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TEATRO MULTIMEDIALE. Dall’opera d’arte totale al cyber teatro. Saggio di AMM (2005)
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(pubblicato su Encyclomedia, 2005)

 Le stesse forme solide, sotto l’occhio dell’attore, un vero e proprio mago, potranno muoversi, cambiare, animarsi, vivere insomma su tutti i piani del teatro ed in tutti i sensi. Ma che mi sia ancora permesso di immaginare adesso lo spettatore futuro in una gabbia di plexiglass con due busti e due volti come i personaggi delle tele cubiste di Picasso. Circondato da suoni, da luci, da colori, da forme, da ombre, sarà sensibile, e con tutti i suoi sensi, a tutte le moltitudini di combinazioni, di armonie, di ritmi, di motivi melodici, sensibile a tutti i punti, rette, curve, angoli conici, linee visive, uditive, statiche, che si svolgono nel magnifico e straordinario caleidoscopio teatrale….. Per il momento, tranquillizziamoci, non abbiamo che uno stomaco ed un cervello. Ma tutto è possibile. Poliéri

 Digitale significa Teatro.

 Le caratteristiche delle tecnologie multimediali digitali stanno delineando nuovi scenari economici, sociali, cognitivi e linguistici: scrittura e lettura sempre più ipermedializzati stanno modificando secondo Thomas Maldonado il processo stesso della memoria umana mentre Lev Manovich afferma che il sistema informatico sta influenzando il sistema culturale nel suo complesso.

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Il teatro non risulta impermeabile a questo divenire multimediale della società sia pur con notevoli resistenze: le nuove tecnologie digitali trasformano radicalmente tutte le fasi produttive dello spettacolo, dalla progettualità alla sua dimensione scenica, coinvolgendo anche il contesto stesso di ricezione (dall’osservazione all’immersione) in relazione al prodursi di nuove modalità ibride di creazione e di comunicazione artistica. L’idea di multimedialità (termine oggetto di un vivace dibattito teorico, cfr. A.M.Monteverdi, A.Balzola, pp.21) e conseguentemente di interattività, è stata variamente sperimentata nel mondo delle arti sceniche (così come nelle arti visive e sonore) sin dalle avanguardie storiche e dalle seconde avanguardie, trovandone una prima definizione (ed una significativa dimensione interdisciplinare), e precede o addirittura prefigura l’innovazione tecnologica che la concretizza ovvero il digitale con la possibilità di trasferimento, elaborazione e interazione di qualsiasi testo, immagine o suono nell’ambito dello stesso metamedium. Nuove frontiere per il teatro si aprono grazie alle possibilità di conversione in un unico intercodice (“la sinestesia obbligata del digitale“, come ricorda Derrick De Kerchove) e al principio di variabilità, interattività, ipermedialità, simulazione (L.Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, ) proprie del sistema integrato digitale, una vera e propria nuova concezione del mondo che obbliga a ripensare l’arte nel suo rapporto con la scienza e con la tecnica. Non più, dunque, operazioni artistiche separate tra loro dalla tecnica: “Il testo, o meglio l’ipertesto drammaturgico il progetto scenico, la partitura sonora-musicale, l’installazione, il video il software, lo spettacolo, non appartengono più a generi diversi ma divengono fasi di un processo aperto, tassello di un mosaico spaziale e temporale mutante, flessibile e comunicativamente forte”.

Similitudine di funzione e di processo: se nella ormai storica formulazione teorica di Brenda Laurel (Computer as Theatre, 1993) il teatro serve da modello per la rappresentazione dell’interazione uomo-computer, la nozione di environment, di performance, di event accomunerebbe proprio spettacolo live e multimediale digitale (A.Pizzo, p.19-24; J. Murray). Così come ogni spettacolo si dà qui e ora, nella “compresenza fisica reale di emittente e destinatario” e nella “simultaneità di produzione e comunicazione” (M.De Marinis,), nella sua immediatezza, nell’attualizzazione di un testo che non esiste se non nell’insieme di relazioni (umane-spaziali-temporali), anche il digitale vive in un tempo percepito come presente e come un continuo generarsi di processi (un tempo fatto cioè “non più di eventi, come il tempo televisivo, ma di infinite virtualità”, ricorda Edmond Couchot), nella interazione tra macchina e agente attraverso interfacce. Secondo tale approccio teorico sarà proprio la presenza del digitale in scena (e non genericamente dell’audiovisivo che appartiene all’era della “riproducibilità”) ad “aumentare” (enhanced theatre è una delle definizioni del teatro digitale) il senso di presenza e di liveness del teatro. I termini della questione posti da Walter Benjamin vanno così ridefiniti a partire non più dalla perdita dell’aura dell’opera in una prospettiva digitale e virtuale dell’arte, ma di un’acquisizione di datità reale, nella “generazione senza referenzialità”seguendo il pensiero di Pierre Lévy e Philippe Quéau, perché il virtuale crea “un nuovo stato di realtà”  (P.Queau, Le frontières du virtuel et du réel in L.Poissant (a cura di) Esthétique des arts médiatiques, (vol.1), Presses de l’Université du Québec).

 Continuità e rottura.

Verso una (nuova?) sintesi scenica dei linguaggi.

Il digitale propone modalità tecniche ed espressive sia di rottura che di continuità. Rottura rappresentata dalla tecnologia di sintesi numerica, in base alla quale non c’è più un rapporto generativo con la realtà materiale, e continuità con alcuni principi cardine del modernismo e dell’avanguardia del Ventesimo secolo, specificamente teatrale: l’unione dei linguaggi -anche quelli della tecnica-, la partecipazione allargata dell’evento spettacolare, la ricercata condizione di azione e interazione (di cui l’interattività appare oggi come la realizzazione concreta), la creazione di un ambiente dalla “totalità percettiva” e sinestetica (“la sinestesia è l’inclinazione naturale dei media contemporanei” affermava l’artista video Bill Viola).  La prospettiva multimediale del teatro – come hanno dimostrato Béatrice Picon-Vallin, Denis Bablet, Nicola Savarese, Andrea Balzola, Fréderic Maurin- perfeziona l’utopia di sintesi delle arti delle avanguardie storiche: la Gesamtkunstwerk di Wagner (l’opera d’arte totale o comune o unitaria secondo le diverse traduzioni) ovvero il dramma unificante di parola e musica (Wor-Ton-Drama) espresso in particolare ne L’opera d’arte dell’avvenire (1849), da inscriversi nell’onda poetica e di pensiero del Romanticismo tedesco (Goethe, Schelling) pur suscitando posizioni e interpretazioni ad esso divergenti e addirittura opposte nei registi fondatori del teatro moderno che trovarono inadeguata la riforma scenica del compositore tedesco, fondamentalmente prefigurava una comune aspirazione a un’ideale di accordo dei diversi linguaggi componenti lo spettacolo, in sostanza una “strategia della convergenza, della corrispondenza e della connessione” (E.Quinz, in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p.109).

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Teatro diventa, pur nella diversità delle proposte teoriche, un campo magnetico per tutte le arti (Kandinski): dalla totalità espressiva del nuovo teatro di Edward Gordon Craig operata dal regista-demiurgo luogo di una “musica visiva”, alla sintesi organica e corporea di arti dello spazio e arti del tempo secondo Adolphe Appia, alla composizione scenica astratta di suono, parola e colore di Wassily Kandinsky sorretta dal principio costitutivo dell’unità interore che non doveva oggettivare la realtà ma costituire un evento spirituale capace di suscitare vibrazioni e risonanze condivise dal pubblico. Ancora, il teatro della totalità del Bauhaus con la rappresentazione “simultanea sinottica e sinacustica” di Moholy-Nagy, la “simbiosi impressionista dei linguaggi” della multiscena tecnologica di Josef Svoboda che negli spettacoli della Lanterna Magika combinava in una composizione sincronica, plastica e sonora, l’azione dell’attore o del danzatore, la scena cinetica, il suono stereofonico, gli schermi di proiezione mobili e il cinema.

