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Robert Lepage alla ricerca della Lanterna magica
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Robert Lepage ci riprova con la scrittura collettiva. Dopo l’esperienza folgorante di Théâtre Répere degli anni Ottanta (La trilogie des dragons) e dei primi spettacoli anni Novanta firmati Ex machina (Le sept branches de la riviére Ota) in cui la drammaturgia era creata da un laboratorio di giovani attori-creatori di cui faceva parte anche la talentuosa Marie Brassard, Lepage oggi ritenta il lavoro di gruppo con Jeux de Cartes. Si tratta di una quadrilogia ispirata ai semi delle carte –e relative simbologie- e ai tarocchi, al cui studio Lepage si è dedicato con tanto di consulenza di Jodorowsky; il secondo episodio legato al seme di Cuori ha avuto il debutto mondiale in Europa, a Essen precisamente nelle aree ex industriali del distretto carbonifero di Zollverein in Renania all’interno del Festival diretto da Heiner Goebbels.

E’ uno degli spazi artistici non teatrali che avevano aderito al progetto 360° creato intorno a Jeux de cartes che, prevedendo una scenografia molto speciale e anomala, a pianta centrale, intende privilegiare spazi non tradizionali. Il primo episodio della quadrilogia, Pique era stato ospitato in un circo a Chalons en Champagne e a Londra in un ex gasometro. Ma se in Pique la scrittura a più mani aveva lasciato insoddisfatta la critica, non sempre generosa con Lepage, qua l’operazione trova una sua convincente ed efficace soluzione drammaturgica. Nell’incontro al Museo di Essen in occasione del debutto, Lepage ha parlato del difficile processo creativo che porta, dopo lunghe sedute di idee esposte collettivamente, da un canovaccio improvvisato alla formazione di un’idea teatrale convincente. La metafora del regista-vigile è quella preferita da Lepage, il quale rinuncia a ogni ruolo centrale e imperativo rispetto alla materia per preferire la strada più accidentata della creazione a più voci in cui lui cerca di “dirigere il traffico delle idee che passano”. In questo lavoro –che più del precedente rivela il suo debito con l’altro capolavoro assoluto a firma collettiva (Le sept branches de la riviére Ota)– gli elementi di base e probabilmente alcuni dei personaggi, erano stati già forniti da Lepage; la soluzione, come si vedrà, dell’intrusione di figure storiche note, legate alla tecnica, collegate a vicende attuali, ricorda il procedimento usato per Vinci (uno dei primissimi lavori) e per il “solo show” Andersen project.

L’ingranaggio della scrittura, con i destini dei suoi personaggi che si incrociano al momento opportuno, come i meccanismi di un vecchio orologio –che non a caso, è perfettamente riprodotto col suo quadrante nella verticale della scena- funziona straordinariamente bene. In questo nuovo lavoro ritroviamo il Lepage degli anni d’oro, come avrebbe detto Franco Quadri. Rintracciamo la forza dirompente delle sue storie nella trama ben ricamata e ricca di annodamenti imprevisti, punteggiata da molti personaggi tra passato e presente e che si estende in un cinquantennio abbracciando America, Europa e Africa; una fabula che lascia sempre più il posto a un intreccio libero di viaggiare avanti e indietro nel tempo, senza coerenza, seguendo piuttosto una logica cinematografica. Così si passa dal Québec di oggi, dove convivono vecchie lacerazioni e nuovi separatismi, all’Algeria di ieri, quella della guerra di indipendenza dove un Fronte di Liberazione Nazionale combatte contro la Francia e gli ultimi retaggi del colonialismo.

In mezzo alla grande Storia le memorie di resistenti, quei partigiani che hanno combattuto valorosamente o coloro che hanno vissuto clandestinamente o attraversato illegalmente i confini e sono arrivati sino in Québec, nascondendo la loro vera identità persino a figli e nipoti. Memorie di torture, quelle stesse raccontate nel terribile libro di Henri Alleg, direttore della rivista d’opposizione “Alger républicain”, perseguitato e imprigionato dai francesi. La storia nella finzione teatrale va all’indietro, come un flashback filmico, ma senza regole, in una continua persistenza della memoria che sembra segnare profondamente le vite degli uomini di oggi. In questo sguardo à rebours si incontrano sulla scena: il pioniere della fotografia Nadar nel suo viaggio ad Algeri mentre immortala il giovinetto seduto sulla banchina del porto e mentre vola con palloni aerostatici, l’illusionista e prestigiatore francese Robert-Houdin, e il “cinematografista” George Meliès anche lui specialista di illusioni magiche e di visioni ineffabili.

