Archivi tag: GIACOMO VERDE

Liberare arte da artisti. La personale di Giacomo Verde alla Spezia inaugura il 25 giugno.
1542

Sarà una mostra multiforme, mutaforma e multiformato quella che si inaugura il 25 giugno alla Spezia al museo d’arte contemporanea CAMeC della Spezia curata da Luca Fani per ricordare GIACOMO VERDE.

Una mostra che ripercorre 40 anni di attività artistica ma soprattutto di vita, una mostra che rivela le mille tentacolari attitudini di un artista generoso e atipico, che faceva arte per fare comunità. La mostra rispecchia l’universo delle arti percorse da Verde, dal teatro alle arti visive, alla computer art all’artivismo, parola che meglio definisce tutta la sua cre’azione. Impegno sociale, impegno politico, attitudine hacker.

Non sveliamo ancora i materiali in mostra ma possiamo dire che nei sei mesi di permanenza in questo spazio, l’arte di Verde si espanderà, o si dissolverà, si aprirà e riaprirà svariate volte per nuovi inserimenti, per performance non programmate. Tre temi si susseguiranno ARTIVISMO, TECNOARTE E INTERAZIONE e EFFIMERO. Con conferenze, concerti, performance, iniziative, presentazioni di libri, workshop, spettacoli. Sono coinvolti artisti e associazioni, collettivi e officine d’arte e Accademie di Belle Arti.

Come nelle intenzioni di Verde, una parte dell’Archivio oggi depositato allo spazio sociale Ricre’Azione di Viareggio verrà distribuita tra gli ospiti, tra gli amici, che potranno portarsi a casa una parte della memoria di Giacomo.

L’invito è a venire all’inaugurazione del 25 giugno dalle 19 alle 23 e di tornare e ritornare per le riaperture.

In ricordo di Giacomo Verde….e di Franco Serantini a Pisa il 3 maggio
1539

IN RICORDO DI GIACOMO VERDE … E DI FRANCO SERANTINI

Su proposta della “Biblioteca F. Serantini” proponiamo un ricordo di Giacomo Verde, artista e docente a lungo attivo nel panorama culturale italiano e in particolare in quello pisano. Nell’occasione viene proiettato S’ERA TUTTI SOVVERSIVI di Giacomo Verde. il film/documentario racconta, con interviste e documenti d’epoca, la vita di Franco Serantini (1951-1972) e i tanti modi di essere sovversivi, dalla vita quotidiana (la musica, i consumi, le letture) all’impegno politico, che allora si misurava sulla strada come nelle sedi, in un impegno totale che mescolava pratica pubblica e vita privata. E quei ragazzi invecchiati di trent’anni che raccontano, alla fine, non sono così distanti dai loro omologhi che si sono ritrovati in anni recenti a Seattle e a Genova e credono ancora che un mondo migliore sia possibile.

S’ERA TUTTI SOVVERSIVI
(dedicato a Franco Serantini)
regia di Giacomo Verde
durata: 56′ / master: Betacam (girato in MiniDV)
Pisa – Lucca, maggio 2002

Produzione:

BIBLIOTECA FRANCO SERANTINI archivio e centro di documentazione di storia sociale e contemporanea Pisa / BFS EDIZIONI soc. coop. a r. l.
Il giovane anarchico Franco Serantini mori’ nel carcere di Pisa, la mattina del 7 maggio 1972, a causa delle botte ricevute durante il suo arresto. Lo presero sui lungarni, al margine degli scontri per la manifestazione organizzata da Lotta Continua contro il comizio del “fascista” Niccolai. I poliziotti colpevoli della sua morte non vennero mai individuati e condannati. A Pisa e’ una storia che tutti conoscono e a trenta anni da quei fatti il video cerca di ricostruire, attraverso diverse testimonianze e i materiali degli archivi della Biblioteca Franco Serantini, “l’aria che tirava” in quei primi anni ’70 e i momenti centrali della vicenda: che musica si ascoltava, l’organizzazione del Mercato Rosso, l’attivismo politico, gli scontri con la polizia e la figura di Franco attraverso il racconto di chi lo conosceva.

Il 25 giugno inaugura la mostra di Giacomo Verde alla Spezia. Seguite l’hashtag #LiberareArtedaArtistiSP
1536

Il 25 giugno inaugura la mostra di Giacomo Verde alla Spezia, Liberare Arte da Artisti. In attesa del comunicato, del logo e delle informazioni su come raggiungere il CAMeC e sapere cosa sarà allestito al primo piano del museo d’arte contemporanea, seguite l’hashtag #LiberarteArtedaArtistiSp

La mostra su e per il videomaker e artivista #GiacomoVerde alla Spezia non è ancora stata allestita ma è stato creato l’hastag con vari post e highliths e si può già seguire e anche un profilo Instagram @liberareartedaartistisp2022

Da qui è possibile vedere il lavoro in progress degli allestitori all’archivio dell’artista, depositato al Cantiere Sociale di Viareggio “Ri-Creazione”, sede del Collettivo dadaboom che prende il nome proprio da una installazione di Verde all’Officina d’arte viareggina; da questi brevi frammenti, dai video di Instragram è possibile dare uno sguardo fugace alla ricchezza di questo materiale radunato all’indomani della scomparsa dell’artista il 2 maggio 2020 e che non rappresenta solo la storia di un grande artista ma la memoria stessa della videoarte.

Sono infatti depositati nell’archivio i cataloghi U-Tape dal 1983 (l’anno della prima videoesposizione di Verde), tutti i cataloghi delle manifestazioni di videoarte e di arte virtuale dalla metà degli anni Ottanta fino al primo decennio del 2000. C’è poi tutta una libreria straordinaria, la libreria di un vero artivista che collezionava riviste cyberpunk, di politica e di arte, fumetti e grafiche e  che conservava con cura i libri dell’amico Antonio Caronia con dedica.

Questo archivio troverà in parte spazio alla mostra della Spezia voluta da un numeroso gruppo di amici artisti, ex studenti, studiosi, curatori, giornalisti. Ma non sarà solo un’esposizione di archivio. La mostra sarà “atipica” come la sua arte. Vi aspettiamo <3

Seguite l’hashtag per restare informati

#LiberareArtedaArtistiSp

Pubblicato in Open Access per Milano University Press il primo volume dell’Archivio Giacomo Verde. I disegni per videoinstallazioni e videoteatro a cura di A.Monteverdi V. Sansone e D. D’Amico
1530

Alla pagina https://libri.unimi.it/index.php/milanoup/catalog/book/69, è da oggi pubblicato il volume Giacomo Verde. Attraversamenti tra teatro e video (1992-1986), di Anna Maria Monteverdi, Flavia Dalila D’Amico, Vincenzo Sansone.

Hansel e Gretel TV. Il Kit. Archivio Giacomo Verde. Foto di Valentino Albini/Dipartimento Beni culturali UniMi

A poco più di un anno di distanza dalla scomparsa di Giacomo Verde, pioniere della videoarte, del tecnoteatro e dell’arte interattiva italiana e convinto “artivista”, viene pubblicato il corpus di disegni inediti e bozzetti a matita, pastello e collage per video, videoinstallazioni e video performance dell’artista del periodo 1986-1992 (organizzato dall’autore in una sequenza cronologica inversa: 1992-1986). Si tratta della prima pubblicazione nata dal costituendo Archivio Giacomo Verde e illustra la prima fase “tecnoartistica” di Verde: un periodo ben documentato e ricco creativamente parlando, quando approda da autodidatta, nel 1983 dal teatro popolare e di strada alla videoarte con opere e installazioni aventi come caratteristica l’artigianalità del “manufatto tecnologico”, l’uso della bassa tecnologia e l’aggiunta di materiali poveri. Gli autori dedicano il libro alla memoria dell’indimenticato Giac.

Biografie autore

Anna Maria Monteverdi, Università degli Studi di Milano

Esperta di Digital Performance, è Professoressa Associata di Storia del Teatro all’Università Statale di Milano (Dipartimento Beni Culturali e Ambientali) e docente di Drammaturgia multimediale e Storia della Scenografia. È fondatrice e direttrice della rivista accademica Connessioni remote dedicata a Arte, Teatro tecnologico e Artivismo. Ha pubblicato: Leggere uno spettacolo multimediale (Dino Audino, 2020), Memoria, maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage (Meltemi, 2018), Nuovi media, nuovo teatro (FrancoAngeli, 2011), Rimediando il teatro con le ombre, le macchine, i new media (Giacché, 2014) e, con Andrea Balzola, Le arti multimediali digitali (Garzanti, 2004-2019). È co-curatrice della mostra Giacomo Verde. Liberare Arte da Artisti (Sp, Camec, 2022).Flavia Dalila D’Amico, Università degli Studi di Roma La Sapienza

Flavia Dalila D’Amico è una studiosa e curatrice nel campo delle arti performative. I suoi interessi di ricerca si rivolgono alle intersezioni tra corpi, soggettività politiche e tecnologie nell’ambito delle arti dal vivo. Con la supervisione della Prof.ssa Valentina Valentini, nel 2017 ha ottenuto il titolo di Dottore di Ricerca in Musica e Spettacolo presso Sapienza Università di Roma, con una tesi volta a indagare la relazione tra le disabilità e il teatro, confluita in parte nella monografia Lost in Translation. Le disabilità in scena, (2021, Bulzoni Editore). Nel 2014 ha vinto una borsa di studio “DAAD”, programma di scambio internazionale che le ha permesso di studiare presso la Freie Universität di Berlino con la supervisione della Prof.ssa Susanne Foellmer. È stata assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Pianificazione, Design e Tecnologia dell’Architettura di Roma La Sapienza, indagando da una prospettiva storico-critica il ruolo degli artisti visivi e performativi, nei processi di innovazione tecnologica.Vincenzo Sansone, Università degli Studi di Milano

Vincenzo Sansone, laurea magistrale in Teorie e tecniche dello spettacolo digitale (Sapienza Università
di Roma), è dottore di ricerca in Studi Culturali Europei/Europäische Kulturstudien (Università di Palermo). È stato ricercatore in visita presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona e l’Università Politecnica di Valencia.
È anche attore e scenografo digitale. Il focus delle sue ricerche concerne le seguenti aree: arti performative, nuovi media, animazione, tecnologie AR, software culture, cultura visuale. Nel 2021 è stata pubblicata la sua prima monografia Scenografia Digitale e Interattività. Il video projection mapping nuova macchina teatrale della visione (Aracne Editrice). Attualmente è professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano
e l’Accademia di Belle Arti di Brera.

CINEMATICA FESTIVAL ricorda Giacomo Verde, il teknoartista il 20 giugno 2021. Rassegna video a cura di Alessandro Bracalente
1491

A poco più di un anno dalla sua scomparsa Cinematica festival diretto da Simona Lisi, rende omaggio all’interno del ricchissimo programma di performance, danza, incontri a #GIACOMOVERDE. La selezione è a cura di Alessandro Bracalente che di Giacomo è stato allievo all’epoca in cui l’artista video e tecnoperfomer insegnava all’Accademia di Belle Arti di Macerata. E quindi anche il prof. MASSIMO PULIANO di ABA Macerata sarà presente a ricordare l’amico artista e i tanti motivi per cui si definisce pioniere della videoarte, e della performance digitale.

A 20 anni dal G8 di GENOVA verrà proiettato SOLO LIMONI; documentario videopoetico e politico.

h 19.00 proiezione di “Solo limoni” a vent’anni dal G8 di Genova, a seguire una selezione di filmati di repertorio

h 21.00 Omaggio a Giacomo Verde
con i docenti e studenti dell’Accademia di Belle Arti di Macerata, Massimo Puliani, Matteo Antonini, 7/8 chili e ospiti a sorpresa
A cura di Alessandro Bracalente, con il supporto di Anna Maria Monteverdi e l’Archivio Giacomo Verde

Interverrano Massimo Puliani, Alessandro Bracalente (cura dell’omaggio), Matteo Antonini

NOTE

In collaborazione con Accademia di Belle Arti di Macerata

Maggiori info: www.cinematicafestival.comCINEMATICA FESTIVALWEBSITEQUANDO

20 giugno 2021 / h. 19:00DOVE

Sala delle PolveriPREZZI

Ingresso gratuito con prenotazione su EventbriteBIGLIETTERIA

www.eventbrite.it/e/biglietti-omaggio-a-giacomo-verde-e-proiezione-di-olmo-di-davide-calvaresi-158006350247?fbclid=IwAR2tWkbJ8yYmP26CxkZnrS9D3PlFKpyOOJbGyaNW19gNVC2jzPZ4b0cP3P0

Back to analogue: il videoclip (postumo) di Giacomo Verde per Mattia Caroli & I fiori del male
1433

L’ineffabile Giac, che ci ha lasciato il 2 maggio scorso, continua a stupirci: la band MATTIA CAROLI & I FIORI DEL MALE aveva richiesto il suo supporto per il videoclip del singolo “La mia generazione” e lo ha fatto uscire oggi in anteprima .

Ce lo rivela il magazine Rolling Stone. E a noi piace che la band abbia dedicato a Giacomo questo brano: “Seguivamo Giacomo da molto e ci affascinavano le sue ricerche e sperimentazioni sulla possibilità della videoarte e il suo attivismo sociale”.

https://www.rollingstone.it/musica/anteprime-musica/mattia-caroli-i-fiori-del-male-in-anteprima-il-video-di-la-mia-generazione/533512/

Frame dal videoclip LA MIA GENERAZIONE

Un video che mixa immagini della Tv distorte e immagini flashanti, tra Berlusconi e il Colosseo mentre passa il ritornello “ROooooma con gli anni ho imparato ad amarti”; un video che gronda memoria analogica. Per chi conosce Giacomo non sarà difficile riconoscere in questi effetti assai semplificati, da vecchia tecnologia anni Ottanta, quasi aggiunti come in una sessione live, quelli che aveva usato per la sua prima opera assoluta di video arte monocanale: Fine fine millennio.

Con questo video partecipò a U-TAPE (rassegna di videoarte a cura di Lola Bonora a Palazzo dei Diamanti, Ferrara) nel 1984 con il “poetronico” Gianni Toti in giuria, ed è uno dei video-simbolo del lavoro di Verde degli anni Ottanta, quello a cui era più legato. Nel 1994 Verde parlava di Fine fine millennio come di un’opera in cui c’era già tutto il suo lavoro, la sua idea di arte: “Tutti gli altri video praticamente sono uno sviluppo, un approfondimento di Fine fine millennio“; come ricorda lo stesso autore, fu montato in macchina (cioè montato direttamente in fase di ripresa fermando e riattivando la registrazione) in mezza giornata nel 1984, recuperando video di guerra dai telegiornali, ricavandone raffigurazioni astratte, “pittoriche”. Fine fine millennio con la co-produzione Blow up audiovisivi di Gabriele Coassin, avrà più versioni (1984-1987-1988: la triplice datazione è ad opera dello stesso Verde). Sarà proiettato nelle rassegne: “Follia follia”, Roma, 1988; “Segnali all’orizzonte”, Padova, 1989; Lyogon Art Festival, Melbourne, 1989; Typocynet, Terni, 1990; Ti Video Novanta, Roma, 1990; TeleTime, videoarte 90, Messina, 1991.

Ecco come lo descriveva:

“Le immagini video si possono considerare come la memoria di questo fine millennio.L’amnesia diventa la via di scampo per superare una coscienza razionale troppo devastante, e per lasciare posto a una coscienza più profonda (biologica quasi) fatta di lampi pittorico-elettronici: piuttosto che di “telegiornali””.

Da chi abbia avuto l’idea della costruzione astratta di forme luminose, di puntare la telecamera sulla tv, di usare l’effetto “scia” del video come una pennellata veloce e altre tecniche di manipolazione “artigianale” dell’immagine, non è chiaro: credo però, che non sia azzardato ricordare quello che era il clima vivace e sperimentale degli anni Ottanta e del circuito dei Festival di arte elettronica, oggi – come sottolinea Sandra Lischi – completamente scomparso. I dialoghi tra artisti, critici, curatori e studiosi erano proficui e attivavano interferenze, connessioni, scambi, suggestioni: proprio al Centro Video Arte di Ferrara erano ospiti abituali artisti internazionali (dalla Abramovic a Paik ai Vasulka a Gianfranco Barrucchello) offrendo, come ricorda Francesca Gallo, “possibilità di sollecitazioni inarrivabili”.


S. Lischi, La lezione della videoarte. Carocci, Roma 2020

F. Gallo, La videoarte a Ferrara: ieri, oggi e domani, in B. Di Marino, L. Nicoli (a cura di), Elettroshock. 30 anni di video in Italia (1971-2001), Castelvecchi, Roma 2001

Un omaggio a Giacomo Verde dalla Redazione di 93% materiali per una politica non verbale. Con interventi di Massimo Marino, Teatro delle Albe, Renzo Boldrini, Carlo Infante e molti altri
1421

E’ on line da oggi un bellissimo speciale dedicato a Giacomo Verde, l’artista-artivista tecnoteatrale che ci ha lasciato il 2 maggio 2020 sul blog on line 93% Materiali per una politica non verbale di Roberto Castello e Graziano Graziani.

Introduce lo speciale un testo che è una premessa doverosa contro le istituzioni culturali che non hanno riconosciuto il valore di un artista come Giacomo, a firma di Roberto Castello, suo amico e produttore di alcuni lavori teatrali come l’ultimo toccante e catartico spettacolo Piccolo diario dei malanni.

Condivido ogni virgola di quei passaggi duri di Castello dove si legge tra le righe, che dietro il rifiuto di inserire nelle programmazioni certi spettacoli politici, non convenzionali, non ossequiosi, non normalizzati come erano quelli di Giacomo, c’è sempre una precisa strategia di emarginazione e isolamento di ogni cultura oppositiva o anche solo non allineata e dissidente. Giacomo apparteneva a quella categoria di artisti che ha optato per una pratica “sovversiva” dell’arte: un “whistle blower “ teatrale che avrebbe fatto la differenza se fosse stato ai vertici di grandi istituzioni culturali, Teatri, Festival o gallerie. Avrebbe potuto deviare il corso “immorale” di programmazioni normalizzanti, anemiche, noiose, ripetitive senza corporeità politica. Questo ultimo pensiero affiora tra le pagine del suo ultimo, inedito diario familiare: il rammarico di un non riconoscimento della sua arte e soprattutto la rabbia di non essere stato chiamato a dirigere qualcosa di importante. Mi immagino che bello sarebbe stato avere un’edizione del festival di Santarcangelo diretto da lui, per esempio o un’edizione di qualche rassegna d’arte digitale di livello nazionale o internazionale. Ma Giacomo era la persona che meno si autopromuoveva. Faceva bene: è veramente un’esperienza indecente -e l’abbiamo subìta tutti più o meno – quella di proporre progetti o il proprio CV a gente senza alcuna competenza, messa ai piani alti della cultura per meriti di tesseramento o per familismi amorali.

E’ stato un peccato e un vero spreco per l’arte italiana aver permesso che Giacomo passasse il suo tempo sui treni per andare da un’Accademia all’altra a ottemperare i doveri di piccoli contratti, da docente precario cronico (lui che era già nelle Enciclopedie dell’arte insieme a Bill Viola, ai Vasulka, a Studio Azzurro) anziché farlo lavorare a servizio di una grande Istituzione o Fondazione d’arte.

E così la Storia non ci insegna niente. Forse dopo l’editoriale di Roberto Castello qualcuno si sentirà tirato in causa, si sentirà in colpa per non avere fatto abbastanza, per non avere ascoltato. Sono convinta che la questione debba andare oltre la persona di Giacomo e la sua arte “incompresa”.

Ma a questo punto anche io faccio il mio: tra le carte delle corrispondenze che Giacomo stampava per ogni progetto e manteneva tra le varie scatole datate e catalogate, c’è anche quella di un Teatro-ragazzi del Sud che alla proposta di Giacomo di acquistare Storie mandaliche (ricordiamo, il primo e forse più importante esempio italiano di teatro di narrazione interattivo su cui Erica Magris ha fatto lecture al MIT di Boston) rispondeva che “Non ho trovato alcun motivo di interesse in questo spettacolo”. Ebbene, vorrei che queste persone capissero la distanza abissale tra i loro lavoretti scolastici da quattro soldi finanziati dal loro Comune e la grandezza inarrivabile di Giacomo. La differenza è che lui resterà nella Storia e di loro invece non si sentirà più parlare.

La profetica installazione video di Giacomo Verde AnTiVirus H (1992)
1360

Trasmissione Antivirus TV. “Guardando questo video si possono assumere degli anticorpi contro i poteri negativi della televisione. ….Forse..Si tratta di un vaccino visivo contro i pericoli dell’intossicazione e avvelenamento non solo radioattivo, di immagini elettroniche”.

Così scriveva Giacomo Verde a commento della sua installazione che si componeva di una parte video su tre monitor (con l’avviso di tre pericoli: tossico, velenoso, radioattivo)a loop e di una scultura-scafandro con monitor video impilati per un’altezza di 2.80.

Il tumore ci mette del suo ma chi ti distrugge davvero è la società. Lo spettacolo di Giacomo Verde: Piccolo diario dei malanni a SPAM!
1191

(Scritto da Anna Monteverdi)

Giacomo Verde ha inaugurato a SPAM! lo spazio teatrale della compagnia Aldes a Capannori, uno spettacolo davvero toccante, personale e prezioso, “Piccolo diario dei malanni”.

E’ il racconto di una malattia che un giorno ti arriva inaspettatamente proprio mentre stai scrivendo un diario, “un piccolo diario dei malanni”, quelli degli amici di una vita, quelli di tua madre e quelli della società. E poi a una certa data, aggiungi anche il tuo, un tumore maledettamente invisibile, non prevedibile e non evitabile.

Lo spettacolo è fatto da questo diario con disegni colorati e piccole frasi annotate su un’agenda, a cominciare dal 2012, anno della morte della madre, che lo ha colto mentre era in treno, diretto verso una delle mille lontane destinazioni dove questo mondo ti sbatte per sopravvivere. E’ il lato oscuro del lavoro autonomo e indipendente che ti costringe in una condizione di autosfruttamento, è la tagliola della tanto applaudita “gig economy”.

La nuova povertà è quella del lavoro intellettuale e artistico, sottopagato, soggetto a volubilità del sistema, a cambi di direzione, a sovvenzioni che oggi ci sono, poi non ci sono più; professori, formatori, artisti, menti eccellenti che avrebbero potuto dare a questo mondo una veste più decente, sono stati sottoposti per decenni al regime 41bis dei Co.co.co.

Senza prospettive, senza promesse sono diventati come gli indiani delle riserve, costretti a vivere ai margini della società. Rifiutati, sfruttati, sottopagati, demansionati, sviliti. Pochi possono permettersi il lusso di rinunciare persino a questo lavoro sempre più precario. Si accetta, si attenda che finisca, si ricomincia la ricerca.

Né più né meno come tanti di noi, Giacomo, uno dei principali artefici del movimento dell’artivismo digitale, annoverato nelle enciclopedie come uno dei pionieri della videoarte in Italia, si è trovato più in treno che in  terra, verso lontanissime sedi a istruire generazioni di studenti, spossato dalle ore di viaggio e pagato dalle Istituzioni in tempi geologici. E nell’attesa del saldo, ha provato a vivere, fare arte, fare teatro. La salute in queste condizioni di precariato consolidato, diventa un dettaglio di cui preoccuparsi eventualmente nei week end liberi, sempre che non ci siano registri da compilare. E’ un sistema che richiede di essere sempre presenti, disponibili, coinvolti ma senza mai essere assunti e talvolta, pagati. Provare per credere.

Coraggiosamente Giacomo racconta, inquadrando il suo piccolo diario con la telecamera, a mo’ di teleracconto, la sua vicenda di incontro con il “mostro”, le vicessitudini mediche, le strategie, le cure, l’operazione, le attese. E in mezzo, descrizioni di lavori che più che scegliere ti trovi ad accettare, buttato nel frullatore della Tv commerciale, ma anche momenti divertenti come il teatro condiviso con l’amico di sempre Renzo Boldrini, e il mondo infinito di relazioni generate dalla sua inconfondibile “tecnoarte povera” per il quale è giustamente famoso in tutto il mondo. Non passano le decine di meravigliose e molto scomode “oper’azioni” artistiche di Giacomo già consegnate alla memoria, ma l’ironia verso un attuale sistema ed economia dell’arte che cerca di stoccare sul mercato oggetti acclamati dai social o dall’élite dei critici, al di là di ogni oggettiva considerazione di vero valore.

Non diversa è la posizione del’artista Hito Styerl:

L’arte scomoda finirà giù dalla finestra: ovvero tutto ciò che non è piatto o non è enorme, che risulta vagamente complesso o provocatorio. Le prospettive intellettuali, l’allargamento dei canoni, le narrazioni storiche non tradizionali saranno spazzate via. Il sostegno dell’opinione pubblica barattato con le statistiche di Instagram. L’arte quotata in borsa sul listino titoli degli stronzi. Fiere sempre più numerose, yacht sempre più lunghi per teste di cazzo sempre più brutali, ritratti ad olio di bionde procaci. Buona fortuna con tutta questa roba: sarete i miei nemici mortali”. (H. Steyerl,  Se non avete pane mangiate l’ l’arte. L’arte contemporanea e i fascismi derivati, in Duty free art)

In scena Giacomo ha deciso di rendersi visibile, con tutti i segni della malattia, inequivocabili: coraggiosamente, e molto ironicamente usando come unica lente di ingrandimento la videocamera, legge i dettagli di questi disegni e le storie che raccontano. Storie dietro cui si cela un’inquietudine comune e un disagio personale di fronte a una malattia che non dà anticipazioni e su cui nessuno può spoilerare.

E come è sempre stato nella sua indole, non ha negoziato con la malattia ma drasticamente l’ha colta di sorpresa attaccandola, lasciandola senza cibo, iniziando una dieta che è diventato il primo atto di rinascita, un gesto di ribellione dopo l’urlo assordante di chi è stato incastrato, prima che dal tumore, dalle logiche assurde di questa società.  Che non ti concede il lusso di trovare il tempo per te, per il tuo benessere psico-fisico, per la famiglia.

