinématographiques que Twin rooms ne convoque jamais, à l’écran, que des images cadrées approximativement: soit que les comédiens entrent et sortent indifféremment du champ des caméras de surveillance ; soit que les images, filmées avec une caméra tenue à bout de bras, aient le tremblé et les incertitudes propres à ce type de prise de vue ; soit encore que, même équipés de caméras sur pied, les cadreurs usent d’une maladresse affichée pour suivre les déplacements sur le plateau, se laissant fréquemment surprendre par une sortie du cadre ou par un geste brusque qui traverse le premier plan. De manière plus générale, effets de zoom et mouvements de caméra s’effectuent sans fluidité, avec de brefs à-coups, des passages au flou, de fréquents recadrages et des réajustements qui, s’ils peuvent rappeler certains plans mouvementés dont Abel Ferrara a trouvé l’inspiration chez John Cassavetes, soulignent aussi la médiation opérée par l’image électronique en révélant la présence des opérateurs occupés à recueillir les traces de l’action scénique. Qu’ils naissent du contraste entre la fixité des caméras de surveillance et la motilité des corps qui s’inscrivent dans leur champ, ou bien des difficultés apparentes qu’éprouve le cadreur à suivre les interprètes dans leurs déplacements, les ajointements incertains de la présence scénique et de la présence à l’écran interdisent qu’on oublie l’existence de la machine de vision ni le contrôle qu’elle exerce sur les activités du plateau.

Les choix esthétiques qui président au traitement de la plupart des images du Maître et Marguerite[26], dans la réalisation de la Volksbühne, sont plus déconcertants encore. Souvent portées, les caméras cadrent ici encore de façon approximative les acteurs, s’attardent sur des détails insignifiants, multiplient les perspectives déformantes et les accidents de prise de vue (mouvements involontaires, difficultés de mise au point, passages inopinés dans le champ, etc.). Pendant la rencontre de Yeshoua et de Ponce Pilate, en particulier, on peut voir nettement, se détachant sur la coulisse, le bord de la toile du décor représentant un paysage de Judée ; puis la précipitation des serviteurs pour remplir la baignoire du procurateur romain bouscule le cadreur et sa caméra dont l’objectif, pendant toute la suite de la séquence, conservera les gouttelettes d’eau projetées par les éclaboussures du bain.

Mais, à d’autres moments de la représentation, l’écran accueille aussi diverses séquences soit simplement reprises de caméras de surveillance (cinq minutes de plan fixe au ras des rails, dans l’attente du tramway qui tranchera la tête de l’écrivain Berlioz), soit relevant d’une forme de pratique amateur ; par exemple des images de Moscou qui pourraient avoir été filmées par n’importe quel touriste parcourant les rues de la ville, ou bien les scènes tournées dans la petite chambre du Maître et de Marguerite, comparables aux vidéos visibles sur YouTube ou les blogs d’Internet : absence durable de montage, cadrage vacillant, défocalisations, glissements d’un personnage à l’autre pour suivre les prises de parole, etc. Même les trucages réalisés à l’aide de la vidéo numérique, en incrustant un élément filmé en direct sur un fond pré-enregistré, affichent la maladresse d’un clip amateur de par la différence des températures de couleurs et l’absence du moindre raccord entre les deux plans de l’image : ainsi de la tête de Berlioz roulant entre les rails du tramway, d’un acteur en frac dansant sur le jeu d’échecs des acolytes de Woland, ou bien du directeur de théâtre Stepan Likhodieiev se retrouvant dans un désert qu’on lui présente comme la ville de Scheveningen (et non celle de Yalta où il croyait être…), puis fuyant un chasseur noir armé d’une sagaie en plein cœur de la savane africaine.

Cette esthétique de la webcam et du film vidéo amateur contraste donc fortement avec la présence affichée des équipes techniques comme aussi avec la puissance des moyens de diffusion utilisés : très grandes dimensions de l’écran, luminosité et définition de la projection, etc. Même le spectacle de René Pollesch, s’il tend davantage à se rapprocher du régime télévisuel de l’image – en particulier avec l’usage visible des micros, qui placent les comédiens dans la position classique du journaliste ou du présentateur –, s’en écarte résolument en raison du traitement informel du cadrage et de l’absence de montage. D’une durée de près de quatre minutes, le premier plan projeté après le noir initial, par exemple, fait office de scène d’exposition : micro à la main, l’une des actrices (Christine Groß) présente différents objets disposés à l’intérieur du container ainsi que ses cinq partenaires de jeu et un chien, apparemment endormis, comme vivant ensemble dans ce lieu. Nous la voyons à chaque fois demander « Was ist denn das ? » (‘Qu’est-ce que c’est que ça ?’), puis la caméra tenue à l’épaule va chercher l’objet ou le comédien ainsi désigné, s’en approche, pivote pour le recadrer dans l’image, enfin revient par le même chemin jusqu’au visage de la jeune femme qui attend d’être de nouveau face à l’objectif pour reformuler sa question.

De façon plus marquée encore que dans la mise en scène de Frank Castorf, la caméra de Pablo au supermarché Plus explore les lieux avec une maladresse voulue, traquant la source des voix lorsqu’elle n’est pas immédiatement perceptible à l’écran ou bien musant pour découvrir les activités – souvent minimales – des différents occupants, les surprendre dans leurs moments d’intimité, recueillir leurs propos, etc. L’absence presque complète de montage conduit à de très longs balayages optiques dans l’espace intérieur du container, à des plongées brusques, des rotations, des allers-retours qui accompagnent chaque mouvement du caméraman et semblent suivre les déplacements spontanés de son regard. Dans ce champ infiniment mobile, les interprètes disparaissent et reparaissent par simple glissement dans l’image, sans que l’enchaînement de ces apparitions ne construise un récit, au sens cinématographique du terme, ni qu’il engage véritablement autre chose que de simples variations thématiques ou rythmiques à partir de la situation initiale.