L’elettricità che darà vita alla modernità è la stessa usata dagli aguzzini contro i corpi dei prigionieri algerini. Incroci e destini di uomini, incroci e destini di macchine. La scatola dove spariscono per poi ricomparire subito, le giovani fanciulle in un pezzo di teatro leggero a Parigi, diventa un attimo dopo il pozzo dove gli uomini scompaiono, ma per sempre, per colpa della guerra e della vendetta. Tutto parte da un algerino di oggi in Québec, che al momento della morte del padre, vuole conoscere la sua storia, ripercorrendo le tracce del nonno, partigiano del FLN; un percorso che non sarà felice ma portatore di sventura poiché la memoria degli antichi odi è ancora viva. Le passioni e le fedeltà, come per i tarocchi rovesciati, possono rivoltarsi nel loro segno opposto e cambiare destini. La fidanzata, ricercatrice all’Università specializzata nel cinema delle origini, lo aspetterà invano, confortata dall’anziana madre di lui ma rifiutata dalla famiglia dopo aver sposato la religione musulmana. In questa storia, continuamente spezzata nella sua linearità di récit, si incastrano sia le vicende e le esibizioni di Robert-Houdin e il suo curioso approdo in Algeria, invitato da Napoleone III per mostrare le superiori abilità magiche alla popolazione locale ribelle, sia i famosi film di Méliès con le sparizioni “meccaniche” fatte con la tecnica della sospensione della ripresa, come la famosa “Escamotage d’une dame”. Méliès acquistò dalla vedova il Teatro di Robert-Houdin che ancor oggi esiste a Parigi di fronte al Castello di Blois e si specializzò in trucchi teatrali e cominciò a usare la lanterna magica e altri congegni di “ottica fantastica”.

Il teatro di Lepage trabocca di congegni antichi, ed è una scatola di invenzioni e attrazioni a disposizione di una storia. Così riviviamo dal vero il trucco della scatola magica di Houdin, con l’attrice che si colloca con bravura contorsionistica, dentro un angusto doppiofondo suscitando ancor oggi, vivo stupore nel pubblico che applaude sia il pezzo di magia che l’abilità dell’interprete teatrale. Come tipico della poetica del regista canadese, lo spettacolo si struttura sulla base di prestiti linguistici diversi, primo fra tutti il cinema. Se non facciamo fatica a individuare una vera e propria tecnica di montaggio nella strutturazione delle storie come vengono presentate ovvero, in una discontinuità di racconto, diventa quasi un’operazione filologica capire che il cambiamento di scena è assimilabile a una vera dissolvenza incrociata. Infatti talvolta i personaggi scompaiono ma gradualmente, rimanendo in scena anche in alcuni momenti delle azioni successive. La storia del cinema ci ricorda che questa tecnica di pre-montaggio fu usata per la prima volta proprio da Mèliés in Cendrillon (1899), una delle due versioni di Cenerentola. Si chiamavano vues fondantes, letteralmente vedute fuse.

Tutto avviene senza soluzione di continuità nello spazio di un palcoscenico girevole a pianta centrale con un sottopalco che contiene i meccanismi, gli elevatori, i trucchi del teatro e i manovratori della macchina, e la scena apparentemente spoglia che si trasforma continuamente grazie a botole che si aprono, tavoli che appaiono, veli che si alzano per proiettare paesaggi o dettagli di interni. Quello che Lepage crea per Jeux de cartes è un vero “teatro di magia”, tanto amato da Méliès e incarnato nella figura di Robert-Houdin e soprattutto dalla carta del “Mago” dei tarocchi, raffigurato tradizionalmente mentre solleva la sua bacchetta magica davanti al suo tavolo di lavoro. A questa carta degli Arcani maggiori è consacrato lo spettacolo.