All’inizio dello spettacolo Giacomo racconta di quando ha scelto di tagliare la mela per traverso; i cinque punti di una stella che il cuore di una mela mostra se non la mangi intorno al torsolo, sembrano segnare una nuova direzione, una nuova prospettiva, un nuovo modo di vivere. E la mela ha un sapore diverso. Il taglio della mela e la distribuzione al pubblico corrispondono a un desiderio di unire le forze. Ognuno nella malattia trova la sua cura, a volte funziona a volte no, ma la cura della società dovremo essere noi a trovarla.

Un po’ terapeutico un po’ autoriflessivo, questo spettacolo parla di un’urgenza, quella di chi, colpito da un male dal quale sta curandosi (e da cui siamo sicuri, guarirà) non vuole isolarsi, non sceglie la via della solitudine. Comprendiamo che non è autofinzione quando al racconto segue una danza, piccolissima, intimista, liberatoria, con una musica orientale che induce alla trance; una danza che quasi sembra voler aggirare il male con la dolcezza, con l’armonia. E’ un rituale rigenerativo che si compie all’interno del “sacro recinto” dell’assemblea-teatro e il tutto avviene con una semplice danza perché “Nulla è più naturale del cambiamento” (Julian Beck).

Il passo non più agile, si fa scudo della propria debolezza, il corpo diventa tutt’uno con lo spazio e recupera le proprie forze attraverso un respiro collettivo che elimina ogni separazione. La bellezza e la forza comunicativa di questo lungo momento di danza, inaspettato ed estatico, unisce il pubblico in modo profondo e autentico.

 

 Giacomo Verde si occupa dell’utilizzo creativo di tecnologia “povera” per realizzare opere di videoarte, tecno-performances, spettacoli teatrali, installazioni artistiche e laboratori didattici. Ha realizzato più di 300 opere che vanno dalla video-poesia al documentario, dai video matrimoniali alle sigle per la TV, dalle installazioni interattive alle performance. E’ l’inventore del “tele-racconto” – performance teatrale che coniuga narrazione, micro-teatro e macro ripresa in diretta – tecnica utilizzata anche per video-fondali-live in concerti, recital di poesia e spettacoli teatrali. E’ tra i primi italiani a realizzare opere di arte interattiva e net-art. Ha collaborato con diverse formazioni come autore, attore, performer, musicista, video scenografo e regista. Riflettere sperimentando ludicamente sulle mutazioni tecno-antropo-logiche in atto e creare connessioni tra i diversi generi artistici è la sua costante. Attualmente è docente di Regia all’Accademia Albertina di Torino, del Laboratorio di Arti Digitali alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Roma Tre e del corso di Spettacolo Multimediale alla Alma Artis di Pisa.

Nel 2007 ha pubblicato “ARTIVISMO TECNOLOGICO. Scritti e interviste su arte, politica, teatro e tecnologia” Prefazione di Antonio Caronia. Edizioni BFS, Pisa. Nel 2018 è stata pubblicata la monografia “GIACOMO VERDE – videoartivista” a cura di Silvana Vassallo. Edizioni ETS, Pisa – 2018

BIT INCONTRA TUTTI (per strada!). Il burattino virtuale di Giacomo Verde on street
1130

GIALLOMARE MINIMAL TEATRO
E-TICA
GIACOMO VERDE
presentano
BIT incontra tutti (per strada)

performance di strada con burattino virtuale




Bit è un burattino virtuale animato attraverso un cyberglove (guanto provvisto di sensori) in grado di dialogare con il pubblico.Bit esiste oramai da 14 anni, ed oltre a fare la guida alla Città della Scienza di Napoli ha partecipato a molti eventi ufficiali in giro per l’Italia, è persino apparso in TV a Italians Go Talent, e fa anche uno spettacolo teatrale. Dopo essere apparso in tanti contesti “istituzionali” ha deciso di incontrare la gente per strada. Così si è fatto costruire un teatrino smontabile che gli permette di apparire attraverso un monitor per dialogare con i passanti.

Bit è sempre piccolo come un bambino, perché viene riprogrammato ogni 6 mesi. Sua mamma è la “scheda madre”. E vive dentro al computer. Bit è curioso di sapere come funziona il mondo degli umani. Per questo chiede continuamente informazioni alla gente. Però capisce a modo suo e quindi dice spesso strafalcioni… che però svelano inconsueti lati del mondo degli umani. Gli piace fare amicizia con tutti e gli piace ridere e scherzare su ogni cosa. Ha molti travestimenti e sa raccontare storie… quando se le ricorda… altrimenti le reinventa a modo suo.

Bit ha uno “schiavo umano” che gli permette di muoversi e parlare e che si puo’ vedere girando dietro al suo teatrino (ma senza disturbarlo). 🙂

Per funzionare ha bisogno di:

una presa di corrente
uno spazio di 150 x 250 cm per il teatrino
1 ora e mezzo per il montaggio
1 ora di smontaggio

Puo’ chiacchierare fino a 4 ore quasi di fila…

Bit su You Tube

BIT su FaceBook

scarica PDF

————————-

Interviste ai protagonisti (artisti e teorici) del Teatro multimediale: nuove frontiere (della tecnologia) e vecchi problemi (di budget). #2 Giacomo Verde
1095

 1. Anna Monteverdi. Quando cominci un progetto artistico di teatro multimediale ti garantisci prima di avere il budget necessario tramite “call”, bandi, residenze o finanziamenti esterni di Teatri o lavorate in autoproduzione? E quali sono i costi di una tua produzione tecnologica?

GIACOMO VERDE: Di solito lavoro in auto produzione. Oppure sulla proposta di “qualcuno” di fare una nuova produzione. Non ho mai fatto bandi perché solitamente chiedono di vedere dei risultati che io posso raggiungere solo alla fine del lavoro. Dato che lavoro con tecnologia “povera” quando sono in autopruduzione i costi possono andare da alcune centinaia di euro ad un massimo tre o quattromila euro. Se invece c’è una commissione o una proposta di lavoro il budget può arrivare anche 20.000 euro. Parliamo comunque di produzioni medio/piccole.

2.Anna Monteverdi  Se ci fosse una “call” per teatro multimediale per incentivare il lavoro di nuovi autori o per una creazione di una nuova opera quale credi che sia una cifra adeguata che un Teatro, un Festival dovrebbe stanziare?

GIACOMO VERDE: Bisognerebbe dividere il costo del lavoro di ideazione, allestimento e prove da quello per le tecnologie. Quindi almeno 15 o 20 giorni di ideazione e prove tecnologiche per gli autori teatrali e tecnologici. Poi  dai 15 a 30 giorni di allestimento finale (con il numero di performer necessari) comprese la realizzazione di immagini, musiche o programmazione. E poi l’acquisto o i noleggi delle tecnologie necessarie. E parliamo comunque di produzioni medio/piccole. Quindi circa 7.000 € minimo per le persone + altrettanti per le tecnologie. Arrotondando servirebbero almeno 15.000 euro per fare una nuova piccola produzione che possa permettersi di sperimentare nuove soluzioni tecno-drammaturgiche.

3. ANNA MONTEVERDI Il sistema delle residenze può essere utile alla creazione del teatro multimediale? Cosa implica una residenza per questo teatro e nel caso, cosa dovrebbe offrire un teatro/Festival che propone una residenza a una intera troupe o compagnia? 

GIACOMO VERDE Si la residenza può essere certamente utile. La residenza deve offrire almeno l’ospitalità completa, lo spazio prove e se necessario assistenza tecnica. Se poi chi offre la residenza è anche il produttore o co-produttore dell’opera deve aggiungere quello che serve appunto alla sua realizzazione in termini economici.

4.ANNA MONTEVERDI Il fatto che vengano attribuiti finanziamenti così bassi come abbiamo osservato in questo periodo, a vostro avviso non obbliga forse l’artista a “spezzettare” il lavoro in troppi segmenti di lavoro che rischiano di far perdere continuità e novità al lavoro stesso? Come possiamo indirizzare una certa politica culturale teatrale a un maggior investimento facendo capire ai teatri la complessità (e i costi) di questo teatro?

GIACOMO VERDE In effetti lo spezzetamento delle produzioni in diverse residenze non aiuta la realizzazione. L’unica soluzione è che una realtà decida veramente di investire in questo campo dimostrando cosa si può davvero fare. Altrimenti vedo molto difficile che i “teatranti” italiani possano provare a fare qualcosa di nuovo rischiando cifre che considerano troppo impegnative. Per loro è meglio restare sul convenzionale o rischiare pochi soldi. Così in teatro non riescono ad entrare immaginari e argomenti che appartengono alla moderna cultura digitale se non in forma superficiale e banalmente “spettacolare”.

5.ANNA MONTEVERDI Esiste una formula ideale per la creazione di questo tipo di spettacolo? Quale situazione hai conosciuto che corrisponderebbe a una specie di “buona pratica” (residenziale o di produzione) legata al teatro tecnologico? 

GIACOMO VERDE La formula ideale è quella necessaria alla produzione di qualsiasi spettacolo innovativo: tempo, spazio, materiali e persone giuste con finanziamenti adeguati. Le situazioni buone che ho incontrate sono state  EX Machina di Lepage come modello massimo e ultimamente (in piccolo) la Compagnia ALDES di Roberto Castello nella quale mi trovo ad operare per le mie produzioni.

6.ANNA MONTEVERDI A tuo avviso c’è qualche nuova tecnologia che non è ancora stata esplorata e che si presterebbe a un “nuovo formato” di teatro tecnologico? Per esempio la Robotica o la AI? 

GIACOMO VERDE Secondo me la Realtà Aumentata è una tecnologia che può essere ancora molto esplorata per “nuovi formati” teatrali. La Robotica e la AI aprono delle questioni che al momento trovo meno interessanti dal punto di vista scenico. Bisognerebbe comunque avere tempo e tecnologie e disposizione per poterle sperimentare. Immagino che in teatro entreranno a farne parte davvero solo quando gli autori teatrali faranno esperienza di queste tecnologie nella loro vita quotidiana.

7.ANNA MONTEVERDI La considerazione che ci sono poche produzioni  o pochi gruppi che propongono modalità innovative sul piano della narrazione teatrale (ritornando al vecchio “videoteatro mai tramontato)  mette a vostro avviso in stallo anche l’aspetto di un’analisi teorica del fenomeno della cosiddetta “intermediality?” 

GIACOMO VERDE Si certo. Anche se sul “vecchio video teatro” in realtà non è mai stata fatta un’analisi approfondita e condivisa tale da permetterne una sua evoluzione. Anche per questo ci sono poche nuove produzioni o gruppi che lavorano in questa direzione. Ancora c’è molta ignoranza sull’uso e sul significato delle tecnologie video o digitali in teatro. Attualmente il teatro italiano è l’ultimo anello della catena di mutazioni antropologiche in atto provocate dall’avvento del digitale. E questo perché in Italia siamo troppo legati a schemi mentali che tengono separati cultura umanistica e cultura scientifica. Anche se siamo la patria di Leonardo!!

In libreria il volume sul videomaker Giacomo Verde a cura di Silvana Vassallo per ETS
919

Tra i pionieri nel campo della sperimentazione con le arti elettroniche in Italia, Giacomo Verde opera da decenni in un territorio di confine, all’incrocio tra diversi linguaggi e generi. Con coerenza, ironia e un’attitudine hacker, da tempo persegue una ricerca est’etica e tecnologica mai disgiunta dall’impegno sociale e politico. Il suo fare artistico privilegia la realizzazione di oper’azioni processuali con una forte componente performativa, che si traducono nella creazione di contesti partecipativi e relazionali, fra materiali poveri e raffinate ricerche in digitale. Non mancano opere compiute, dalla videoarte al documentario di creazione.
Questa è la prima monografia su Giacomo Verde. I vari aspetti della sua produzione artistica sono analizzati in saggi critici che ne restituiscono le sfaccettature nel contesto internazionale, fra tecno-teatro e videoarte, tradizione di conta-storie e sperimentazioni con innovative tecnologie digitali e interattive, performance audiovisive e ricerche sul videofonino, con un approccio che coniuga improvvisazione giocosa e profondità di riflessione teorica.

Testi di: Andreina Di Brino, Marco Maria Gazzano, Sandra Lischi, Francesca Maccarrone, Anna Maria Monteverdi, Silvana Vassallo.

Silvana Vassallo si ocupa di arte contemporanea e di rapporti fra arte e nuove tecnologie. Su questi temi ha pubblicato saggi e articoli, curato mostre ed eventi per istituzioni sia pubbliche che private, tenuto corsi presso le Università di Pisa e Bologna e presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata. Dal 2014 dirige a Pisa la Galleria Passaggi Arte Contemporanea, oltre a collaborare attivamente con l’associazione Multiversum Arte

TEATRO MULTIMEDIALE. Dall’opera d’arte totale al cyber teatro. Saggio di AMM (2005)
402

(pubblicato su Encyclomedia, 2005)

 Le stesse forme solide, sotto l’occhio dell’attore, un vero e proprio mago, potranno muoversi, cambiare, animarsi, vivere insomma su tutti i piani del teatro ed in tutti i sensi. Ma che mi sia ancora permesso di immaginare adesso lo spettatore futuro in una gabbia di plexiglass con due busti e due volti come i personaggi delle tele cubiste di Picasso. Circondato da suoni, da luci, da colori, da forme, da ombre, sarà sensibile, e con tutti i suoi sensi, a tutte le moltitudini di combinazioni, di armonie, di ritmi, di motivi melodici, sensibile a tutti i punti, rette, curve, angoli conici, linee visive, uditive, statiche, che si svolgono nel magnifico e straordinario caleidoscopio teatrale….. Per il momento, tranquillizziamoci, non abbiamo che uno stomaco ed un cervello. Ma tutto è possibile. Poliéri

 Digitale significa Teatro.

 Le caratteristiche delle tecnologie multimediali digitali stanno delineando nuovi scenari economici, sociali, cognitivi e linguistici: scrittura e lettura sempre più ipermedializzati stanno modificando secondo Thomas Maldonado il processo stesso della memoria umana mentre Lev Manovich afferma che il sistema informatico sta influenzando il sistema culturale nel suo complesso.

2015PFT061201R

Il teatro non risulta impermeabile a questo divenire multimediale della società sia pur con notevoli resistenze: le nuove tecnologie digitali trasformano radicalmente tutte le fasi produttive dello spettacolo, dalla progettualità alla sua dimensione scenica, coinvolgendo anche il contesto stesso di ricezione (dall’osservazione all’immersione) in relazione al prodursi di nuove modalità ibride di creazione e di comunicazione artistica. L’idea di multimedialità (termine oggetto di un vivace dibattito teorico, cfr. A.M.Monteverdi, A.Balzola, pp.21) e conseguentemente di interattività, è stata variamente sperimentata nel mondo delle arti sceniche (così come nelle arti visive e sonore) sin dalle avanguardie storiche e dalle seconde avanguardie, trovandone una prima definizione (ed una significativa dimensione interdisciplinare), e precede o addirittura prefigura l’innovazione tecnologica che la concretizza ovvero il digitale con la possibilità di trasferimento, elaborazione e interazione di qualsiasi testo, immagine o suono nell’ambito dello stesso metamedium. Nuove frontiere per il teatro si aprono grazie alle possibilità di conversione in un unico intercodice (“la sinestesia obbligata del digitale“, come ricorda Derrick De Kerchove) e al principio di variabilità, interattività, ipermedialità, simulazione (L.Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, ) proprie del sistema integrato digitale, una vera e propria nuova concezione del mondo che obbliga a ripensare l’arte nel suo rapporto con la scienza e con la tecnica. Non più, dunque, operazioni artistiche separate tra loro dalla tecnica: “Il testo, o meglio l’ipertesto drammaturgico il progetto scenico, la partitura sonora-musicale, l’installazione, il video il software, lo spettacolo, non appartengono più a generi diversi ma divengono fasi di un processo aperto, tassello di un mosaico spaziale e temporale mutante, flessibile e comunicativamente forte”.

Similitudine di funzione e di processo: se nella ormai storica formulazione teorica di Brenda Laurel (Computer as Theatre, 1993) il teatro serve da modello per la rappresentazione dell’interazione uomo-computer, la nozione di environment, di performance, di event accomunerebbe proprio spettacolo live e multimediale digitale (A.Pizzo, p.19-24; J. Murray). Così come ogni spettacolo si dà qui e ora, nella “compresenza fisica reale di emittente e destinatario” e nella “simultaneità di produzione e comunicazione” (M.De Marinis,), nella sua immediatezza, nell’attualizzazione di un testo che non esiste se non nell’insieme di relazioni (umane-spaziali-temporali), anche il digitale vive in un tempo percepito come presente e come un continuo generarsi di processi (un tempo fatto cioè “non più di eventi, come il tempo televisivo, ma di infinite virtualità”, ricorda Edmond Couchot), nella interazione tra macchina e agente attraverso interfacce. Secondo tale approccio teorico sarà proprio la presenza del digitale in scena (e non genericamente dell’audiovisivo che appartiene all’era della “riproducibilità”) ad “aumentare” (enhanced theatre è una delle definizioni del teatro digitale) il senso di presenza e di liveness del teatro. I termini della questione posti da Walter Benjamin vanno così ridefiniti a partire non più dalla perdita dell’aura dell’opera in una prospettiva digitale e virtuale dell’arte, ma di un’acquisizione di datità reale, nella “generazione senza referenzialità”seguendo il pensiero di Pierre Lévy e Philippe Quéau, perché il virtuale crea “un nuovo stato di realtà”  (P.Queau, Le frontières du virtuel et du réel in L.Poissant (a cura di) Esthétique des arts médiatiques, (vol.1), Presses de l’Université du Québec).

 Continuità e rottura.

Verso una (nuova?) sintesi scenica dei linguaggi.

Il digitale propone modalità tecniche ed espressive sia di rottura che di continuità. Rottura rappresentata dalla tecnologia di sintesi numerica, in base alla quale non c’è più un rapporto generativo con la realtà materiale, e continuità con alcuni principi cardine del modernismo e dell’avanguardia del Ventesimo secolo, specificamente teatrale: l’unione dei linguaggi -anche quelli della tecnica-, la partecipazione allargata dell’evento spettacolare, la ricercata condizione di azione e interazione (di cui l’interattività appare oggi come la realizzazione concreta), la creazione di un ambiente dalla “totalità percettiva” e sinestetica (“la sinestesia è l’inclinazione naturale dei media contemporanei” affermava l’artista video Bill Viola).  La prospettiva multimediale del teatro – come hanno dimostrato Béatrice Picon-Vallin, Denis Bablet, Nicola Savarese, Andrea Balzola, Fréderic Maurin- perfeziona l’utopia di sintesi delle arti delle avanguardie storiche: la Gesamtkunstwerk di Wagner (l’opera d’arte totale o comune o unitaria secondo le diverse traduzioni) ovvero il dramma unificante di parola e musica (Wor-Ton-Drama) espresso in particolare ne L’opera d’arte dell’avvenire (1849), da inscriversi nell’onda poetica e di pensiero del Romanticismo tedesco (Goethe, Schelling) pur suscitando posizioni e interpretazioni ad esso divergenti e addirittura opposte nei registi fondatori del teatro moderno che trovarono inadeguata la riforma scenica del compositore tedesco, fondamentalmente prefigurava una comune aspirazione a un’ideale di accordo dei diversi linguaggi componenti lo spettacolo, in sostanza una “strategia della convergenza, della corrispondenza e della connessione” (E.Quinz, in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p.109).

images (17)

Teatro diventa, pur nella diversità delle proposte teoriche, un campo magnetico per tutte le arti (Kandinski): dalla totalità espressiva del nuovo teatro di Edward Gordon Craig operata dal regista-demiurgo luogo di una “musica visiva”, alla sintesi organica e corporea di arti dello spazio e arti del tempo secondo Adolphe Appia, alla composizione scenica astratta di suono, parola e colore di Wassily Kandinsky sorretta dal principio costitutivo dell’unità interore che non doveva oggettivare la realtà ma costituire un evento spirituale capace di suscitare vibrazioni e risonanze condivise dal pubblico. Ancora, il teatro della totalità del Bauhaus con la rappresentazione “simultanea sinottica e sinacustica” di Moholy-Nagy, la “simbiosi impressionista dei linguaggi” della multiscena tecnologica di Josef Svoboda che negli spettacoli della Lanterna Magika combinava in una composizione sincronica, plastica e sonora, l’azione dell’attore o del danzatore, la scena cinetica, il suono stereofonico, gli schermi di proiezione mobili e il cinema.

Infine il programmatico “No Borderline between Arts” di George Maciunas per il movimento Fluxus, non più scultura, poesia e musica ma evento che inglobi tutte le discipline possibili. Sintesi, totalità e sinestesia: principi che si sono declinati in una rinuncia agli spazi tradizionali del teatro all’italiana per rivitalizzare in senso espressivo e relazionale, nell’ottica di una “drammaturgia dello spazio” (M.De Marinis, 2004) luoghi trovati dell’esperienza quotidiana connotati in questo modo di un carattere di efficacia drammaturgica. Il teatro si apre a condividere altre spazio-temporalità, altre modalità narrative, integrando la tecnica e trasformandola in linguaggio espressivo sin dalle prime esperienze simboliste, all’indomani dell’invenzione della luce elettrica, con Gordon Craig e Adolphe Appia. Si tratta di un cammino verso una narrazione non lineare e cinetico-visiva affine al montaggio cinematografico, verso inedite modalità di avvicinamento fisico allo spettatore fino a una sua inclusione nell’opera attraverso un percorso ambientale e “reattivo” e una sempre più spinta dilatazione tecnologica fatta di dispositivi diversi e strategie scenografiche adeguate a soddisfare un’esigenza di prossimità o una mobilità rispetto all’evento o agli eventi sparsi, mobilità che riguarda anche lo scavalcamento di ruolo e intercambiabilità tra attore e pubblico. Dalle imprevedibili azioni di disturbo delle spettacolazioni composite futuriste fino all’attacco “alla sensibilità dello spettatore” teorizzato da Antonin Artaud che nel Secondo manifesto del teatro della crudeltà, parlava di un teatro che “grazie alla soppressione della scena, si estenderà alla sala intera e, partito dal suolo si arrampicherà sui muri […], avvolgerà fisicamente lo spettatore, lo terrà in un’atmosfera ininterrotta di luce, di immagini, di movimenti e di rumori”.  Anche l’evoluzione dei media di immersione e le tecnologie di realtà virtuale per convogliare esperienze artificiali multisensoriali hanno una lunga storia rintracciabile nella pittura, nel cinema, nel teatro e affondano le radici negli scorci prospettici rinascimentali in cui l’osservatore era illusionisticamente incluso nello spazio dell’immagine e nelle ingegnose macchine barocche per i cambi di scena (N. Savarese, pp.242-249). La ricerca di una partecipazione dell’osservatore nell’opera si inaugura con i panorami pittorici a 360° e con l’esperimento polivisivo o cinema simultaneo di Abel Gance (Napoléon, 1927), per proseguire con il Cinerama presentato all’Esposizione mondiale di Parigi che proponeva dieci film da 70mm proiettati contemporaneamente, pionieristico tentativo di espandere il campo visivo dei film sfruttando le zone periferiche dell’occhio umano, con il Sensorama, con il Cinema espanso e quello in 3 D, ed infine con i visori stereofonici Head Mounted (HMD) progettati da Ivan Sutherland nel 1966 e finanziati dall’Esercito americano. Da una parte il cinema delle avanguardie “chiama al lavoro dello sguardo ma anche al coinvolgimento di tutti i sensi” (S. Lischi, in A. Balzola, A.M.Monteverdi, p.62) con schermi semisferici o rotanti, simultaneità di proiezioni, alterazioni di velocità, generale sovvertimento della passività dello spettatore, dall’altra il teatro con macchinari per muovere le scene, piattaforme girevoli, palcoscenici simultanei e circolari, proiezioni cinematografiche (Mejerchold in Terra capovolta), scenografie dinamiche e tridimensionali innovative (rampe elicoidali per R.U.R. di Kiesler) si apre alla percezione di quella che Maria Bottero con una bella immagine definisce “la curvatura del mondo”, verso cioè una multidimensionalità e un nuovo rapporto tra attore e pubblico raggiunto sia con l’architettura sia con l’uso di immagini cinetiche sincronizzate con l’azione scenica (M. Bottero, Frederick Kiesler, Milano, Electa, 1995). L’architetto Walter Gropius dichiarò che lo scopo del suo Teatro totale progettato per Piscator doveva essere quello di trascinare lo spettatore al “centro degli avvenimenti scenici” ed “entro il raggio di efficacia dell’opera”. Erwin Piscator il regista fondatore del Proletarisches Theater nella Germania della fallita Rivoluzione di Novembre di Karl Liebknech e Rosa Luxemburg e pioniere di una scena multispaziale e multimediale secondo una famosa definizione di Fabrizio Cruciani, in Ad onta di tutto (1925) inserì sia immagini fisse che il film documentario, ovvero pellicole autentiche che mostravano gli orrori della guerra; in Oplà, noi viviamo (1927) insieme con lo scenografo Traugott Müller progettò una costruzione scenica a più piani prevedendo un largo impiego, oltre che dei disegni di George Grosz, di proiezioni cinematografiche per creare “una connessione tra l’azione scenica e le grandi forze che agiscono nella Storia”. L’Endless Theatre di Frederick Kiesler, il Teatro anulare di Oskar Strandt, il teatro ad U di Farksas Molnàr fino ai più recenti dispositivi di Poliéri (la sala giroscopica, la scena tripla, la sala automatica mobile, scena e sala telecomandate, ruotanti e modificabili), sono alcuni esempi di una ricerca volta a determinare un allargamento della cornice scenica, che avvolgesse letteralmente il pubblico in un ideologica spinta alla partecipazione globale.

 

Il Teatro dei mezzi misti: il paradigma dell’interdisciplinarietà, dell’ambiente e dell’interazione.