S’il est un trait commun aux trois productions qui viennent d’être évoquées, c’est bien, on le voit, d’associer en une combinaison inédite et fortement déstabilisatrice pour le public théâtral l’hyper-présence des écrans, la minoration ou le confinement hors champ de l’action scénique et le traitement informel des images projetées. Si, en première analyse, on peut être tenté d’établir une relation d’homologie entre la place accordée au dispositif vidéo dans ces spectacles et celle qu’occupent généralement écrans ou moniteurs dans nos vies (faisant ainsi de ce nouveau paradigme des relations entre la scène et les images le reflet des mutations en cours dans la société), il apparaît clairement que Frank Castorf, René Pollesch, Enrico Casagrande et Daniela Nicolò se refusent à faire des « scènes » électroniques qu’ils convoquent sur le plateau les simples véhicules des images produites par l’industrie cinématographique ou médiatique, ni de leurs imitations même lointaines. En puisant leurs modèles dans les pratiques visuelles les moins élaborées, les metteurs en scène affaiblissent significativement le pouvoir de fascination des écrans et, surtout, tentent de compenser par le regard-caméra, le débordement du jeu ou la présence perceptible de l’opérateur les « effets d’absence » de l’acteur sur le plateau : d’une certaine façon, l’introduction massive du dispositif vidéo sur la scène théâtrale s’accompagne par là de son propre correctif.

Mais la prédilection pour les modèles de la webcam, de la caméra de surveillance ou du film amateur, avec les approximations visuelles qu’elle induit, doit sans doute aussi s’interpréter sur un autre plan. À peu près entièrement affranchie de la grammaire filmique, l’image vidéo projetée sur la scène fait toujours apparaître un corps, dans toute sa singularité désordonnée : soit en trahissant chaque mouvement de celui qui porte la caméra et de son regard qu’elle prolonge, soit en soulignant, par le contraste avec sa propre immobilité, les hésitations et les accidents ordinaires de la vie. Image ensauvagée ou instabilité dans le cadre, l’humain apparaît à chaque fois comme désordre et inadéquation, c’est-à-dire dans une tentative de prise de distance à l’égard des habitudes visuelles qui fondent le régime moyen de l’imagerie médiatique. Parmi les diverses façons dont le théâtre compose un espace de mise en perspective critique face à l’industrialisation des médias et du divertissement, le double jeu de la frustration des attentes et du décentrement des images par les énergies du vivant n’est sans doute pas l’une des moins efficaces.

Twin rooms

DIDIER PLASSARD,Professeur en études théâtrales Université Paul Valéry - Montpellier III
Rédacteur en chef "Prospero European Review".

 

[1] Adolphe Appia, « Notes de mise en scène für Den Ring des Nibelungen » (1891-19892), Œuvres complètes, vol. 1, L’Age d’homme, Lausanne, 1983, p. 114.

[2] Analogie proposée notamment par Antonio Pizzo (université de Turin), lors de la journée d’études Faire écran : le théâtre et son ailleurs selon Giorgio Barberio Corsetti, université de Lille III, 20 janvier 2009. En toute rigueur, cependant, l’appellation de « scène augmentée » devrait exclusivement s’appliquer aux dispositifs théâtraux mettant en jeu des effets de réalité virtuelle.

[3] Voir Pierre Albert-Birot, « À propos d’un théâtre nunique », SIC, n° 8-9-10, août-octobre 1916, rééd. Jean-Michel Place, Paris, 1980, p. [64].

[4] Concept développé par l’équipe « Théâtre et cinéma » du Laboratoire de recherches sur les arts du spectacle du CNRS ; voir Béatrice Picon-Vallin, « Hybridation spatiale, registres de présence », in B. Picon-Vallin (dir.), Les Écrans sur la scène, L’Age d’homme, Lausanne, 1998, pp. 28-29.

[5] Frédéric Maurin, « Usages et usures de l’image – Spéculations sur Le Marchand de Venise vu par Peter Sellars », ibid., p. 96.

[6] Der Meister und Margarita, mise en scène de Frank Castorf d’après le roman de Mikhail Boulgakov, création le 14 juin 2002 à Vienne dans le cadre des Wiener Festwochen. Reprise le 9 novembre 2002 à la Volksbühne de Berlin.

[7] Pablo in der Plusfiliale, spectacle de René Pollesch, création le 26 mai 2004 à la Volksbühne de Berlin.

[8] Twin rooms, spectacle conçu et réalisé par Enrico Casagrande et Daniela Nicolo, compagnie Motus, création le 9 février 2002 à Venise dans le cadre de la Biennale.

[9] Voir Sigmund Freud, Au-delà du principe de plaisir, Payot, Paris, 1968, p. 52.

[10] Hans-Thies Lehmann, Postdramatisches Theater, Verlag der Autoren, Francfort/Main, 1999, p. 146. Je me réfère ici à l’édition allemande plutôt qu’à la traduction française (L’Arche, 2002), par endroits fautive et surtout amputée d’un tiers par rapport au texte d’origine.

[11] Voir David Le Breton, Anthopologie du corps et modernité, PUF, Paris, 1990.

[12] Voir Denis Guénoun, L’Exhibition des mots et autres idées du théâtre et de la philosophie, Circé, Belfort, 1998, p. 10 ; et, pour une brève discussion de cette thèse qui, de mon point de vue, confond l’institution d’un espace religieux et celle d’un espace politique : Didier Plassard, « Théâtre et politique – L’écriture de la violence dans Fin de partie et En attendant Godot », Études théâtrales, n° 20, Centre d’Études Théâtrales, Louvain, mars 2001, p. 79.