Una straordinaria macchina-congegno mossa a mano che come sempre negli spettacoli di Lepage, è l’altro attore in scena. Un attore-automa. Gli interpreti nella loro doppia incarnazione di autori-attori ( Reda Guerinik, Ben Grant, Catherine Hughes, Marcello Magni, Olivier Normand, Louis Fortier, Nuria Garcia) e nelle loro molteplici maschere di personaggi, hanno dato vita a uno spettacolo che riesce a raccontare vicende drammatiche e appassionate insieme, lontane e vicine allo stesso tempo, come in un’unione degli opposti. Se, come ha ammesso lo stesso Lepage nell’incontro al Museo di Essen coordinato dal critico tedesco Renate Klett, la macchina al momento del debutto non era ancora perfettamente oliata, tutto fa pensare che la soluzione sia sul punto di essere trovata. Lepage ha sottolineato il piacere di aver ritrovato in questa modalità di scrittura collettiva, la forza e il valore di una ricerca che gli appartiene da sempre.

(crediti fotografici di Erick Labbé)

Visto al festival di Essen il 6 ottobre 2013

Jeux de cartes: intervista a Robert Lepage
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Pubblicato su Interactive-performance.it

Traduzione di Giancarla Carboni

Alla presentazione del progetto Reseau 360°, in occasione del debutto francese di Jeux de Cartes, fa gli onori di casa Philippe Bachman, direttore del teatro La Comete a Chalons en Champagne e anche progettista e ideatore della Rete. Bachman ricorda che sin dalla sua prima stagione nel 2005, aveva programmato Le Projet Andersen: in quell’occasione propose a Lepage di visitare il vicino circo costruito all’inizio dell’Ottocento, che oggi ospita la scuola nazionale delle arti circensi. Si tratta di uno spazio dove negli anni, sono stati programmati anche concerti e spettacoli tradizionali. Proprio durante una conversazione sugli spazi a pianta centrale, Lepage gli suggerisce alcuni spazi simili in Inghilterra (come la Roundhouse, che ospita concerti) e così inizia da parte di Bachman, una ricerca di altri luoghi aventi palcoscenici circolari nell’Europa dell’Ovest e dell’Est, spazi con origini diverse dal circo. 

Si arriva a una interessante mappa di edifici che si originavano dal patrimonio industriale o storico (come gasometri e cisterne d’acqua) riconvertiti in tempi recenti, a spazi per eventi. Questi luoghi molto particolari condividevano – a detta di Bachman – due caratteristiche: il fatto di essere isolati e a pianta centrale.

A questo punto Lepage prende la parola per raccontare, con umiltà e semplicità, la genesi del progetto teatrale vero e proprio. Sono diversi i “temi” affrontati dal regista canadese: la ricerca della forma, la scrittura drammaturgica come un continuo “non finito”, il “racconto in cerchio”, il richiamo al circo e allo show musicale ma anche ai match di improvvisazione e al teatro medioevale… E racconta cosa significa sentirsi “attore bidimensionale” like an Egyptian”.

 

La rottura della frontalità: il teatro degli anni Sessanta

L’idea di lavorare in uno spazio circolare mi interessava. Ho ripensato al teatro gli anni Sessanta, Settanta sino agli anni Ottanta. In quel periodo il teatro provava a rompere la quarta parete e la scena tradizionale lavorando anche in spazi circolari oppure faccia a faccia col pubblico. Si recitava spesso in luoghi industriali, insomma il teatro voleva liberarsi. Si era consolidato un vocabolario legato al vecchio teatro tradizionale all’italiana dal quale ci si voleva liberare: stile di recitazione, messa in scena, tutto era messo in discussione. Era in atto una rivoluzione che avrebbe cambiato le cose. Incastrato dentro una scena video-frontale, mi sono ritrovato come un’immagine “all’egiziana”. 

Negli anni Novanta il teatro comincia ad integrare sempre più spesso le immagini. La tecnologia era più disponibile, più malleabile, più accessibile. Si usava il video, si lavorava col bidimensionale e gli spettacoli erano diventati col tempo, prigionieri di questa forma. Anche io sono tornato a quello schema frontale di scena e mi sono ritrovato “come un’immagine all’egiziana”. Tutto questo era molto interessante e divertente, certamente si stava creando un nuovo vocabolario ma io mi sono sentito imprigionato in questa nuova dimensione. L’idea iniziale infatti, era quella di liberare la scena grazie al video, ma la cosa poi, è ricaduta in una sorta di immobilismo. Nei primi spettacoli, come  che era bi-frontale (le azioni si svolgevano di fronte e dietro uno schermo ndr), non ci si preoccupava necessariamente di quello che la gente vedeva o non vedeva, sentiva o non sentiva ma si cercava di trovare una chiave di recitazione che facesse arrivare la storia agli spettatori. Così mi sono ritrovato invece, nei miei spettacoli alla fine degli anni Novanta schiacciato come in una sorta di sandwich.