Infine il programmatico “No Borderline between Arts” di George Maciunas per il movimento Fluxus, non più scultura, poesia e musica ma evento che inglobi tutte le discipline possibili. Sintesi, totalità e sinestesia: principi che si sono declinati in una rinuncia agli spazi tradizionali del teatro all’italiana per rivitalizzare in senso espressivo e relazionale, nell’ottica di una “drammaturgia dello spazio” (M.De Marinis, 2004) luoghi trovati dell’esperienza quotidiana connotati in questo modo di un carattere di efficacia drammaturgica. Il teatro si apre a condividere altre spazio-temporalità, altre modalità narrative, integrando la tecnica e trasformandola in linguaggio espressivo sin dalle prime esperienze simboliste, all’indomani dell’invenzione della luce elettrica, con Gordon Craig e Adolphe Appia. Si tratta di un cammino verso una narrazione non lineare e cinetico-visiva affine al montaggio cinematografico, verso inedite modalità di avvicinamento fisico allo spettatore fino a una sua inclusione nell’opera attraverso un percorso ambientale e “reattivo” e una sempre più spinta dilatazione tecnologica fatta di dispositivi diversi e strategie scenografiche adeguate a soddisfare un’esigenza di prossimità o una mobilità rispetto all’evento o agli eventi sparsi, mobilità che riguarda anche lo scavalcamento di ruolo e intercambiabilità tra attore e pubblico. Dalle imprevedibili azioni di disturbo delle spettacolazioni composite futuriste fino all’attacco “alla sensibilità dello spettatore” teorizzato da Antonin Artaud che nel Secondo manifesto del teatro della crudeltà, parlava di un teatro che “grazie alla soppressione della scena, si estenderà alla sala intera e, partito dal suolo si arrampicherà sui muri […], avvolgerà fisicamente lo spettatore, lo terrà in un’atmosfera ininterrotta di luce, di immagini, di movimenti e di rumori”.  Anche l’evoluzione dei media di immersione e le tecnologie di realtà virtuale per convogliare esperienze artificiali multisensoriali hanno una lunga storia rintracciabile nella pittura, nel cinema, nel teatro e affondano le radici negli scorci prospettici rinascimentali in cui l’osservatore era illusionisticamente incluso nello spazio dell’immagine e nelle ingegnose macchine barocche per i cambi di scena (N. Savarese, pp.242-249). La ricerca di una partecipazione dell’osservatore nell’opera si inaugura con i panorami pittorici a 360° e con l’esperimento polivisivo o cinema simultaneo di Abel Gance (Napoléon, 1927), per proseguire con il Cinerama presentato all’Esposizione mondiale di Parigi che proponeva dieci film da 70mm proiettati contemporaneamente, pionieristico tentativo di espandere il campo visivo dei film sfruttando le zone periferiche dell’occhio umano, con il Sensorama, con il Cinema espanso e quello in 3 D, ed infine con i visori stereofonici Head Mounted (HMD) progettati da Ivan Sutherland nel 1966 e finanziati dall’Esercito americano. Da una parte il cinema delle avanguardie “chiama al lavoro dello sguardo ma anche al coinvolgimento di tutti i sensi” (S. Lischi, in A. Balzola, A.M.Monteverdi, p.62) con schermi semisferici o rotanti, simultaneità di proiezioni, alterazioni di velocità, generale sovvertimento della passività dello spettatore, dall’altra il teatro con macchinari per muovere le scene, piattaforme girevoli, palcoscenici simultanei e circolari, proiezioni cinematografiche (Mejerchold in Terra capovolta), scenografie dinamiche e tridimensionali innovative (rampe elicoidali per R.U.R. di Kiesler) si apre alla percezione di quella che Maria Bottero con una bella immagine definisce “la curvatura del mondo”, verso cioè una multidimensionalità e un nuovo rapporto tra attore e pubblico raggiunto sia con l’architettura sia con l’uso di immagini cinetiche sincronizzate con l’azione scenica (M. Bottero, Frederick Kiesler, Milano, Electa, 1995). L’architetto Walter Gropius dichiarò che lo scopo del suo Teatro totale progettato per Piscator doveva essere quello di trascinare lo spettatore al “centro degli avvenimenti scenici” ed “entro il raggio di efficacia dell’opera”. Erwin Piscator il regista fondatore del Proletarisches Theater nella Germania della fallita Rivoluzione di Novembre di Karl Liebknech e Rosa Luxemburg e pioniere di una scena multispaziale e multimediale secondo una famosa definizione di Fabrizio Cruciani, in Ad onta di tutto (1925) inserì sia immagini fisse che il film documentario, ovvero pellicole autentiche che mostravano gli orrori della guerra; in Oplà, noi viviamo (1927) insieme con lo scenografo Traugott Müller progettò una costruzione scenica a più piani prevedendo un largo impiego, oltre che dei disegni di George Grosz, di proiezioni cinematografiche per creare “una connessione tra l’azione scenica e le grandi forze che agiscono nella Storia”. L’Endless Theatre di Frederick Kiesler, il Teatro anulare di Oskar Strandt, il teatro ad U di Farksas Molnàr fino ai più recenti dispositivi di Poliéri (la sala giroscopica, la scena tripla, la sala automatica mobile, scena e sala telecomandate, ruotanti e modificabili), sono alcuni esempi di una ricerca volta a determinare un allargamento della cornice scenica, che avvolgesse letteralmente il pubblico in un ideologica spinta alla partecipazione globale.

 

Il Teatro dei mezzi misti: il paradigma dell’interdisciplinarietà, dell’ambiente e dell’interazione.

Musica,  danza e film con esclusione drastica del testo o addirittura della parola, il carattere “attimale” dell’opera in base al quale conta principalmente l’accadere dell’evento (lo spazio-tempo reale a volte dilatato per diverse ore) e il contesto ambientale (i luoghi urbani), vengono definite le caratteristiche del nuovo teatro dei mezzi misti, o intermedia, che si inaugura con 18 Happening in 6 Parts  nell’ottobre del 1959 alla Reuben Gallery di New York sotto gli auspici del fondatore, Allan Kaprow: nastri non sincronizzati, diapositive proiettate, suoni e rumori provenienti da un autoparlante, pareti affrescati con collage, oggetti sparsi, azioni eseguite meccanicamente e frasi ripetute da attori si susseguivano in un alternarsi di luci colorate davanti e intorno a un pubblico invitato a spostarsi nelle tre camere separate da pareti di plastica in cui era stato suddiviso lo spazio. Queste le costanti dell’happening individuate dallo storico e artista Michael Kirby: struttura a compartimenti (unità di azioni distinte e autonome, realizzate in sequenze o simultanee e in luoghi diversi); carattere non verbale (prevalenza di suoni puri); assenza di matrice (di tempo, luogo e personaggio); azione indeterminata (ma non improvvisata); uso di materiali concreti, quotidiani; utilizzo di elementi alogici. Kirby rintraccia anche l’eredità nei Merzbau di Kurt Schwitters (1923-1924), nella tecnica e nel principio compositivo del collage e dell’assemblage dada e neodada (da Max Ernst e Jean Arp a Robert Rauschenberg), nello spettacolo futurista (l’integrazione sonora e rumoristica e le declamazioni simultanee del Teatro della Sorpresa di Marinetti e Cangiullo) e dadaista (Relache di Picabia con partitura di Satie, 1924). A questo bisognerebbe aggiungere anche i ready-made di Marcel Duchamp e il concetto di rifunzionalizzazione estetica. Ma l’influenza più diretta sarebbe data da un lato dalla musica indeterminata di John Cage (e dal concerto-evento Untitled event al Black Mountain Collage del 1952) dall’altro dall’action painting, dalla pittura gestuale, dalla teatralità dell’azione artistica, dalla pratica ambientale dell’arte e dall’agire performativamente dentro l’opera. Naturale evoluzione dell’happening è l’enviromental theatre o teatro ambientale: alla fine degli anni Cinquanta Richard Schechner esplorava lo spazio trovato della città -già luogo deputato di manifestazioni e di sit in di protesta- aggiungendo al fatto teatrale una dimensione ambientale, decretando come ricordava il regista americano fondatore del Perfoming group, la fine del “punto di vista unico, sorta di marchio di fabbrica del teatro tradizionale”. Nel testo Six Axioms for Environmental Theatre (1968) Schechner sviluppa la nuova idea di teatro: il fatto teatrale è un insieme di rapporti interagenti (tra gli attori, tra il pubblico, e tra essi e lo spazio e gli elementi della rappresentazione); tutto lo spazio è dedicato alla rappresentazione ed è dedicato al pubblico; l’evento teatrale può avere luogo sia in uno spazio totalmente trasformato sia in uno spazio <<lasciato come si trova>>; il punto focale è duttile e variabile; ogni elemento della rappresentazione parla il suo proprio linguaggio; il testo non è necessariamente il punto di partenza o lo scopo della rappresentazione. E potrebbe addirittura non esserci”.

Dal Teatro-azione agli ambienti inter(e)attivi

Il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina nella sua lunga attività contro il teatro di rappresentazione a favore di un teatro-vita che nella pratica scenica si tradurrà in una ricerca ben salda agli ideali libertari anarco-pacifisti, volta ad attivare un’esperienza comune di consapevolezza sociale e il Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine e la loro messa in scena della creazione collettiva della Storia, hanno posto l’accento sulla tematica politica e sociale del teatro quale luogo di un’azione condivisa. Insieme a Luca Ronconi e al suo lavoro teatrale degli anni Sessanta e Settanta sull’originale messinscena della “spazialità nascosta del testo” (Balzola, p.) e sulla simultaneità delle azione sceniche dai testi-fiume di Holtz, Ariosto, Kraus in luoghi extrateatrali drammaturgicamente significanti come il Lingotto e l’ex Orfanotrofio Magnolfi di Prato, questi gruppi della neoavanguardia sperimentale hanno ridefinito i contorni di un nuovo luogo teatrale  (che poneva anche l’accento sulla rifunzionalizzazione artistica degli spazi della collettività: il Teatro-Territorio, secondo una definizione dell’architetto Gae Aulenti). Luogo teatrale espanso e dilatato che viola lo spazio prossemico dello spettatore, spezzando le tradizionali “barriere architettoniche” e il principio stesso della frontalità, liberando una soggettiva selezione di visione, e ponendo le condizioni per una partecipazione – in senso fisico ed ideologico – all’azione scenica, prefigurando le possibilità immersive delle tecnologie multimediali e delle installazioni interattive e di realtà virtuali.