Musica,  danza e film con esclusione drastica del testo o addirittura della parola, il carattere “attimale” dell’opera in base al quale conta principalmente l’accadere dell’evento (lo spazio-tempo reale a volte dilatato per diverse ore) e il contesto ambientale (i luoghi urbani), vengono definite le caratteristiche del nuovo teatro dei mezzi misti, o intermedia, che si inaugura con 18 Happening in 6 Parts  nell’ottobre del 1959 alla Reuben Gallery di New York sotto gli auspici del fondatore, Allan Kaprow: nastri non sincronizzati, diapositive proiettate, suoni e rumori provenienti da un autoparlante, pareti affrescati con collage, oggetti sparsi, azioni eseguite meccanicamente e frasi ripetute da attori si susseguivano in un alternarsi di luci colorate davanti e intorno a un pubblico invitato a spostarsi nelle tre camere separate da pareti di plastica in cui era stato suddiviso lo spazio. Queste le costanti dell’happening individuate dallo storico e artista Michael Kirby: struttura a compartimenti (unità di azioni distinte e autonome, realizzate in sequenze o simultanee e in luoghi diversi); carattere non verbale (prevalenza di suoni puri); assenza di matrice (di tempo, luogo e personaggio); azione indeterminata (ma non improvvisata); uso di materiali concreti, quotidiani; utilizzo di elementi alogici. Kirby rintraccia anche l’eredità nei Merzbau di Kurt Schwitters (1923-1924), nella tecnica e nel principio compositivo del collage e dell’assemblage dada e neodada (da Max Ernst e Jean Arp a Robert Rauschenberg), nello spettacolo futurista (l’integrazione sonora e rumoristica e le declamazioni simultanee del Teatro della Sorpresa di Marinetti e Cangiullo) e dadaista (Relache di Picabia con partitura di Satie, 1924). A questo bisognerebbe aggiungere anche i ready-made di Marcel Duchamp e il concetto di rifunzionalizzazione estetica. Ma l’influenza più diretta sarebbe data da un lato dalla musica indeterminata di John Cage (e dal concerto-evento Untitled event al Black Mountain Collage del 1952) dall’altro dall’action painting, dalla pittura gestuale, dalla teatralità dell’azione artistica, dalla pratica ambientale dell’arte e dall’agire performativamente dentro l’opera. Naturale evoluzione dell’happening è l’enviromental theatre o teatro ambientale: alla fine degli anni Cinquanta Richard Schechner esplorava lo spazio trovato della città -già luogo deputato di manifestazioni e di sit in di protesta- aggiungendo al fatto teatrale una dimensione ambientale, decretando come ricordava il regista americano fondatore del Perfoming group, la fine del “punto di vista unico, sorta di marchio di fabbrica del teatro tradizionale”. Nel testo Six Axioms for Environmental Theatre (1968) Schechner sviluppa la nuova idea di teatro: il fatto teatrale è un insieme di rapporti interagenti (tra gli attori, tra il pubblico, e tra essi e lo spazio e gli elementi della rappresentazione); tutto lo spazio è dedicato alla rappresentazione ed è dedicato al pubblico; l’evento teatrale può avere luogo sia in uno spazio totalmente trasformato sia in uno spazio <<lasciato come si trova>>; il punto focale è duttile e variabile; ogni elemento della rappresentazione parla il suo proprio linguaggio; il testo non è necessariamente il punto di partenza o lo scopo della rappresentazione. E potrebbe addirittura non esserci”.

Dal Teatro-azione agli ambienti inter(e)attivi

Il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina nella sua lunga attività contro il teatro di rappresentazione a favore di un teatro-vita che nella pratica scenica si tradurrà in una ricerca ben salda agli ideali libertari anarco-pacifisti, volta ad attivare un’esperienza comune di consapevolezza sociale e il Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine e la loro messa in scena della creazione collettiva della Storia, hanno posto l’accento sulla tematica politica e sociale del teatro quale luogo di un’azione condivisa. Insieme a Luca Ronconi e al suo lavoro teatrale degli anni Sessanta e Settanta sull’originale messinscena della “spazialità nascosta del testo” (Balzola, p.) e sulla simultaneità delle azione sceniche dai testi-fiume di Holtz, Ariosto, Kraus in luoghi extrateatrali drammaturgicamente significanti come il Lingotto e l’ex Orfanotrofio Magnolfi di Prato, questi gruppi della neoavanguardia sperimentale hanno ridefinito i contorni di un nuovo luogo teatrale  (che poneva anche l’accento sulla rifunzionalizzazione artistica degli spazi della collettività: il Teatro-Territorio, secondo una definizione dell’architetto Gae Aulenti). Luogo teatrale espanso e dilatato che viola lo spazio prossemico dello spettatore, spezzando le tradizionali “barriere architettoniche” e il principio stesso della frontalità, liberando una soggettiva selezione di visione, e ponendo le condizioni per una partecipazione – in senso fisico ed ideologico – all’azione scenica, prefigurando le possibilità immersive delle tecnologie multimediali e delle installazioni interattive e di realtà virtuali.

Se il pubblico diventava co-protagonista nell’Antigone del Living Theatre attraverso un allargamento dello spazio della scena a tutta l’architettura teatrale e ne Gli ultimi giorni dell’Umanità era libero di muoversi nello spazio operando un proprio montaggio di visione, nelle installazioni di Myron Kruger definite dall’artista significativamente Responsive Environments (come Videoplace), in quelle di David Rokeby (a partire da Very Nervous System, 1986) e soprattutto negli ambienti sensibili di Studio Azzurro (come Coro e Tavoli) l’obiettivo dichiarato è quello di creare un’esperienza sensoriale e relazionale, creativa e soggettiva di dialogo tra osservatore-performer e ambiente, attraverso un dispositivo elettronico sonoro, visivo e grafico: “Uno spazio socializzato è il senso primo della nostra definizione di ambienti sensibili. Si tratta di pensare a contesti dove l’atto interattivo non sia confinato ad una dimensione individuale, come capita nella maggior parte dei casi con questi sistemi (una persona determina il dialogo e altre eventualmente stanno a osservare). Contesti in cui al dialogo con la macchina si associ e si mantenga anche il confronto, anche complice, con le altre persone(…)E’ una garanzia per partecipare alle scelte, che saranno sempre più frequenti nella nostra società proprio per il diffondersi dei sistemi interattivi di consultazione, meno soli e isolati da un confronto umano ancora indispensabile” (Paolo Rosa, Rapporto confidenziale su un’esperienza interattiva, in S.Vassallo, A. Di Brino Arte tra azione e contemplazione).

05_Camera-astratta-21

Immersione partecipativa, ricerca di uno spazio sensoriale e sollecitazione ad una visione e un ascolto “sinestetico”sono alcuni degli obiettivi di molti artisti multimediali che approdano così, quasi naturalmente in un territorio prettamente teatrale verso una “dramaturgia dell’interazione opera-pubblico che trasferita in teatro diventa interazione opera-attori-pubblico e segna un decisivo passaggio dal video in scena alla scena-video interattiva e sinestetica” (A.Balzola, 2004): “Videoambientazioni, con questo termine cercavamo di evidenziare non solo la relazione con lo spazio, ma il dialogo tra uno spazio e gli elementi messi in gioco, superando la dimensione puramente scenografica. Il teatro era già presente in embrione come ambito nel quale sconfinare, del quale interessarci per lo sviluppo naturale della ricerca nella videoinstallazione. Era inevitabile pensare al teatro anche come luogo dove continuare a sviluppare la pratica della narrazione, da svolgere attraverso i monitor, il rapporto tra lo spazio e chi lo fruisce, lo spettatore o l’attore (Studio azzurro, Camera astratta, Ubu, 1988) Nello spettacolo Studio azzurro Giacomo mio salviamoci! (1998, versi, lettere di Leopardi) l’intera scena è un ambiente virtuale parzialmente interattivo dove i personaggi con le loro azioni possono provocare eventi visivi e sonori. L’evento spettacolare per Giardini Pensili è invece uno spazio dinamico, un’opera-ambiente fatta di suoni e immagini rigorosamente live e in metamorfosi digitale continua. L’immersione è resa possibile da una “iperstimolazione sensoriale” visiva e acustica (R.Paci Dalò, Pneuma, 2005): suoni dalle frequenze anomale, gravi e sovracute, inseguono e avvolgono lo spettatore attraverso sistemi di spazializzazione multicanale (come in Metamorfosi con Anna Buonaiuto e Italia anno zero) associati a strati di immagini-sinopie trattati digitalmente che affiorano a tratti con ritardi, effetti e rallentamenti (Metrodora, Stelle della Sera).  Esperienze sensoriali quasi destabilizzanti per lo spettatore sono inoltre, quelle provocate dalle performance del gruppo austriaco Granular Synthesis  e quelle del collettivo giapponese di danzatori Dumb Type che lavorano sulle astrazioni video, sulla scomposizione granulare del suono e sulle subfrequenze che sconvolgendo i canoni tradizionali dell’ascolto e della visione alla ricerca di una corrispondenza tra segnale elettromagnetico e recettori visivi, tra attività neuronale e processo digitale, trovando nel tecnologico una grande metafora del contemporaneo.

Dal teatro-immagine alla Postavanguardia

Il Teatro-immagine è legato alla figura di Robert Wilson, punto di riferimento di quella ricerca teatrale degli anni Settanta volta sempre più ad uno “spazio definito nella sfera del visivo” (S. Sinisi, Dalla parte dell’occhio. Esperienze teatrali in Italia, 1972-1982), verso una raffinata visionarietà antinarrativa sempre più affine alla processualità e allo spazio-tempo tecnologico (cinematografico e video). Da A Letter for Queen Victoria (1974), Einstein on the Beach (1976), Edison (1979)  realizzati con effetti luministici colorati a forte vocazione pittorica e improntati a un’estetica minimalista (anche nel suono, grazie al contributo fondamentale della musica ripetitiva di Philip Glass) fino a Monsters of Grace (1999) quest’ultimo contenente animazioni computerizzate in 3D, Wilson ha da sempre modellato i suoi spettacoli-quadro in un’ottica di totalità e sintesi architettonica tra le parti: scritture di luci e suoni, ritmi visivi e sonori calcolati al secondo con azioni rarefatte e rallentate, aderenti sistematicamente al principio dello slow motion e del loop.

images (30)

In Hamlet: a Monologue (1995) la luce diventa un tema, con una propria autonomia espressiva ed emotiva, quasi fosse luce-stato d’animo mentre l’effetto visivo generale rimanda alle tecnologie audiovisive, quasi fosse un video ad alta definizione: l’intenso sfondo luminescente rispetto al corpo dell’attore simula infatti un particolare effetto mixer, l’effetto intarsio o chromakey. Il teatro-immagine segna una stagione particolarmente fertile che vede tra i protagonisti Mario Ricci, Giuliano Vasilicò, Simone Carella e Memé Perlini il cui spettacolo Pirandello: chi? (1973), tra “frammenti-immagine”, corpi-manichini che emergono dal buio grazie alle luci di taglio e citazioni dal cinema surrealista viene considerato il Manifesto della nuova tendenza. Ma il passaggio a un’estetica teatrale legata ai nuovi media si ha con la Postavanguardia,  ufficializzata nel 1976 a Salerno alla rassegna diretta da Giuseppe Bartolucci. Invaso da altri linguaggi (cinema, fotografia, fumetti, musica rock, mass media, fantascienza) e attirato dalla fascinazione urbana, il teatro della postavanguardia “accentua ulteriormente gli aspetti visionari dello spettacolo e agisce sulle facoltà percettive del pubblico per attirarlo in un cerchio di suggestioni di carattere ipnotico” (A.M.Sapienza). Sono protagonisti: Simone Carella (regista di Autodiffamazione, spettacolo astratto senza attori), la Gaia scienza di Giorgio Barberio Corsetti (La rivolta degli oggetti), il Carrozzone (primo nucleo dei Magazzini criminali, con I presagi del vampiro, manifesto programmatico del loro teatro analitico-esistenziale). Successivamente spettacoli come Punto di rottura (1979) dove quattro monitor sezionano lo spettacolo e Crollo nervoso (1980) degli ex Magazzini Criminali diventano un fondamentale punto di riferimento per la successiva generazione teatrale sempre più spinta verso le suggestioni dei mass media (A.Balzola, in A.Balzola, A.M.Monteverdi, pp.306-311; ed inoltre A.Balzola, 1995)

Videoteatro anni Ottanta

La rassegna Paesaggio metropolitano/Teatro-Nuova Performance/Nuova Spettacolarità (1981), inaugura un nuovo teatro che si esprime attraverso l’esplorazione dei media e si ispira al panorama della metropoli e dell’immaginario cinematografico e videografico. Krypton, Falso movimento di Mario Martone, la compagnia di  Giorgio Barberio Corsetti con Studio Azzurro esploreranno radicalmente, sia pur con modalità profondamente diverse, il territorio della multimedialità definendo con alcuni spettacoli-manifesto, i contorni tipologici di una stagione teatrale innovativa significativamente definita “video teatrale”: “L’esperienza videoteatrale in Italia nella prima metà degli anni Ottanta (…) sperimentava le nuove possibilità tecniche offerte dal video attingendo alle invenzioni , ma anche imboccando itinerari propri: dialettica straniante tra corpo reale sulla scena e corpo virtuale sullo schermo; sperimentazione di modalità di ripresa che interagissero fisicamente con i corpi degli attori/danzatori; ossessione dei primi piani e dei particolari dei volti e dei corpi che a teatro sfuggono in un quadro percepito sempre, inevitabilmente, come totale e lontano; suggestione dei colori freddi e brillanti dell’elettronica; uso in funzione espressiva della bassa definizione, della sgranatura materica e delle scie luminose dell’immagine video; elaborazione dell’immagine in post-produzione, con l’ausilio del mixer e del computer, soprattutto lavorando sulle chiavi cromatiche, sugli effetti di scomposizione dell’inquadratura e di montaggio” (A.Balzola, 1995).

Prologo a diario segreto contraffatto e Camera astratta (1987) di Giorgio Barberio Corsetti e Studio Azzurro rimangono gli spettacoli più emblematici di quest’epoca in cui si introduce una struttura complessa di dialogo tra corpo e ambiente, tra luce e spazio, tra immagine video e presenza attoriale. In Prologo vien allestita una doppia scena, una materiale e una immateriale, una visibile e una invisibile, ovvero il palco agito di fronte al pubblico e un retroset dove gli attori vengono ripresi mentre la loro figura intera è riproposta al pubblico in diretta, ricomposta su quattro file di tre monitor impilati. In Camera astratta invece un’architettura geometrica mobile attraversava il palco in varie parti, con monitor posti su binari o montati su assi oscillanti e sospesi come un pendolo: in una perfetta sincronia di movimenti, incorporavano e scomponevano il corpo dell’attore con un passaggio continuo e fluido della narrazione dal video al teatro. Nell’idea degli autori la Camera astratta è la mente stessa del personaggio e gli eventi dello spettacolo sono come le emanazioni-manifestazioni degli istanti-pensiero che attraversano questa scena interiore.

 

Dispositivi di visione

La Duguet nel celebre saggio Dispositif (1988) ricorda come sia stato proprio il teatro degli anni Sessanta a offrire i paradigmi e le premesse per una spazializzazione e temporalizzazione delle opere video intese non solo come immagine ma come dispositivi multipli che innescano un processo di durata e letteralmente di “esplosione” verso l’esterno, verso il contesto spaziale: la messa al bando del punto di vista unico, l’apertura ad una temporalità plurima, la partecipazione dello spettatore ad un evento reale, fisico e immediato, il suo coinvolgimento in un percorso narrativo, percettivo ed emotivo. La presenza di schermi  e monitor in scena comporta necessariamente una diversa partecipazione e una diversa disposizione percettiva poiché le immagini sono decontestualizzate, frammentate, velocizzate, simultanee su più schermi e lo spettacolo diventa “polivisuale e sembra che siano convocati tutti gli stadi della storia del nostro sguardo” (B-Picon-Vallin). L’effetto prodotto richiama secondo molti critici, alla molteplicità di  prospettive e alla scomposizione della figura umana delle avanguardie pittoriche primonovecentiste, quella cubista principalmente. In Marat Sade (1984) di Carbone 14, compagnia di Québec creata da Gilles Maheu nel 1980, La Dispute da Marivaux di D. Pitoiset (1995) e in The Merchant of Venice (1994) di Peter Sellars, il video sottolinea il volto, ferma il tempo e isola il gesto; volti che sembrano imprigionati nella scatola televisiva, come le teste “ritagliate” su cuscini nelle videoinstallazioni di Tony Ousler. Il video in scena introduce il cosiddetto “effetto specchio” diventando dispositivo psicologico introspettivo (come in Hajj, dei Mabou Mines, 1981). Il corpo dell’attore viene replicato e il suo doppio elettronico rimette allo sguardo dello spettatore l’immagine di un’interiorità invisibile e indicibile: è il passato o l’altrove, il nascosto e il perturbante, la memoria e il vissuto.

In Elsinore di Lepage (1995) Amleto si “guarda dentro”, e nella solitudine di Elsinore -luogo mentale- incontra tutti i personaggi generati da lui stesso, ombre e gigantesche proiezioni (su grande  schermo) delle proprie angosce che evidenziano la scomposizione della sua personalità psichica. Uno dei migliori esempi di integrazione di dispositivi multischermo con la scena è rappresentato da The Seven Streams of the River Ota (1994) di Robert Lepage. La scena è strutturata come la facciata di una tradizionale casa giapponese, con sette schermi-pannelli trasparenti fatti di spandex su cui vengono proiettate immagini video e ombre: l’effetto di “intarsio”permanente tra l’immagine videoproiettata e corpo dell’attore e tra la figura e sfondo monocromo luminescente genera un surreale dialogo tra corpi e luce, e rende quasi letteralmente il senso più profondo dello spettacolo: l’impossibilità di cancellare dalla memoria l’Hiroshima della bomba atomica. La scena fatta di schermi diventa una lastra fotosensibile e l’intero spettacolo una scrittura di luce, metafora di un percorso insieme di ricordo, di illuminazione e di conoscenza.

Il gruppo italiano Motus, tra i protagonisti della cosidetta Generazione Novanta, con il progetto Rooms  confluito nella versione definitiva dal titolo Twin Rooms (2000-2003) ispirato al romanzo Rumore bianco di De Lillo, palesa attraverso un particolare dispositivo visivo e sonoro, un procedimento cinematografico. L’azione teatrale, che procede per riquadri e close up e ricostruisce un set, simula il cinema; la regia teatrale diventa regia di montaggio:  la struttura (una camera d’albergo) si raddoppia dando vita a una “digital room” con due retroproiezioni affiancate di immagini preregistrate o provenienti da telecamere a circuito chiuso e mixate live con quelle girate in diretta dagli stessi attori in scena. La cornice scenografica di questo expanded live cinema invade tutto lo spazio del palco e le immagini riempiono ogni interstizio possibile, generando un sovraccarico di visibile. Il video incombe quale inquietante presenza dentro questo claustrofobico contenitore di corpi ridotti a immagine su schermo procedimento visivo che drammatizza efficacemente il nuovo totalitarismo consumistico narrato cinicamente da De Lillo, forse il più grande romanziere postmoderno. Domina nello spettacolo un eccesso di visibilità e anche un incrudelimento e una morbosità dell’occhio della telecamera che sorveglia e si sofferma sui corpi. Il video in scena  inglobato nell’architettura integra il procedimento del romanzo: lo shock dell’immediatezza, il senso di alienazione e di perdita di identità nel flusso della rappresentazione del sé.

 

Un’estetica del processo?

Dall’autore all’attiv-attore

La multimedialità digitale definisce una nuova estetica non più dell’oggetto ma del processo e del  flusso (C.Buci-Glucksmann) in cui per la prima volta nella storia delle tecniche figurative la morfogenesi dell’immagine e la sua distribuzione (diffusione, conservazione, riproduzione e socializzazione più estesa) dipendono dalla stessa tecnologia (dall’immagine-matrice all’immagine-rete secondo E.Couchot). Le opere interattive hanno la capacità di modificarsi grazie alla presenza e all’azione degli spettatori, intermediari tra strumento, artista e spettatore, diventati veri coautori dell’opera. Navigazione ipertestuale, ambienti virtuali 3 D, immagini di sintesi, installazioni interattive: da un’opera chiusa e strutturata a un’opera-sorgente che contiene nella sua attualizzazione ed esecuzione una possibilità di continua variazione. Se l’artista è l’autore della proposizione, della concezione dell’opera, del suo dispositivo, del suo contesto, della sua manifestazione, il visitatore attraversandola la interpreta, ne è il performer (A.M.Duguet Installazioni video e interattive. Definizioni e condizioni di esistenza). Edmond Couchot preferisce invece parlare di due autori: un autore a monte all’origine del processo, ovvero colui che definisce programmaticamente le condizioni della partecipazione e un autore a valle che si inserisce nello sviluppo dell’opera e ne attualizza in maniera non preordinata, le potenzialità.

In Storie mandaliche 3.0 : il collettivo artistico Zonegemma ha messo in atto una complessa drammaturgia ipertestuale (ipertesti di Andrea Balzola) confluita in uno spettacolo di narrazione interattivo (con uso prima del Mandala System poi del programma di animazione Flash MX). Poiché il mandala viene costruito secondo un percorso labirintico e una logica di corrispondenze, anche  le storie hanno delle inter-connessioni: il pubblico può decidere di passare da un personaggio ad un altro ad ogni bivio ipertestuale, viaggiando all’interno di un labirinto di migliaia di possibili narrativi. La novità della tecnica affabulatoria del cyber-contastorie Giacomo Verde  che recupera un’oralità antica aggiornandola ai media digitali, l’immagine in animazione per permettere una navigazione anche in Internet, la ricercata atmosfera generale di sinestesia attraverso le sonorità spettromorfologiche create da Mauro Lupone, ma soprattutto il particolare reticolo ipertestuale percorso dal pubblico fanno di Storie mandaliche 3.0 il primo e pionieristico esempio italiano di teatro interattivo, con un’interattività non di interfaccia ma di progetto e di relazione. In CCC (2003) di Davide Venturini-TPO l’opera, definita dagli autori “un’azione teatrale a metà tra un atelier multimediale e uno spettacolo”  non è altro che un tappeto interattivo: un video proiettore invia dall’alto immagini animate e un sistema di trentadue sensori nascosti sotto il tappeto: il movimento di una o più persone all’interno di esso genera suoni e immagini che sono l’armamentario di un racconto di viaggio in Giappone tra i colori e le forme di un giardino Zen. L’artista innesca le condizioni più adatte per  sviluppare un’esperienza riflessiva e socializzante al tempo stesso, che sia da un lato di gioco ma anche di codici, di segni, di spazi, di nuove e immateriali architetture; è un’esperienza spontanea collettiva e condivisa, di emozione sensoriale, di contemplazione estetica, di concentrazione interiore.

Verso un teatro virtuale

Il teatro affronta la questione del virtuale aprendosi anche ad un nuovo un versante interattivo, attraverso la creazione di una scena delle interfacce (E.Quinz, in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p.403). Secondo Quinz due sono le possibili classificazioni di questa nuova scena: la prima è rappresentata da un puro sistema di interfacce in cui il dispositivo e il software servono sostanzialmente da intermediari fra il computer e le unità periferiche (videocamere, strumentazione virtuale). Si tratta in pratica di una vera e propria regia digitale che combina fonti diverse visive e sonore: immagini video ed eventuale elaborazione digitale in tempo reale, immagine da Internet, o d’archivio, sonorità elettroniche realizzate e trasformate in diretta.

Il secondo tipo, definito da Quinz “ambiente-mondo”, è quello degli ambienti virtuali veri e propri, incentrato sull’interazione fra corpi reali e corpi virtuali, sulla creazione computerizzata di oggetti interattivi a partire dalla captazione di movimenti degli interpreti in combinazione con l’utilizzo di periferiche di interazione uomo-macchina tramite sensori (elettromagnetici, elettromeccanici e fotoelettrici) come i data glove per la manipolazione della Realtà Virtuale e i sistemi di Motion Capture o la piattaforma EyesWeb elaborata dal Laboratorio di Informatica Musicale di Genova di Antonio Camurri che catturano gesti e movimenti umani (ma anche pulsazioni cardiache, variazioni di temperature), generando uno spazio reattivo, un ambiente multimodale interattivo (A.Camurri in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p. 414); l’attore indossando queste interfacce può gestire autonomamente in tempo reale e con il solo movimento, input da diverse periferiche e animare oggetti, ambienti, grafica, immagini, suoni, personaggi 3D e comporre l’azione scenica vera e propria. L’interfaccia si pone allora fra due sistemi di natura diversa, fra i quali il computer svolge delle operazioni di traduzione.

Il data glove o guanto interattivo è stato usato in Italia da Giacomo Verde e Stefano Roveda per dare vita al burattino virtuale Euclide nel 1992 mentre Jean Lambert Wild con Orgia (2002) ha sperimentato efficacemente il rapporto tra corpo dell’attore e immagine mediato da un’interfaccia (Sistema Daedalus): questa generava esseri artificiali, organismi del fondo marino, il cui “comportamento” e il cui movimento era influenzato dai livelli di emotività, respiro, temperatura e battito cardiaco degli attori muniti di particolari sensori.

https://www.youtube.com/watch?v=6zzrSi_irIw

Come ricorda Emanuele Quinz che ha elaborato la più originale proposta teorica in materia di digitale applicato alla scena (soprattutto in riferimento alla coreografia) “grazie alle interfacce il linguaggio scenico si arricchisce di un nuovo strato, basato sulla fluidità dei codici, sulla circolazione di input e output e sul trasferimento e la trasformazione dei dati. L’obiettivo di questi cantieri di ricerca e processi di sperimentazione è di esplorare una nuova sintassi capace non solo di tenere conto dei nuovi flussi delle informazioni sulla scena, ma di integrarli al servizio della composizione drammaturgica e coreografica” (E.Quinz in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p. 405)

Marce.lì Antunez Roca, fondatore della compagnia catalana Fura dels Baus propone un nuovo cyber teatro o teatro tecno-biologico in cui l’ibridazione (ovvero l’interpenetrazione, come precisava Mac Luhan) e lo scambio non sia solo più solo tra macchine e dispositivi ma tra corpo e tecnica, tra organico e inorganico, tra robotica e biologia, operando al confine tra “corpi in -macchinati e macchine in-corporate” (M. Antunez); il performer incarna l’utopia post-umana della tecno-mutazione, dell’ampliamento della struttura biologica verso nuove sensibilità extratattili diventando, attraverso innesti temporanei di dispositivi elettronici ed elettromagnetici, cybermarionetta e robot cibernetico, potente metafora della liberazione del corpo verso nuovi e inesporati spazi di sensorialità (dai robot pneumatici che reagiscono alla presenza del pubblico- Requiem, 2000-, al corpo-macchina del performer, appendice del computer sottoposto alla invadente molestia telematica da parte dello spettatore attraverso un touch screenEpizoo, 1994-).