La scena a cerchio con Peter Gabriel: il ritorno alla teatralità 
Nel 2001 ho collaborato, per la seconda volta, con Peter Gabriel per il suo tour Growing up Live. Il palco era circolare e molto simile a quello di questo spettacolo. Nonostante non fosse uno show perfetto, mi aveva fatto ripensare all’idea di liberarmi del quadrato. Il solo modo di superare il problema di lavorare in un’area circolare, è quello di reinventarne il vocabolario. Quando c’è un gruppo che suona, si pongono dei problemi legati alla gestione dello spazio: per esempio, il chitarrista per chi deve suonare? Deve guardare il pubblico o altrove? Non era certo la prima volta che un gruppo rock suonava in uno spazio del genere, ma per me era la prima volta. Mi ponevo anche il problema del video: se non c’è uno sfondo o uno schermo, come si fa?
Mi piaceva molto l’idea del cerchio, il fatto che lo spettatore vedesse lo spettacolo e allo stesso tempo vedesse se stesso. Il pubblico guarda lo spettacolo, cerca di capire quello che succede ma allo stesso tempo vede l’eco della sua stessa reazione, si è consapevoli di far parte di una sorta di comunità. Mi sembrava che tutto ciò avesse una teatralità che io avevo perso nei miei spettacoli e avevo voglia di tornare a questo. 
Ho iniziato Jeux des cartes consapevole che sarebbe stato molto problematico lavorare in uno spazio circolare: trovare il livello di recitazione, decidere di recitare di fronte a solo una parte del pubblico ma necessariamente di spalle a qualcun altro, fare attenzione che il dettaglio sia visibile, che arrivi un’immagine molto precisa perché tutti la vedano e capiscano. Ma allo stesso tempo è questa la bellezza delle cose. E’ necessario mettersi in pericolo soprattutto a teatro, bisogna rischiare.

C’è una cosa che ho riscoperto dopo lo show di Gabriel e ancor più col Cirque du Soleil, (parlo dello spettacolo nel tendone dove non c’è uno spazio esattamente a 360° ma semicircolare, un po’ elisabettiano): l’idea che mi ha subito affascinato è che il pubblico vede la performance ma allo stesso tempo gli spettatori. Questo fa sì che il pubblico sia consapevole che si racconta una storia ma allo stesso tempo si crea anche una distanza.

Circolarità e verticalità: il circo, il teatro medioevale 
L’elemento che hanno in comune tutte queste esperienze è l’idea della verticalità. Quando il direttore del Cirque du Soleil mi chiese di collaborare con loro, mi disse che potevo fare ciò che volevo ma dovevo necessariamente sviluppare l’azione coprendo tutti i livelli dal suolo al soffitto. Mi disse che questa linea immaginaria verticale doveva essere il mio riferimento costante. Mi ha fatto capire una cosa importante e cioè che il circo è verticale, che quando si lavora su uno spazio circolare c’è necessariamente l’esigenza anche della verticalità.

 

Nel XX secolo siamo ossessionati dal cinema, dove l’immagine è orizzontale ed è la telecamera che si muove e ritrae l’uomo e il suo ambiente. Il teatro, al contrario lavora da sempre sulla verticalità. L’uomo è sulla terra, verso l’alto sono le sue aspirazioni, il suo dio, la sua morale.
Anche le storie da sempre erano scritte in quel senso: c’è l’uomo e in alto la sua volontà di crescere, le sue aspirazioni e la sua morale, più in basso il diavolo, l’inferno. Mi sono accorto che anche noi di Ex Machina, nel modo di raccontare le storie, avevamo eliminato il diavolo e dio (non ci chiamiamo infatti Deus ex machina ma solo Ex Machina dunque dall’inizio abbiamo eliminato la parola dio); volevo tornare a questo modo di raccontare le storie dove la verticalità ci forzava a ricongiungerci un po’ di più alla poesia, alla mitologia. Il cerchio insomma, ci ha messo di fronte a cose che non avevamo mai fatto, che non conoscevamo.
Per me è un’esperienza davvero molto ricca. Con l’organizzazione Reseau 360° e con Philippe è interessante discutere su cosa vuol dire lavorare in uno spazio circolare e che cosa vuol dire raccontare una storia in cerchio, quali sono i punti forti e quelli deboli, quali sono i vantaggi e quali i pericoli. Trovo che questo sia molto sano. In questo momento, non dico che le persone amino la facilità, ma c’è una sorta di accettazione degli standard industriali che dicono che tu devi raccontare una storia frontalmente, seguendo degli schemi fissi. Certo, ci sono quelli che lo fanno bene e quindi tanto meglio per loro, ma io amo complicare le cose!