Se il pubblico diventava co-protagonista nell’Antigone del Living Theatre attraverso un allargamento dello spazio della scena a tutta l’architettura teatrale e ne Gli ultimi giorni dell’Umanità era libero di muoversi nello spazio operando un proprio montaggio di visione, nelle installazioni di Myron Kruger definite dall’artista significativamente Responsive Environments (come Videoplace), in quelle di David Rokeby (a partire da Very Nervous System, 1986) e soprattutto negli ambienti sensibili di Studio Azzurro (come Coro e Tavoli) l’obiettivo dichiarato è quello di creare un’esperienza sensoriale e relazionale, creativa e soggettiva di dialogo tra osservatore-performer e ambiente, attraverso un dispositivo elettronico sonoro, visivo e grafico: “Uno spazio socializzato è il senso primo della nostra definizione di ambienti sensibili. Si tratta di pensare a contesti dove l’atto interattivo non sia confinato ad una dimensione individuale, come capita nella maggior parte dei casi con questi sistemi (una persona determina il dialogo e altre eventualmente stanno a osservare). Contesti in cui al dialogo con la macchina si associ e si mantenga anche il confronto, anche complice, con le altre persone(…)E’ una garanzia per partecipare alle scelte, che saranno sempre più frequenti nella nostra società proprio per il diffondersi dei sistemi interattivi di consultazione, meno soli e isolati da un confronto umano ancora indispensabile” (Paolo Rosa, Rapporto confidenziale su un’esperienza interattiva, in S.Vassallo, A. Di Brino Arte tra azione e contemplazione).

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Immersione partecipativa, ricerca di uno spazio sensoriale e sollecitazione ad una visione e un ascolto “sinestetico”sono alcuni degli obiettivi di molti artisti multimediali che approdano così, quasi naturalmente in un territorio prettamente teatrale verso una “dramaturgia dell’interazione opera-pubblico che trasferita in teatro diventa interazione opera-attori-pubblico e segna un decisivo passaggio dal video in scena alla scena-video interattiva e sinestetica” (A.Balzola, 2004): “Videoambientazioni, con questo termine cercavamo di evidenziare non solo la relazione con lo spazio, ma il dialogo tra uno spazio e gli elementi messi in gioco, superando la dimensione puramente scenografica. Il teatro era già presente in embrione come ambito nel quale sconfinare, del quale interessarci per lo sviluppo naturale della ricerca nella videoinstallazione. Era inevitabile pensare al teatro anche come luogo dove continuare a sviluppare la pratica della narrazione, da svolgere attraverso i monitor, il rapporto tra lo spazio e chi lo fruisce, lo spettatore o l’attore (Studio azzurro, Camera astratta, Ubu, 1988) Nello spettacolo Studio azzurro Giacomo mio salviamoci! (1998, versi, lettere di Leopardi) l’intera scena è un ambiente virtuale parzialmente interattivo dove i personaggi con le loro azioni possono provocare eventi visivi e sonori. L’evento spettacolare per Giardini Pensili è invece uno spazio dinamico, un’opera-ambiente fatta di suoni e immagini rigorosamente live e in metamorfosi digitale continua. L’immersione è resa possibile da una “iperstimolazione sensoriale” visiva e acustica (R.Paci Dalò, Pneuma, 2005): suoni dalle frequenze anomale, gravi e sovracute, inseguono e avvolgono lo spettatore attraverso sistemi di spazializzazione multicanale (come in Metamorfosi con Anna Buonaiuto e Italia anno zero) associati a strati di immagini-sinopie trattati digitalmente che affiorano a tratti con ritardi, effetti e rallentamenti (Metrodora, Stelle della Sera).  Esperienze sensoriali quasi destabilizzanti per lo spettatore sono inoltre, quelle provocate dalle performance del gruppo austriaco Granular Synthesis  e quelle del collettivo giapponese di danzatori Dumb Type che lavorano sulle astrazioni video, sulla scomposizione granulare del suono e sulle subfrequenze che sconvolgendo i canoni tradizionali dell’ascolto e della visione alla ricerca di una corrispondenza tra segnale elettromagnetico e recettori visivi, tra attività neuronale e processo digitale, trovando nel tecnologico una grande metafora del contemporaneo.

Dal teatro-immagine alla Postavanguardia

Il Teatro-immagine è legato alla figura di Robert Wilson, punto di riferimento di quella ricerca teatrale degli anni Settanta volta sempre più ad uno “spazio definito nella sfera del visivo” (S. Sinisi, Dalla parte dell’occhio. Esperienze teatrali in Italia, 1972-1982), verso una raffinata visionarietà antinarrativa sempre più affine alla processualità e allo spazio-tempo tecnologico (cinematografico e video). Da A Letter for Queen Victoria (1974), Einstein on the Beach (1976), Edison (1979)  realizzati con effetti luministici colorati a forte vocazione pittorica e improntati a un’estetica minimalista (anche nel suono, grazie al contributo fondamentale della musica ripetitiva di Philip Glass) fino a Monsters of Grace (1999) quest’ultimo contenente animazioni computerizzate in 3D, Wilson ha da sempre modellato i suoi spettacoli-quadro in un’ottica di totalità e sintesi architettonica tra le parti: scritture di luci e suoni, ritmi visivi e sonori calcolati al secondo con azioni rarefatte e rallentate, aderenti sistematicamente al principio dello slow motion e del loop.

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In Hamlet: a Monologue (1995) la luce diventa un tema, con una propria autonomia espressiva ed emotiva, quasi fosse luce-stato d’animo mentre l’effetto visivo generale rimanda alle tecnologie audiovisive, quasi fosse un video ad alta definizione: l’intenso sfondo luminescente rispetto al corpo dell’attore simula infatti un particolare effetto mixer, l’effetto intarsio o chromakey. Il teatro-immagine segna una stagione particolarmente fertile che vede tra i protagonisti Mario Ricci, Giuliano Vasilicò, Simone Carella e Memé Perlini il cui spettacolo Pirandello: chi? (1973), tra “frammenti-immagine”, corpi-manichini che emergono dal buio grazie alle luci di taglio e citazioni dal cinema surrealista viene considerato il Manifesto della nuova tendenza. Ma il passaggio a un’estetica teatrale legata ai nuovi media si ha con la Postavanguardia,  ufficializzata nel 1976 a Salerno alla rassegna diretta da Giuseppe Bartolucci. Invaso da altri linguaggi (cinema, fotografia, fumetti, musica rock, mass media, fantascienza) e attirato dalla fascinazione urbana, il teatro della postavanguardia “accentua ulteriormente gli aspetti visionari dello spettacolo e agisce sulle facoltà percettive del pubblico per attirarlo in un cerchio di suggestioni di carattere ipnotico” (A.M.Sapienza). Sono protagonisti: Simone Carella (regista di Autodiffamazione, spettacolo astratto senza attori), la Gaia scienza di Giorgio Barberio Corsetti (La rivolta degli oggetti), il Carrozzone (primo nucleo dei Magazzini criminali, con I presagi del vampiro, manifesto programmatico del loro teatro analitico-esistenziale). Successivamente spettacoli come Punto di rottura (1979) dove quattro monitor sezionano lo spettacolo e Crollo nervoso (1980) degli ex Magazzini Criminali diventano un fondamentale punto di riferimento per la successiva generazione teatrale sempre più spinta verso le suggestioni dei mass media (A.Balzola, in A.Balzola, A.M.Monteverdi, pp.306-311; ed inoltre A.Balzola, 1995)

Videoteatro anni Ottanta

La rassegna Paesaggio metropolitano/Teatro-Nuova Performance/Nuova Spettacolarità (1981), inaugura un nuovo teatro che si esprime attraverso l’esplorazione dei media e si ispira al panorama della metropoli e dell’immaginario cinematografico e videografico. Krypton, Falso movimento di Mario Martone, la compagnia di  Giorgio Barberio Corsetti con Studio Azzurro esploreranno radicalmente, sia pur con modalità profondamente diverse, il territorio della multimedialità definendo con alcuni spettacoli-manifesto, i contorni tipologici di una stagione teatrale innovativa significativamente definita “video teatrale”: “L’esperienza videoteatrale in Italia nella prima metà degli anni Ottanta (…) sperimentava le nuove possibilità tecniche offerte dal video attingendo alle invenzioni , ma anche imboccando itinerari propri: dialettica straniante tra corpo reale sulla scena e corpo virtuale sullo schermo; sperimentazione di modalità di ripresa che interagissero fisicamente con i corpi degli attori/danzatori; ossessione dei primi piani e dei particolari dei volti e dei corpi che a teatro sfuggono in un quadro percepito sempre, inevitabilmente, come totale e lontano; suggestione dei colori freddi e brillanti dell’elettronica; uso in funzione espressiva della bassa definizione, della sgranatura materica e delle scie luminose dell’immagine video; elaborazione dell’immagine in post-produzione, con l’ausilio del mixer e del computer, soprattutto lavorando sulle chiavi cromatiche, sugli effetti di scomposizione dell’inquadratura e di montaggio” (A.Balzola, 1995).

Prologo a diario segreto contraffatto e Camera astratta (1987) di Giorgio Barberio Corsetti e Studio Azzurro rimangono gli spettacoli più emblematici di quest’epoca in cui si introduce una struttura complessa di dialogo tra corpo e ambiente, tra luce e spazio, tra immagine video e presenza attoriale. In Prologo vien allestita una doppia scena, una materiale e una immateriale, una visibile e una invisibile, ovvero il palco agito di fronte al pubblico e un retroset dove gli attori vengono ripresi mentre la loro figura intera è riproposta al pubblico in diretta, ricomposta su quattro file di tre monitor impilati. In Camera astratta invece un’architettura geometrica mobile attraversava il palco in varie parti, con monitor posti su binari o montati su assi oscillanti e sospesi come un pendolo: in una perfetta sincronia di movimenti, incorporavano e scomponevano il corpo dell’attore con un passaggio continuo e fluido della narrazione dal video al teatro. Nell’idea degli autori la Camera astratta è la mente stessa del personaggio e gli eventi dello spettacolo sono come le emanazioni-manifestazioni degli istanti-pensiero che attraversano questa scena interiore.