Mutazione come seconda natura, come una sorta di felice alienazione dell’uomo nella sfera biotecnologica, passaggio indolore ad una nuova realtà, a una nuova “artificialità naturale”, tematica e che ha molto in comune con la nuova carne del cinema mutageno di David Cronemberg, col cyborg di Donna Haraway, e con i post umani di Bruce Sterling ne La matrice spezzata. In Transpermia. Panspermia inversa (2003) Antùnez, come già in Afasia, sostituisce il keyboard con il dressskeletron o esoscheletro, una protesi elettromeccanica, vero prolungamento protesico della sua corporeità recuperando grazie al programma Midi Reactor, funzioni organiche non più limitate alla vista e al tatto, potendo suonare con il suo corpo e modulare la voce, animare immagini  e disegni che mostrano ironiche ipotesi di interfacce e robot da usare nel quotidiano per identità sempre mutanti. Il performer (“uomo-orchestra” come lo ha definito incisivamente Carlo Infante che ha seguito sin dagli esordi i lavori dell’artista catalano) controlla così suono, immagine multimedia, videocamera in tempo reale, sequencer MIDI poiché il suo esoscheletro è in realtà una piattaforma che gli permette di connettere insieme e gestire una molteplicità di programmi, facendo di se stesso, un’interfaccia delle interfacce. Questi esempi affermano la centralità dell’attore quale fulcro vitale dell’esperienza scenica e mostrano una nuova ricerca teatrale  che prende come punto di partenza l’interprete, il cui corpo-interfacciato permette di far funzionare l’intero spettacolo; il nuovo cyber-attore torna ad assumere i connotati della Supermarionetta profetizzata da Craig,  dell’”uomo-architettura ambulante” ovvero adeguata alle leggi dello spazio cubico ambientale di Oskar Schlemmer ed infine dell’attore biomeccanico mejercholdiano per il quale “il corpo è la macchina e l’attore il meccanico”(A.Pizzo, p.132;  N. Savarese, 248-262).

Frontiere futuribili si intravedono per un nuovo teatro on line già esplorato dai navigatori della grande rete mondiale in occasione di alcuni eventi globali di hyperdrama e virtual drama (L.Gemini, p.136-137):#hamnet,1993 degli Hamnet Players, la prima performance realizzata via Internet attraverso il canale Internet Relay Chat; Clicking for Godot del DeskTop Theatre; Connessione remota , 2001 realizzata contemporaneamente on stage e on line con l’attivazione di una webcam e dialoghi in chat e Webcam teatro (2005) che utilizza le cosiddette webcommunity, entrambi progetti di Giacomo Verde. L’idea di una performatività deterritorializzata, estesa a vari canali per sperimentare diversi luoghi anche immateriali della comunicazione (senza fondamenta e smisurati, come nel caso delle opere nelle architetture del cyberspazio) e diverse modalità di partecipazione, ha alcuni precedenti significativi: Telenoia di Roy Ascott del 1992, performance mondiale durata 24 ore che connetteva attraverso tutte le tecnologie della comunicazione dell’epoca, bbs, fax, videofono, teletext, artisti che si scambiavano poesia, musica e immagini a cui fece seguito un anno dopo La lunga notte, concerto radiofonico in simultanea interattiva ideato da Roberto Paci Dalò-Giardini Pensili. E soprattutto The CIVIL warS: a tree is best measured when it is down di Robert Wilson, spettacolo kolossal ideato per le Olimpiadi di Los Angeles del 1984 in cui l’utopia di opera totale si trasfigurò in una composizione seriale di lirica, danza, cinema, pittura da dilatare (anche attraverso l’universo della diretta televisiva via satelite) in cinque paesi diversi del globo in sintonia temporale, progetto -realizzato solo parzialmente-che sfuggiva decisamente alla scena tradizionale e ai suoi tempi.

La rete intesa anche come potenziale teatro della protesta e della nuova disobbedienza civile, come luogo di un nuovo rekombinant e tactical theatre: si tratta del pensiero del collettivo statunitense Critical Art Ensemble e dell’Electronic Disturbance Theatre di Ricardo Dominguez, punti di riferimento della comunità artistica digitale mondiale e che si ispirano per le loro oper’azioni performative attraverso la rete, al Living theatre e al movimento situazionista. Le loro azioni (sit in virtuali, scioperi della rete) rientrano nell’ambito del cosiddetto hacktivism, etichetta usata per definire pratiche di attivismo, sabotaggio e controinformazione attraverso le nuove tecnologie. Il vero interrogativo, al di là dei generi e dei canali usato è: può il teatro -anche quello che usa le tecnologie più nuove – mettere in discussione modelli, sistemi, poteri? Brecht è ancora attuale? E’ proprio Brecht nei testi relativi alla Radio (1927-1936) ad aver intuito che il problema stava nell’appropriazione e nell’epicizzazione del mezzo, nel totale controllo espressivo da parte dell’artista -e della voce collettiva  che si nasconde dietro di lui- dello strumento tecnico e della nuova concezione dell’arte che supera la separazione tra “produttore” e “consumatore”.

IL TECNOTEATRO DI GIACOMO VERDE
188

La Maschera elettronica: il tecnoteatro di Giacomo Verde:

“ Le tecnologie miglioreranno il mondo solo se saranno usate con un’etica diversa da quella del profitto personale incondizionato

topi

La gente a teatro si comporta passivamente come di fronte ad un film o alla televisione: sono ormai abituati a percepire il mondo come se fosse solo immagine”. Con questa frase Giacomo Verde computer artist, mediattivista, performer e regista di spettacoli multimediali, in un testo intitolato Per un teatro tecno.logico vivente iniziava un lungo ragionamento sulla necessità di scuotere lo spettatore teatrale, ponendo rimedio a quella anestesia che lo ha colpito. Come rendere con le tecnologie  lo spettatore “necessario” a teatro? Le tecnologie possono essere -come auspicava Gene Youngblood- strumenti risocializzanti, “laboratori di trasformazione”?

Verde è attore-narratore (per i Teleracconto e per Storie mandaliche), autore di videocreazioni teatrali (Il cerchio nell’isola e Tutto quello che rimane, opere video sul lavoro del Tam teatromusica insieme con i detenuti del carcere Due Palazzi di Padova), animatore di personaggi virtuali (Euclide per Studio azzurro), creatore di sintesi video (Macchine sensibili per il Tam teatromusica), e di videofondali live e/o interattivi progettati per performance, reading poetici, concerti. Il teleracconto, ideato nel 1989 e inaugurato con la versione “televisiva” di Hansel e Gretel (H & G Tv), coniuga narrazione teatrale realizzata con piccoli oggetti e macroripresa in diretta. In riferimento al teatro gli schermi e le tecnologie (non soltanto di riproduzione ma anche di trasformazione dell’immagine) possono offrire alla scena nuovi spazi per l’immaginario, modificare i modi di percezione, permettere non solo la visione e l’esplorazione di un mondo, ma rendere consapevoli di poter partecipare al suo cambiamento (etico, sociale, politico). Dice Verde: “La Vista è uno dei sensi più facilmente ingannevoli. Quando non si riesce a capire di <<cosa si tratta>> bisogna metterci mano, e allora il potere dell’illusione diminuisce fino anche a sparire. In un momento dominato sempre più dall’intoccabilie immaterialità delle immagini, si rende necessario fare esperienze tattili e esperienze di dialogo cercando di eliminare il diaframma tra l’arte e la non arte, tra il vedere e il toccare, tra il dire e il fare”[5]. E ancora: “Le immagini o le <<azioni tecnologiche>> devono essere prodotte in tempo reale in modo da rispecchiare l’umore, il ritmo e la qualità della serata così come vengono generati dall’incontro tra gli attori e il pubblico. La tecnologia deve essere un mezzo che amplifica il contatto, il tempo reale, e non una gabbia che detta regole e ritmi immutabili, altrimenti non è possibile usarla per fare teatro”.

banner_Tempi+di+Reazione+1

Le oper’azioni di Verde sono da sempre variazioni in low tech sul tema della necessità di un uso politico e di una riappropriazione-diffusione capillare dei mezzi tecnologici, tema che oltrepassa ogni argomentazione di tipo estetico. L’interattività proposta da Verde è significativamente connessa con una pratica sociale dell’arte: “Nelle opere interattive il vero soggetto è il comportamento dei fruitori, e la grafica è solo l’interfaccia necessaria a suggerire i possibili diversi comportamenti di creazione, esplorazione o comunicazione, che sono il vero cuore dell’opera”; con la Minimal Tv (insieme con il gruppo Quinta parete) proponeva uno dei primi esperimenti di broadcasting comunitario autogestito, predecessore delle attuali telestreet: si tratta di un set-Tv che viene montato in occasione di mostre o feste il cui scopo è far manomettere la televisione segnalando che “la tv è di chi la fa”;

images (5)

in Per mettere mano. Azione installattiva di riciclaggio tv l’intervento est-etico interattivo proposto come gioco collettivo condiviso, prendeva le sembianze di una manipolazione ludica del televisore, attraverso una rottura del vecchi apparecchi Tv; coi Teleracconti Verde ci aveva mostrato come è facile attraverso una telecamera “far credere che le cose sono diverse da quelle che sono”, in altre parole, che le immagini trasmesse dalla televisione non sono quelle della realtà ma quelle di chi vuole fissare per noi un punto di vista sul mondo. Il teleracconto, tecnica teatral televisiva applicata inizialmente a spettacoli per bambini poi sviluppata autonomamente come modalità di base per videofondali live,smaschera un procedimento mediatico. Una telecamera inquadra in macro alcuni oggetti collocati vicinissimo alla telecamera; questi, attraverso la riproduzione televisiva e soprattutto attraverso la trama del racconto orale associata alla disponibilità immaginativa del pubblico, sembrano altro rispetto a quello che sono normalmente, si trasfigurano fino a diventare quello che  la storia ha necessità di raccontare. L’esperienza percettiva, come ricordavano Arnheim e i teorici della Gestalt,non è solo un mezzo di orientamento ma è soprattutto un’attività intellettiva strutturata, dinamica e creativa, una “conquista attiva e soggettiva”: “La visione non è una registrazione meccanica di elementi, ma l’afferrare strutture significanti”. Gli oggetti nei teleracconto di Verde sono chiamati a far parte della narrazione per similitudine morfologica, per somiglianza di forme, di colore ma soprattutto lo spettatore è chiamato a intervenire con l’immaginazione a coprire lo scarto tra quello che l’oggetto è nella realtà e quello che deve significare nel “racconto per immagine”: il guscio di una noce ripreso in macro può sembrare, come in Hansel e Gretel Tv, il volto della strega, le dita, alberi vecchi e nodosi, un pomodoro, un sole accecante. Queste azioni servono a mostrare lo scarto percettivo tra la realtà e l’immagine, ma anche gli schermi e i filtri culturali, soggettivi e ideologici, anteposti tra noi e la realtà: perché “l’immagine della cosa non è la cosa; il problema sta nel fatto che nel sistema televisivo e dei media in genere, si tende a utilizzare le immagini televisive come rappresentazione del reale, non dell’immaginario0]. Questo procedimento di chiamare una cosa con un nome che non gli corrisponde ricorda l’opera di Magritte L’usage de la parole (1928): la scrittaCeci n’est pas une pipe sopra il disegno di una pipa sancisce la non confrontabilità tra linguaggio verbale e linguaggio visivo. Così Verde sconfessando la perfetta corrispondenza tra realtà e sua interpretazione mediatica pone la stessa problematica relazione di Magritte tra icona e cosa denotata: l’immagine televisiva non è l’analogon dell’oggetto bensì un suo sostituto parziale e incompleto.

Antonio Attisani a proposito del Teleracconto in una comunicazione inedita (1990) scriveva che siamo di fronte a una rarissima e positiva invenzione linguistica che ci riconduce alle origini del teatro, perché l’attore si esprime usando il video come sua appendice e “supporto”: “Supporto come maschera, che impone o crea una propria sintassima che non elimina l’attore e con essa il suo sapere la sua tecnica, la sua responsabilità.  Bisogna considerare che anche colui che muove una figura, una marionetta è attore, è attore chi manipola e non parla, perché è lui il responsabile, il padrone del tempo della percezione teatrale, è lui la parte vivente dell’opera, lui è il maieuta dell’arte dello spettatore”. La maschera, dono di Dioniso, icona indossabile, incarna il gioco delle metamorfosi e allude alla possibilità per l’uomo di trascendere il proprio essere diventando un altro. La scatola del televisore che per convenzione ospita la visione di un mondo apparentemente intoccabile e inavvicinabile, diventa magico contenitore -maschera- di un universo brechtianamente trasformabile.

Giacomo Verde riflette da tempo sulla possibilità di fondere l’esperienza estetica con la pratica comunicativa dell’arte in un’ottica di “decentramento produttivo”, esplorando anche attraverso i media e il web, nuovi modi di “fare mondo” e di “creare comunità attive”: “Gli spettatori oggi hanno rapporti con le tecnologie e quindi sempre di più avranno esigenza di sentirsi <<interattivi>>; non è un caso che chi inizia a occuparsi di digitale in maniera seria, chi inizia a usare computer, le mailing list, le newsgroup, usa sempre meno la televisione; il computer forse non sostituirà la televisione nella sua funzione, ma sostituirà il tempo impiegato davanti alla televisione”[11]. La pratica del teatro sperimentale, il legame strettissimo con le tradizioni popolari (Verde è stato suonatore di zampogna e artista di strada[12]) lo hanno condotto “naturalmente” verso l’utilizzo del video in scena: ”Negli anni Ottanta ho scoperto la possibilità di usare i video in scena come elemento drammaturgico, oltre che scenografico. Così mi sono accorto che lo strumento video si adattava molto bene alle mie “capacità artistiche”, permettendomi di esprimere visioni difficilmente realizzabili con altri strumenti comunicativi e dato che mi occupavo di cultura popolare mi è sembrato naturale fare i conti con la televisione e le comunicazioni elettroniche, che oggi hanno ereditato e modificato gli archetipi dell’immaginario popolare. Occuparmi di video e di televisione (che sono due cose ben diverse) ed ora di computer è stato come decidere di vivere nel contemporaneo, superando vecchie e inutili ideologie di comportamento artistico, accettando il confronto creativo piuttosto che la fuga conservativa”.

L’uso della bassa definizione e della bassa fedeltà risponde al principio di non mitizzare mai le tecnologie e mostrare come grandi rivoluzioni possono essere fatte con piccoli strumenti; l’uso delle tecnologie in scena, in questo senso, non può che essere politico. Contro l’hi-tech “a tutti costi” per non sembrare “fuori moda” Giacomo Verde ripropone le tecnologie domestiche come segno di una lotta che parte dal basso ma che per il futuro “si sta attrezzando”. Sempre esplicito nello smascherare i poteri che stanno dietro alle nuove tecnologie soggette anch’esse ormai all’obsolescenza della moda, Verde mantiene sempre un coraggioso atteggiamente critico e polemico: il problema non è più quello di essere eccessivamente ottimisti nell’esaltazione della tecnologia, né di rifugiarsi all’opposto in un mondo arcaico anti o pre-tecnologico; si tratta di impossessarsi degli strumenti tecnologici, impararne le fondamentali istruzioni per l’uso e adoperarle secondo un’etica solidale  socializzando saperi: ”Non mi sento un ottimista tecnologico e tanto meno un feticista. La mia formazione culturale mi ha portato a condividere il punto di vista cyberpunk e oggi hacker: uno dei miei motti preferiti è “Tutta la tecnologia al popolo”. L’uso democratico e creativo della tecnologia è frutto di una battaglia costante. Anche se il digitale dà grandi possibilità creative e di comunicazione, esistono interessi economici (di pochi) che fanno di tutto per mettere freni e gabbie. Guarda cosa sta accadendo con Internet e la new economy. Le tecnologie miglioreranno il mondo solo se saranno usate con un’etica diversa da quella del profitto personale incondizionato. Quello che mi dà speranza è che anche le associazioni non governative, i promotori del commercio equo e solidale e i gruppi di controinformazione in generale stanno usando la rete per organizzarsi.”[14]

In x-8×8-x, operazione multimediale interattiva ideata insieme con il musicista Mauro Lupone e l’informatico Massimo Magrini per la manifestazione Techne (Milano, 1999) Verde creava un sofisticato lavoro digitale a metà tra net art e web design: il visitatore, muovendo le mani sul touch screen applicato al computer, scopriva i siti web delle Organizzazioni Non Governative (www.x-8×8-x.net); in qwertyu, opera di web art prodotta dalla rivista di architettura “Domus”, l’avventore della rete poteva giocare con le frasi e gli elementi dell’architettura per costruire -mattoncino per mattoncino e parola dopo parola- ambienti video-sonori sempre diversi e vedere scorrere sul proprio schermo, poesie (scritte da Lello Voce) contro le mine antiuomo.

In questi ultimi anni Verde ha sviluppato una propria tecnica per la creazione di videofondali live e interattivi per performance e reading poetico-musicali (per Lello Voce, Carlo Sanguineti, Luigi Cinque). Ha messo a punto una macchina più complessa ma in sostanza riconducibile al teleracconto, nelle scenografie digitali live di oVMMO (con Xear.org) in cui dal tema delle Metamorfosi di Ovidio i miti vengono raccontati per metonimia o per astrazione da pochi oggetti degni di un teatro “povero”: carta da regalo, confetti, rametti, scatole colorate ingranditi dall’ottica della telecamera e digitalizzati in tempo reale e mescolati a immagini catturate in scena da una webcam insieme al classico videoloop.

Nel teatro globale di Connessione remota, uno dei primi esperimenti italiani di Webcam Theatre, andato contemporaneamente in scena e in diretta Web dal Museo Pecci di Prato (2001), gli spettatori in “connessione remota” potevano assistere alla performance dal Web, incontrarsi in rete, chattare tra loro, dialogare e scrivere in tempo reale con lo stesso performer: “Questi esperimenti mi hanno confermato” dice Verde “l’intuizione di poter fare un teatro con/per la rete tenendo conto del senso di comunità che spesso si attiva in Internet in maniera più convincente di tanti altri luoghi materiali”.

Storie mandaliche 3.0 (2004) è l’ultima versione del tecnospettacolo ideato da Giacomo Verde e Andrea Balzola che ha anche scritto il testo insieme con il gruppo Gemma dopo un restyling di tecnologie (dal Mandala system al programma Flash Mx). Sono sette storie ipertestuali ispirate al mandala e al suo significato di trasformazione spirituale dell’individuo. La narrazione avanza parallelamente su sette fronti con scene visive animate e sonorità elettroniche gestite dal narratore che cambia direzione del racconto ad ogni bivio ipertestuale a seconda della scelta del pubblico. Nel narrare molto da vicino facendo sentire il “suono delle parole” e facendosi accompagnare non dalla tela disegnata ma da immagini in videoproiezione con i quali interagisce, il cybercontastorie Verde si permette col gesto, col corpo, con l’abilità “digitale” e con la colorazione affettiva tipica dell’oralità, l’equivoco dello stare nella duplice condizione di narratore e di personaggio, dell’uscire continuamente per poi rientrare con rapidità dentro il cerchio mandalico delle storie ma senza rinunciare alla propria individualità. Chi è nel cerchio modifica la storia, anche se questa sembra immutabile, ma quale storia è immutabile, quale mondo è immutabile?

hackart_clementepestelli04

Live Media-performance video live
182

ogino knauss

Una raccolta di link sui visual dai concerti e sulle performance video live

httpv://www.youtube.com/user/verdegiac#p/c/1/iMkX2R-L0rE

Multireverse Live media di GIACOMO VERDE

httvp://www.youtube.com/user/verdegiac#p/c/051AD269A956C1E9/0/yWYlg2pT9yA

ELETTRIFICAZIONE di GIACOMO VERDE

httpv://www.youtube.com/user/verdegiac#p/c/051AD269A956C1E9/3/czgcfBTs3R4

videolettura dall’ODISSEA DI GIACOMO VERDE

v

Rap di fine millennio GIACOMO VERDE E LELLO VOCE

httpv://www.youtube.com/user/verdegiac#p/c/051AD269A956C1E9/10/O-VohIqHHVs

Video live di GIACOMO VERDE per l’Elettra di BALESTRINI

httpv://www.youtube.com/user/verdegiac#p/c/051AD269A956C1E9/5/V7bfERUIkXU

Videofondali per TOKYO, GIACOMO VERDE

OGINO KNAUSS THE PLOTO VIDEOLIVE 2011

VERSO UNA NUOVA SCRITTURA SCENICA. Dagli atti del convegno CREATION NUMERIQUE, LES NOUVELLES ECRITURES SCENIQUES 2003 | 2004
173

Le théâtre dans la sphère du numérique.

 VERSO UNA NUOVA SCRITTURA SCENICA (Anna-Maria Monteverdi)

Il panorama del teatro di ricerca italiano che si è arricchito della presenza dei media in scena come è stato rilevato da più critici e storici del teatro e studiosi di nuovi media da Brunella Eruli a Anna Maria Sapienza a Andrea Balzola ha un grande debito nei confronti del Teatro-immagine degli anni Settanta (tra i protagonisti Carlo Quartucci, Memé Perlini, Mario Ricci, Leo De Berardinis) alla cui definizione contribuiscono alcune esperienze a metà tra il teatro e le arti visive ed eventi videoperformativi. Teorizzatore di questa tendenza è stato Giuseppe Bartolucci, uno dei critici militanti che ha portato contributi notevoli alla diffusione e alla promozione del teatro di ricerca italiano come organizzatore di alcune delle rassegne che hanno prodotti i “manifesti” e sancito i principi del Nuovo teatro. Questa prevalenza dell’immagine sulla parola sarà riconosciuta ufficialmente in Italia alla rassegna di Salerno Incontro/Nuove tendenze (1973). I differenti metodi di composizione e di espressione sperimentati, nel comune rifiuto del testo drammatico, propongono l’elaborazione di una scrittura scenica innovatrice che privilegiasse, come ricordava Bartolucci, i tre elementi di: spazio, immagine, movimento temi che ci riconduncono anche ai padri fondatori della regia, la cinetica scenica di Craig, lo spazio-immagine di Appia.

Il teatro della post-avanguardia (inaugurato ufficialmente dal convegno di Salerno del 1976) accentuerà ulteriormente le caratteristiche antinarrative e visive, visionarie e oniriche inaugurate dal teatro-immagine: ne sono protagonisti la Gaia scienza di Giorgio Barberio Corsetti e il Carrozzone (primo nucle dei Magazzini Criminali, oggi solo Magazzini) e in seguito Falso movimento di Mario Martone (1977 col nome di Nobili di Rosa), Krypton di Giancarlo Cauteruccio quest’ultimi insieme con il Tam teatromusica di Michele Sambin e Pierangela Allegro creeranno le premesse per il fenomeno del cosiddetto media-teatro o videoteatro ancora una volta inaugurato con una rassegna a Roma dal titolo Nuova Spettacolarità nel 1981.

chromakey

Il videoteatro è un termine che è andato genericamente a definire sia la produzione videografica di ispirazione teatrale legata a uno spettacolo -quella che Valentina Valentini definisce una videodrammaturgia residua– sia creazioni completamente autonome (videodocumentazioni, biografie videoartistiche, produzioni di teatro televisivo pensiamo alle sperimentazioni televisive di Ronconi, Carmelo Bene e Martone); ma videoteatro è sopratutto, performance tecnologiche o spettacoli teatrali che utilizzano l’elettronica in scena. In queste produzioni entra con chiara contaminazione l’esperienza contemporanea della metropoli, l’universo cinematografico, i fumetti, la musica rock, e le tecnologie elettroniche. In Martone l’uso di macchine elettroniche è senz’altro più limitato ma l’attenzione è volta all’assimilazione del linguaggio e dell’espressività tecnologica che va al di là degli strumenti usati. Corsetti protagonista assoluto di questa stagione videoteatrale introduce una struttura complessa di dialogo tra corpo e ambiente, luce e spazio, immagine video e presenza attoriale in tre spettacoli di cui ricordiamo La camera astratta. Camera astratta (1987) di Corsetti con Studio azzurro presentato a Dokumenta kassel e poi vincitore del premio Ubu massimo riconoscimento per il teatro di ricerca. Paolo Rosa parla di un percorso del gruppo video Studio azzurro verso il teatro, di una espansione in senso teatrale delle videoinstallazioni; teatro “latente presente in embrione come ambito in cui sconfinare”; in Camera astratta si mette in scena il “carattere bicefalo del video” come ricordava Philpe Dubois, “dispositivo e immagine-processo”: c’è una doppia scena, una materiale e una immateriale, una visibile e una invisibile, un set e un retroset dove gli attori vengono ripresi e la loro immagini riproposte in diretta nella parte frontale del palco. I monitor in scena che scorrono su binari o appesi in aria e in una complessa articolazione di movimenti, incorporano e scompongono il corpo dell’attore. Corsetti parla della presenza elettronica che “rafforza le potenzialità dell’azione teatrale”. La presenza del monitor agisce come elemento linguistico e drammaturgico nuovo in un contesto teatrale.