Tecnici e attori dentro e sotto la scena 
Ci sono dodici persone che lavorano nello spettacolo tra attori e tecnici. Noi parliamo di tecnici ma si tratta di manipolatori che come con le marionette, muovono la struttura partecipando attivamente al racconto della storia. Si cerca con loro di capire come fare le entrate e le uscite in una struttura circolare. A partire dal momento in cui abbiamo cominciato a improvvisare, a esplorare le storie, gli attori suggerivano dei personaggi o delle situazioni e ci siamo ritrovati che erano dentro delle camere d’hotel. Allora ci siamo posti il problema di come rendere le quattro pareti delle camere; io amo molto gli ostacoli, amo molto i problemi e così proviamo varie soluzioni direttamente in scena. Prima dello spettacolo gli attori stanno almeno una ventina di minuti sotto il palco ad aspettare perché non possono entrare dopo gli spettatori, non possiamo vederli entrare. Gli attori hanno una sorta di volontà elastica per fare il vuoto nella mente e aspettare! Questa dimensione circolare è un’altra cosa rispetto a quello a cui siamo abituati, e sono queste le cose che mi attraggono..

Processo di scrittura: le carte in mano 
Io non ho tutte le soluzioni in tasca, le regole o le chiavi di ingresso: ci si imbarca in un’avventura in cui ogni tanto si trovano delle soluzioni che funzionano. C’è anche il pubblico che ci dice quello che funziona, quello che ha capito o meno e questo fa parte del processo creativo. Ci siamo riuniti attorno ad un tavolo, attori e non attori. Nei miei spettacoli ci sono sempre artisti che arrivano da diversi ambienti (cantanti lirici, imitatori, non attori etc.), che arrivano con un bagaglio di esperienza diversa. In questo caso ho dato loro le carte da gioco, che non sono esattamente un tema ma una risorsa, e insieme abbiamo giocato e parlato, abbiamo fatto delle improvvisazioni e anche delle ricerche.
Lo spettacolo è un po’ l’immagine di qualcosa che funziona bene ma prima di prendere la sua forma finale passa attraverso molti stadi e prove. Concentrando le prove in brevi blocchi di tempo (qui a La Comete 5 giorni, a Québec 10 giorni in cui abbiamo messo in piedi la struttura dello spettacolo e lo abbiamo presentato, abbiamo fatto 3 prove pubbliche) c’è sempre molto poco tempo per sviluppare il lavoro.
Tra questi blocchi ci sono 4, 5, 6 mesi. Ciò significa che non si fanno molte prove, tutto succede durante la tournèe. Arriviamo in una città dove ci prendiamo qualche giorno per discutere cosa cambiare, valutando ogni volta quello che ha funzionato o meno e si cambiano delle cose. Gli attori decidono a volte, anche di scambiarsi le battute.
Tra Madrid (dove è avvenuto il debutto assoluto, ndr) e qua a Chalons sono cambiate molte cose, a Madrid lo spettacolo infatti durava 3 ore, qui 2 ore e mezzo. I personaggi prima di trovare la linea interpretativa improvvisano, tentano degli esperimenti. All’inizio si cambiano molte cose perché ci si accorge di volta in volta di quello che non funziona e a forza di recitare, lo spettacolo inizia a prendere forma, a scolpirsi, il testo si affina e i personaggi trovano il loro percorso e la loro collocazione. Non c’è una visione di partenza di un grande autore che dice “si scrive così, si fa così”, la scrittura fa parte della dinamica del gruppo. Questo è uno spettacolo che ha bisogno di un grosso montaggio, sono necessari 2 o 3 giorni di lavoro e noi ne approfittiamo per far arrivare gli attori un po’ prima e discutere con loro. Alla fine di queste riunioni si prova e si fa una generale tecnica per capire se tutto funziona. Durante la generale tecnica si provano anche varie soluzioni drammaturgiche.