 

Dispositivi di visione

La Duguet nel celebre saggio Dispositif (1988) ricorda come sia stato proprio il teatro degli anni Sessanta a offrire i paradigmi e le premesse per una spazializzazione e temporalizzazione delle opere video intese non solo come immagine ma come dispositivi multipli che innescano un processo di durata e letteralmente di “esplosione” verso l’esterno, verso il contesto spaziale: la messa al bando del punto di vista unico, l’apertura ad una temporalità plurima, la partecipazione dello spettatore ad un evento reale, fisico e immediato, il suo coinvolgimento in un percorso narrativo, percettivo ed emotivo. La presenza di schermi  e monitor in scena comporta necessariamente una diversa partecipazione e una diversa disposizione percettiva poiché le immagini sono decontestualizzate, frammentate, velocizzate, simultanee su più schermi e lo spettacolo diventa “polivisuale e sembra che siano convocati tutti gli stadi della storia del nostro sguardo” (B-Picon-Vallin). L’effetto prodotto richiama secondo molti critici, alla molteplicità di  prospettive e alla scomposizione della figura umana delle avanguardie pittoriche primonovecentiste, quella cubista principalmente. In Marat Sade (1984) di Carbone 14, compagnia di Québec creata da Gilles Maheu nel 1980, La Dispute da Marivaux di D. Pitoiset (1995) e in The Merchant of Venice (1994) di Peter Sellars, il video sottolinea il volto, ferma il tempo e isola il gesto; volti che sembrano imprigionati nella scatola televisiva, come le teste “ritagliate” su cuscini nelle videoinstallazioni di Tony Ousler. Il video in scena introduce il cosiddetto “effetto specchio” diventando dispositivo psicologico introspettivo (come in Hajj, dei Mabou Mines, 1981). Il corpo dell’attore viene replicato e il suo doppio elettronico rimette allo sguardo dello spettatore l’immagine di un’interiorità invisibile e indicibile: è il passato o l’altrove, il nascosto e il perturbante, la memoria e il vissuto.

In Elsinore di Lepage (1995) Amleto si “guarda dentro”, e nella solitudine di Elsinore -luogo mentale- incontra tutti i personaggi generati da lui stesso, ombre e gigantesche proiezioni (su grande  schermo) delle proprie angosce che evidenziano la scomposizione della sua personalità psichica. Uno dei migliori esempi di integrazione di dispositivi multischermo con la scena è rappresentato da The Seven Streams of the River Ota (1994) di Robert Lepage. La scena è strutturata come la facciata di una tradizionale casa giapponese, con sette schermi-pannelli trasparenti fatti di spandex su cui vengono proiettate immagini video e ombre: l’effetto di “intarsio”permanente tra l’immagine videoproiettata e corpo dell’attore e tra la figura e sfondo monocromo luminescente genera un surreale dialogo tra corpi e luce, e rende quasi letteralmente il senso più profondo dello spettacolo: l’impossibilità di cancellare dalla memoria l’Hiroshima della bomba atomica. La scena fatta di schermi diventa una lastra fotosensibile e l’intero spettacolo una scrittura di luce, metafora di un percorso insieme di ricordo, di illuminazione e di conoscenza.

Il gruppo italiano Motus, tra i protagonisti della cosidetta Generazione Novanta, con il progetto Rooms  confluito nella versione definitiva dal titolo Twin Rooms (2000-2003) ispirato al romanzo Rumore bianco di De Lillo, palesa attraverso un particolare dispositivo visivo e sonoro, un procedimento cinematografico. L’azione teatrale, che procede per riquadri e close up e ricostruisce un set, simula il cinema; la regia teatrale diventa regia di montaggio:  la struttura (una camera d’albergo) si raddoppia dando vita a una “digital room” con due retroproiezioni affiancate di immagini preregistrate o provenienti da telecamere a circuito chiuso e mixate live con quelle girate in diretta dagli stessi attori in scena. La cornice scenografica di questo expanded live cinema invade tutto lo spazio del palco e le immagini riempiono ogni interstizio possibile, generando un sovraccarico di visibile. Il video incombe quale inquietante presenza dentro questo claustrofobico contenitore di corpi ridotti a immagine su schermo procedimento visivo che drammatizza efficacemente il nuovo totalitarismo consumistico narrato cinicamente da De Lillo, forse il più grande romanziere postmoderno. Domina nello spettacolo un eccesso di visibilità e anche un incrudelimento e una morbosità dell’occhio della telecamera che sorveglia e si sofferma sui corpi. Il video in scena  inglobato nell’architettura integra il procedimento del romanzo: lo shock dell’immediatezza, il senso di alienazione e di perdita di identità nel flusso della rappresentazione del sé.

 

Un’estetica del processo?

Dall’autore all’attiv-attore

La multimedialità digitale definisce una nuova estetica non più dell’oggetto ma del processo e del  flusso (C.Buci-Glucksmann) in cui per la prima volta nella storia delle tecniche figurative la morfogenesi dell’immagine e la sua distribuzione (diffusione, conservazione, riproduzione e socializzazione più estesa) dipendono dalla stessa tecnologia (dall’immagine-matrice all’immagine-rete secondo E.Couchot). Le opere interattive hanno la capacità di modificarsi grazie alla presenza e all’azione degli spettatori, intermediari tra strumento, artista e spettatore, diventati veri coautori dell’opera. Navigazione ipertestuale, ambienti virtuali 3 D, immagini di sintesi, installazioni interattive: da un’opera chiusa e strutturata a un’opera-sorgente che contiene nella sua attualizzazione ed esecuzione una possibilità di continua variazione. Se l’artista è l’autore della proposizione, della concezione dell’opera, del suo dispositivo, del suo contesto, della sua manifestazione, il visitatore attraversandola la interpreta, ne è il performer (A.M.Duguet Installazioni video e interattive. Definizioni e condizioni di esistenza). Edmond Couchot preferisce invece parlare di due autori: un autore a monte all’origine del processo, ovvero colui che definisce programmaticamente le condizioni della partecipazione e un autore a valle che si inserisce nello sviluppo dell’opera e ne attualizza in maniera non preordinata, le potenzialità.

In Storie mandaliche 3.0 : il collettivo artistico Zonegemma ha messo in atto una complessa drammaturgia ipertestuale (ipertesti di Andrea Balzola) confluita in uno spettacolo di narrazione interattivo (con uso prima del Mandala System poi del programma di animazione Flash MX). Poiché il mandala viene costruito secondo un percorso labirintico e una logica di corrispondenze, anche  le storie hanno delle inter-connessioni: il pubblico può decidere di passare da un personaggio ad un altro ad ogni bivio ipertestuale, viaggiando all’interno di un labirinto di migliaia di possibili narrativi. La novità della tecnica affabulatoria del cyber-contastorie Giacomo Verde  che recupera un’oralità antica aggiornandola ai media digitali, l’immagine in animazione per permettere una navigazione anche in Internet, la ricercata atmosfera generale di sinestesia attraverso le sonorità spettromorfologiche create da Mauro Lupone, ma soprattutto il particolare reticolo ipertestuale percorso dal pubblico fanno di Storie mandaliche 3.0 il primo e pionieristico esempio italiano di teatro interattivo, con un’interattività non di interfaccia ma di progetto e di relazione. In CCC (2003) di Davide Venturini-TPO l’opera, definita dagli autori “un’azione teatrale a metà tra un atelier multimediale e uno spettacolo”  non è altro che un tappeto interattivo: un video proiettore invia dall’alto immagini animate e un sistema di trentadue sensori nascosti sotto il tappeto: il movimento di una o più persone all’interno di esso genera suoni e immagini che sono l’armamentario di un racconto di viaggio in Giappone tra i colori e le forme di un giardino Zen. L’artista innesca le condizioni più adatte per  sviluppare un’esperienza riflessiva e socializzante al tempo stesso, che sia da un lato di gioco ma anche di codici, di segni, di spazi, di nuove e immateriali architetture; è un’esperienza spontanea collettiva e condivisa, di emozione sensoriale, di contemplazione estetica, di concentrazione interiore.

Verso un teatro virtuale

Il teatro affronta la questione del virtuale aprendosi anche ad un nuovo un versante interattivo, attraverso la creazione di una scena delle interfacce (E.Quinz, in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p.403). Secondo Quinz due sono le possibili classificazioni di questa nuova scena: la prima è rappresentata da un puro sistema di interfacce in cui il dispositivo e il software servono sostanzialmente da intermediari fra il computer e le unità periferiche (videocamere, strumentazione virtuale). Si tratta in pratica di una vera e propria regia digitale che combina fonti diverse visive e sonore: immagini video ed eventuale elaborazione digitale in tempo reale, immagine da Internet, o d’archivio, sonorità elettroniche realizzate e trasformate in diretta.

Il secondo tipo, definito da Quinz “ambiente-mondo”, è quello degli ambienti virtuali veri e propri, incentrato sull’interazione fra corpi reali e corpi virtuali, sulla creazione computerizzata di oggetti interattivi a partire dalla captazione di movimenti degli interpreti in combinazione con l’utilizzo di periferiche di interazione uomo-macchina tramite sensori (elettromagnetici, elettromeccanici e fotoelettrici) come i data glove per la manipolazione della Realtà Virtuale e i sistemi di Motion Capture o la piattaforma EyesWeb elaborata dal Laboratorio di Informatica Musicale di Genova di Antonio Camurri che catturano gesti e movimenti umani (ma anche pulsazioni cardiache, variazioni di temperature), generando uno spazio reattivo, un ambiente multimodale interattivo (A.Camurri in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p. 414); l’attore indossando queste interfacce può gestire autonomamente in tempo reale e con il solo movimento, input da diverse periferiche e animare oggetti, ambienti, grafica, immagini, suoni, personaggi 3D e comporre l’azione scenica vera e propria. L’interfaccia si pone allora fra due sistemi di natura diversa, fra i quali il computer svolge delle operazioni di traduzione.