Giacomo Verde. www.verdegiac.org E’ videomaker, tecnoartista, mediattivista legato alla sperimentazione delle tecnologie povere con le quali mostra nelle installazioni e a teatro come la creatività non dipenda da un forte dispiegamento di mezzi. Le sue oper’azioni sono da sempre una critica al “consenso mediatico” e variazioni sul tema della necessità di un uso politico delle immagini e di una riappropriazione-socializzazione dei saperi tecnologici. A teatro l’accento è posto sul live, sulla performatività dei media per comprendere questa realtà tecnologicamente aumentata, come scrive in un suo bel testo: “Per un teatro tecno.logico vivente. Verde parla di una tecnonarrazione che rivitalizzi l’antica arte della narrazione orale con i nuovi strumenti comunicativi e che faccia sentire lo spettatore necessario alla rappresentazione; la tecnologia deve essere un mezzo che amplifica il contatto, il tempo reale e non una gabbia che detta regole e ritmi preregistrati e immutabili”. Verde è attore-narratore autore di videocreazioni teatrali, e di videofondali live e/o interattivi progettati per performance, reading poetici, concerti. Il teleracconto, ideato nel 1989 e inaugurato con Hansel e Gretel (H & G Tv), coniuga narrazione teatrale realizzata con piccoli oggetti e macroripresa in diretta. Una telecamera inquadra in macro alcuni oggetti collocati vicinissimo alla telecamera; questi, attraverso la riproduzione televisiva e soprattutto attraverso la trama del racconto orale associata alla disponibilità immaginativa del pubblico si trasfigurano fino a diventare quello che la storia ha necessità di raccontare.

Il perfomer è narratore che manipola oggetti e le immagini di questi oggetti ripresi in diretta, gioca sullo spiazzamento percettivo.Coi Teleracconti Verde ci mostra come è facile attraverso una telecamera “far credere che le cose sono diverse da quelle che sono”, in altre parole, che le immagini trasmesse dalla televisione non sono quelle della realtà ma quelle di chi vuole fissare per noi un punto di vista sul mondo. Si può considerare una continuazione o prolungamento del teleracconto OVMM acronimo da Ovidio metamorfoseon, dalle metamorfosi di Ovidio. L’attore Marco Sodini racconta con parole con azioni e coreografie i miti di trasformazione. Sullo sfondo, immagnini create in dretta da Verde. Verde presente e visibile in scena mette in atto un doppio dispositivo di ripresa, la webcam che riprende lo spazio con l’attore e la videoproiezioni, e la videocamera che riprende sullo schermo del computer le immagini della webcam sulle quali vengono sovrapposti piccoli oggetti, materiali e riflessi. Le immagini sono tutte in tempo reale e seguono il ritmo della scena, si moltiplicano attraverso l’azione dell’attore. Anche la musica e i suoni rispondono al principio del live, suoni campionati che sono un tappeto sonoro continuo vengono trasformati in diretta con variazioni di intensità, sovrapposizioni ed echi della voce del protagonista. Nella primavera del 1998 Giacomo Verde e il drammaturgo e critico Andrea Balzola pongono per la prima volta mano ad un progetto di narrazione teatrale con uso di tecnologia interattiva ispirandosi, per la stesura dei testi, alla forma e al significato del Mandala, guida della meditazione e simbolo della trasformazione spirituale dell’individuo. E’ Storie mandaliche di Giacomo Verde e Zonegemma. La scelta della tecnologia va inizialmente al sistema Mandala System per Amiga, e contestualmente si pongono le premesse per la scelta dell’iconografia e il primo abbozzo di un testo che viene concepito con caratteristiche ipertestuali, ovvero connessioni, incastri, corrispondenze tra i personaggi e i luoghi. Balzola li definisce “iperracconti”. Sono sette storie di trasformazioni nei diversi regni: umano, minerale, vegetale, animale e divino, ovvero sette storie di personaggi “linkate” tra loro a formare una rete e un labirinto: il bambino-uomo, il mandorlo, la principessa nera, il corvo, il cane bianco, la pietra del parco, l’ermafrodita. Ogni storia e ogni personaggio è associato a un colore, ad un elemento e ad un punto cardinale. La struttura del mandala è concentrica: ha quattro porte che corrispondono ai punti cardinali. Le storie portano sempre al centro: il mandala è la determinazione di un percorso che conduce all’illuminazione attraverso un rito di orientamento. Nel Mandala System è possibile fondere insieme sfondi, ambienti bidimensionali con oggetti tridimensionali attraverso la videocamera: la videocamera riprende in diretta il corpo o la mano del narratore che viene digitalizzata in tempo reale e la sagoma della figura ripresa, appare sovrapposta alle immagini e agli oggetti generati, invece, dal computer. Lo spettacolo ha attraversato diverse fasi ed è appena terminata una sua ulteriore metamorfosi con le animazioni in flash MX (programma per animazioni audiovisive 2 d usato in Internet) delle immagini che sostituiscono il Mandala system per un’ipotesi anche di futura fruizione Web. Il cyber contastorie (la definizione è di Giacomo Verde, che ci tiene a definire il narratore sulla base dell’immagine del tradizionale raccontastorie) anziché la tela disegnata, ha davanti a lui immagini in videoproiezione che lui stesso può trasformare seguendo il ritmo in tempo reale del suo racconto.

Motus. www.motusonline.it

Motus è uno dei gruppi di punta della cosiddetta generazione Novanta, o terza ondata, fenomeno esploso agli inizi degli anni Novanta che ha come epicentro la Romagna; è lì che si crea un terreno favorevole e le premesse per una nuova ricerca teatrale da parte di giovanissimi romagnoli grazie anche alla presenza del Teatro delle Albe e della Socìetas Raffaello Sanzio; gruppi che, date le caratteristiche simili, formali e contenutistiche, vengono accorpati insieme dalla critica a farne una etichetta un movimento, che contraddistingueva una nuova tendenza del teatro. I nuovi gruppi teatrali dopo essere stati per lungo tempo invisibili (questo era anche il nome di una rassegna che li proponeva a San Benedetto del Tronto) nati e cresciuti nella semiclandestinità, nelle pieghe e nell’ombra della cultura ufficiale, in spazi underground, in circuiti alternativi, extrateatrali decentrati in Romagna in centri sociali o spazi occupati (Link a Bologna, Interzona Verona) ottengono una loro visibilità di pubblico grazie al Festival Crisalide, Opera prima di Rovigo e Teatri 90: Motus, Fanny e Alexander, Teatrino clandestino, Masque teatro Teatro degli Artefatti Nuovo complesso camerata. Teatro dai forti connotati visivi, legato a un vero culto dell’immagine caratterizzato anche dall’eccesso di visione, una visione mediatizzata, televisione, video, cinema (Cronenberg), pittura e fotografia (da Warhol a Muybridge), pubblicità e che scopre ispirazione e tematiche e spazi di rappresentazione dall’ambito urbano metropolitano (dai metrò alle discoteche alle camere d’hotel); ossessiva indagine sulle tematiche del corpo (postorganico, cyber, corpo fagocitato nell’intero meccanismo tecnologico; corpo mostrato, violato, nei suoi aspetti estremi di violenza e di sesso); attenzione verso i meccanismi di visione del corpo stesso: esposto a obiettivi fotografici, e video, costretto dentro teche trasparenti. Il tema del teatro come sguardo, della ricerca di particolari dispositivi di visione è una delle costanti del giovane gruppo riminese fondato nel 1990 da Enrico Casagrande e Daniela Niccolo. Il loro teatro attraversa da sempre i territori più svariati della visione: cinema, video, architettura, fotografia. Sguardo catturato in scena da una fotocamera in Catrame tratto da Ballard e che guarda a Crash di Cronenberg; corpo dell’attore rinchiuso in teche di plexiglass e costretto in una struttura circolare in movimento in Orlando furioso, trasgressivo spettacolo che li ha imposti all’attenzione del pubblico. La caratteristica del loro teatro è che lo spettacolo nasce dapprima come installazione, come scultura scenica perché protagonista è il luogo come dispositivo scenico che si impone con le sue grandi proporzioni nello spazio dell’archittettura del teatro.

Twin Rooms , Motus
Twin Rooms , Motus

Motus : da Vacancy room a Twin rooms.

Twin room è costruito intorno ad una struttura “abitabile”. Una camera d’albergo: bagno e camera da letto contigui e comunicanti percorsi a vista dagli attori in coppia, a gruppi o singoli; quasi una sensazione di immobilità di azione in questa rigida delimitazione dello spazio, e di uscita dal tempo. E’ il luogo stesso a suggerire questa dimensione astratta: la camera d’albergo è un (non) luogo intimissimo e anonimo insieme La struttura è quadro che isola e insonorizza dal mondo. E’ anche la scatola ottica davanti alla quale poter esercitare, la propria (voc)azione voyeuristica (in quanto spettatori). Lo svolgimento dello spettacolo rivela molte affinità con il procedimento filmico. Il soggetto stesso è un vero e proprio topos a lungo esplorato e rivisitato dalla cinematografia e da un certo film di genere. Il progetto teatrale è terminato con la creazione di un ulteriore dispositivo di sguardi: una struttura modulare che raddoppia la stanza: una digital room che duplica i personaggi: le immagini proiettate provenienti da telecamere in mano agli attori e da microcamere fisse contribuiscono a dare l’impressione di assistere ad un “doppio film” .Le immagini preesistenti vengono mixate live con quelle girate in diretta. La regia teatrale diventa regia di montaggio. Twin room è ispirato a DeLillo (Rumore bianco) ha avuto una prima visione in forma installattiva al Museo Pecci di Prato; in scena un “contenitore” d’ambienti: camera d’albergo e bagno che si impone quale macchina dello sguardo e simbolo di una esasperata ricerca di uno spazio interiore; un luogo riempito di oggetti, parole, suoni e immagini evocati dal cinema e dalla letteratura.Il ruolo del video in Twin rooms: moltiplicatore di sguardi, introspettivo, narcisistico, mnesico. Video come una finestra sull’io. Per certi aspetti il video esaspera operazioni come The merchant of Venice di Peter Sellars. Un eccesso di visibilità e anche un incrudelimento e una morbosità dell’occhio della telecamera che si sofferma sui corpi. E questo è in De Lillo, interessato a quello che il consumo cannibalico delle immagini potrebbe dirci sull’inconscio collettivo politico e culturale. I personaggi di De Lillo parlano sullo sfondo di immagini televisive di morte e disastri, da Piazza Tienanmen, alla tragedia allo stadio di Hillsborough. In De Lillo i personaggi passeggiano tra i grandi magazzini e si vedono ripresi dalle telecamere, i loro volti andare in diretta in televisione. Le tecnologie negli spazi urbani ci coinvolgono , nelle strade, nelle banche, vediamo immagini di noi stessi ovunque. La sorveglianza non viene soltanto assunta da istituzioni pubbliche e ufficiali, sta assumendo caratteristiche individuali e familiari. Scrive in un romanzo De Lillo: “La gente agisce in terza persona, si trasforma via via nella propria succursale di spionaggio, nella propria compagnia televisiva, nella propria stazione televisiva. Filma le percosse della polizia, i maltrattamenti delle baby sitter ai bambini che custodiscono”. C’è una video vigilanza diffusa. La città viene a costituire un mosaico di microvisioni e microvisibilità. Il video in scena quindi integra il procedimento del romanzo: lo shock dell’immediatezza, il senso di alienazione e di perdita di identità nel flusso della rappresentazione del sé: “Una sera camminavano accanto a un grande mafazzino,andavano a zonzo. E Marina guardando verso un televisore in vetrina vide la cosa più sorprendente, una cosa talmente strana che dovette fermarsi a fissarla, afferrandosi saldamente a Lee. Era il mondo che andava dal di dentro verso il di fuori. Stavano a bocca aperta a fissare se stessi dallo schermo tv. Era in televisione!” (Don DeLillo).

Serata Pasolini a Viareggio: proiezione del video di Giacomo Verde
145

Stasera alle ore 21 allo Spazio Dadaboom di Viareggio (via Minghetti 12) verrà proiettato il video di Giacomo Verde: La mia pittura è dialettale (dipinti e disegni di Pier Paolo Pasolini.) Questo video è stato realizzato in occasione della mostra itinerante “Pier Paolo Pasolini, Dipinti e Disegni dell’Archivio Contemporaneo del Gabinetto Vieusseux”. 

Tutte le immagini (escluse le foto) e le parole, rielaborate in video, sono di Pasolini che scrivendo della sua pittura diceva :- Mi interessa più la “composizione”, coi suoi contorni, che la materia. Ma riesco a fare le forme che voglio io, coi contorni che voglio io, solo se la materia è difficile, impossibile, e soprattutto se in qualche modo, è “preziosa”. […] la mia pittura è dialettale: un dialetto come “lingua per la poesia”. Squisito, misterioso: materiale da tabernacoli. Sento ancora, quando dipingo, la religione delle cose -.

Seguirà dibattito.

A seguire letture sceniche a cura della Compagnia Giove Teatro
come tutti i giovedì aperitivo cena

Convegno Le Théatre dans la sphére du Numèrique, Paris, Centre Pompidou (in francese)
123

Le premier Rendez-vous du programme de rencontres
« Création numérique, les nouvelles écritures scéniques » s’est déroulé le Vendredi 24 octobre 2003 au Centre Georges Pompidou dans le cadre du Festival Résonances de l’Ircam.

Il programma del convegno 

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Un grand merci à Anna-Maria Monteverdi qui a fait un compte-rendu de la journée

Ce premier Rendez-vous intitulé « Le théâtre dans la sphère du numérique » s’est déroulé face à un important public d’artistes, de chercheurs, de professionnels des arts de la scène et d’étudiants français et étrangers. Après une présentation du programme et de la journée par Anomos et Dédale puis Franck Bauchard, conseiller Théâtre au Ministère de la Culture et de la Communication, Bernard Stiegler, Directeur de l’Ircam, a proposé une introduction générale de la question « arts de la scène et technologies ».

Le programme a ensuite abordé les trois étapes suivantes :

Arts de la scène et technologies, la création contemporaine en perspective historique.
Cette première partie était organisée autour de deux axes :
– Les précurseurs : les avant-gardes de 1900 à 1960.
– Le choc du numérique : quelques expériences significatives de la question « arts de la scène et nouvelles technologies » de 1960 à nos jours.

Les nouvelles formes scéniques, panorama européen.

Il s’agissait ici de dresser un état des lieux européen des acteurs et des projets artistiques, de dégager, par pays ou zone géographique, les grandes tendances actuelles et de montrer comment les caractéristiques culturelles propres à chaque pays influent sur cette question des rapports arts de la scène et technologies. Les questions professionnelles (lieux de production, de diffusion, festivals) ont également été abordées. Les trois zones géographiques qui ont fait l’objet d’une attention particulière sont : l’Europe du Sud (Italie), l’Europe du Nord (Allemagne, Pays-bas) et l’Europe de l’Est (Pologne).

Arts de la scène et technologies, la création contemporaine en perspective historique.

Les précurseurs

Dans le cadre de la section dédiée aux précurseurs, la directrice du Laboratoire de Recherches sur les Arts du Spectacle du CNRS Béatrice Picon-Vallin (qui était absente, mais dont le texte a été lu par Clarisse Bardiot, collaboratrice du programme « Création numérique, les nouvelles écritures scéniques ») a proposé une interprétation de la scène technologique contemporaine qui s’inspire des avant-gardes du 20ème siècle : la scène actuelle serait une dernière contribution au thème de la conquête d’un théâtre de l’expression totale et d’un nouvel espace scénique généré non pas à partir de la peinture ou de la littérature, mais de la lumière et du mouvement :
« La scène architectonique » de Craig, la scène constructiviste ou celle du Bauhaus, génèrent des machines à jouer, échos des recherches de l’avant-garde plastique, capables entre autres innovations radicales, de découper l’espace tridimensionnel en une série de cadres précis dans lesquels et entre lesquels le comédien devra maîtriser le mouvement scénique, le jeu se voyant défini comme maîtrise des formes plastiques dans l’espace. La lumière tend également à éliminer la peinture pour distribuer elle-même dans l’espace qu’elle fluidifie couleurs et mouvements (…) Aujourd’hui, la machine à jouer se fera machine à projeter des images, et le jeu des comédiens devra tenir compte de celles-ci, fixes ou animées, qui peuvent habiter l’espace dans son ensemble, apparaître sur toute surface constituant le dispositif, et non plus seulement sur les écrans suspendus au dessus de la scène ou placés au fond du plateau (comme dans les années 20) – images qui peuvent même capter l’acteur en direct et être retraitées, toujours en direct, images surgies, fantomatiques, toujours au bord de l’évanouissement, de la disparition, par lesquelles l’acteur de chair est redoublé, agrandi, magnifié ou sous surveillance.
(B. Picon-Vallin, Un stock d’images pour le théâtre. Photo, cinéma, vidéo, in B. Picon-Vallin, sous la direction de, La scène et les images, Paris, CNRS Editions, 2001, p.21-22).

Béatrice Picon-Vallin propose une subdivision temporelle en cinq actes de cette histoire du théâtre technologique à laquelle tous les facteurs ont contribué de manière directe, qu’ils soient de nature sociale, politique, idéologique ou économique.

1. Les années 20 en Russie
2. Les années 20-30 en Allemagne
3. Les années 50-60 à Prague
4. Les années 60 aux Etats-Unis
5. Les dernières vingt années du 20ème siècle en Europe et aux Etats-Unis

Béatrice Picon-Vallin a porté une attention particulière au « théâtre de la totalité » de Moholy-Nagy, à l’acteur-marionette d’Oskar Schlemmer et à son célèbre ballet triadique et à Josef Svoboda, le scénographe tchèque, inventeur de la « Lanterne magique » et du système de poly-projections Polyécran présenté à l’exposition universelle de Bruxelles (1958). Des extraits du documentaire  biographique de Denis Bablet Jospef Svoboda scénographe (1983) ont été présentés. Un des extraits montrait le spectacle Intolérance 1960, sorte de manifeste pour une idée d’un théâtre multimédia (ayant de nombreuses implications politiques), qui a été créé en 1960 avec le musicien Luigi Nono sur le livret d’Angelo Maria Ripellino pour la Fenice de Venise dans un premier temps (mais les images furent censurées) et pour Boston dans un second temps. Cette dernière version prévoyait la substitution des images cinématographiques avec un système de reprise télévisuelle à circuit fermé : c’était en somme, comme le rappelle Bablet, « une nouvelle forme d’opéra, un nouveau type de théâtre total ».
Lire le texte de l’intervention de B. Picon-Vallin

Sylvie Lacerte, ex-directrice générale du Find lab (laboratoire international de recherche et de développement de la danse) de Montréal et doctorante à l’UQAM, a proposé l’exemple pionnier des EAT – Experiments in Arts and Technologies — l’organisation fondée conjointement en 1966 par les ingénieurs Billy Klüver et Fred Waldhauer de la téléphonie Bell et les artistes Robert Raushenberg et Robert Whitman. Cette organisation a été lancée lors de la manifestation 9 evenings : theatre and engineering qui s’est déroulée en 1966 à New-York. Il s’agissait de performances qui mêlaient ensemble danse, théâtre, musique et vidéo. Parmi les artistes présents, il y avait : J. Cage, S. Paxton, D. Tudor, R. Rauschenberg, L. Childs. Sylvie Lacerte a travaillé à la reconstruction détaillée de ces œuvres artistiques qui intégraient de façon inhabituelle les technologies. Comme le rappelle la chercheuse dans son texte sur l’histoire de l’EAT, en ligne sur http://www.olats.org :
Pour la mise sur pied de cet événement, un système électronique environnemental et théâtral fut inventé par l’équipe des ingénieurs. Le THEME – Theater Environmental Module – fut mis sur pied pour répondre aux besoins de dix artistes, en fonction de situations théâtrales bien spécifiques. Le THEME, qui n’était pas visible de la salle, permettait entre autres, le contrôle à distance d’objets et la possibilité d’entendre des sons et de voir des faisceaux lumineux provenant de sources multiples et simultanées.

Sylvie Lacerte a montré un extrait d’une des neuf performances, Open score de R. Raushenberg et J. MC Gee (ingénieurs ) avec Franck Stella et Mimi Kanarek, qui jouaient une partie de tennis avec des raquettes dont les manches étaient équipés de micros sans fil qui amplifiaient le bruit de la balle.


Le choc du numérique 

Dans la seconde section du panorama historique, Christopher Balme, professeur de théâtre et directeur du Département Arts du spectacle de Mayence (Allemagne) a proposé une intervention sous le nom de « Contamination et déploiement ; théâtre & technologies 1960-2003 ».
Dans cette intervention, Balme traçait trois trajectoires du rapport entre théâtre et technologies :
– l’art vidéo
– le théâtre multimédia
– la performance numérique et la performance à travers Internet
Après avoir anticipé les positions anti-technologiques du théâtre des années 60, en particulier celles de Jerzy Grotowski et Peter Brook, Balme a souligné très justement à quel point cette querelle du théâtre et des technologies est un sujet encore largement débattu. Pour la partie relative à la première vague de l’innovation technologique, les expériences artistiques de Nam June Paik, mais aussi celles de Jacques Polieri dans les années soixante ont été évoquées ainsi que les œuvres vidéos de Bill Viola et les spectacles de Giorgio Barberio Corsetti pour la période relative aux années soixante-dix et quatre-vingts. Balme soutient que ces artistes, pourtant éloignés dans leur pratique artistique, ont tous en commun une même attitude esthétique qui cherche à dépasser la dichotomie traditionnelle entre l’art et la technologie. En référence au passage de l’art vidéo à la scène, certains artistes de la soi-disant « scène multimédia » états-uniennes dont le Wooster Group d’Elizabeth Lecompte, pionnier dans l’utilisation sur scène de la vidéo, live et préenregistrée, ont été cités.

Rappelons-nous le spectacle Brace-up ! :


Brace up!
, mise en scène de Elizabeth LeCompte: Scott Renderer, Jeff Webster (sur le grand moniteur), Paul Schmidt (sur le petit moniteur), Kate Valk. (photo © Mary Gearhart)

Leur travail est poursuivi de façon parfaite par John Jesurun et The Builders Association (on se souvient en particulier du spectacle Everything that rises must converge, 1990). L’interaction entre l’action de l’acteur et de la vidéo est un postulat important selon Balme pour le développement de la performance numérique et à travers Internet.

Balme a présenté certains extraits du spectacle de Robert Lepage Les sept branches de la rivière Ota, premier projet théâtral réalisé avec la compagnie pluridisciplinaire Ex Machina dans lequel le metteur en scène canadien développe une trame visuelle faite de silhouettes, corps, images vidéos littéralement mêlés ensemble de façon à former un théâtre d’ombre muet, métaphore visuelle de la persistance de la mémoire d’Hiroshima dans le monde occidental et oriental. Dans la seconde partie, relative au numérique, Balme a parlé de la première performance sur Internet, Hamnet (1993) des Hamnet Players de Stuart Harris.

Il s’agit d’une performance réalisée via un système de chat à travers le canal Internet Relay Chat (IRC) #hamnet. L’essai en ligne de Brenda Danet offre une lecture précise de cette expérience :http://jcmc.huji.ac.il/vol1/issue2/contents.html.

Lire le résumé de l’intervention de Christopher Balme (en anglais)

Les nouvelles formes scéniques, panorama européen.

L’Europe de l’Est : l’exemple de la Pologne
Pour le panorama européen, Izabella Pluta-Kiziak, doctorante à l’Université de Silésie (Pologne), a proposé une intervention intitulée « Entre l’Internet et la réalité post-communiste » avec des fragments vidéos des spectacles de Komuna Otwock : Bez tytulu et Trzeba zabic pierwszego boga.


Desing: Gropius / Dlaczego nie bedzie rewolucji – Komuna Otwock.

La chercheuse a rappelé que le phénomène du théâtre et des nouvelles technologies est totalement différent en Europe de l’Est par rapport à l’Europe de l’Ouest ou aux Etats-Unis. L’actuel changement politique est d’ailleurs un facteur déterminant de ce phénomène. Il existe cependant des implications économiques et de forts liens avec la tradition théâtrale qui freinent une réelle expérimentation dans cette direction.
La chercheuse a proposé :
– un cadre historique de ce que l’on appelle le théâtre alternatif après 1989 et la direction du théâtre de recherche polonais à partir de la question « Peut-on vraiment introduire les nouvelles technologies dans le théâtre polonais après Grotowski et Kantor ? »
– un panorama des manifestations, festivals, centre de ressources. Entre autres, ont été présentés : le Festival international de théâtre alternatif Réminiscences théâtrales à Cracovie, Malta-Festival de Théâtre à Poznan (http://www.malta-festival.pl/) et WRO Centre (http://www.wrocenter.pl/), Centre des arts des médias à Wroclaw (qui organise la biennale des arts des médias).
– La génération des metteurs en scène « plus jeunes, plus talentueux », qui utilisent la vidéo sur scène : Grzegorz Jarzyna avec Psychosis 4.48 ; Anna Augustynowicz, Mloda smiercBalladyna.

Lire le texte de l’intervention d’Izabella Pluta-Kiziak

L’Europe du Nord : l’exemple de l’Allemagne et des Pays-Bas 
Meike Wagner, professeur en arts du spectacle à l’Université de Mayence a présenté deux projets :
– Alientje (2002) du groupe holandais Wiersma & Smeets qui travaille avec des projections, des personnages en papier, des objets filmés avec un simple système audiovisuel. Il s’agit d’un projet pour enfants.

– Cyberpunch (2003) du groupe théâtral de Thomas Vogel à Berlin. Il s’agit d’un projet de « cyberstage » avec des personnages virtuels en interaction avec des marionnettes et des acteurs réels sur scène. Le « cyberstage » de Thomas Vogel est un work in progress.

Lire le texte de Meike Wagner

L’Europe du Sud : l’exemple de l’Italie
Pour le panorama italien, Anna-Maria Monteverdi a proposé une digression sur trois aspects historiques :
– l’héritage du théâtre-images : panorama du théâtre de recherche italien enrichi par la présence des médias sur la scène et l’héritage du théâtre-images des années soixante-dix.
– Le videoteatro italien : de la post avant-garde à la « nouvelle spectacularité » : Giorgio Barberio Corsetti, Studio Azzuro.
– Teatri 90 et la « Troisième vague » : la nouvelle génération du théâtre italien.
Et, comme cas d’étude, Giacomo Verde de Teleracconto et Storie Mandaliche 2.0 ; et la compagnie Motus : « de l’installation au théâtre » (Twin rooms).