[13] « […] quel triomphe pour toi, ô Nature, […] de voir des hommes de toutes les classes, de tous les pays, […] devenus frères par la toute-puissance de la sympathie, […] se fondre de nouveau en une seule famille […]. Chaque spectateur partage le ravissement de tous, et reflété par mille yeux, ce ravissement revient avec plus de force et d’éclat dans son cœur, qui n’est alors rempli que d’un seul sentiment, celui d’être homme » (Friedrich von Schiller, « Le théâtre considéré comme institution morale », Mélanges philosophiques, esthétiques et littéraires, trad. par F. Wege, Paris, Hachette, 1840, pp. 385-386).

[14] Voir, par exemple, le double dossier « Modernité de Maeterlinck – Denis Marleau » publié dans Alternatives théâtrales, n° 73-74, Bruxelles, juillet 2002, et celui sur Le Théâtre des oreilles de Valère Novarina dans Alternatives théâtrales, n° 72, Bruxelles, avril 2002 (pp. 8-23).

[15] Zaven Paré, « Sur le théâtre des oreilles – Sur le théâtre de l’effacement », Alternatives théâtrales, n° 72, pp. 17-20.

[16] Voir D. Plassard, « Dioptrique des corps dans l’espace électronique : sur quelques mises en scène de Giorgio Barberio Corsetti », in B. Picon-Vallin (dir.), op. cit., pp. 149-170.

[17] Calcul réalisé à partir de l’enregistrement vidéo du spectacle, Pablo in der Plusfiliale, Volksbühne Films, 2005.

[18] Conçue par le scénographe Bert Neumann comme un « container théâtral mobile », la Rollende-Road-Schau de la Volksbühne est une scène sous chapiteau ouvert qui permet la diffusion de spectacles, de concerts, de films ainsi que différentes animations, principalement dans les zones périphériques qui « résistent au théâtre ». Voir Hannah Hurtzig, RRS – Rollende-Road-Schau vom Rosa-Luxemburg-Platz, Das mobile Container-Theater der Volksbühne, Alexander Verlag, Berlin, 2002.

[19] Comme le rappelle Castorf, cette chanson des Rolling Stones est directement inspirée de la lecture par Mick Jagger du roman de Boulgakov.

[20] « Parce que la pièce […] a été donnée en première au Festival de la Ruhr, co-financé par les syndicats, Pollesch réfléchit aussi méchamment que possible au désarroi avec lequel les syndicats réagissent à un capitalisme de plus en plus dur et à la rupture des systèmes de protection sociale. D’une part, [il] exprime sa solidarité avec les mouvements de protestation contre le néo-libéralisme. Mais dans le même temps Pollesch, marginal professionnel, fait clairement apparaître la frontière qui le sépare du courant ‘classes moyennes’ du DGB (Deutscher Gewerkschaftsbund) : quand on n’a encore jamais appartenu au centre social, on prend connaissance avec un léger malin plaisir de la manière dont les garanties des citoyens sont brisées. Et l’on s’en remet à l’économie parallèle, aux réseaux sociaux et aux trucs utilisés par les marginalisés pour assurer leur survie. » (Peter Laudenbach, in Der Tagesspiegel online, 28 mai 2004, cité d’après le site Internet du Goethe-Institut : http://www.goethe.de/kue/the/nds/nds/aut/pol/stu/frindex.htm#plusfiliale).

[21] Cf. Georges Banu, La Scène surveillée, Actes Sud, Arles, 2006.

[22] Voir Paul Virilio, La Machine de vision, Galilée, Paris, 1988.

[23] Gus Van Sant, My own private Idaho, film long-métrage, New Line Cinema, États-Unis, 1991. C’est la version doublée en français de ce film qui était utilisée pendant les représentations de Twin rooms. Sur scène, cependant, les acteurs répétaient ces répliques en italien, donnant à entendre deux fois le même texte avec quelques légères transformations.

[24] Chaînes de télévision allemandes.

[25] Le second est Daniela Nicolò.

[26] Il faut cependant remarquer qu’un petit nombre de séquences sont filmées de façon plus académique : le cadrage est fixe, et la régie en direct crée des effets de montage champ / contrechamp en alternant les sources de la prise de vue. C’est le cas, par exemple, du deuxième intermède filmé montrant Ponce Pilate, lors de sa discussion avec Caïphe.

Quello che tarda a emergere: il teatro a rischio di virtuale. Saggio di Didier Plassard
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Pubblicato sul primo numero della rivista  Prospero European Review  novembre 2010

Lechy Elbernon:  […] Il teatro. Lei non sa cosa sia?
Marthe:  No.
Lechy Elbernon:  C’è un palco e una sala. Poiché tutto è al chiuso, le persone vengono là di sera e stanno seduti su file di sedie gli uni dietro agli altri, guardando.
Marthe:  Cosa? Che cosa guardano, visto che tutto è chiuso?
Lechy Elbernon:  Guardano il sipario,  e quello che c’è dietro quando è sollevato. E succede qualche cosa sul palco, come se fosse realtà.
Marthe: Ma non lo è!  È come un sogno che si fa quando si dorme.
Lechy Elbernon:  È così che vengono al teatro la notte.

Paul Claudel [1].

 Presenterò qui solo il cantiere di una riflessione in corso, formulando alcune ipotesi che dovranno essere progressivamente verificate ed approfondite. Quello di cui mi propongo di parlare, è il difficile emergere del ” teatro virtuale “, cioè di quello che è descritto spesso come un ritardo delle arti della scena ad integrare questo campo di sperimentazione tecnica ed artistica che si chiama realtà virtuale. Ritardo tanto più stupefacente considerando che l’arrivo delle nuove generazioni di artisti, che hanno familiarità sin dall’infanzia o dall’adolescenza con l’informatica e con la rete, non ha prodotto un investimento importante in questo campo della creazione teatrale. Vorrei analizzare quali sono le ragioni di questo ritardo, se ritardo c’è, prendendo in considerazione certi malintesi che secondo me si manifestano in questa attesa, così come le direzioni prese da alcuni artisti teatrali e delle compagnie che, malgrado tutto, operano in questo campo da più di quindici anni.