Il data glove o guanto interattivo è stato usato in Italia da Giacomo Verde e Stefano Roveda per dare vita al burattino virtuale Euclide nel 1992 mentre Jean Lambert Wild con Orgia (2002) ha sperimentato efficacemente il rapporto tra corpo dell’attore e immagine mediato da un’interfaccia (Sistema Daedalus): questa generava esseri artificiali, organismi del fondo marino, il cui “comportamento” e il cui movimento era influenzato dai livelli di emotività, respiro, temperatura e battito cardiaco degli attori muniti di particolari sensori.

https://www.youtube.com/watch?v=6zzrSi_irIw

Come ricorda Emanuele Quinz che ha elaborato la più originale proposta teorica in materia di digitale applicato alla scena (soprattutto in riferimento alla coreografia) “grazie alle interfacce il linguaggio scenico si arricchisce di un nuovo strato, basato sulla fluidità dei codici, sulla circolazione di input e output e sul trasferimento e la trasformazione dei dati. L’obiettivo di questi cantieri di ricerca e processi di sperimentazione è di esplorare una nuova sintassi capace non solo di tenere conto dei nuovi flussi delle informazioni sulla scena, ma di integrarli al servizio della composizione drammaturgica e coreografica” (E.Quinz in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p. 405)

Marce.lì Antunez Roca, fondatore della compagnia catalana Fura dels Baus propone un nuovo cyber teatro o teatro tecno-biologico in cui l’ibridazione (ovvero l’interpenetrazione, come precisava Mac Luhan) e lo scambio non sia solo più solo tra macchine e dispositivi ma tra corpo e tecnica, tra organico e inorganico, tra robotica e biologia, operando al confine tra “corpi in -macchinati e macchine in-corporate” (M. Antunez); il performer incarna l’utopia post-umana della tecno-mutazione, dell’ampliamento della struttura biologica verso nuove sensibilità extratattili diventando, attraverso innesti temporanei di dispositivi elettronici ed elettromagnetici, cybermarionetta e robot cibernetico, potente metafora della liberazione del corpo verso nuovi e inesporati spazi di sensorialità (dai robot pneumatici che reagiscono alla presenza del pubblico- Requiem, 2000-, al corpo-macchina del performer, appendice del computer sottoposto alla invadente molestia telematica da parte dello spettatore attraverso un touch screenEpizoo, 1994-).

Mutazione come seconda natura, come una sorta di felice alienazione dell’uomo nella sfera biotecnologica, passaggio indolore ad una nuova realtà, a una nuova “artificialità naturale”, tematica e che ha molto in comune con la nuova carne del cinema mutageno di David Cronemberg, col cyborg di Donna Haraway, e con i post umani di Bruce Sterling ne La matrice spezzata. In Transpermia. Panspermia inversa (2003) Antùnez, come già in Afasia, sostituisce il keyboard con il dressskeletron o esoscheletro, una protesi elettromeccanica, vero prolungamento protesico della sua corporeità recuperando grazie al programma Midi Reactor, funzioni organiche non più limitate alla vista e al tatto, potendo suonare con il suo corpo e modulare la voce, animare immagini  e disegni che mostrano ironiche ipotesi di interfacce e robot da usare nel quotidiano per identità sempre mutanti. Il performer (“uomo-orchestra” come lo ha definito incisivamente Carlo Infante che ha seguito sin dagli esordi i lavori dell’artista catalano) controlla così suono, immagine multimedia, videocamera in tempo reale, sequencer MIDI poiché il suo esoscheletro è in realtà una piattaforma che gli permette di connettere insieme e gestire una molteplicità di programmi, facendo di se stesso, un’interfaccia delle interfacce. Questi esempi affermano la centralità dell’attore quale fulcro vitale dell’esperienza scenica e mostrano una nuova ricerca teatrale  che prende come punto di partenza l’interprete, il cui corpo-interfacciato permette di far funzionare l’intero spettacolo; il nuovo cyber-attore torna ad assumere i connotati della Supermarionetta profetizzata da Craig,  dell’”uomo-architettura ambulante” ovvero adeguata alle leggi dello spazio cubico ambientale di Oskar Schlemmer ed infine dell’attore biomeccanico mejercholdiano per il quale “il corpo è la macchina e l’attore il meccanico”(A.Pizzo, p.132;  N. Savarese, 248-262).

Frontiere futuribili si intravedono per un nuovo teatro on line già esplorato dai navigatori della grande rete mondiale in occasione di alcuni eventi globali di hyperdrama e virtual drama (L.Gemini, p.136-137):#hamnet,1993 degli Hamnet Players, la prima performance realizzata via Internet attraverso il canale Internet Relay Chat; Clicking for Godot del DeskTop Theatre; Connessione remota , 2001 realizzata contemporaneamente on stage e on line con l’attivazione di una webcam e dialoghi in chat e Webcam teatro (2005) che utilizza le cosiddette webcommunity, entrambi progetti di Giacomo Verde. L’idea di una performatività deterritorializzata, estesa a vari canali per sperimentare diversi luoghi anche immateriali della comunicazione (senza fondamenta e smisurati, come nel caso delle opere nelle architetture del cyberspazio) e diverse modalità di partecipazione, ha alcuni precedenti significativi: Telenoia di Roy Ascott del 1992, performance mondiale durata 24 ore che connetteva attraverso tutte le tecnologie della comunicazione dell’epoca, bbs, fax, videofono, teletext, artisti che si scambiavano poesia, musica e immagini a cui fece seguito un anno dopo La lunga notte, concerto radiofonico in simultanea interattiva ideato da Roberto Paci Dalò-Giardini Pensili. E soprattutto The CIVIL warS: a tree is best measured when it is down di Robert Wilson, spettacolo kolossal ideato per le Olimpiadi di Los Angeles del 1984 in cui l’utopia di opera totale si trasfigurò in una composizione seriale di lirica, danza, cinema, pittura da dilatare (anche attraverso l’universo della diretta televisiva via satelite) in cinque paesi diversi del globo in sintonia temporale, progetto -realizzato solo parzialmente-che sfuggiva decisamente alla scena tradizionale e ai suoi tempi.

La rete intesa anche come potenziale teatro della protesta e della nuova disobbedienza civile, come luogo di un nuovo rekombinant e tactical theatre: si tratta del pensiero del collettivo statunitense Critical Art Ensemble e dell’Electronic Disturbance Theatre di Ricardo Dominguez, punti di riferimento della comunità artistica digitale mondiale e che si ispirano per le loro oper’azioni performative attraverso la rete, al Living theatre e al movimento situazionista. Le loro azioni (sit in virtuali, scioperi della rete) rientrano nell’ambito del cosiddetto hacktivism, etichetta usata per definire pratiche di attivismo, sabotaggio e controinformazione attraverso le nuove tecnologie. Il vero interrogativo, al di là dei generi e dei canali usato è: può il teatro -anche quello che usa le tecnologie più nuove – mettere in discussione modelli, sistemi, poteri? Brecht è ancora attuale? E’ proprio Brecht nei testi relativi alla Radio (1927-1936) ad aver intuito che il problema stava nell’appropriazione e nell’epicizzazione del mezzo, nel totale controllo espressivo da parte dell’artista -e della voce collettiva  che si nasconde dietro di lui- dello strumento tecnico e della nuova concezione dell’arte che supera la separazione tra “produttore” e “consumatore”.

Quello che tarda a emergere: il teatro a rischio di virtuale. Saggio di Didier Plassard
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Pubblicato sul primo numero della rivista  Prospero European Review  novembre 2010

Lechy Elbernon:  […] Il teatro. Lei non sa cosa sia?
Marthe:  No.
Lechy Elbernon:  C’è un palco e una sala. Poiché tutto è al chiuso, le persone vengono là di sera e stanno seduti su file di sedie gli uni dietro agli altri, guardando.
Marthe:  Cosa? Che cosa guardano, visto che tutto è chiuso?
Lechy Elbernon:  Guardano il sipario,  e quello che c’è dietro quando è sollevato. E succede qualche cosa sul palco, come se fosse realtà.
Marthe: Ma non lo è!  È come un sogno che si fa quando si dorme.
Lechy Elbernon:  È così che vengono al teatro la notte.

Paul Claudel [1].

 Presenterò qui solo il cantiere di una riflessione in corso, formulando alcune ipotesi che dovranno essere progressivamente verificate ed approfondite. Quello di cui mi propongo di parlare, è il difficile emergere del ” teatro virtuale “, cioè di quello che è descritto spesso come un ritardo delle arti della scena ad integrare questo campo di sperimentazione tecnica ed artistica che si chiama realtà virtuale. Ritardo tanto più stupefacente considerando che l’arrivo delle nuove generazioni di artisti, che hanno familiarità sin dall’infanzia o dall’adolescenza con l’informatica e con la rete, non ha prodotto un investimento importante in questo campo della creazione teatrale. Vorrei analizzare quali sono le ragioni di questo ritardo, se ritardo c’è, prendendo in considerazione certi malintesi che secondo me si manifestano in questa attesa, così come le direzioni prese da alcuni artisti teatrali e delle compagnie che, malgrado tutto, operano in questo campo da più di quindici anni.