Cambiamenti dell’ultimo momento. Il teatro è uno sport 
Da quando è iniziato questo spettacolo abbiamo fatto 15 repliche. Ci sono dei punti che rimangono stabili perché funzionano. Ci sono molte cose che cambiano e altre che si solidificano, si fissano. In questa scelta, in questo modo di lavorare (ed è ciò che ci piace) c’è la scelta di mettersi in una condizione di pericolo. Le persone si affezionano ai punti più forti dello spettacolo, quelli che funzionano, quelli emozionalmente solidi. Sappiamo ad esempio, che la fine dello spettacolo sarà con il personaggio che soffre di gioco compulsivo e il suo sciamano, ma quello che dice e quello che succede cambia ogni volta, ancora non abbiamo trovato la chiave. Anche stasera cambieremo qualcosa, riscriviamo. Ma questo è il nostro sport! E’ molto sportivo quello che facciamo.  Ci sono delle cose che il pubblico non capisce ma ce ne sono altre che lo incollano alla storia. Noi ascoltiamo, arricchendo il nostro lavoro di nuovi elementi. Questo è un modo particolare di lavorare, fuori dal sistema nel quale ci si aspetta lavori subito pronti all’uso.

La narrazione non è all’altezza di un autore come me? Ma la storia non è ancora finita… 
La storia non è ancora cresciuta, i miei spettacoli sono così, può darsi che qualcuno abbia visto miei spettacoli più completi; è vero, ciò non scusa certe lacune drammaturgiche dello spettacolo. Ma è così che procediamo. Ancor prima che lo spettacolo venga scritto o messo in scena ci diciamo cosa vogliamo dire e fare e mettiamo in piedi il progetto scenografico che ci offre un terreno di gioco. Da qui partiamo per raccontare le storie e in questo terreno di gioco le cose nascono e crescono. Non sappiamo sempre dove siamo rispetto al percorso evolutivo dello spettacolo. Per esempio, quando abbiamo fatto Lipsynch a Londra c’era un ottimo impianto scenografico a supporto di idee che avevamo in testa ma che ancora non avevano trovato una forma. E la storia non reggeva ancora. Dopo tante repliche, lo spettacolo ha preso una forma precisa, esatta. E’ il mio modo di lavorare, non posso fare diversamente. Non ci sono certezze. E’ così che ho sempre sviluppato i miei spettacoli e a parte questo, c’è anche un fattore culturale. Cioè a dire che ci sono degli spettacoli che evolvono meglio all’interno di un contesto, in una certa cultura e che per diversi motivi rendono possibile la crescita dello spettacolo. Anche solo il fatto che all’inizio non ci si accorge che è mal scritto perché magari va in scena in un paese di lingua diversa. Anche questo fa parte dell’evoluzione dello spettacolo. L’itinerario dello spettacolo partecipa al suo sviluppo. Penso che dopo le date in altre città francesi (Lyon, Amiens) e inglesi (Londra), alla data di marzo a Parigi il pubblico vedrà uno spettacolo più completo. E’ sempre una nuova esperienza per chi si interessa al processo creativo, a me interessa soprattutto a quello. Ci sono persone infatti che vengono più di una volta agli spettacoli (indica Anna Monteverdi ndr) La delusione fa parte del processo ma a me questo piace.

Una questione di perfezione: il regista è un vigile urbano 

Ho una preoccupazione di perfezione per la scrittura e anche per la drammaturgia. Ma questa cresce lentamente perché si lavora con materiale umano. La tecnologia la si programma e si fa ciò che si vuole. Gli umani invece sono complessi! Per me questo è un lavoro necessario da fare, per gradi, una scoperta: non so dove andiamo ma so che c’è sempre un continente. Non sono un autore e un regista che dice “Seguitemi so dove andiamo”. Gli attori sono molto coraggiosi: nel momento in cui mi chiedono cosa devono fare nello spettacolo io rispondo che non lo so. Ed è vero, so solo che parla del gioco delle carte. Non ho subito la storia, io scavo e scolpisco il materiale che ho a disposizione. Le persone portano le loro esperienze, le loro idee e io divento un vigile urbano e a un certo punto, quando le cose circolano bene, sono in grado di vedere davanti a me le storie e di scolpire il personaggio, ma all’inizio non ci sono che idee e bisogna avere pazienza. Non sono quel tipo di artista che arriva con la visione di quello che vuole fare. Di sicuro sono come il capitano della nave che dice che non sa dove si va e quando si arriverà ma solo che c’è un continente, e che quindi si toccherà sicuramente terra. Si continua a lavorare sino a quel momento.