 Ma, prima di tutto, non sarà inutile capirsi su alcune definizioni preliminari. Quella di realtà virtuale, innanzitutto.

Ciò che si chiama realtà virtuale non è, in effetti altro che la ricerca dei mezzi grazie ai quali gli oggetti digitali, creati o trattati da un computer, possono smettere di apparirci unicamente come delle immagini eventualmente corredate di effetti sonori, cioè per i soli canali sensoriali della vista e dell’udito. In questo momento si punta essenzialmente al nostro senso del tatto, anche se si possono immaginare altri sviluppi. Due sono dunque le direzioni esplorate: l’effetto di rilievo e quello di profondità, attraverso la simulazione di una terza dimensione dello spazio; e l’effetto di resistenza o di risposta, con la simulazione di un peso, di una materia, di un’interazione. La realtà virtuale comincia quando ciò che è solamente il risultato di calcoli, e che tutto al più si presenta abitualmente sotto forma di un’immagine sonorizzata su un schermo, ci dà l’illusione sia di un oggetto materiale, sia di un essere vivente vero (un ” avatar”), o di un ambiente concreto all’interno del quale possiamo spostarci. Questi effetti sono ottenuti generalmente, per ciò che riguarda la vista, attraverso dei visori, schermi in miniatura a cristalli liquidi o da televisori posti davanti agli occhi, e montati su occhiali o caschi detti “head mounted display”; e, per il tatto, con guanti speciali (“data gloves”) che danno alla mano l’illusione di impadronirsi di un oggetto e di manipolarlo.

La definizione di arte digitale:

Questa definizione, che si adopera a proposito di ogni creazione artistica generata rielaborata o dai computer, si riferisce oggi a innumerevoli collezioni di opere d’arte visiva, musicale, cinematografica, senza dimenticare le molteplici combinazioni di queste arti. Nel campo del teatro, mi sembra che  le produzioni che si sono messe in evidenza in questo campo si possano raggruppare attorno a due grandi direzioni:

-o il teatro diventa digitale con il trattamento informatico della rappresentazione, dando l’illusione della presenza del corpo, di oggetti e di spazi  creati da computer,

o il teatro diventa digitale attraverso il trattamento informatico dell’interpretazione, facendo dell’attore un’interfaccia  ( per esempio grazie al processo di cattura del movimento, agendo sulla rielaborazione di certe sorgenti di dati, banche di immagini o di suono).

Molti contributi scientifici, articoli o tesi dedicate alle relazioni tra le arti della scena e le nuove tecnologie, evocano una terza direzione: quella di creazioni, fatte da uomini di teatro o da coreografi, unicamente accessibili su supporti elettronici (CD-ROM, DVD, siti Internet, ecc.). Mi sembra impossibile seguirli su questo punto; se si vuole considerare che un film teatrale[2] (per esempio Il Mahabharata di Peter Brook, secondo la sua messa in scena) o di danza  (come Mammame de Raul Ruiz, con la coreografia di Jean-Claude Gallotta), non è, per l’esattezza, né un spettacolo di teatro né di danza, ma piuttosto la sua riscrittura in un altro dispositivo artistico, questo non può essere il caso di opere che esistono solamente per gli utenti disseminati, ciascuno restante davanti allo schermo del suo computer o del suo smartphone. Tali produzioni – quelle di Laurie Anderson[3] o di Wooster Group[4] per esempio –  poiché sono destinate a un uso individuale nella sfera privata, inventano dei dispositivi estetici che hanno evidentemente una loro piena legittimità, ma che sono collocabili in un campo diverso da quello delle arti sceniche.

Si tratta dunque, solamente di adattamenti di opere teatrali o coreografiche, che propongono un altro tipo di esperienza rispetto a quella dello spettatore di una rappresentazione pubblica – la prima differenza è quella dell’azione effettiva che devono compiere gli utenti di queste creazioni elettroniche per scoprirne tutte le potenzialità, questione sulla quale ritornerò più tardi.


Una realtà che si cancella.

Fatte queste premesse, stabilite queste distinzioni, vorrei ora precisare l’idea, rievocata all’inizio di questo testo, del difficile emergere di un’arte scenica che mette in campo effetti di realtà virtuale. Sono molte le considerazioni infatti, che rischiano di creare una frattura tra il teatro e la sua epoca, se non si decide di integrare diversamente le nuove tecnologie; non semplicemente per esempio, integrandole con le proiezioni di immagini, ormai così frequenti nelle messe in scena odierne.

 Franck Bauchard, per esempio, scriveva una dozzina di anni fa :

Nel momento in cui, entrando in un’éra cibernetica, gli artisti si sono confrontati con nuovi contesti culturali e tecnologici, con nuove pratiche degli spettatori e con nuove attrezzature, il teatro si afferma come un spazio sacralizzato che resiste alle evoluzioni portate dall’éra digitale. La relazione che si stabilisce in altre arti tra gli sviluppi tecnologici ed il cambiamento estetico è oggi, priva di significato per il teatro? Se il teatro è un prisma attraverso quale lo spettatore può accedere alla realtà, come può dar conto delle nuove percezioni dello spazio e del tempo che corredano il virtualizzazione del mondo? Diventando un luogo dove si mantengono intatte le forme tradizionali della rappresentazione, il teatro ci porge degli specchi che riflettono una realtà che si cancella.” [5]

 La natura assoluta di queste affermazioni non è dissimile da quelle che possono essere trovate nei  manifesti modernisti all’inizio del XX secolo. Mi permetto qui di formulare un dubbio: qualsiasi cambiamento tecnologico importante non ha sempre la vocazione di tradursi letteralmente sul palco. E quando lo fa, forse bisognerebbe considerare queste procedure di integrazione come un momento, un passo nel processo di familiarizzazione di una società con questi nuovi ambienti. In questa prospettiva, la domanda di integrazione, sulle scene contemporanee, di tecniche e di immaginario propri della realtà virtuale, potrebbe essere paragonata agli esperimenti futuristi o costruttivisti di teatro-aereo, le danze delle macchine, gli attori robotici delle scene «magnetiche» o “elettromeccaniche” negli anni Venti: quella fu allora, l’espressione di un momento di crisi delle rappresentazioni, crisi determinata anche da altri fattori, specialmente estetici [6], e non l’entrata in una nuova éra della scena, che si sarebbe così finalmente adattata alla modernità urbana ed industriale.