 Ma, prima di tutto, non sarà inutile capirsi su alcune definizioni preliminari. Quella di realtà virtuale, innanzitutto.

Ciò che si chiama realtà virtuale non è, in effetti altro che la ricerca dei mezzi grazie ai quali gli oggetti digitali, creati o trattati da un computer, possono smettere di apparirci unicamente come delle immagini eventualmente corredate di effetti sonori, cioè per i soli canali sensoriali della vista e dell’udito. In questo momento si punta essenzialmente al nostro senso del tatto, anche se si possono immaginare altri sviluppi. Due sono dunque le direzioni esplorate: l’effetto di rilievo e quello di profondità, attraverso la simulazione di una terza dimensione dello spazio; e l’effetto di resistenza o di risposta, con la simulazione di un peso, di una materia, di un’interazione. La realtà virtuale comincia quando ciò che è solamente il risultato di calcoli, e che tutto al più si presenta abitualmente sotto forma di un’immagine sonorizzata su un schermo, ci dà l’illusione sia di un oggetto materiale, sia di un essere vivente vero (un ” avatar”), o di un ambiente concreto all’interno del quale possiamo spostarci. Questi effetti sono ottenuti generalmente, per ciò che riguarda la vista, attraverso dei visori, schermi in miniatura a cristalli liquidi o da televisori posti davanti agli occhi, e montati su occhiali o caschi detti “head mounted display”; e, per il tatto, con guanti speciali (“data gloves”) che danno alla mano l’illusione di impadronirsi di un oggetto e di manipolarlo.

La definizione di arte digitale:

Questa definizione, che si adopera a proposito di ogni creazione artistica generata rielaborata o dai computer, si riferisce oggi a innumerevoli collezioni di opere d’arte visiva, musicale, cinematografica, senza dimenticare le molteplici combinazioni di queste arti. Nel campo del teatro, mi sembra che  le produzioni che si sono messe in evidenza in questo campo si possano raggruppare attorno a due grandi direzioni:

-o il teatro diventa digitale con il trattamento informatico della rappresentazione, dando l’illusione della presenza del corpo, di oggetti e di spazi  creati da computer,

o il teatro diventa digitale attraverso il trattamento informatico dell’interpretazione, facendo dell’attore un’interfaccia  ( per esempio grazie al processo di cattura del movimento, agendo sulla rielaborazione di certe sorgenti di dati, banche di immagini o di suono).

Molti contributi scientifici, articoli o tesi dedicate alle relazioni tra le arti della scena e le nuove tecnologie, evocano una terza direzione: quella di creazioni, fatte da uomini di teatro o da coreografi, unicamente accessibili su supporti elettronici (CD-ROM, DVD, siti Internet, ecc.). Mi sembra impossibile seguirli su questo punto; se si vuole considerare che un film teatrale[2] (per esempio Il Mahabharata di Peter Brook, secondo la sua messa in scena) o di danza  (come Mammame de Raul Ruiz, con la coreografia di Jean-Claude Gallotta), non è, per l’esattezza, né un spettacolo di teatro né di danza, ma piuttosto la sua riscrittura in un altro dispositivo artistico, questo non può essere il caso di opere che esistono solamente per gli utenti disseminati, ciascuno restante davanti allo schermo del suo computer o del suo smartphone. Tali produzioni – quelle di Laurie Anderson[3] o di Wooster Group[4] per esempio –  poiché sono destinate a un uso individuale nella sfera privata, inventano dei dispositivi estetici che hanno evidentemente una loro piena legittimità, ma che sono collocabili in un campo diverso da quello delle arti sceniche.

Si tratta dunque, solamente di adattamenti di opere teatrali o coreografiche, che propongono un altro tipo di esperienza rispetto a quella dello spettatore di una rappresentazione pubblica – la prima differenza è quella dell’azione effettiva che devono compiere gli utenti di queste creazioni elettroniche per scoprirne tutte le potenzialità, questione sulla quale ritornerò più tardi.


Una realtà che si cancella.

Fatte queste premesse, stabilite queste distinzioni, vorrei ora precisare l’idea, rievocata all’inizio di questo testo, del difficile emergere di un’arte scenica che mette in campo effetti di realtà virtuale. Sono molte le considerazioni infatti, che rischiano di creare una frattura tra il teatro e la sua epoca, se non si decide di integrare diversamente le nuove tecnologie; non semplicemente per esempio, integrandole con le proiezioni di immagini, ormai così frequenti nelle messe in scena odierne.

 Franck Bauchard, per esempio, scriveva una dozzina di anni fa :

Nel momento in cui, entrando in un’éra cibernetica, gli artisti si sono confrontati con nuovi contesti culturali e tecnologici, con nuove pratiche degli spettatori e con nuove attrezzature, il teatro si afferma come un spazio sacralizzato che resiste alle evoluzioni portate dall’éra digitale. La relazione che si stabilisce in altre arti tra gli sviluppi tecnologici ed il cambiamento estetico è oggi, priva di significato per il teatro? Se il teatro è un prisma attraverso quale lo spettatore può accedere alla realtà, come può dar conto delle nuove percezioni dello spazio e del tempo che corredano il virtualizzazione del mondo? Diventando un luogo dove si mantengono intatte le forme tradizionali della rappresentazione, il teatro ci porge degli specchi che riflettono una realtà che si cancella.” [5]

 La natura assoluta di queste affermazioni non è dissimile da quelle che possono essere trovate nei  manifesti modernisti all’inizio del XX secolo. Mi permetto qui di formulare un dubbio: qualsiasi cambiamento tecnologico importante non ha sempre la vocazione di tradursi letteralmente sul palco. E quando lo fa, forse bisognerebbe considerare queste procedure di integrazione come un momento, un passo nel processo di familiarizzazione di una società con questi nuovi ambienti. In questa prospettiva, la domanda di integrazione, sulle scene contemporanee, di tecniche e di immaginario propri della realtà virtuale, potrebbe essere paragonata agli esperimenti futuristi o costruttivisti di teatro-aereo, le danze delle macchine, gli attori robotici delle scene «magnetiche» o “elettromeccaniche” negli anni Venti: quella fu allora, l’espressione di un momento di crisi delle rappresentazioni, crisi determinata anche da altri fattori, specialmente estetici [6], e non l’entrata in una nuova éra della scena, che si sarebbe così finalmente adattata alla modernità urbana ed industriale.

 Ma c’è un altro sintomo, ancora più rivelatore che le dichiarazioni militanti: l’aumento molto impressionante, negli ultimi anni, di creazioni classificate come  esperimenti di “teatro virtuale”. Nella sua tesi di dottorato scritta nel 2005, Clarisse Bardiot osservava come questa espressione, che provoca un notevole entusiasmo, riunisce però realtà le più disparate. Basandosi sulle richieste fatte con il motore di ricerca Google, la Bardiot concludeva:

«Mentre nell’aprile 2003, le ricerche di “Teatro virtuale” e “virtuale + teatro” davano  5 050 e 483.000  risultati, nel febbraio 2005 erano rispettivamente 23 000 e 2 700 000.» In francese, le richieste di “Teatro virtuale” e “Teatro + virtuale” davano 67 e 110 risultati nell’aprile 2003 e 3.410 e 144.000 nel febbraio 2005. Nell’analizzare i risultati ottenuti nelle prime pagine, si può osservare che l’espressione comprende oggetti molto vari. Ecco alcuni esempi: panorama a 360 ° di luoghi reali, dispositivo immersivo, metodo di cattura del movimento in tempo reale per animare i personaggi in 3D, rappresentazione mentale, piéce teatrali filmate e disponibili su Internet, siti di appassionati di teatro, modalità di collaborazione a distanza (videoconferenza), rappresentazioni teatrali che utilizzano sistemi di telepresenza, performance teatrale che combinano attori virtuali con attori reali, drammi interattivi che coinvolgono personaggi dotati di comportamenti autonomi, scenografie che utilizzano realtà virtuale… “[7]

 Quattro anni più tardi, nel maggio 2009, la stessa ricerca dava, per l’inglese , rispettivamente 23 100 e 101 000 000 risposte, 1.810 e 18 300 000 in francese – e, come era prevedibile, questa disparità non ha fatto che aumentare. Si noti, tuttavia, che nel febbraio 2010, scendono a 20.700, 6 380 000, 6970 e 725.000, il che ci ricorda in primo luogo la grande instabilità delle risorse disponibili su Internet e in secondo luogo la semplice evidenza che tutta la storia non è necessariamente cumulativa: lo sviluppo delle pratiche non è fatto da semplici aggiunte, ma secondo movimenti di  flusso e riflusso di difficile interpretazione. La fortuna di questa espressione  (teatro virtuale) appare comunque significativa, il che testimonia l’importanza delle aspettative in quest’area: ancor prima di materializzarsi in realizzazioni incontestabili, ‘Teatro virtuale’ è l’espressione del desiderio di vedere materializzarsi sul palco teatrale quei simulacri elettronici che incontriamo nella vita: nei molteplici usi del nostro computer e della rete, nelle mostre e installazioni di arti plastiche e ovviamente anche anche nel cinema. E questo desiderio, di per sé, ha un senso.