Motus est une compagnie de théâtre basée à Rimini (Italie) et dirigée par Daniela Nicolò et Enrico Casagrande. Ex Generazione Novanta, Motus est une jeune compagnie qui s’inscrit d’ores et déjà parmi les compagnies historiques. Leur théâtre traverse depuis toujours les territoires les plus variés de la vision : cinéma, vidéo, architecture, photographie…, une visio éclectique et multiforme, irrespectueuse des spécificités de genre qui transpose sur scène les techniques du cut up, du découpage, du mixer et du montage. Dans le projet Rooms qui atteint son point culminant avec Twin Rooms, ils mettent en scène De Lillo et le cauchemar de la vidéosurveillance. La ville comme une mosaïque de micro-visions – énorme « digital room » contiguë à la scène-dispositif représentant une chambre d’hôtel – accueille un amas incontrôlable d’images et une tentation psychotique à leur consommation.

Giacomo Verde est « médiactiviste », computer artist et technoperformer. Il a construit son esthétique sur l’idéologie dulow tech pour socialiser les savoirs technologiques. Par le biais du théâtre, il soutient la cause de la démocratie et de l’accès aux technologies et pose la question politique des images télévisuelles. Le teleracconto — ou le fait de filmer en direct des objets en gros plans, conjointement à leur vision sur moniteur (critique ironique de l’univers médiatique) selon une modalité théâtrale (techno) narrative pour enfants — est devenu un procédé clé de son théâtre : les images sont créées en live et les effets numériques constituent la toile de fond vidéo qui se modifie suivant le cours de la narration en OVMM inspiré des Métamorphoses d’Ovide. C’est une manière d’affirmer de façon provocatrice que « la télévision n’existe pas » et que « toutes les images sont abstraites ». Storie Mandaliche 2.0 (2003) créé avec Zonegemma et Xear.org est l’un des premiers exemples de spectacle interactif appliqué à une dramaturgie hypertextuelle (textes d’Andrea Balzola).

Nuovi media nuovo teatro?
46

Le definizioni, la mutazione, gli schermi

Pubblicato su “Il castello di Elsinore”

Definizioni 
Virtual (Reality) Theatre (o VT o VTheatre o VR performance), Digital Puppet Theatre, Virtual Puppetry, Interactive Theatre, Augmented Reality Theatre, Artificial Theatre, Enhanced Theatre, Expanded Performance, Cyborg Performance, Cyber Performance, Mobile Performance, Digital Performance, Computer Theatre, Mixed Reality Stage, Real Time Performance, Instant Digital Theatre, Live Online Performance, Net Drama, E-Theatre, Internet Theatre, Net Theatre, Chat Performance, Id Theatre, Webcam teatro, Hacker teatro, Web Streaming Performance, Web-based Drama, Digital Story Telling, Telematic Performance, Performance in Remote Connection, Networked Theatre, (Computer) Mediated Theatre, Intermediated Performance, Hyperdrama, Interactive Generative Stage, Multimedia Interactive Performance, Intelligent Stage, Activation Space, Multidisciplinary Media Performance, Trans-media Performance, Electronic Theatre, Live Cinema, Interfaced Theatre, Image-based Theatre, Synesthetic Theatre, Crossmedial Performance, Fractal Theatre, Machinic Performance, Recombinant Theatre, Chromakee Performance, Mocap Performance

Queste definizioni possono dare un’idea, oltre che della corsa ai neologismi nell’ambito dei nuovi media, del variegato panorama di proposte – almeno terminologiche – con cui il multimedia digitale off line e on line è sbarcato sulla scena.
Forse dovremmo aggiungere anche la riformulazione della “drammaturgia” che diventa iperdramma ovvero “una nuova scrittura ipertestuale che utilizza le nuove tecnologie audiovisive, digitali e interattive”(1); o, secondo Marcel.lí Antunez Rocasistematurgia, cioè

“una drammaturgia che ha bisogno dell’informatica, basata sul principio della gestione della complessità del computer. La sistematurgia è un processo interattivo che indaga attraverso nuovi prototipi, un arco di mediazione che include l’interfaccia, il calcolo e i nuovi mezzi di rappresentazione; sta al servizio di una narrazione, di un racconto, di un organismo teatrale ma lo fa in maniera interattiva usando uno strumento ipermediale.“(2) 

Originali anche le definizioni dei nuovi tecno-interpreti, reali o virtuali: mediattore, cybernarratore, synthetic actor, digital story teller, hyperactor (3), networked news teller (4).
Flavia Sparacino parla di “mediattori” per definire “gli agenti software digitali dotati di intelligenza percettiva e di abilità espressive e comunicative simili a quelle di un performer” (5); Lance Gharavi parla invece di “agente aggiunto” (e conia il termine di VED, Virtual Environment Driver) per definire colui che nelle sperimentazioni dell’Institute for Exploration of Virtual Reality (i.e.V.R., fondato con Mark Reaney e Ronald Willis) manipola in real time l’ambiente di realtà virtuale e guida a vista sul palco, la navigazione del pubblico attraverso i mondi virtuali (6). I cambi d’abito o di personaggio sono anch’essi virtuali (7). I costumi prendono infatti forme insolite: protesi esoscheletriche, servo-meccanismi pneumatici, potenziometri, appendici elettromagnetiche o sensori di posizionamento. Osserva il digital stage designer Paolo Atzori:

Computer indossabili contengono protesi percettive, microcamere, microfoni, sensori ecc, la sua posizione, i suoi movimenti e persino certe funzioni vitali vengono costantemente registrate, con reti di sensori e sistemi di motion tracking e video capture, in-put che vengono campionati, elaborati ed eventualmente trasferiti come informazioni per altri sistemi, come, per esempio, reti neurali con programmi per il riconoscimento gestuale.” (8) 

In Italia resistono ancora il termini generici come “teatro tecnologico” o “scena digitale”, ma le definizioni inglesi e angloamericane sottolineano più propriamente alcuni caratteri chiave, in uno scambio (che qualcuno ha definito “dialogo tra simili”) fattivo tra teatro e digitale: l’ibridazione, la sinestesia, la multidisciplinarietà, l’ipertestualità, l’interazione-reattività tra soggetto-ambiente-pubblico, la nuova percezione aumentata dai sistemi informatici immersivi, la dislocazione spazio-temporale dell’evento, la connessione tra reale e virtuale, oltre alla specificità delle tecnologie e dei sistemi (ambienti interattivi, realtà artificiale, sistemi di captazione del movimento) e delle modalità di comunicazione e “trasmissione” usati (via modem, via streaming audio/video o via mobile). Ma soprattutto focalizzano il carattere “attimale”, istantaneo del digitale: il “qui e ora” della comunicazione teatrale diventa nella sua versione tecnologica il real time on site, on line, on air oltre che on stage, naturalmente.
In questo elenco c’è un elemento innegabile: l’impossibilità a classificare in una sola definizione onnicomprensiva una pratica, una tipologia d’arte in costante evoluzione e che a causa (o in virtù) della sempre maggiore sua tendenza alla transdisciplinarietà(9), sembra sfuggire a ogni tentativo di categorizzazione. Le opere d’arte digitali (media arts), come è stato rilevato da più parti (10), si rivelano infatti in una forma mutante e combinatoria: “ibridi, eterocliti, stratificati, multi-supporto” (11). Sollecitano esperienze plurisensoriali attraverso interfacce che richiedono una partecipazione fisica, intellettiva ed emotiva integrale, anche a distanza (12).
Il teatro interlacciato con il digitale va a delineare un vero e proprio “ecosistema” (13) fatto di simbiosi-innesti-migrazioni tra linguaggi e codici. Insomma, si inaugurano “un nuovo tipo di spettacolo, di percezione e di partecipazione” (B. Picon-Vallin) e un nuovo spazio di rappresentazione, inteso come “ambiente non più luogo neutro contenitore di eventi, ma spazio sensibile, estensibile, modellante e modulabile” (14).

Spesso però una modalità non ne esclude un’altra: progetti concepiti per sofisticati sistemi di realtà virtuale in scena possono prevedere contestualmente anche modalità più tradizionali; o reincarnarsi in forma di installazioni o di operazioni intermediali; o approdare in rete e collocarsi così potenzialmente dappertutto, in un “crossing” tecnologico che sviluppa modaliltà di attraversamento e di integrazione sempre più complesse e interminabili. Le cross-ibridazioni (15) o le commutazioni (Couchot) tra sistemi, scritture, dispositivi di visione e di ascolto, complice il comune codice digitale, sono infatti potenzialmente infinite. Come ricorda Andrea Balzola,

Il testo, o meglio l’ipertesto drammaturgico, il progetto scenico, la partitura sonora-musicale, l’installazione, il video, il software, lo spettacolo, non appartengono più a generi diversi ma divengono fasi di un processo aperto, tassello di un mosaico spaziale e temporale mutante, flessibile e comunicativamente forte”. (16)

Quello che ci interessa verificare è se i nuovi media stanno effettivamente cambiando anche il teatro, quali sono le nuove forme espressive di scrittura scenica, ovvero – per prendere spunto dall’interrogativo di Manovich: “Come possono le nostre nuove capacità – archiviare masse di dati, classificarli, indicizzarli, collegarli, ricercarli automaticamente e recuperarli istantaneamente – realizzare nuove tipologie di narrazione?” (17)

Nel cyber teatro il racconto diventa una tecnonarrazione (Giacomo Verde). I materiali vengono traslocati da un linguaggio a un altro (Peter Sellars, Motus, Xlab). E’ un teatro digitale che espande il concetto di presenza alle nuove possibilità di performance globale telematica e di teleazione a distanza (Electronic Disturbance Theater; Fake), che crea un dialogo interattivo e interdipendente tra attore, spettatore e immagine attraverso dispositivi multivisione e protesi esoscheletriche (Fortebraccio Teatro, Marcel.lí Antunez, Reaney-Gharavi). Sostituisce l’attore con una presenza virtuale ma non dimentica la tradizione e l’artigianalità delle macchine antiche (Lepage e Kentridge). Innesca virus nel corpo sociale in una prospettiva politica e interventista del teatro (Critical Art Ensemble). Infine, auspica una prossimità e un’interazione con lo spazio scenico inglobando il pubblico in un environment immersivo (Dumb Type; Granular Synthesis), sollecitando memorie e percezioni multisensoriali collettive (Studio Azzurro; Giardini Pensili) e percorsi narrativi non lineari, labirintici e rizomatici (Zonegemma, TPO), trasformando l’opera in un’esperienza relazionale e socializzante vissuta all’interno di un sistema aperto (l’hacker theatre di Giacomo Verde e Jaromil).

In questa prospettiva il palcoscenico è solo uno dei possibili teatri dell’azione performativa, che può estendersi (spazialmente e temporalmente) in più ambienti interconnessi: le piattaforme multitasking dove diverse applicazioni possono operare contemporaneamente, le community web, le mailing list e i diversi network telematici (wireless, telefonia, instant messagging), in una strategia di territorializzazione multipla che non ha precedenti.

MUTAZIONE, VARIABILITA’ E TEMPO REALE 

Per Lev Manovich la variabilità (conseguenza della rappresentazione digitale e della organizzazione modulare delle informazioni) è il principio base, la “condizione essenziale” dei nuovi media all’epoca della convergenza digitale (18). Questa caratteristica “mutabile e liquida” (Manovich) applicata alla materia teatrale ha dato vita a un serie di esperienze artistiche e addirittura a nuovi format – il live cinema (19) – che giocano sulla possibilità di intervenire grazie al digital processing (il trattamento digitale delle “immagini che rispondono” secondo Edmond Couchot) sul corpus delle immagini e dei suoni in real time, dando vita a “composizioni sceniche” in costante divenire.
La metamorfosi, l’intercambiabilità e l’interattività, insieme all’immediatezza, sono dunque la caratteristica dei nuovi media, esattamente come il teatro, caratterizzato, secondo la distinzione di Kowzan (20) da:
1) compresenza fisica reale di emittente/destinatario;
2) simultaneità di produzione e comunicazione.
Béatrice Picon-Vallin sottolinea la “trasformabilità tecnologica” della nuova éra, in cui il nuovo teatro sottomettendovisi, ritrova l’antica radice:

“Sottomettere il palcoscenico a questo principio di trasformabilità e non più soltanto a quello della riproducibilità, è una nuova prova che implica senza dubbio il rafforzamento della natura stessa dello spettacolo, effimero e che cambia ogni sera.”

Biosensori, sistemi di motion capture e motion tracking, convertitori di segnali MIDI: assistiamo alle più svariate tecnomutazioni digitali dell’attore, e contestualmente anche a quelle della scena, che indossa gli attributi altrettanto proteiformi e metamorfici della maschera elettronica: vere performing machines sono gli automatics ideati dalla Fura dels Baus che negli spettacoli interagiscono con gli attori sul palcoscenico e con il pubblico (21). Robot musicali sono quelli creati dal software e robot designer catalano Sergi Jordá per Afasia di Marcel.lí Antunez Roca: un quartetto di robot costituito da chitarra elettrica, violino, batteria e cornamusa suonano grazie agli impulsi generati dai sensori indossati da Marcel.lí Antunez, che consentono anche animazioni interattive sullo schermo. In scena compare una nuova macchina, umanizzata ed “emancipata”, che “non racconta più sé stessa ma che racconta” (Studio Azzurro); le sue inattese interruzioni permettono di “far rigenerare su un palcoscenico, quella vibrazione aperta all’imprevisto, alla casualità, ai tempi di reazione” (Studio Azzurro).
Performance con la macchina o addirittura della macchina “processore di media”, ovvero l’altra metà del palcoscenico, sono quelle dei gruppi Troika e Palindrome. Questi ultimi usano il software Eyecon ed elettrodi applicati al corpo (a uso di elettrocardiogrammi e elettroencefalogrammi) per controllare suono, luci e immagini: “Il performer deve “interpretare” il sistema interattivo così che i media siano veramente parte della performance live”.

Le performance si differenziano anche per il tipo di software, oggetto mediale (22) o “grafo” utilizzato. Per la gestione live dell’archivio di immagini Roberto Castello e Giacomo Verde hanno usato il programma Arkaos (normalmente in uso per concerti di vjing); Renzo Boldrini gestiva in sintonia con la propria narrazione le animazioni in Flash per Dg Hamelin; Davide Venturini creava in Photoshop i disegni per Storie zip, mentre il mixaggio live delle immagini e il lumakey creato in diretta in Elsinore e in The Seven Streams of the River Ota di Robert Lepage creava le suggestioni coloristiche in sincrono con la rappresentazione; per Animalie e Qual è la parola Roberto Paci Dalò ha utilizzato il software Image/ine di Steim creato da Tom Demeyer. Catherine Henegan con The Shooting Gallery realizza con la rete una networked performance 2006.

L’aspetto di regia audio si impone sempre di più sulla mera creazione di una “colonna sonora”. Voci e musiche di sintesi, landscape sonori, morphing audio in real time in relazione con le potenzialità e le simbologie della narrazione acquistano una rilevanza sempre maggiore. Come afferma Mauro Lupone sound design di Xlab:

“Considerando che il suono investe lo spazio e si svolge nel tempo, articolare processi di elaborazione della voce significherà anche agire sulla memoria e su processi di percezione e di ascolto. Non solo quindi modificazioni timbriche-morfologiche, ma anche azioni in cui si esplora il sistema in relazione ai concetti di spazio e di tempo: illusioni sonore o dissociazioni visive-sonore, tendenze entropiche e accelerazioni/rallentamenti psicopercettivi connessi all’informazione, memorie e sedimentazioni che riemergono, esplorazioni nelle zone di limen del suono, moltiplicazione delle sorgenti e dei movimenti spaziali ad esse associati“.(23) 

Per la cybernarrazione Storie mandaliche con ipertesto drammaturgico di Andrea Balzola, Lupone ha creato grazie al sistema di spazializzazione audio IMEASY una gestione direzionale quadrifonica live della complessa spettromorfologia che sottostava alle sonorizzazioni delle storie (24); nell’Ospite la compagnia Motus ha utilizzato un sistema simile di spazializzazione per la gestione in tempo reale, della traiettoria di 24 fonti audio (25).

SCHERMI: teatro o cinema (e TV)? 

E’ un dato di fatto che la scena digitale monitorizzata e cablata assomigli sempre più a un set televisivo o cinematografico, dato che da tempo ne ha ormai incorporato persino i codici, oltre che le definizioni (26). Se già negli anni Settanta Wilson si appropriava del linguaggio cinematografico (ripetizioni, ralenti, flashback, fermi immagine) bidimensionalizzando la scena, nel 1998 in Monster of Grace usava pionieristicamente come sfondo un film stereoscopico in animazione 3D. Alla fine degli anni Ottanta Robert Lepage portava in teatro con Le Polygraphe un vero e proprio “spettacolo cinematografico”: simulazioni di riprese, punti di vista insoliti come fossero inquadrature di una macchina da presa, applicazione del montaggio alternato alla drammaturgia, uso frequente del flashback e del flashforward. In The Merchant of Venice Peter Sellars introduceva intensi primi piani televisivi trasmessi in diretta nei monitor, che andavano a scavare l’interiorità del personaggio, mentre il BAG ricreava un set cinematografico con la messa in mostra teatrale degli effetti cinematografici (le macchine da truquage, come le definiva Méliès).
In Twin Rooms Motus lavora sulla diretta televisiva: l’incubo mediatico descritto da De Lillo in Rumore bianco si innerva nel tessuto organico dei protagonisti: perseguitati da un invisibile occhio satellite che li raddoppia tra specchi e pareti lucide e trasparenti: nella proliferazione di corpi che contrasta con la loro solitudine, incarnano l’incubo psicotico della videosorveglianza.
Nella scena organizzata spazialmente come una composizione a intarsio, il miglior esempio di integrazione di dispositivi multischermo con la scena è senz’altro rappresentato da The Seven Streams of the River Ota (1994) di Robert Lepage, primo lavoro nato in collaborazione con Ex Machina, l’equipe multidisciplinare da lui fondata a Québec City. La scena è strutturata come la facciata di una tradizionale casa giapponese, bassa e lunga, con sette schermi-pannelli trasparenti fatti di spandex su cui vengono proiettate (e retroproiettate) immagini video e ombre: l’effetto di “incrostazione” tra l’immagine video e corpo dell’attore e tra la figura e lo sfondo monocromo luminescente (quasi un chromakey) genera un surreale dialogo tra corpi e luce, e rende quasi alla lettera il senso più profondo dello spettacolo: il legame indissolubile tra Oriente e Occidente e l’impossibilità di cancellare dalla memoria collettiva l’Hiroshima della bomba atomica. La scena attraversata dalla luce del video diventa così una lastra “fotosensibile”, una scrittura di luce, metafora di un percorso di memoria, di illuminazione e di conoscenza.
La scena contemporanea ha sviluppato insolite modalità di proiezione su superfici diverse. Se Svoboda nel 1958 all’Expo di Bruxelles inaugurava la multiproiezione (il polyécran), oggi si ricerca l’effetto evanescente dell’immagine: proiezione su doppio strato di tulle con l’attore reale incastonato in mezzo o su materiali che mantengono una “memoria di forma”, e perfino su elementi naturali e gassosi come l’aria e l’acqua vaporizzata. Fabio Iacquone con il suo Digital Versatile Theatre sta sperimentando proiezioni su gas e fumo, ricreando il mito delle apparizioni fantasmatiche. L’artista visiva Paola Lo Sciuto prova a ottenere l’effetto di “miraggio nel deserto” con un sistema scenotecnico da lei brevettato.
La sfida più attuale è quella di restituire, grazie ai nuovi materiali di matrice polimerica e plastiche fotosensibili, volumetricità e tridimensionalità interattiva all’immagine, progettando nuove architetture immateriali e liquide, pieghevoli e arrotondabili, occultando in trasparenza la superficie piatta degli schermi di proiezione e la relativa cornice di separazione. Non ci si immerge più, non c’è più nemmeno bisogno di display a cristalli liquidi, occhiali con lenti binoculari o sistemi multimonitor per ampliare il campo visivo: ora sono gli oggetti a “fuoriuscire” dal loro mondo e ad affacciarsi direttamente nel nostro.

Kathleen Ruiz, AVA project, trans-media performance.

Nuovi sviluppi riguardano le avveniristiche tecnologie per i display che avvicinano sempre di più il teatro all’immaginario fantascientifico di Matrix e di Minority Report. Secondo le ottimistiche previsioni commerciali della Liquavista, neonata società della Philips specializzata nelle tecnologie applicate ai display, gli schermi LCD lasceranno presto il posto alla tecnologia O-led (Organic Light Emitter Diode, nata però già nel 1985) che si basa su strati di polimerici organici flessibili e elettroluminescenti interposti tra due elettrodi per proiezioni tridimensionali dall’effetto simil-olografico, che creano l’illusione di immagini sospese nel vuoto. Un’altra alternativa è l’Electrowetting Display, nato nel 2003: lo schermo è composto da particelle microscopiche sospese in un mezzo denso che dà simultaneamente la diffrazione, la riflessione e la trasmissione di tutte le lunghezze d’onda della luce.

L’elemento strabiliante di questa tecnologia è che la scena dietro lo schermo è chiaramente visibile nell’area nella quale non ci sono immagini proiettate. L’applicazione è per ora limitata al campo dell’intrattenimento (discoteche o concerti e parchi divertimento) o della moda (show room). Il gruppo rock Gorillaz, che ha legato la propria immagine in videoclip ai fumetti, ha letteralmente “mandato in scena” a suonare agli Mtv Awards alcuni dei loro personaggi a cartoni animati in computer graphics, con tanto di asta di microfono, basso e batteria, proiettati su un invisibile e impercettibile schermo (27), con effetto di immagine simil-olografica come avrebbe potuto immaginarla Dennis Gabor: l’evento è stato universalmente riconosciuto come punto di svolta della virtualizzazione dei supporti.

Ricorda Lev Manovich che se tutte le azioni avverranno in un prossimo futuro nello spazio del virtuale e della simulazione, lo schermo (ultima appendice della cornice, intesa come spazio fisico separato che impedisce il movimento di chi osserva) scomparirà del tutto a vantaggio di un effetto compositivo che ricerca, “scorrevolezza e continuità” (28):

L’apparato della realtà virtuale si ridurrà a chip impiantato nella retina e connesso via etere alla rete. Da quel momento porteremo con noi la prigione non per confondere allegramente le rappresentazioni e le percezioni (come nel cinema) ma per essere sempre in contatto, sempre connessi, sempre collegati. La retina e lo schermo finiranno per fondersi”. 

Ma per ora in teatro gli schermi, più che eliminati, si sono invece ingranditi. A caratterizzare la scena degli ultimi anni il fenomeno del gigantismoEnormi schermi delimitano la circonferenza dello spazio della rappresentazione in Ta’ziyé di Kiarostami, un’elaborazione teatrale che recupera un antico rito iraniano. Ugualmente enormi sono i fondali elettronici in alta definizione dell’Ospite di Motus, quello di Voyage e il ciclorama semicircolare di (Or), due spettacoli di Dumb Type; di Aladeen, di Gorky, le alte pareti avvolgenti come un gasometro di Granular Synthesis.

Del resto le gigantesche proiezioni ormai fanno parte del paesaggio metropolitano e costituiscono l’armamentario basico della pubblicità, raggiungendo formati terraquei (il maxischermo pubblicitario da 24 metri inserito in un dirigibile formato da centinaia di led luminosi che lo rende visibile a 4 chilometri di distanza). Anche lo show design li ha impiegati, anche se in modi sempre più creativi: vedi le straordinarie invenzioni videosceniche e luministiche di Mark Fisher per i concerti rock dei Pink Floyd e degli U2, quelli di Robert Lepage per il Secret World Tour e il Growing Up Tour di Peter Gabriel e quelli a led con software generativo degli United Visual Artist per i Massive Attack.