 Ma c’è un altro sintomo, ancora più rivelatore che le dichiarazioni militanti: l’aumento molto impressionante, negli ultimi anni, di creazioni classificate come  esperimenti di “teatro virtuale”. Nella sua tesi di dottorato scritta nel 2005, Clarisse Bardiot osservava come questa espressione, che provoca un notevole entusiasmo, riunisce però realtà le più disparate. Basandosi sulle richieste fatte con il motore di ricerca Google, la Bardiot concludeva:

«Mentre nell’aprile 2003, le ricerche di “Teatro virtuale” e “virtuale + teatro” davano  5 050 e 483.000  risultati, nel febbraio 2005 erano rispettivamente 23 000 e 2 700 000.» In francese, le richieste di “Teatro virtuale” e “Teatro + virtuale” davano 67 e 110 risultati nell’aprile 2003 e 3.410 e 144.000 nel febbraio 2005. Nell’analizzare i risultati ottenuti nelle prime pagine, si può osservare che l’espressione comprende oggetti molto vari. Ecco alcuni esempi: panorama a 360 ° di luoghi reali, dispositivo immersivo, metodo di cattura del movimento in tempo reale per animare i personaggi in 3D, rappresentazione mentale, piéce teatrali filmate e disponibili su Internet, siti di appassionati di teatro, modalità di collaborazione a distanza (videoconferenza), rappresentazioni teatrali che utilizzano sistemi di telepresenza, performance teatrale che combinano attori virtuali con attori reali, drammi interattivi che coinvolgono personaggi dotati di comportamenti autonomi, scenografie che utilizzano realtà virtuale… “[7]

 Quattro anni più tardi, nel maggio 2009, la stessa ricerca dava, per l’inglese , rispettivamente 23 100 e 101 000 000 risposte, 1.810 e 18 300 000 in francese – e, come era prevedibile, questa disparità non ha fatto che aumentare. Si noti, tuttavia, che nel febbraio 2010, scendono a 20.700, 6 380 000, 6970 e 725.000, il che ci ricorda in primo luogo la grande instabilità delle risorse disponibili su Internet e in secondo luogo la semplice evidenza che tutta la storia non è necessariamente cumulativa: lo sviluppo delle pratiche non è fatto da semplici aggiunte, ma secondo movimenti di  flusso e riflusso di difficile interpretazione. La fortuna di questa espressione  (teatro virtuale) appare comunque significativa, il che testimonia l’importanza delle aspettative in quest’area: ancor prima di materializzarsi in realizzazioni incontestabili, ‘Teatro virtuale’ è l’espressione del desiderio di vedere materializzarsi sul palco teatrale quei simulacri elettronici che incontriamo nella vita: nei molteplici usi del nostro computer e della rete, nelle mostre e installazioni di arti plastiche e ovviamente anche anche nel cinema. E questo desiderio, di per sé, ha un senso.

 Le produzioni che, sulla base delle precedenti definizioni, possiamo avvicinare al “Teatro virtuale” sono in realtà molto meno numerose. Possono anche essere deludenti e soprattutto la complessità delle procedure attuate non sempre è facilmente percepibile. È difficile, ad esempio, per gli spettatori della messa in scena di Jean Lambert-Wild di Orgia, di Pasolini (2001), stabilire un preciso collegamento tra lo spostamento e le evoluzioni delle strane creature che galleggiano come senza peso intorno attori e i segnali involontari emessi dagli attori:

 ‘”Tre attori interpretano Orgia, piéce di Pasolini messa in scena a Belfort da Jean Lambert-wild. Ma non sono soli sul palco. Intorno a loro galleggiano, in alcuni momenti, degli strani esseri: gli Apharias, che presentandosi in grappoli, evocano le bolle di sapone; gli Hyssards, molto più voluminosi, hanno una forma decisamente fallica. Queste creature traslucide, che non sono altro che proiezioni in tre dimensioni, hanno il nome generico di Posydones e sono state ispirate da organismi viventi sul fondo degli oceani. Dei sensori, collegati alla pelle degli attori, registrano  i ritmi cardiaci e respiratori, le variazioni di temperatura. Il comportamento dei  Posydones, i loro movimenti, dipendono direttamente da emozioni umane. “[8]

 Ma per questa integrazione effettiva di realtà virtuale all’interno di una scena teatrale, quante denominazioni fuorvianti. Soprattutto, quanti realizzazioni che non rientrano nell’ambito delle arti sceniche, ma piuttosto in quello delle arti plastiche, perché  in realtà si tratta di installazioni destinate a visitatori (ad esempio, il Salone delle ombre di Luc Courchesne, 1996). E, più spesso ancora, quante messe in scena che, battezzate come ‘Teatro virtuale’, in realtà offrono un’esperienza che rientrano nell’ambito delle attività ludiche piuttosto che di quelle artistiche: chat con avatar visive su Internet [9], questionari messi online prima di una rappresentazione teatrale [10], flash mob [11], ecc.