 Le produzioni che, sulla base delle precedenti definizioni, possiamo avvicinare al “Teatro virtuale” sono in realtà molto meno numerose. Possono anche essere deludenti e soprattutto la complessità delle procedure attuate non sempre è facilmente percepibile. È difficile, ad esempio, per gli spettatori della messa in scena di Jean Lambert-Wild di Orgia, di Pasolini (2001), stabilire un preciso collegamento tra lo spostamento e le evoluzioni delle strane creature che galleggiano come senza peso intorno attori e i segnali involontari emessi dagli attori:

 ‘”Tre attori interpretano Orgia, piéce di Pasolini messa in scena a Belfort da Jean Lambert-wild. Ma non sono soli sul palco. Intorno a loro galleggiano, in alcuni momenti, degli strani esseri: gli Apharias, che presentandosi in grappoli, evocano le bolle di sapone; gli Hyssards, molto più voluminosi, hanno una forma decisamente fallica. Queste creature traslucide, che non sono altro che proiezioni in tre dimensioni, hanno il nome generico di Posydones e sono state ispirate da organismi viventi sul fondo degli oceani. Dei sensori, collegati alla pelle degli attori, registrano  i ritmi cardiaci e respiratori, le variazioni di temperatura. Il comportamento dei  Posydones, i loro movimenti, dipendono direttamente da emozioni umane. “[8]

 Ma per questa integrazione effettiva di realtà virtuale all’interno di una scena teatrale, quante denominazioni fuorvianti. Soprattutto, quanti realizzazioni che non rientrano nell’ambito delle arti sceniche, ma piuttosto in quello delle arti plastiche, perché  in realtà si tratta di installazioni destinate a visitatori (ad esempio, il Salone delle ombre di Luc Courchesne, 1996). E, più spesso ancora, quante messe in scena che, battezzate come ‘Teatro virtuale’, in realtà offrono un’esperienza che rientrano nell’ambito delle attività ludiche piuttosto che di quelle artistiche: chat con avatar visive su Internet [9], questionari messi online prima di una rappresentazione teatrale [10], flash mob [11], ecc.

 

 

Due regimi della relazione col pubblico

 Perché, dunque, questo ritardo ad emergere in piena visibilità con realizzazioni indiscutibili, nonostante le alte aspettative? E, poiché alcune di queste creazioni esistono dalla metà degli anni Novanta, perché continuano a essere così  spesso confuse, anche negli studi accademici e nelle pubblicazioni specializzate, con attività che rientrano in altri settori della vita sociale?

L’ipotesi che formulerei è che questo ritardo nasce dalla difficoltà di articolazione di due regimi molto diversi di relazione col pubblico. Riflettendoci, infatti, e anche se regolarmente viene detto il contrario [12], mi sembra che l’orizzonte di ricerca impegnato nel campo della realtà virtuale è difficilmente compatibile con i protocolli della rappresentazione teatrale, per quanto queste possano essere di vario tipo. Possono essere identificate tre aree confliggenti tra questi due regimi:

 – l’opposizione tra dispositivo immersivo e dispositivo spettatoriale: il teatro, emancipandosi dal  rito, dalla festa o dai giochi, è costruito sul distacco, condizione primaria della percezione estetica; siamo così passati da spettacoli cosiddetti «di partecipazione» a rappresentazioni teatrali davanti ad un pubblico.

 – l‘opposizione tra percezione multisensoriale e dominazione del vedere e del sentire: lo sforzo degli ideatori di realtà virtuale di far toccare con mano oggetti digitali, li allontana dal modello teatrale, sia che questo sia a base a base testuale, musicale o spettacolare.

 – l’opposizione tra dispositivo interattivo e riserva (che non vuol dire passività) dello spettatore, che assiste la rappresentazione di un evento senza agire direttamente su di esso.

 Anche se gli specialisti di nuove tecnologie evidenziano le molte creazioni che hanno usufruito, soprattutto nella seconda metà del XX secolo, di momenti di partecipazione effettiva del pubblico o del suo coinvolgimento nell’azione scenica o coreografica [13], resta il fatto che l’esperienza diretta, continua e quasi allucinatoria di un ambiente in cui è possibile agire fisicamente, cancella la distanza necessaria alla percezione di un’opera d’arte. E, cosa più importante, questa stessa esperienza rompe il patto teatrale, per cui, al contrario del soldato di Baltimora da Stendhal, io mi freno ad intervenire nello svolgimento dell’azione drammatica:

 “L’anno scorso (agosto 1822), il soldato assegnato all’interno del teatro di Baltimora, vedendo Otello che, nel quinto atto della tragedia con quel nome, aveva intenzione di uccidere Desdemona, esclamò:”Non sia mai detto che in mia presenza un dannato Negro uccide una donna bianca”.” In quel momento il soldato spara un colpo di fucile e rompe il braccio all’attore che impersonava Otello. “[14]

 Non è quindi sorprendente che le arti sceniche stiano ancora lottando per integrare i processi della realtà virtuale, o che alcune delle realizzazioni in questo campo siano un po’ deludenti. Se possiamo ritenere, con Franck Bauchard, che il teatro deve effettivamente “dare conto delle nuove percezioni dello spazio e del tempo che accompagnano la virtualizzazione del mondo”, la difficile emergenza di un ‘Teatro virtuale’ probabilmente non deriva dalla volontà che avrebbe questa arte di essere definita come “uno spazio sacralizzato [resistente] agli sviluppi portati dall’era digitale” [15] ma piuttosto da questo divario primario, fondatore, tra l’attività di spettatore e l’attore o il personaggio che interpreta.

 Il che mi porta a questa prima conclusione: per far si che si mantenga nel campo dell’arte teatrale, l’integrazione di realtà virtuale deve essere sul palco, non in sala. È necessario che l’immersione e l’interattività, entrambe caratteristiche fondanti dei mondi virtuali, rientrino sulla scena per diventare uno spettacolo di immersione, uno spettacolo dell’interattività tra l’attore e il suo ambiente. Ovviamente, questo non significa che i dispositivi di realtà virtuale implementando il processo di immersione e di interazione con il pubblico, non possano dar luogo ad applicazioni artistiche: lo fanno invece, da molto tempo, in particolare nel campo delle arti visive o della musica. Ma queste applicazioni sono a mio avviso di un ordine di esperienza intermediaria, vicine alla performance, e che non possono definirsi ‘Teatro virtuale’ senza provocare equivoci: è l’approccio, per esempio, che seguono un Stelarc o un Marcel.lí Antúnez Roca quando, attraverso un esoscheletro, o qualsiasi altra forma di interfaccia, permettono al pubblico di dirigere i loro movimenti del corpo.

 Alcuni vincoli tecnici

Inoltre, la realtà virtuale, anche se è oggetto di approfondite ricerche da vent’anni, si scontra sempre con vincoli tecnici che rendono difficile l’integrazione nel dispositivo teatrale, se si tiene in mente che questo richiede la raccolta di un pubblico di fronte ad una rappresentazione scenica, dato un luogo e un tempo. Infatti, visivamente, la percezione estesa della realtà virtuale, cioè l’impressione completa di profondità e rilievo, può essere creata solo tramite apparecchi tecnici individuali.  Gli spettatori, anche se sono tutti accessoriate con questi ‘visori’ (in particolare per Wings di Arthur Kopit regia di Ronald A. Willis e Mark Reaney, 1996), si ritrovano quindi separati l’uno dall’altro. Vedono tutti insieme lo spettacolo, come il  pubblico di un cinema, ma non si vedono vederlo; percepiscono se stessi, non tanto come parte integrante di una comunità attraversata  da stesse emozioni e stessi significati, esperienza fondatrice per lo spettatore, come  già notato da Schiller [16]. Pertanto, una dimensione essenziale della relazione teatrale, quella della condivisione sensibile di un’esperienza in tempo reale, viene atrofizzata.

 Quindi l”uso più frequente è quello di ricorrere a forme intermedie, quasi introduttive, di materializzazione della realtà virtuale. Se l’accento è posto sul lato di interattività, i dati digitali su cui agiscono gli attori (ad esempio muovendosi) danno luogo, visivamente, ad immagini proiettate su uno o più schermi: è quello che fanno Toni Dove in Spectropia (2007), Mark Reaney Dinosaurus (2001) o  Marcel.lí Antúnez Roca nelle “performance mecatroniche”  che realizza in Epizoo (1994). Se invece è privilegiato l’effetto di immersione, le immagini create o rielaborate dal computer sono proiettate su diversi schermi trasparenti, collocati a profondità variabili sulla scena, in modo da dare la sensazione che gli attori siano immersi in un universo fantastico, circondato da creature immateriali. Queste sono le soluzioni adottate da Jean Lambert-wild in Orgia di Pasolini (2001), o in maniera più complessa da Michel Lemieux e Victor Pilon, Denise Guibault per La tempesta di Shakespeare(2005). L’effetto risultante non è quello di un mondo compatto, omogeneo, ma di uno spazio lamellare, all’interno del quale coesistono e interagiscono i diversi livelli di realtà, diversi registri di presenze, come ci hanno abituato da molto tempo i processi di integrazione delle proiezioni di film o video sulla scena teatrale. Qualunque siano le prodezze tecniche messa in opera, che portano, in particolare ne La tempesta, all’invisibilità del supporto tecnico per le proiezioni, si tratta di dare agli spettatori non tanto la sensazione di un universo virtuale ma quanto quello di una ‘realtà aumentata’, cioè un ambiente instabile, derivante dall’ibridazione di mondo fisico e oggetti digitali.