NOTE

“Il passaggio dalla macronarrazione lineare alla micronarrazione non sequenziale fa seguito a due innovazioni portate dall’evoluzione interattiva dei media. La prima è lo zapping, cioè l’uso televisivo del telecomando che frammenta la fruizione di un programma e consente una visione parallela di più programmi. La seconda innovazione, ancora più radicale, è quella aperta dai nuovi media digitali, on line come il web e off line come cdrom e dvd, dove lettura-visione-ascolto non sono più lineari ma sviluppano una navigazione non sequenziale e ipertestuale. Allora la scrittura drammaturgica o si frantuma caoticamente come nella narrazione destrutturata, oppure elabora delle unità testuali minimali e nomadi, ma compiute, che possono agganciarsi e sganciarsi nell’ipertesto spettacolare” (A. Balzola, Verso una drammaturgia multimediale, in A. Balzola-A. Monteverdi, Le arti multimediali digitali, Milano, Garzanti, 2005).
2 Intervista di Anna Maria Monteverdi a Marcel.lí Antunez Roca in www.ateatro.it .
3 E’ Claudio Pinhanez a dare una definizion dell’hyperactor: “Un iperattore espande il corpo in modo da far accendere le luci, attivare suoni o immagini su uno schermo nel palcoscenico; controllare la risultante sembianza laddove la sua immagine o la sua voce sia mediata attraverso il computer; espandere le sue capacità sensorie ricevendo informazioni attraverso cuffie o occhiali-video o controllare strumenti fisici come videocamere, parti del set, robot o altri macchinari teatrali” (C. Pinhanez, Computer Theatre in www.cybertsge.org; cit da Pericle Salvini, Tesi su Teatro e tecnologia, Università di Pisa).
4 “Il Networked News Teller è un attore di strada che porta con sé un computer indossabile con un occhio privato. Il computer esegue un programma che aggiorna le notizie costantemente sull’occhio privato dell’attore. Costruisce poi una pagina web che riporta la stessa notizia secondo i diversi punti di vista dei differenti news provider. Dopo aver scelto la notizia da discutere attraverso il suo occhio privato, il News teller interroga i passanti chiedendo la loro opinione. Il performer può recitare la notizia per strada basandosi sull’interazione con il pubblico e con le notizie che appaiono sul portatile… Questa ricerca tecnoartistica è direttamente ispirata al lavoro teatrale dell’attrice Anna Deavere Smith chiamato Twilight” (F. Sparacino, La realtà aumentata nella danza e nel teatro, in A. Menicacci-E. Quinz, La scena digitale. Nuovi media per la danza, Venezia, Marsilio, 2001).
5 F. Sparacino, La realtà aumentata nella danza e nel teatro, cit., p. 101: “Definiamo mediattori immagini video, suoni, discorso, oggetti testuali in grado di rispondere al movimento e al gesto in modo credibile, estetico, espressivo e divertente. I mediattori sono agenti software la cui personalità influisce non soltanto sul loro stato interno (sentimenti) ma anche sulla percezione del comportamento dell’interprete (intenzioni) e sulle aspettative riguardo a interazioni future con attori umani”.
6 Un resoconto dettagliato di Play di L. Gharavi, spettacolo in realtà virtuale dell’i.e.V.R,. è on line su www.ateatro.it n.101,
7 Ci riferiamo all’interessante progetto di teatro d’opera The Jew of Malta, libero riadattamento da Christopher Marlowe con musica originale di André Werner e uso di sistemi di motion tracking commissionato dalla Biennale di Monaco. Protagonista centrale è Machiavelli: le coreografie e la scenografia sono basate sull’idea che tutto ruota intorno a lui. Così la topografia dei luoghi e gli ambienti virtuali sono generati real time dall’attore che interpreta Machiavelli grazie a un sistema di rilevamento ottico del movimento. Pochi attori interpretano tutti i personaggi dell’opera e i rapidi cambi di costume (anche questi virtuali) sono possibili grazie a proiezioni di trame e stoffe sui loro stessi corpi. tracciati real time da videocamere a raggi infrarossi.
8 P. Atzori, Activation space, p. 347 in A. Menicacci-E. Quinz, cit.
9 Accogliamo il concetto di trasndisciplinarietà riferito alle arti digitali come l’ha espresso da Sally Jane Norman nel Rapport d’étude à la Délégation aux Arts Plastiques Ministère de la Culture (1997) dal titolo appunto«Transdisciplinarité et Genèse des Nouvelles Formes Artistiques »: «La transdisciplinarité est une notion polysémique par excellence ( . …) Avant tout, nous avons voulu que la transdisciplinarité serve de point de départ à un dialogue sur le rôle et la place de l’art, dans une société profondément transformée par les technologies de l’information et de la communication».
10 Cfr. Claudia Giannetti, Aesthetic paradigms of media art inserito nella rivista digitale Media art dello ZKM www.medienkunstnetz.de; e inoltre E. Couchot-N. Hillaire, L’art numerique, Paris, Flammarion, 2003.
11 E. Quinz, cit.
12 Sul tema delle interfacce vedi il numero monografico Interfaces, “Anomalie_digital arts” n. 3, Paris, 2003; e inoltre L. Poissant (a cura di), Interfaces et sensorialité, Presses de l’Université du Québec, 2003.
13 Sull’ecosistema tecno-teatrale vedi l’introduzione di Anna Maria Monteverdi al suo Il meglio di ateatro-Teatro e nuovi media. “Con la parola ecologia – come è ormai dato acquisito grazie agli studi sulla fenomenologia di Merleau-Ponty, sull’epistemologia genetica di Piaget, sull’ecologia della mente di Bateson e sull’ecologia sociale e della cultura di Ingold – non si intende unicamente l’ambiente naturale circostante ma la relazione complessa tra gli elementi che compongono una certa “nicchia ecologica” (dunque animali, esseri umani ed oggetti tecnologici compresi) e la loro interazione sociale e ambientale. L’approccio metodologico “ecologico” si presta a nostro avviso a un’analisi integrata e non “riduzionista” degli elementi chiavi del tecnoteatro: ibridazione, connettività, scambio, simbiosi, interazione, rizomaticità. Dobbiamo inoltre a Bonnie Marranca il riferimento sistematico al teatro come “ecologia”: nel suo libro Ecology of Theater la studiosa americana fondatrice del “Performance Art Journal” offre una singolare interpretazione teatrale “ecocritica” dei giganti del teatro sperimentale degli anni Settanta-Ottanta: Wilson, Monk, Shepard, Breuer, Mabou Mines alla luce dell’idea di una “drammaturgia come ecologia”. Come è noto, inoltre, numerosi sono gli studi sul rapporto tra sistemi digitali, realtà virtuale e pensiero ecologico: l’ambiente virtuale come ecosistema digitale auto-organizzato, l’evoluzionismo tecnologico (Longo, Sini), la “connettività del sapere” e l’ecologia cognitiva di Pierre Lévy in base alla quale “non c’è più soggetto o sostanza pensante, né materiale, né spirituale… in una rete in cui dei neuroni, dei moduli cognitivi, degli umani, delle istituzioni di insegnamento, delle lingue, dei sistemi di scrittura, dei libri e dei calcolatori si interconnettono, trasformano e traducono delle rappresentazioni” (Lévy, 1992).
14 A. Balzola, cit.
15 Prendo in prestito questo termine assai chiarificatore da Derrick de Kerchove (“Perform Arts”, estate 2006).
16 A. Balzola, cit.
17 L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, p. 294
18 Un nuovo oggetto mediale non è qualcosa che rimane identico a se stesso all’infinto, ma è qualcosa che può essere declinato in versioni molto diverse tra loro: L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, p. 57 e seg.
19 Il vjng, trans-genere per eccellenza, è una performance video live che il digitale sta evolvendo in forme sempre più elaborate. E’ stato “nobilitato” anche nel nome, diventando live cinema: il prestigioso festival di arte elettronica “Transmediale” di Berlino edizione 2005 lo ha elevato al rango di altre storicamente forme di espressione tecnologica, ben più radicate, dedicandogli una sezione curata da Hans Beekmans (che ne è anche diventato il “teorico”). Molto diffuso in ambiti artistici oltre che nell’area dell’intrattenimento musicale, il vj come il dj – che facut’n’mix e scratching di tracce musicali preesistenti tramite campionatori- usa o mixer analogici o programmi digitali di gestione

Salve, sono il primo schiavo di BIT, testo di Giacomo Verde
43

Come si dà l’anima a un personaggio virtuale, di Giacomo Verde.

Pubblicato in A.M.Monteverdi, Nuovi media, Nuovo teatro, Milano, FrancoAngeli, 2011.

Bit è un burattino virtuale governato da un cyberglove, ovvero un guanto con sensori. E’ nato 15 anni fa e ha animato molte situazioni (al Museo della scienza di Napoli) e ora è diventato uno spettacolo teatrale per bambini (Bit, Bold e Biancaneve, produzione Giallomare Minimal teatro con Giacomo Verde e Renzo Boldrini). Bit fa parte del Progetto Euclide, ideato e coordinato da Stefano Roveda (Studio azzurro) dal 1993, con la collaborazione artistica di Giacomo Verde e attualmente gestito da Antonio Bocola di “E-tica: sistemi interattivi e interfacce naturali. Ha partecipato a Italian’s Got Talent, Canale 5.

Bit, e prima di lui gli altri personaggi virtuali della famiglia Euclide, sono stati creati dall’incontro con il pubblico. Ricordo che a volte provavo delle battute, prima di incontrare le persone, ma spesso poi, non funzionavano come immaginavo perché il rapporto che si stabiliva con la gente era diverso da come mi aspettavo. Specialmente i primi tempi. Adesso infatti quando “prendo in mano” un nuovo personaggio mi limito a inventare e provare le gag visive (le entrate, le uscite, le trasformazioni, le smorfie possibili) ma quasi mai le battute perché in effetti le battute me le suggerisce il personaggio nel momento dell’incontro con il pubblico. Anche per questo dico che sono il suo “schiavo”. In effetti quando animo Bit mi trovo a dire cose che altrimenti non direi, a fare battute o a sollecitare confidenze che con qualsiasi altra “maschera” (perché in effetti di una maschera elettronica si tratta, piuttosto che di un burattino) non potrei fare. Con Euclide-Bit ho potuto sperimentare il gioco della “comunicazione teatrale” fuori dai tempi e dalle tecniche imposte dal palcoscenico. Ho capito fin dall’inizio che non si trattava di fare uno spettacolo o di fare scherzi tipo “specchio segreto” (anche per questo abbiamo scelto io e Stefano Roveda, di tenere l’animatore sempre visibile) perché la possibilità offerta da questa “maschera elettronica” è quella di far “recitare” anche gli spettatori: è una maschera doppia che trasforma anche il pubblico da passivo ad attivo. Infatti i momenti più interessanti e divertenti, sono quando le persone dialogano con il personaggio dicendo di essere altro da quello che sono, o quando inventano spiegazioni fantastiche per rispondere alle risposte di Bit.
Sarebbe stato facile inventare delle gag tipo cabaret, ma siccome penso che una delle caratteristiche delle nuove tecnologie sia la possibilità di creare interattività, ho cercato di sviluppare il più possibile un altro aspetto della performance: per me la bravura di un animatore-schiavo di Bit, infatti, sta nella capacità di far giocare la gente, di farla parlare, di riuscire ad attivare la comunicazione e il dialogo anche tra le persone che si trovano di fronte allo schermo, nel riuscire cioè a mettere a proprio agio chiunque. L’animatore di Bit deve saper ascoltare prima di saper parlare e animare.
E’ incredibile quanto si possa rimanere in silenzio animando Bit; proprio come quando si parla con un amico: il silenzio è una pausa per far nascere nuovi pensieri e non un vuoto da riempire. Inotre mi sono accorto che, per animare Bit, bisogna anche avere dimestichezza con il mondo informatico, per due motivi: primo perché non si rimane intimoriti di fronte al computer che genera il personaggio; secondo, perché la gente pretende da un personaggio simile, di avere anche informazioni sui computer. Un’ultima caratteristica, ma fondamentale, è non dimenticare mai che il personaggio e l’animatore sono due cose diverse.

Una volta mi è capitato di salutare un bambino che si era fermato molto tempo a parlare con il personaggio. L’avevo fatto così, d’istinto, perché mi pareva ormai di conoscerlo e avevo l’impressione che anche lui mi riconoscesse. Ma mentre lo salutavo mi rendevo conto del suo imbarazzo nel rivolgermi la parola “fuori dal gioco”. In effetti lui aveva parlato con Euclide-Bit e non con me. Un altro esempio. A volte accade che qualche bambino non sia contento delle risposte o del comportamento del personaggio, allora viene al tavolo da dove lo muovo e mi chiede con un tono di voce e atteggiamento diverso da quello che usa con Bit, di far cambiare le reazioni del personaggio. Dopodiché torna di fronte allo schermo e continua a dialogare con Bit, quasi con la consapevolezza di parlare con un personaggio che usa un umano e non viceversa. Infatti l’umano è per così dire, lo “schiavo” di Bit.
Peccato che certi adulti non si rendano conto della bellezza di questo gioco!

Giac-BitNapoli

Michele Sambin: dalle videoperformance musicali al Tam Teatromusica
19

Pubblicato sul Catalogo Invideo 2003 e su A.M.Monteverdi, A.Balzola  Le arti multimediali digitali,Garzanti 2004 e on line su Interactive-performance.it

 “Tutto ha inizio dal binomio immagine-suono. E un artista singolo che lavora su questi due elementi. Gli strumenti che usavo negli anni Settanta erano la pellicola, prima Super Otto poi 16 mm, perché lì immagine e suono erano inscindibili e interdipendenti, poi il video. Partire per questa utopica ricerca di costituzione di un linguaggio unico che comprendesse segni visivi e segni sonori”.

Così Michele Sambin racconta oggi del suo esordio artistico sotto il segno della pittura, del cinema, del videotape d’arte e di una performatività video e musicale, solitaria. Dopo un periodo di sperimentazione filmica testimoniato da Laguna, Blud’acqua, Tob&Lia(1968-1976), che lo colloca nel novero dei registi del cinema d’artista insieme ad autori come Andrea Granchi, Sylvano Bussotti, Gianfranco Baruchello, Ugo La Pietra, Sambin si dedica al “videotape creativo” (1974).

Guardando alle storiche soluzioni di “composizione globale” e ai pittori-cineasti della prima e seconda avanguardia (Léger, Richter, Fischinger, Ray, Moholy-Nagy), ai registi indipendenti e sperimentali(Warhol, Brakhage, Snow), ai concerti Fluxus, alle esperienze americane del Black Mountain College di Cage e c., ai dispositivi video di ambito concettuale (Graham, Campus, Nauman), alle opere-evento della performance art, Sambin mette in scena la tematica principale delle sue opere: il tempo:

Quando uno cerca di mettere insieme la pittura con la musica subito scatta la dimensione temporale e su questo tema troviamo le prime esperienze del cinema sperimentale: Brakhage, Michel Snow e ancora prima il canadese Mac Laren, che disegnava il suono sulla pellicola. E’ un concetto importante per me, questo del tempo, offrire una visione che si sviluppi nel tempo. Io partivo come artista visivo, e il primo conflitto è quello che si crea tra visione – la pittura – che ha un tempo non determinato e la musica che vive solo nel tempo”.

E’ all’interno dell’Università Internazionale dell’Arte di Venezia dove era stato chiamato a tenere dei laboratori di cinema e forme plastiche (1972-1975) che per Sambin avviene il passaggio dalla pellicola al videonastro, al nastro magnetico: “Fu un momento di alta formazione, c’erano architetti come Buckminster Fuller (1) che davano un taglio trasversale alle categorie artistiche”. E’ incaricato di acquistare un’attrezzatura video e di condurre le prime sperimentazioni con il nuovo mezzo:

Era un Akai, l’antesignana del primo Sony Portapack, e aveva ancora un nastro ¼’’. Ed è stato per me un’esplosione di creatività. Con il 16 mm tre minuti di girato erano molto costosi e lunghissimi i tempi di attesa tra il fare e il vedere. Cominciava ad essere interessante anche il problema del rapporto tra video e teatro perché nelle ultime situazioni cinematografiche non presentavo più solo pellicole per la proiezione ma sonorizzavo il film dal vivo; diventava fondamentale la relazione vivente, lavoravo con l’immagine in tempo reale. L’immagine diventava uno stimolo per creare suoni”.

 Le prime esperienze di videorecording e di videoinstallazioni vanno in direzione di un naturale sviluppo performativo, tendendo sempre più ad esplodere oltre la cornice-schermo-galleria e a diventare puro evento, accadimento in tempo reale, e per il pubblico, “condizione di esperienza” (Duguet), un insediarsi direttamente all’interno del flusso “presente-continuo” delle immagini. In Ripercorrersi(1978, Prod. Centro video Palazzo dei Diamanti, Ferrara) protagonista è il pubblico che percorre uno stretto spazio che conduce a un luogo dove sono visibili su monitor, attraverso il sistema di video a loop e un gioco di ritardi di visione, rimandi ciclici del suo corpo.

 

Dice Sambin:

“Le videoinstallazioni sono un elemento fondamentale del mio passaggio al teatro: il pubblico assiste a un processo che non è solo elettronico ma anche fisico”.

Sulla performatività implicita delle installazioni video Anne Marie Duguet osservava:

«L’installazione è realizzata per essere esplorata dal visitatore che, facendo ciò, non solo ne costruisce progressivamente la percezione, ma anche mette in gioco quella degli altri visitatori. L’esistenza stessa di certe opere (….) esige un’attività particolare da parte del visitatore per potersi manifestare pienamente. Questi esegue dunque una performance che diviene spettacolo per gli altri. Bisogna insistere sulla temporalità specifica di queste opere che sono innanzitutto dei processi, che esistono solamente nella durata della loro esperienza, nel qui e ora della loro attualizzazione. Esse appartengono ad un’arte della presentazione e non di rappresentazione.» (2)

Spartito per Violoncello è una performance musicale del 1974 in cui il videotape viene utilizzato come parte integrante della composizione. Anelli e chiodi gettati sul tavolo e il movimento stesso della telecamera che riprende gli oggetti sono tradotti in linguaggio sonoro; dietro l’evento, Cage e la musica indeterminata. La video-calligrafia come spartito verrà usata in molte performance musicali tra cui Looking for listening (1977, Prod. Asac-La Biennale di Venezia). L’evento è, evidentemente, irripetibile e non prevedibile:

“In Spartito per violoncello usavo la telecamera come strumento musicale dei tempi di visione: la scuotevo, la muovevo e questo determinava un input che l’esecutore – che ero io stesso – decodificava in termini musicali. C’era un po’ di Léger, un po’ Anemic cinema. Partivo dall’idea di usare il monitor come spartito.”

Esiste anche una videoregistrazione che documenta la performance; come per molte altre videocreazioni di Sambin, più che supporto per la memoria si tratta di un’ulteriore estensione-prolungamento temporale dell’opera stessa; l’operatore crea movimenti inattesi, zoomate che esplorano dentro il monitor: in questa condivisione paritetica della dimensione della “pura durata” di corpo e macchina, e in questo proliferare di processi attivati dalla musica e dal videotape, il performer diventa contestualmente al concerto, materiale per la ripresa. Il video è il primo risultato dell’incontro con Paolo Cardazzo della Galleria del Cavallino di Venezia, con il quale Sambin stabilirà una relazione duratura di stima reciproca. La Galleria nata nel 1972 inizia infatti, a documentare le performance ospitate nello spazio espositivo, anche sulla scia dell’imponente lavoro di registrazione di Luciano Giaccari a Varese, che nello stesso periodo teorizzava le diverse tipologie videodocumentative. (3)

Sambin sarà il primo artista a sperimentare a partire dal 1976, declinando in seguito l’operazione in moltissime varianti, il videoloop, il video a bobina aperta (open reel). E’ un procedimento circolare generato dalla semplice unione delle estremità dei due nastri di registrazione e di lettura in cui l’immagine e il suono vengono ripetuti a ciclo. (4) L’artista registra ad intervalli, suoni e gesti; il nastro scorre, va alla bobina di lettura che rimanda l’immagine con un breve scarto al monitor; l’artista diventa, l’interlocutore del suo “se stesso elettronico” con cui affronta un dialogo infinito. Prendendo a prestito termini cari al Marshall Mac Luhan de The Gutemberg Galaxy (1962) e Understanding Media (1964), il video diventa “protesi”, prolungamento di una sua funzione:

Era una dimensione concettuale, più che di attenzione all’immagine perché il senso di questa operazione era quello di usare il video come possibilità di estensione espressiva di un corpo. Parlavo con me stesso, suonavo con me stesso, mi intervistavo, facevo cose che senza questi supporti non potevo fare. Il video come amplificazione, come protesi, è da intendere come strumento che non ferma un processo, ma che lo amplifica, lo moltiplica”. (5)

Nelle performance e nelle video installazioni realizzate con il videoloop – tra cui Duo, per un esecutore solo (1979); Anche le mani invecchiano(1980), Sax soprano (1980) – l’artista continua all’infinito a suonare, parlare e a (cor)rispondersi, vocalmente, musicalmente e visualmente. L’artista dà un’efficace spiegazione (e dimostrazione pratica) in Vtr and I (1978) in cui viene isolato e investigato questo specifico funzionamento autoriflettente del Video Tape Recorder. Si tratta di una vera esposizione autoanalitica del proprio lavoro d’artista, un’”operazione video-linguistica” perché il dispositivo video “è tematizzato e preso come oggetto di indagine”. (6)

L’azione performativa è della macchina, prima ancora che del corpo: il gesto mimico-facciale e sonoro ripetuto ad intervalli davanti a una telecamera, attraverso un videorecording e un feedback causato dal posizionamento della telecamera davanti al televisore, innesca un meccanismo a catena. Il corpo incontra se stesso nello spazio del monitor e si mescola alle forme astratte autogeneratesi dal video, dando vita a un effetto di sovrimpressione delle immagini con il loop e ad una loro rinascita (e metamorfosi) ciclica. La riproducibilità è (ossimoricamente) generativa. Dall’unicità della perfomance alla performatività dei media di riproduzione.
Usando il tempo non nella sua sequenzialità-consequenzialità ma con continui détournement e sfasamenti, manipolandolo, ritoccandolo, invertendolo come fosse una materia concreta e quasi plasmabile, scindendo il suono dall’immagine corrispondente (come in Echoes, 1976, Autoritratto per 4 telecamere e 4 voci, 1977 e come nel progetto di video installazione per violoncello sospeso in moto perpetuo e apparecchiature audio e video From right to left, 1981) Sambin produce un decisivo e significativo spiazzamento percettivo rispetto all’esperienza dello spazio-tempo quotidiano. Questa dimensione articolata del tempo, soggettivizzata e personalizzata, sembra suggerire proprio il valore del tempo come conquista attiva e individuale:

“Di solito la familiarità con un mondo ‘perfettamente doppiato’ in cui ogni aspetto visivo è necessariamente collegato ad un aspetto sonoro (anche il silenzio è suono) non ci fa notare questa spontanea connessione, le cose così come stanno ci sembrano naturali. Spezzare questo legame significa ottenere dei modi di percepire meno consueti, in cui ad ogni fatto non corrisponde necessariamente ciò che di solito gli viene associato”. (7)

Il videoloop viene usato in seguito, per Il tempo consuma (1979), l’opera più tautologica e concettuale di Sambin. Un “metronomo umano” (il corpo dell’artista oscillante a intervalli regolari) è ripreso da un video e trasmesso ad un monitor. Il performer scandisce la frase: “Il tempo consuma le immagini, il tempo consuma i suoni” che genera, nel processo ciclico di registrazione-cancellazione-registrazione, una grande quantità di immagini di sé ed un effettivo deterioramento fisico del nastro e di conseguenza, del suono e dell’immagine incisi. Nata come opera video è diventata videoperformance e successivamente installazione per tre videoregistratori sincronizzati, commissionata per la manifestazione milanese Camere incantate curata da Vittorio Fagone (1980). ll passaggio dal video al teatro avviene con il Tam Teatromusica, fondato da Sambin a Padova all’inizio degli anni Ottanta insieme con Pierangela Allegro e Laurent Dupont, e in un primo momento i lavori teatrali vengono ancora presentati nelle Gallerie d’arte frequentate da Sambin come videoartista e come performer:

“Il mio passare al teatro è dovuto – grazie o purtroppo – alla Transavanguardia di Achille Bonito Oliva. In quegli anni c’era una grande esplosione di performatività, anni che ho vissuto come una gioia degli intrecci delle arti, di incontri con Laurie Anderson, Marina Abramovic, personaggi che hanno tracciato una linea di non pittura, di non scultura, lontani dal mercato. La Transavanguardia spezza queste utopie degli anni Settanta perché mettevano in crisi il sistema dell’arte (i video non si potevano vendere). Bonito Oliva riporta l’arte alla disciplina: pittura e scultura. E soprattutto la restituisce al mercato».

L’orientamento estetico ispirato al rapporto immagine-suono per le videoinstallazioni e le performance e l’esperienza di musicista elettronico di Sambin si riveleranno fondamentali nella definizione della nuova composizione scenica degli anni Ottanta che, non rinunciando alla musicalità e alle tecnologie audiovisive, privilegia ideologicamente come già nelle performance degli anni Settanta, “il tempo reale e la condivisione di procedimento, l’arte dal vivo e il rapporto diretto con lo spettatore”.

Il primo spettacolo si intitola Armoniche (1980); all’immagine e al suono si unisce il gesto, in un rapporto reciproco “fluido”, “armonico”. Anche Opmet (1982) prevede l’uso di video in scena che trasformano le azioni dei performer “dentro e fuori dal Cronos o tempo universale” mentre in Lupus et agnus (1988) è lo spettatore a scegliere se assistere allo spettacolo attraverso i monitor oppure attraverso un percorso frammentato tra le azioni degli artisti nei diversi spazi. Il progetto di teatro-carcere apre una delle più fortunate stagioni del Tam Teatromusica che si conquista sul campo una propria riconoscibilità e autoralità. MeditAzioni è il progetto biennale che ha permesso di realizzare laboratori coi detenuti, spettacoli teatrali, un libro-diario della Allegro e l’opera video Tutto quello che rimane insieme con Giacomo Verde. Se il video prima era estensione del corpo dell’artista, qui diventa abbattimento virtuale di una separazione:

In carcere il video diventa fondamentale. Lo avevo abbandonato perché pensavo ‘Parla solo con se stesso, non mi interessa più’. Quando i detenuti non potevano uscire perché il magistrato non gli aveva dato il permesso, lo spettacolo era stato già programmato e la gente li aspettava fuori, ho preso una telecamera e ho chiesto loro: ‘Dite alla telecamera quello che direste se ci fosse il pubblico’”.

Il video diventa quindi strumento di vitale importanza per il teatro che, nell’impossibilità di una “diretta” qui e ora, è costretto a darsi ai propri interlocutori esterni, in “differita” e a distanza. E’ alla qualità di riproducibilità del video che è affidato il compito di trasmettere quel messaggio teatrale oltre il teatro secondo il Tam: “Attraverso l’arte,” scrive Pierangela Allegro, “la nostra religione, si può arrivare al cuore degli uomini e attraverso la condivisione (che non vuol dire tolleranza) si possono creare crepe insanabili nel muro dell’indifferenza”.