 

 

Due regimi della relazione col pubblico

 Perché, dunque, questo ritardo ad emergere in piena visibilità con realizzazioni indiscutibili, nonostante le alte aspettative? E, poiché alcune di queste creazioni esistono dalla metà degli anni Novanta, perché continuano a essere così  spesso confuse, anche negli studi accademici e nelle pubblicazioni specializzate, con attività che rientrano in altri settori della vita sociale?

L’ipotesi che formulerei è che questo ritardo nasce dalla difficoltà di articolazione di due regimi molto diversi di relazione col pubblico. Riflettendoci, infatti, e anche se regolarmente viene detto il contrario [12], mi sembra che l’orizzonte di ricerca impegnato nel campo della realtà virtuale è difficilmente compatibile con i protocolli della rappresentazione teatrale, per quanto queste possano essere di vario tipo. Possono essere identificate tre aree confliggenti tra questi due regimi:

 – l’opposizione tra dispositivo immersivo e dispositivo spettatoriale: il teatro, emancipandosi dal  rito, dalla festa o dai giochi, è costruito sul distacco, condizione primaria della percezione estetica; siamo così passati da spettacoli cosiddetti «di partecipazione» a rappresentazioni teatrali davanti ad un pubblico.

 – l‘opposizione tra percezione multisensoriale e dominazione del vedere e del sentire: lo sforzo degli ideatori di realtà virtuale di far toccare con mano oggetti digitali, li allontana dal modello teatrale, sia che questo sia a base a base testuale, musicale o spettacolare.

 – l’opposizione tra dispositivo interattivo e riserva (che non vuol dire passività) dello spettatore, che assiste la rappresentazione di un evento senza agire direttamente su di esso.

 Anche se gli specialisti di nuove tecnologie evidenziano le molte creazioni che hanno usufruito, soprattutto nella seconda metà del XX secolo, di momenti di partecipazione effettiva del pubblico o del suo coinvolgimento nell’azione scenica o coreografica [13], resta il fatto che l’esperienza diretta, continua e quasi allucinatoria di un ambiente in cui è possibile agire fisicamente, cancella la distanza necessaria alla percezione di un’opera d’arte. E, cosa più importante, questa stessa esperienza rompe il patto teatrale, per cui, al contrario del soldato di Baltimora da Stendhal, io mi freno ad intervenire nello svolgimento dell’azione drammatica:

 “L’anno scorso (agosto 1822), il soldato assegnato all’interno del teatro di Baltimora, vedendo Otello che, nel quinto atto della tragedia con quel nome, aveva intenzione di uccidere Desdemona, esclamò:”Non sia mai detto che in mia presenza un dannato Negro uccide una donna bianca”.” In quel momento il soldato spara un colpo di fucile e rompe il braccio all’attore che impersonava Otello. “[14]

 Non è quindi sorprendente che le arti sceniche stiano ancora lottando per integrare i processi della realtà virtuale, o che alcune delle realizzazioni in questo campo siano un po’ deludenti. Se possiamo ritenere, con Franck Bauchard, che il teatro deve effettivamente “dare conto delle nuove percezioni dello spazio e del tempo che accompagnano la virtualizzazione del mondo”, la difficile emergenza di un ‘Teatro virtuale’ probabilmente non deriva dalla volontà che avrebbe questa arte di essere definita come “uno spazio sacralizzato [resistente] agli sviluppi portati dall’era digitale” [15] ma piuttosto da questo divario primario, fondatore, tra l’attività di spettatore e l’attore o il personaggio che interpreta.

 Il che mi porta a questa prima conclusione: per far si che si mantenga nel campo dell’arte teatrale, l’integrazione di realtà virtuale deve essere sul palco, non in sala. È necessario che l’immersione e l’interattività, entrambe caratteristiche fondanti dei mondi virtuali, rientrino sulla scena per diventare uno spettacolo di immersione, uno spettacolo dell’interattività tra l’attore e il suo ambiente. Ovviamente, questo non significa che i dispositivi di realtà virtuale implementando il processo di immersione e di interazione con il pubblico, non possano dar luogo ad applicazioni artistiche: lo fanno invece, da molto tempo, in particolare nel campo delle arti visive o della musica. Ma queste applicazioni sono a mio avviso di un ordine di esperienza intermediaria, vicine alla performance, e che non possono definirsi ‘Teatro virtuale’ senza provocare equivoci: è l’approccio, per esempio, che seguono un Stelarc o un Marcel.lí Antúnez Roca quando, attraverso un esoscheletro, o qualsiasi altra forma di interfaccia, permettono al pubblico di dirigere i loro movimenti del corpo.

 Alcuni vincoli tecnici

Inoltre, la realtà virtuale, anche se è oggetto di approfondite ricerche da vent’anni, si scontra sempre con vincoli tecnici che rendono difficile l’integrazione nel dispositivo teatrale, se si tiene in mente che questo richiede la raccolta di un pubblico di fronte ad una rappresentazione scenica, dato un luogo e un tempo. Infatti, visivamente, la percezione estesa della realtà virtuale, cioè l’impressione completa di profondità e rilievo, può essere creata solo tramite apparecchi tecnici individuali.  Gli spettatori, anche se sono tutti accessoriate con questi ‘visori’ (in particolare per Wings di Arthur Kopit regia di Ronald A. Willis e Mark Reaney, 1996), si ritrovano quindi separati l’uno dall’altro. Vedono tutti insieme lo spettacolo, come il  pubblico di un cinema, ma non si vedono vederlo; percepiscono se stessi, non tanto come parte integrante di una comunità attraversata  da stesse emozioni e stessi significati, esperienza fondatrice per lo spettatore, come  già notato da Schiller [16]. Pertanto, una dimensione essenziale della relazione teatrale, quella della condivisione sensibile di un’esperienza in tempo reale, viene atrofizzata.