 Un secondo vincolo, più difficilmente superabile, sta nelle difficoltà che provano gli attori all’interno di questi spazi ibridi, dove non possono percepire dal palco, gli elementi virtuali che li circondano e con cui essi dovrebbero  interagire (per esempio negli allestimenti di R. A. Willis e M. Reaney per Wings di Arthur Kopit e per Adding Machine di Elmer Rice, 1994; ma anche, in una certa misura, in Orgia dove gli interpreti furono costretti ad una quasi totale immobilità). Ovviamente il problema non è nell’obbligo di recitare con oggetti e partner immaginari, che è una delle basi della formazione dell’attore, ma nel fatto che l’esistenza di questi oggetti e questi partner, lungi dall’essere creati dall’immaginazione dello spettatore attraverso la recitazione dell’attore sulla scena, si materializza in forme contemporaneamente visibili al pubblico e invisibili per l’interprete. Anche se si potrebbe paragonare questa situazione a quella di un attore di cinema, costretto anche lui a trattare con elementi inesistenti al momento delle riprese [17], il paragone non è convincente: davanti alla cinepresa, si recita per la durata di pochi piani, non il tempo di una rappresentazione intera; e per diverse inquadrature tra cui sarà possibile scegliere, non davanti a un pubblico.

 

Nuovi spettri

 L’effetto di ibridazione che ho citato in precedenza, spesso porta gli artisti a dare priorità, in produzioni dove si usano tecniche di realtà virtuale, alla rappresentazione di mondi immaginari: ricordi e sogni (in The Adding Machine e Wings), fantasie di ogni genere (per Marcel.lí Antúnez Roca), emozioni legate al desiderio (in Orgia messa in scena da Jean Lambert-wild), magia (ne La tempesta o nella messa in scena del Flauto magico di  Del Unruh e Mark Reaney, 2003), splendida spettacolo destinato ad un pubblico giovane (Dinosaurus di Patrick Carriere e Mark Reaney 2001), fantasy e fantascienza (Spectropia di Toni Dove). Spazio fantasmagorico, la scena si popola di creature strane, impalpabili, venute da altri dimensioni della realtà. Non è quindi nella sua dimensione illusionista, come un territorio concorrente al mondo fisico, che la realtà virtuale trova il suo posto nelle arti dello spettacolo, ma piuttosto come agente di incertezza: scena “aumentata”, naturalmente, ma forse meglio ancora incrinato, “disgiunto” (“out of joint”, dice Amleto), come se lo spazio-tempo della rappresentazione si spaccasse all’improvviso per far sorgere nuovi spettri.

Perché  non si fanno comparire sulla scena, senza mettere in discussione potentemente il mondo in cui viviamo, degli esseri che, come sognavano gli androidi di Maeterlinck, «hanno le apparenze della vita senza vita»: il teatro che ne deriva non è quello che permette un semplice allargamento dei confini della nostra percezione, come si è detto spesso, ma una generale ridistribuzione delle carte del reale e l’immaginario. Non è indifferente, in questa prospettiva, che queste apparizioni coinvolgono creature zoomorfe ispirate dalle forme di vita più primitiva che vivono nelle profondità oceaniche (Orgia), animali preistorici (Dinosaurus), figure mostruose uscite da un manuale di teratologia (per Marcel.lí Antúnez-Roca), mobili nei quali si aprono bocche, come nelle creazioni di un moderno Jérôme Bosch (Spectrotopia), facce fluttuanti nello spazio (il flauto magico), corpi e testi che  diventano gigantesche o minuscole (The Adding Machine, Spectrotopia, La tempesta).

 Allo stesso modo, probabilmente non è solo difficile compatibilità della rappresentazione teatrale e del ricorso a “visori” individuali che conduce al reflusso progressivo degli esperimenti che mettono in gioco, intorno gli attori, un ambiente scenografico virtuale: è anche l’attenzione di questi approcci artistici attorno alla questione dell’incarnazione teatrale, cioè modelli di figurazione e della posizione dell’essere umano. Solo il rapporto del teatro con i mondi immaginari, infatti, può essere veramente arricchito dal contributo della realtà virtuale: sia quando questa fa apparire, a fianco di attori fisicamente presenti sulla scena, creature intermedie, che sembra il caso più delle volte esplorato oggi; sia quando questi interpreti virtuali fanno retrocedere la figura umana sino ali limiti dell’estraniamento, che è proprio quello che esplorano le ‘ figure fantasmagoriche” di Denis Marleau (I tre ultimi giorni di Fernando Pessoa, Antonio Tabucchi, 1997; I ciechi di Maeterlinck, 2002) e Zaven Paré (Théâtre des Oreilles da Valère Novarina, 2001).

 Se il sogno di un ‘Teatro virtuale’ tarda a materializzarsi, nel senso di esibizioni pubbliche che coinvolgono, all’incrocio delle loro definizioni più esigenti, l’arte del teatro e le tecniche di realtà virtuale, non è per colpa della mancanza di spazio per investire, ma piuttosto a causa del difficile adeguamento di due mondi quasi antitetici, e che non possono fecondarsi l’un l’altro se non rinunciando ciascuno alle proprie ambizioni singolari : la scena a definirsi principalmente grazie alla presenza fisica dell’attore; la realtà virtuale, a proporsi come un equivalente di questa presenza fisica. Paradossalmente è nel interstizio aperto dagli effetti molteplici della derealizzazione dell’azione scenica, mi sembra, che potrebbe emergere un teatro dell’epoca digitale.

 Extraicts du spectacle

Note

[1] Paul Claudel, L’Échange, Théâtre, vol. 1, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris, 1967, p. 676.

[2] Cfr. Béatrice Picon-Vallin (dir.), Le Film de théâtre, CNRS Éditions, Paris, 1995.

[3] Laurie Anderson / Hsin-Chien Huang, Puppet Motel, CD-rom Multimedia, Gallimard, 1995.

[4] Zoe Beloff / The Wooster Group, Where where there there where, CD-rom multimédia, Electronic Arts Intermix, 1998.

[5] Franck Bauchard, «Théâtre et réalité virtuelle: une introduction à la démarche de Mark Reaney», in B. Picon-Vallin (a cura di), Les Ecrans sur la scène, Lausanne, L’Age d’homme, 1998, p. 225.

[6] Cfr.: Didier Plassard, L’Acteur en effigie, Figures de l’homme artificiel dans le théâtre des avant-gardes historiques, L’Âge d’Homme, Lausanne, 1992.

[7] Clarisse Bardiot, Les Théâtres virtuels, tesi di dottorato sotto la direzione di Béatrice Picon-Vallin, Université Paris III, 2005, vol. 1, p. 7.

[8] René Solis, Libération, 9 febbraio 2001.

[9] Vedi l’attività del Desktop Theater: http://www.desktoptheater.org/

[10] Il était Xn fois, spettacolo del progetto Virthéa presentato a Brest nel 2009 dalla compagnia Derezo.

[11] Cfr.: C. Bardiot, Théâtres virtuels, p. 193.

[12] « L’art du théâtre a beaucoup en commun avec le phénomène de la réalité virtuelle (RV). Une représentation théâtrale et une expérience de RV sont toutes les deux basées sur le temps, n’existent que pendant la durée où les participants humains y sont engagés. Tous les deux se basent sur la création d’un univers fictif pour distraire, informer, éclairer » (Mark Reaney, « Théâtre et réalité virtuelle : un art en temps réel », conferenza del 24 mars 2000 a CIREN, Université de Paris 8, testo disponibile sul sito:  http://www.ciren.org/ciren/conferences/240300/index.html).

 [13] Cfr. per esempio Frédéric Maurin, « Devant / dedans », Les Cahiers de médiologie, n° 1 (La Querelle du spectacle), Gallimard, Paris, 1996, pp. 83-91.

[14] Stendhal, Racine et Shakespeare, Paris, Kimé, 1994, p.22.

[15] Franck Bauchard, « Théâtre et réalité virtuelle : une introduction à la démarche de Mark Reaney », in Béatrice Picon-Vallin (dir.),Les Écrans sur la scène, L’Age d’homme, Lausanne, 1998, p. 225.

[16] Cfr.: Friedrich Schiller, « La scène considérée comme une institution morale », Mélanges philosophiques, esthétiques et littéraires, Hachette, 1840, pp. 385-386.

[17] E’ nota la posizione di Lance Gharavi, assistente di Mark Reaney per Wings: cfr.: Ozana Budau, «L’Acteur dans le théâtre virtuel», http://www.groundreport.com/Arts_and_Culture/ACTING-IN-VIRTUAL-THEATRE-LActeur-dans-le-theatre-/2834465

 Didier Plassard, longtemps professeur de littérature comparée et d’études théâtrales à l’université Rennes 2 - Haute Bretagne, (où il a fondé le Département Arts du spectacle),  est aujourd’hui professeur en études théâtrales à l’université Paul-Valéry Montpellier 3. Il a publié L’Acteur en effigie (L’Age d’Homme, 1992, Prix Georges-Jamati), Les Mains de lumière (Institut International de la Marionnette, 1996, rééd. 2005), des traductions, et plus d’une centaine d’articles dans des périodiques (Alternatives théâtrales, Études théâtrales, L’Annuaire théâtral, Puck , Théâtre / Public, Théâtre S) ou des ouvrages collectifs. Il prépare un volume collectif sur la mise en scène allemande contemporaine pour la collection des « Voies de la création théâtrale » aux Éditions du CNRS, et l’édition bilingue du Drama for fools / Théâtre des fous d’Edward Gordon Craig. Ses recherches portent sur de nombreux aspects de l’écriture théâtrale et de la scène contemporaines, mais aussi sur le théâtre des avant-gardes, le théâtre de marionnettes, les relations entre le théâtre et les images, etc. Il est par ailleurs membre du comité des lecteurs du Théâtre national de Bretagne (Rennes), chercheur du réseau théâtral européen Prospero et rédacteur en chef de la revue en ligne Prospero European Review – Research and Theatre.