NOTE

1 Buckminster Fuller: scienziato, architetto, disegnatore, inventore della cupola geodesica. Le sue teorie tendono a modificare la tecnologia per migliorare le condizioni sociali. Molto seguito dai giovani nordamericani e dai pionieri della televisione alternativa”, da R. Faenza, Senza chiedere il permesso. Come rivoluzionare l’informazione, Milano, Feltrinelli, 1973. Rimando al libro di Faenza anche per le caratteristiche tecniche relative ai primi VTR.
2. Anne-Marie Duguet, Installazioni video e interattive. Definizioni e condizioni di esistenza, in Visibilità zero, a cura di V. Valentini, Graffiti, 1997, p.14. Sui dispositivi installattivi video vedi S.Cargioli, Sensi che vedono. Introduzione all’arte della videoinstallazione, Pisa, Nistri-Lischi, 2002.
3. Sulla Galleria del Cavallino vedi B. Di Marino, Elettroshock, 30 anni di video in Italia, a cura di B. Di Marino e L. Nicoli, Roma, Castelvecchi, 2001. Nel 1972 Giaccari scriveva la Classificazione dei metodi di impiego del videotape in arte,introducendo per la prima volta la distinzione tra “ video diretto” (caldo, creativo) e “video mediato” (freddo, documentativo). Sulla classificazione: L. Giaccari, Dalle origini della videodocumentazione al museo elettronico inElettroshock, cit., pp. 37-40.
4. Con il videoloop Sambin non intende tanto la mise en abîme del feedback visivo quanto la bande sans fin. Il nastro di registrazione video immagazzina immagini che passano al nastro di lettura con un intervallo di tempo pari alla lunghezza dello scorrimento elicoidale tra le due bobine. Il procedimento artistico rientrerebbe sia in quella categoria definita da Mario Costa dei “videoriporti”, in cui l’artista “opera per o con il video” che in quella della “videoperformance”, in cui il dispositivo video “entra a far parte, come uno specifico insostituibile, di un’azione-operazione”. (M.Costa, L’estetica dei media. Avanguardia e tecnologia, Milano, Castelvecchi, 1999, p.254-255).
5.Sambin fa riferimento sia a Io mi chiamo Michele e tu?, che alla Autointervistainserite nella video installazione Il tempo consuma per Camere incantate (Milano, 1980).
6.M.Costa, L’estetica dei media, cit.,p.255.
7.M. Sambin, Testo inedito datato 17-9-1977.Sul significato politico e sociale del tempo nel video ha riflettuto il filosofo Lazzarato, passando attraverso Marx, Bergson e Paik: «Le tecnologie del tempo ci liberano dalla percezione naturale, dalle sue illusioni e dal suo antropocentrismo e ci fanno entrare in un’altra temporalità. Esse aboliscono la subordinazione del tempo al movimento e, di conseguenza, ci permettono un’esperienza diretta del tempo(…). L’istante è in questo caso, un divenire che, invece di essere incastrato tra passato e futuro, diventa germinativo, produttore di altre coordinate ontologiche» (M. Lazzarato,Videofilosofia. La percezione del tempo nel postfordismo, Manifesto libri Roma).

Il tecnoartista Giacomo Verde
12

Di Anna Monteverdi, dal catalogo Riccione TTV, 2004.

“Le tecnologie cambieranno in meglio il mondo ma solo se saranno usate secondo un’etica diversa da quella del profitto personale incondizionato”.Giacomo Verde

Giacomo Verde è videomaker, tecnoartista, mediattivista legato alla sperimentazione delle tecnologie povere con le quali mostra, nelle installazioni e a teatro, come la creatività non dipenda da un forte dispiegamento di mezzi.

Le sue oper’azioni sono variazioni sul tema della necessità di un uso politico delle immagini e di una riappropriazione-socializzazione dei saperi tecnologici. Verde riflette da tempo sulla possibilità di fondere l’esperienza estetica con la pratica comunicativa dell’arte in un’ottica di decentramento produttivo, esplorando anche attraverso i diversi media e il web, nuovi modi di “fare mondo” e “creare comunità” con l’obiettivo di agitare le acque dell’arte con la forza dell’attivismo e di creare eventi e contesti sempre più “partecipati”: dai laboratori per i bambini ai Giochi di autodifesa televisiva, fino alla creazione di Tv comunitarie interattive come la MinimalTV.

La pratica del teatro sperimentale, il legame strettissimo con le tradizioni popolari (Verde è stato suonatore di zampogna e artista di strada 1 ) lo hanno condotto “naturalmente” verso l’utilizzo del video in scena:

 Negli anni Ottanta ho scoperto la possibilità di usare i video in scena come elemento drammaturgico, oltre che scenografico. Così mi sono accorto che lo strumento video si adattava molto bene alle mie capacità artistiche, permettendomi di esprimere visioni difficilmente realizzabili con altri strumenti comunicativi e dato che mi occupavo di cultura popolare, mi è sembrato naturale fare i conti con la televisione e le comunicazioni elettroniche, che oggi hanno ereditato e modificato gli archetipi dell’immaginario popolare. Occuparmi di video e di televisione (che sono due cose ben diverse) ed ora di computer, è stato come decidere di vivere nel contemporaneo, superando vecchie e inutili ideologie di comportamento artistico, accettando il confronto creativo piuttosto che la fuga conservativa”. 2

 A teatro l’accento è posto sul live, sulla performatività dei media, per comprendere questa realtà tecnologicamente aumentata, come scrive in un suo testo Per un teatro tecno.logico vivente (in A. M. Monteverdi, La maschera volubile, 2000, Titivillus). Verde parla di una tecnonarrazione che possa rivitalizzare l’antica arte della narrazione orale con i nuovi strumenti comunicativi e faccia sentire lo spettatore necessario alla rappresentazione; la tecnologia deve essere un mezzo che amplifica il contatto, il tempo reale e non una gabbia che detta regole e ritmi preregistrati e immutabili. Verde è anche attore-narratore e autore di videocreazioni teatrali, e spesso mette al servizio di altri artisti le proprie competenze video-teatrali, collaborando con Babelia, Giallomare minimal teatro, Casa degli Alfieri, Teatro della Piccionaia, Luigi Cinque, Nanni Balestrini.

In questi ultimi anni ha sviluppato una propria tecnica per la creazione di videofondali live e/o interattivi per performance e reading poetico-musicali (tra cui Rap di fine millennio e Fast Blood, insieme con il poeta Lello Voce e il musicista Frank Nemola) che gli permette di creare ogni volta, quasi improvvisando, immagini suggestive e astratte, capaci di adattarsi a diverse situazioni artistiche. Nelle ultime versioni il dispositivo prevedeva anche l’inserimento di spezzoni di immagini videoregistrate ma manipolate in tempo reale attraverso un software utilizzato dai vj, ArKaos.

Il Teleracconto, ideato nel 1989 e inaugurato con la versione teatral televisiva di Hansel e Gretel (H & G Tv), coniuga narrazione teatrale realizzata con piccoli oggetti e macroripresa in diretta. Una telecamera inquadra in macro alcuni oggetti collocati vicinissimo alla telecamera; questi, attraverso la riproduzione televisiva e soprattutto attraverso la trama del racconto orale associata alla disponibilità immaginativa del pubblico, si trasfigurano fino a diventare quello che la storia ha necessità di raccontare: il guscio di una noce può sembrare il volto della strega, le dita alberi nodosi, un pomodoro un fuoco brillante!

Il performer gioca sullo spiazzamento percettivo. Lo studioso Antonio Attisani aveva parlato per il teleracconto di una originale “maschera elettronica“: il video è maschera, ovvero supporto che crea e impone una propria sintassi ma non elimina l’attore e con esso con il suo sapere, la sua tecnica e la sua responsabilità.

Coi Teleracconti Verde ci mostra come è facile attraverso una telecamera “far credere che le cose sono diverse da quelle che sono”, in altre parole, che le immagini trasmesse dalla televisione non sono quelle della realtà ma quelle di chi vuole fissare per noi un punto di vista sul mondo.

Le telecronache della Guerra del Golfo ma soprattutto quelle di Genova in occasione del meeting G8 ci hanno insegnato quanto potente sia la macchina spettacolare dell’informazione, la “gestione della catastrofe” e la simulazione-contraffazione degli eventi. Solo limoni (Documentazione videopoetica in 13 episodi, con Lello Voce, 2001, prod. Shake – SeStessiVideo – ReseT) utilizza modalità e tipologia narrativa antitelevisiva (utilizzando anche materiali girati da altri videomaker e considerati “non commerciabili”) per svelare i dietro le quinte e le efferate strategie di violenza e di offuscamento della verità di quel gran teatro del mondo che è stato Genova. A prevalere è il rumore di fondo: protagonisti sono l’anziano genovese che guarda gli scontri e le commenta, il proprietario della casa che ospita, suo malgrado, tre cecchini sul tetto, il corteo coloratissimo dei migranti, la gente affacciata dalle finestre che butta acqua ai manifestanti accaldati (e poi dopo, limoni per aiutarli a sopportare i lacrimogeni), il punto di ristoro, l’accampamento, il momento della vestizione e delle protezioni con armature di plastica e gomma, il clima generale di festa. Ma anche la città blindata, la violenza contro i manifestanti, la forza iconoclasta dei black block, il saccheggio di un supermercato, la risposta alle cariche della polizia. Non calpestate le aiuole testimonia l’episodio più tragico e più emblematico perché il cadavere di Carlo Giuliani, intravisto tra le gambe dei carabinieri e attraverso i loro scudi trasparenti appoggiati a terra, quel corpo coperto da un lenzuolo e la chiazza di sangue è ciò che non ci farà mai dimenticare quei tre giorni di Genova.

ETICA HACKER:

La medesima “attitudine politica” sta dietro a tutte le creazioni di Verde, una “attitudine hacker” che se non si esprime direttamente nei contenuti, si materializza nell’elaborazione di dispositivi “low-tech” che dimostrano un uso creativo ma a basso costo e alternativo a quello proposto dal mercato, dei media elettronici. Nel sito www.verdegiac.org si possono trovare le istruzioni per rifare da casa l’installazione del videoloop interattivo. Possiamo considerare una sorta di mixaggio tra teleracconto e videofondali-live lo spettacolo oVMMO dalle Metamorfosi di Ovidio con Xear.org. L’attore Marco Sodini declama con parole, azioni e coreografie gli antichi miti di trasformazione. Sullo sfondo, immagini create in diretta da Verde con oggetti prelevati dal quotidiano e “metamorfosati” fino a diventare puro colore. Presente e visibile in scena, il tecnoartista mette in atto un doppio dispositivo di ripresa, la webcam che riprende sia lo spazio con l’attore che le videoproiezioni, e la videocamera che riprende sullo schermo del computer le immagini della webcam sulle quali vengono sovrapposti piccoli oggetti, materiali e riflessi.

Anche la musica e i suoni curati dai musicisti Mauro Lupone e Massimo Magrini, rispondono al principio del live: suoni campionati che creano un tappeto sonoro continuo vengono trasformati in diretta con variazioni di intensità, sovrapposizioni ed echi della voce del protagonista.

Nel 1998 Giacomo Verde e il drammaturgo e critico Andrea Balzola pongono per la prima volta mano ad un progetto di narrazione teatrale con uso di tecnologia interattiva ispirandosi, per la stesura dei testi, alla forma e al significato del Mandala, guida della meditazione e simbolo della trasformazione spirituale dell’individuo. Nasce Storie mandaliche insieme con l’associazione ZoneGemma. Sono sette storie di trasformazioni nei diversi regni: umano, minerale, vegetale, animale e divino, ovvero sette iperracconti di personaggi “linkati” tra loro a formare una rete e un labirinto: il bambino-uomo, il mandorlo, la principessa nera, il corvo, il cane bianco, la pietra del parco, l’ermafrodita.

 Ogni storia e ogni personaggio è associato a un colore, ad un elemento e ad un punto cardinale e conducono al centro, esattamente come il mandala. Ma ogni sera il percorso è diverso e la strada-racconto che porta al centro viene decisa ogni volta assieme agli spettatori. Lo spettacolo ha attraversato diverse fasi ed è stata inaugurata al Teatro Fabbrichino di Prato nel febbraio 2004 una sua ulteriore metamorfosi con le animazioni create da Lucia Paolini in FlashMX (programma per animazioni audiovisive 2D usato in Internet) per un’ipotesi di futura fruizione Web con le sonorità digitali avvolgenti ed evocative di Mauro Lupone. Le immagini e i suoni hanno la funzione di memorizzazione del percorso e di immersione nel tema e nelle caratteristiche dei personaggi, e ci introducono in una geometria narrativa esplosa oltre la pura linearità diegetica.

Il cyber contastorie (la definizione è di Giacomo Verde, che ci tiene a definire il suo ruolo di tecnonarratore sulla base dell’immagine del tradizionale raccontastorie) anziché la tela disegnata, ha davanti a lui immagini animate in videoproiezione che seguono il ritmo in tempo reale del suo racconto.

Storie mandaliche, luogo politonale di ricerca di un teatro della parola, è la possibilità di giocare una parola differente, che prende corpo, suono e immagine potendo sdoppiarsi, metamorfosarsi e riconvertirsi in nuovo significato conferendo allo spettacolo mobilità di identità e di senso, come era nell’originaria natura della maschera. Possiamo notare il grande paradosso italiano per il quale quello che viene considerato da tutti uno degli esempi più emblematici del teatro multimediale, non ha ancora avuto possibilità di circuitare regolarmente nelle sale e nei Festival teatrali

Nel teatro globale di Connessione remota, uno dei primissimi esperimenti italiani di webcam theatre, andato contemporaneamente in scena e in diretta web per la prima volta dal Museo d’arte contemporanea di Prato nel maggio 2001, gli spettatori potevano assistere alla performance dal web, incontrarsi in rete, chattare tra loro e dialogare e scrivere in tempo reale con lo stesso narratore-performer: “Questi esperimenti mi hanno confermato l’intuizione di poter fare un teatro con/per la rete tenendo conto del senso di comunità che spesso si attiva in Internet in maniera più convincente di tanti altri luoghi materiali”.

Tra le installazioni di argomento teatrale: Inconsapevole Macchina Poetica ispirata a Julian Beck e al Living theatre, uno dei primi risultati del progetto di creazioni artistiche EutopiE, sulle nuove utopie possibili (www.eutopie.net). Nella Inconsapevole Macchina Poetica (2003) Verde insieme con Lupone e Magrini predispone un programma in cui il visitatore, sollecitato da suoni e immagini, deve rispondere a domande sulla percezione soggettiva e interpersonale della vita e del mondo.

Le risposte si mescolano come in un gioco dada, ai pensieri e alla visione anarco-rivoluzionaria di Beck che con il Living Theatre ha fatto dell’Utopia un luogo praticabile nella vita e nell’arte. Si diventa così, inconsapevolmente creatori, perché “Ognuno è un artista sublime” (J. Beck, La vita del teatro). Verde ha documentato, inoltre, molte situazioni teatrali; tra i suoi più recenti lavori: un’intervista a Judith Malina sullo spettacolo Resistence e un’intervista (con Antonio Caronia) a Marcel.ì Antunez  in occasione del Malafestival di Torino.

Pillole di spettacolo per T.V.P#000. Cercando Utopie prima documentazione video del progetto EutopiE che unisce grazie al lettering la performance realizzata al Politeama di Cascina (2003) alle linee teoriche e ai testi del Sub Comandante Marcos e di Edoardo Galeano.

La faccia nascosta del teatro. Conversazione con Robert Lepage (2001) è il video creato a partire dalle riprese del back stage de La face cachée de la lune a Montréal e dall’intervista in italiano al regista canadese Robert Lepage in occasione del Festival dei Teatri delle Americhe. Il video racconta il teatro tecnologico di Lepage attraverso una doppia (e contemporanea) narrazione visiva: quella della straordinaria scena trasformista creata per La face cachée de la lune con il suo affollamento nel dietro le quinte e quella dell’intervista al regista attraverso la semplice tecnica mixer della dissolvenza continua. Verde documenta il setting dello spettacolo e mostra quell’equilibrio necessario al teatro – di cui parla l’artista canadese – tra la parte in ombra e la parte in luce dello spettacolo, ovvero tra la parte artistica e quella tecnica. Il video contiene tutta l’estetica di Verde: l’antitelevisività, l’inciampo, l’errore, l’imprevisto, l’informalità, per privilegiare come sempre, al di là e oltre l’arte, la comunicazione diretta.

Note 1 Sulla prima esperienza di artista di strada Verde ha scritto il diario Frantumando generi in Arte immateriale, arte vivente (1990); ed anche Strada-Internet in E. Quinz, Digital performance, Parigi, Anomos, 2001: dall’esperienza del teatro di strada al web con la stessa logica di ricerca di un’aggregazione collettiva, inseguendo sempre una reale “connessione emotiva”. Sulle diverse “formazioni” artistiche di Verde vedi anche A. M. Monteverdi Vita in tempo di sport. La Bandamagnetica di Giacomo Verde in Catalogo Teatri dello sport, a cura di A. Calbi, Milano, 2002. 2 Intervista a Giacomo Verde a cura di R.Vidali, “Juliet”, n. 71, febbraio-marzo 1995, p.35

Mandala’s tales: an interactive performance
11

 Proceedings of the conference The Embodiment of Authority: Perspectives on Performances10–12 September 2010, at the Department of Doctoral Studies in Musical Performance and Research, Sibelius Academy, Helsinki, Finland.

Mandala’s Tales is an emblematic example of digital performance created by Xlabfactory, an Italian multimedia group composed of researchers, sound designers, interactive designers: Andrea Balzola, Mauro Lupone, Anna Maria Monteverdi.

 Xlabfactory was founded in 2004 to promote a performance art as near as possible to the digital themes: immediacy, hypermediality, and interactivity. The authors define this experimental project as a techno recitar cantando: it concerns the conjunction of interactive systems with live performance in which computer technologies play a key role rather than a subsidiary one in content, techniques, and aesthetics.

The computer has become nowadays a significant tool and agent of performative action and creation: cyber theatre is also a metaphor for an anthropological evolution of the body in which the machine and the human can co-exist, and for the theme of the Fleeting Identities of today: machines as theatrical masks. As a matter of fact the sense of technology has transformed or destabilized notions of liveness, presence and the real; digital performances could define a turning point for theatre, can invent new narrative forms [1].

 Interactive technologies enable the arts to regain that famous unique aura, that hic et nunc cancelled in the passage to the means of communication and reproduction, as Walter Benjamin explained in The Work of Art in the Age of mechanical Reproduction(1936). Performance art, unlike cinema and photography which were born as reproducible media, is a unique production which is different and unrepeatable each time, based on the interrelation between audience and public and based on a synthesis of various languages [2].

 Immediacy, interactivity intermediality are theatrical themes and they come up renewed in a digital and virtual perspective because the media arts establish a new age of the real: the notions of environment, interaction between agents and event unite digital multimedia and live performance [3].

 Mandala’s Tales is a special live theater that incorporates videos and sounds, animations and text in form of hypertext that have been digitally created, processed or manipulated, and it also introduces interactive systems. Mandala’s Tales is a pioneering artistic project born in 2000; it has changed technologies and modality of interactivity three times since then.

We took the very powerful image of the Mandala as a guide line: the interior concentration, the process of consciousness, the possibility of transformation of the self. The theme of the performance and the plot is the idea of transformation and there are three effective transformation of the scenic elements in this new techno performance:

the transformation of dramaturgy

the transformation of the actor

the transformation of the scene

We wanted to unite the most ancient narrative form, that oral story telling spoken in the ancient days in a circle around a fire, by the representative of the collective consciousness, the person who took care of the imaginary, of the memory, of the tradition of the community with the most up-to-date art form: the technological one. The author tried to mix the mythological and technological.

 The symbolism of mandala was ideal to represent this union and also the necessity of a guide in an era like ours, full of confusion of identity. Mandala is a Sanskrit word and it means sacred or magic circle; Carl Gustav Jung studied it and explained the archetypal and universal significance of mandala. In synthesis, the plot which is rich of an oniric and fabulous atmosphere, is this: Karl is a child who live in a metropolitan city, he has magic powers, is a video game master; he loves a negro princess Riza from a noble African family. From their union a hermaphrodite was born, half a male half a female, half a human half a divine being in which the opposites unite together, the differences coexist.

 The actor becomes a shamanistic figure, has a magic role to guide the audience inside the collective imaginary, inside archetypal symbols; a guide role nowadays occupied by the mass media, unfortunately. The authors wanted to immerse the audience in a tale based on sounds, words, and images in constant transformations thanks to the digital technologies; the performers become digital storytellers or cyber-rhapsodists. We wanted, in fact, to create a synthesis of languages and this is possible with the digital system, ie, it’s possible to achieve the ultimate utopia of the avant guard from Wagner to Kandinski, the concept of the total art work.

 Mandala’s Tales is based on hypertext written by Andrea Balzola [4] with seven stories that are interlinked; every story touches the other characters in different moments and ways; it’s the first Italian theatrical hypertext, created in the first version, more than ten years ago. We have calculated that 5.040 stories are possible in a new combinatorial narration, no longer linear but simultaneous and labyrinthic. In the vertical sense you can see the chronological story of the seven characters but there are several links that join one to another in a horizontal sense that produce a sense of infinity.

 In the first version of the show the choice of the path, the choice of the character’s point of view was given to the audience and the interactivity system was Mandala System created in the 80’s by the Canadian group Vivid; it’s one of the first experiences of non immersive virtual reality, an archaic motion capture system which allows the digitalizing of objects shot by a video camera in real time such as a lumakee, and the objects come onto the laptop screen becoming interactive, generating sounds, and graphic signs. The digital story teller was Giacomo Verde. Here is one of the first exhibition:

 From Mandala System to a new up to date version: in 2008 we decided to convert the interactive modality and the performer was a singer, a contemporary soprano, Francesca Della Monica. In this new version, Mandala’s Tales is an interactive technological play, in which digital signals blend with an all embracing environment where a score composed of words, sounds, gestures and images form an hypnotic mandala. The vocals and body gestures of the “metamorphing” performer Francesca Della Monica trigger a flow of images and sounds that are activated and transformed to illustrate the hypertext written by Andrea Balzola.

A data suit is the digital costume for the actress: composed of sensors is at the centre of the generation of the digital audiovisual actions, which are based around an interactive score created by the composer and electronic sound designer Mauro Lupone. Video Artist Theo Eshetu has created visuals that illustrate and counterpoint the abstract narrative of the play. With a style that combines an original singing recital with the language of mythology, the play deals with the themes of Time in the technological age, of an interior quest, of generation and death through the narration of characters, the body and stories with powerful symbolic connections.

 Francesca Della Monica activates video and audio sequences directly controlling all the scene via an array of arm, and body sensors attached by wireless to an offstage computer. See photostream.

 

 Thanks to data suite with sensors, she activates the screen video imagery, controls video camera effects by ARKAOS software, processes and modifies in real time her voice and the sound electronic environment via MIDI through MAX MSP programme. All by shaking her body, by gesturing with her arms (wrist, elbow, shoulder) to create a mandalic animated universe.

 The performer must have many memories: memory of cantos, memory of score, memory of the texts, memory of the gestures, memory of sounds, memory of images around her. But she can improvise inside these structures freely. Sensors reading the movement of her arm, the variation of parameters, send wireless electronic signals which an analogical-digital conversion card transforms into midi signals. They also allow real-time sound and image modification with a processing of her voice. She becomes a kind of orchestral conductor, a kind of “synthetic actor” or “hyperactor”.

 In Mandala’ tales one arm makes the videos play, generates effects real time by Arkaos, an open source software used by Vjing for live media concert. The other arm triggers the sounds in three ways through MIDI system, via patch MAX MSX, creating this way the ideal electronic universe and artificial environment for the story:

 –activates audio files, sound texture,

modifies her voice, altering spectrum and morphology,

creates synthesis sounds

Francesca Della Monica underlines that the show works in two different vocal range: the one linked to myth, the other to the story telling. They are two parallel planes to interpret. In fact when she sings as a story teller she uses a restricted vocal range, from the point of view of the frequency, of the harmonic research; on the other hand for the mythological section the vocal range becomes wider, reaching paradoxical frequencies, disharmony, noises, without harmony or intonation: it was suitable for interpreting the realm of the not human, as you can see in the birth of hermapfrodite.

 One of the most emblematic sections for the use of gesture, voice, sensors, electronic environment is the impossible dialog between Karl and Riza.

 

 The performer is solo but not alone: she can trigger video effects (for example, fading effect) making the characters appear or disappear with a single gesture of the elbow: significantly at this point, the voice of the performer becomes double, the male and female together. This backwards and forwards movement of the arm changes the sense of the actorial signal deeply. A specific movement of the elbow unmistakably indicates one character or the other, but it is also very expressive, near the heart, emotively connotative. Also the Italian playwright and director Dario Fo in the very famous monologue Mistero Buffo, uses a gestural code to indicate different characters. But here the movement is necessary to activate the visual and audio effects also.

 Therefore, we can consider that the actorial gestures of Francesca Della Monica have

a physical value (the dance of the body on the space),

a psychological value (the expression of a sentiment)

a code value (it activate an audiovideo system)

A vocal researcher like Francesca Della Monica has been inspired by this synesthesia made possible by new digital media, from all different input from audio and video; it helps to amplify the vocal universe, to enlarge the sense of artistic identity. As the data suit becomes a second skin, a real body extension, the performer can improvise with it as with a musical instrument.

 The Canadian director and actor Robert Lepage said that the actor who plays in a technological environment must have a “peripheral vision but also a global consciousness: Man is the centre of the tecnology” [5]. The digital presence in this emblematic case study enhances the potentiality of the theatrical human action in which technology has become one of the languages of the complex dramaturgy, and is not a pure parameter controlled by a machine only.

 The story telling leads to the birth of a hermaphrodite, an alchemic perfect being which unites the female and male principle. The result of this performance is also a hybrid, something ambivalent, to use a definition of Zygmunt Bauman [6], something that unites the liveness of the theatrical event and the potentiality of the digital media, the corporeity of theatre and the immateriality of the digital.

 

Notes

A. M. Monteverdi (2011), Nuovi media, nuovo teatro, Milano: FrancoAngeli.

T. Kowzan (1975). Littérature et spectacle, Mouton: The Hague; M. De Marinis (1982). Semiotica del teatro. Milano: Bompiani.

S. Dixon, Digital Performance (2007). Mit Press: Cambridge-Massachusetts.

A. Balzola (2004). Racconti del Mandala. Pisa, Nistri-Lischi.

A. M. Monteverdi (2004). Il teatro di Robert Lepage. Pisa. Bfs.

Z. Bauman (2010). Modernità e ambivalenza. Torino: Bollati e Boringhieri