 Quindi l”uso più frequente è quello di ricorrere a forme intermedie, quasi introduttive, di materializzazione della realtà virtuale. Se l’accento è posto sul lato di interattività, i dati digitali su cui agiscono gli attori (ad esempio muovendosi) danno luogo, visivamente, ad immagini proiettate su uno o più schermi: è quello che fanno Toni Dove in Spectropia (2007), Mark Reaney Dinosaurus (2001) o  Marcel.lí Antúnez Roca nelle “performance mecatroniche”  che realizza in Epizoo (1994). Se invece è privilegiato l’effetto di immersione, le immagini create o rielaborate dal computer sono proiettate su diversi schermi trasparenti, collocati a profondità variabili sulla scena, in modo da dare la sensazione che gli attori siano immersi in un universo fantastico, circondato da creature immateriali. Queste sono le soluzioni adottate da Jean Lambert-wild in Orgia di Pasolini (2001), o in maniera più complessa da Michel Lemieux e Victor Pilon, Denise Guibault per La tempesta di Shakespeare(2005). L’effetto risultante non è quello di un mondo compatto, omogeneo, ma di uno spazio lamellare, all’interno del quale coesistono e interagiscono i diversi livelli di realtà, diversi registri di presenze, come ci hanno abituato da molto tempo i processi di integrazione delle proiezioni di film o video sulla scena teatrale. Qualunque siano le prodezze tecniche messa in opera, che portano, in particolare ne La tempesta, all’invisibilità del supporto tecnico per le proiezioni, si tratta di dare agli spettatori non tanto la sensazione di un universo virtuale ma quanto quello di una ‘realtà aumentata’, cioè un ambiente instabile, derivante dall’ibridazione di mondo fisico e oggetti digitali.

 Un secondo vincolo, più difficilmente superabile, sta nelle difficoltà che provano gli attori all’interno di questi spazi ibridi, dove non possono percepire dal palco, gli elementi virtuali che li circondano e con cui essi dovrebbero  interagire (per esempio negli allestimenti di R. A. Willis e M. Reaney per Wings di Arthur Kopit e per Adding Machine di Elmer Rice, 1994; ma anche, in una certa misura, in Orgia dove gli interpreti furono costretti ad una quasi totale immobilità). Ovviamente il problema non è nell’obbligo di recitare con oggetti e partner immaginari, che è una delle basi della formazione dell’attore, ma nel fatto che l’esistenza di questi oggetti e questi partner, lungi dall’essere creati dall’immaginazione dello spettatore attraverso la recitazione dell’attore sulla scena, si materializza in forme contemporaneamente visibili al pubblico e invisibili per l’interprete. Anche se si potrebbe paragonare questa situazione a quella di un attore di cinema, costretto anche lui a trattare con elementi inesistenti al momento delle riprese [17], il paragone non è convincente: davanti alla cinepresa, si recita per la durata di pochi piani, non il tempo di una rappresentazione intera; e per diverse inquadrature tra cui sarà possibile scegliere, non davanti a un pubblico.

 

Nuovi spettri

 L’effetto di ibridazione che ho citato in precedenza, spesso porta gli artisti a dare priorità, in produzioni dove si usano tecniche di realtà virtuale, alla rappresentazione di mondi immaginari: ricordi e sogni (in The Adding Machine e Wings), fantasie di ogni genere (per Marcel.lí Antúnez Roca), emozioni legate al desiderio (in Orgia messa in scena da Jean Lambert-wild), magia (ne La tempesta o nella messa in scena del Flauto magico di  Del Unruh e Mark Reaney, 2003), splendida spettacolo destinato ad un pubblico giovane (Dinosaurus di Patrick Carriere e Mark Reaney 2001), fantasy e fantascienza (Spectropia di Toni Dove). Spazio fantasmagorico, la scena si popola di creature strane, impalpabili, venute da altri dimensioni della realtà. Non è quindi nella sua dimensione illusionista, come un territorio concorrente al mondo fisico, che la realtà virtuale trova il suo posto nelle arti dello spettacolo, ma piuttosto come agente di incertezza: scena “aumentata”, naturalmente, ma forse meglio ancora incrinato, “disgiunto” (“out of joint”, dice Amleto), come se lo spazio-tempo della rappresentazione si spaccasse all’improvviso per far sorgere nuovi spettri.

Perché  non si fanno comparire sulla scena, senza mettere in discussione potentemente il mondo in cui viviamo, degli esseri che, come sognavano gli androidi di Maeterlinck, «hanno le apparenze della vita senza vita»: il teatro che ne deriva non è quello che permette un semplice allargamento dei confini della nostra percezione, come si è detto spesso, ma una generale ridistribuzione delle carte del reale e l’immaginario. Non è indifferente, in questa prospettiva, che queste apparizioni coinvolgono creature zoomorfe ispirate dalle forme di vita più primitiva che vivono nelle profondità oceaniche (Orgia), animali preistorici (Dinosaurus), figure mostruose uscite da un manuale di teratologia (per Marcel.lí Antúnez-Roca), mobili nei quali si aprono bocche, come nelle creazioni di un moderno Jérôme Bosch (Spectrotopia), facce fluttuanti nello spazio (il flauto magico), corpi e testi che  diventano gigantesche o minuscole (The Adding Machine, Spectrotopia, La tempesta).

 Allo stesso modo, probabilmente non è solo difficile compatibilità della rappresentazione teatrale e del ricorso a “visori” individuali che conduce al reflusso progressivo degli esperimenti che mettono in gioco, intorno gli attori, un ambiente scenografico virtuale: è anche l’attenzione di questi approcci artistici attorno alla questione dell’incarnazione teatrale, cioè modelli di figurazione e della posizione dell’essere umano. Solo il rapporto del teatro con i mondi immaginari, infatti, può essere veramente arricchito dal contributo della realtà virtuale: sia quando questa fa apparire, a fianco di attori fisicamente presenti sulla scena, creature intermedie, che sembra il caso più delle volte esplorato oggi; sia quando questi interpreti virtuali fanno retrocedere la figura umana sino ali limiti dell’estraniamento, che è proprio quello che esplorano le ‘ figure fantasmagoriche” di Denis Marleau (I tre ultimi giorni di Fernando Pessoa, Antonio Tabucchi, 1997; I ciechi di Maeterlinck, 2002) e Zaven Paré (Théâtre des Oreilles da Valère Novarina, 2001).

 Se il sogno di un ‘Teatro virtuale’ tarda a materializzarsi, nel senso di esibizioni pubbliche che coinvolgono, all’incrocio delle loro definizioni più esigenti, l’arte del teatro e le tecniche di realtà virtuale, non è per colpa della mancanza di spazio per investire, ma piuttosto a causa del difficile adeguamento di due mondi quasi antitetici, e che non possono fecondarsi l’un l’altro se non rinunciando ciascuno alle proprie ambizioni singolari : la scena a definirsi principalmente grazie alla presenza fisica dell’attore; la realtà virtuale, a proporsi come un equivalente di questa presenza fisica. Paradossalmente è nel interstizio aperto dagli effetti molteplici della derealizzazione dell’azione scenica, mi sembra, che potrebbe emergere un teatro dell’epoca digitale.

 Extraicts du spectacle

Note

[1] Paul Claudel, L’Échange, Théâtre, vol. 1, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris, 1967, p. 676.

[2] Cfr. Béatrice Picon-Vallin (dir.), Le Film de théâtre, CNRS Éditions, Paris, 1995.

[3] Laurie Anderson / Hsin-Chien Huang, Puppet Motel, CD-rom Multimedia, Gallimard, 1995.

[4] Zoe Beloff / The Wooster Group, Where where there there where, CD-rom multimédia, Electronic Arts Intermix, 1998.

[5] Franck Bauchard, «Théâtre et réalité virtuelle: une introduction à la démarche de Mark Reaney», in B. Picon-Vallin (a cura di), Les Ecrans sur la scène, Lausanne, L’Age d’homme, 1998, p. 225.

[6] Cfr.: Didier Plassard, L’Acteur en effigie, Figures de l’homme artificiel dans le théâtre des avant-gardes historiques, L’Âge d’Homme, Lausanne, 1992.

[7] Clarisse Bardiot, Les Théâtres virtuels, tesi di dottorato sotto la direzione di Béatrice Picon-Vallin, Université Paris III, 2005, vol. 1, p. 7.

[8] René Solis, Libération, 9 febbraio 2001.

[9] Vedi l’attività del Desktop Theater: http://www.desktoptheater.org/

[10] Il était Xn fois, spettacolo del progetto Virthéa presentato a Brest nel 2009 dalla compagnia Derezo.

[11] Cfr.: C. Bardiot, Théâtres virtuels, p. 193.

[12] « L’art du théâtre a beaucoup en commun avec le phénomène de la réalité virtuelle (RV). Une représentation théâtrale et une expérience de RV sont toutes les deux basées sur le temps, n’existent que pendant la durée où les participants humains y sont engagés. Tous les deux se basent sur la création d’un univers fictif pour distraire, informer, éclairer » (Mark Reaney, « Théâtre et réalité virtuelle : un art en temps réel », conferenza del 24 mars 2000 a CIREN, Université de Paris 8, testo disponibile sul sito:  http://www.ciren.org/ciren/conferences/240300/index.html).

 [13] Cfr. per esempio Frédéric Maurin, « Devant / dedans », Les Cahiers de médiologie, n° 1 (La Querelle du spectacle), Gallimard, Paris, 1996, pp. 83-91.

[14] Stendhal, Racine et Shakespeare, Paris, Kimé, 1994, p.22.

[15] Franck Bauchard, « Théâtre et réalité virtuelle : une introduction à la démarche de Mark Reaney », in Béatrice Picon-Vallin (dir.),Les Écrans sur la scène, L’Age d’homme, Lausanne, 1998, p. 225.

[16] Cfr.: Friedrich Schiller, « La scène considérée comme une institution morale », Mélanges philosophiques, esthétiques et littéraires, Hachette, 1840, pp. 385-386.

[17] E’ nota la posizione di Lance Gharavi, assistente di Mark Reaney per Wings: cfr.: Ozana Budau, «L’Acteur dans le théâtre virtuel», http://www.groundreport.com/Arts_and_Culture/ACTING-IN-VIRTUAL-THEATRE-LActeur-dans-le-theatre-/2834465

 Didier Plassard, longtemps professeur de littérature comparée et d’études théâtrales à l’université Rennes 2 - Haute Bretagne, (où il a fondé le Département Arts du spectacle),  est aujourd’hui professeur en études théâtrales à l’université Paul-Valéry Montpellier 3. Il a publié L’Acteur en effigie (L’Age d’Homme, 1992, Prix Georges-Jamati), Les Mains de lumière (Institut International de la Marionnette, 1996, rééd. 2005), des traductions, et plus d’une centaine d’articles dans des périodiques (Alternatives théâtrales, Études théâtrales, L’Annuaire théâtral, Puck , Théâtre / Public, Théâtre S) ou des ouvrages collectifs. Il prépare un volume collectif sur la mise en scène allemande contemporaine pour la collection des « Voies de la création théâtrale » aux Éditions du CNRS, et l’édition bilingue du Drama for fools / Théâtre des fous d’Edward Gordon Craig. Ses recherches portent sur de nombreux aspects de l’écriture théâtrale et de la scène contemporaines, mais aussi sur le théâtre des avant-gardes, le théâtre de marionnettes, les relations entre le théâtre et les images, etc. Il est par ailleurs membre du comité des lecteurs du Théâtre national de Bretagne (Rennes), chercheur du réseau théâtral européen Prospero et rédacteur en chef de la revue en ligne Prospero European Review – Research and Theatre.