Il segreto: lavorare con l’agilità del rettile 
Lo spettacolo dipende anche dal tipo di tensione che si dà agli artisti. Noi pensiamo di presentare al pubblico delle cose interessanti, delle idee davanti alle quali può, più o meno, rimanere colpito, ma creiamo comunque un interesse. Anche se il pubblico non ha capito tutta la storia per intero, lo si ascolta cercando di capire se ci sono dei punti forti da valorizzare. E’ il nostro modo di aprire i giochi, mettere in campo anche la nostra ignoranza, ma c’è sempre grande fiducia. Anche se non c’è una garanzia assoluta in questo metodo di lavoro collettivo di Ex Machina, è necessario passare dagli spettatori e anche dalla critica. Raccogliamo i punti di vista e li mettiamo dentro unmulinello e ci lavoriamo.
E’ molto difficile il momento della ghigliottina della prima, il debutto: io sono riuscito a evitarla. Noi lavoriamo con l’agilità del rettile (sposta la mano da una parte all’altra mimando il serpente, ndr), cioè cerchiamo continuamente nuove vie. Ogni pubblico vuole cose diverse. Anche questo fa parte del mio lavoro. Ho detto prima della questione culturale, mi viene in mente La face cachée de la lune. Non avevo idea che trattasse temi universali e non sapevo in che modo li trattasse. Ho portato lo spettacolo in Europa ed è andato bene sino a quando non sono arrivato in Corea e il pubblico fece delle riflessioni importanti sui due fratelli della storia e su cosa significava per loro, e così mi sono reso conto che c’era una dimensione universale, ma questo non l’avevo messo in conto nel mio spettacolo, è una cosa che è nata li. Così mi sono rimesso a scrivere e ad arricchire la storia sulla base di questa riflessione. Io non so quale spettacolo lo spettatore vedrà ma cerco di confrontare sempre la storia con diverse culture e diverse persone, e questo è una vero lusso.

L’attore? E’ un cantore, uno che fa, uno che mostra 
Un buon attore normalmente è quello che partendo da un testo fa un’ ottima interpretazione e il regista può lavorare faccia a faccia con lui perché tutto è dentro il testo. Noi non abbiamo testo e allora il gioco è davvero un gioco e al momento giusto si finisce per ricreare e rifare da zero. Si cambia in continuazione e alla fine è come se avessimo avuto un buon testo sin dall’inizio. Ma il testo in realtà all’inizio non c’è, quindi io non posso dirigere l’attore, si può parlare delle idee. L’attore diventa più un cantore, uno che fa, uno che mostra.

Never ending stories 
Noi non abbiamo modo di prenderci due anni di lavoro su un solo spettacolo in Canada. Bisogna lavorare su più spettacoli e non si può provare concentrando il numero di ore a disposizione. Noi preferiamo prendere questo numero d’ore e allungarlo sui due anni di lavoro. In questo spazio di tempo le persone pensano allo spettacolo e fanno delle ricerche, tornando con delle buone idee. Utilizziamo il numero d’ore a nostra disposizione allungandole su un periodo più lungo. Si comunica con tutti i mezzi quando non ci si vede (mail, telefono etc) perché, non essendo una compagnia, lavoriamo con persone che fanno anche altre cose e vivono in città e stati diversi. Ma il lavoro di messa in pratica si fa quando siamo riuniti in gruppo prima dello spettacolo. Ad esempio, ogni volta vediamo il video dell’ultimo spettacolo per capire ciò che si è cambiato e va bene, e quello che si deve cambiare. Gli attori allo stesso tempo hanno una visione della scena nel suo complesso, a volte addirittura rimangono sorpresi vedendo quello che succede in scena e in relazione anche a questo cambiano delle cose dei loro personaggi. Quando ci incontriamo la volta successiva tutti hanno molte nuove idee. Questa è una dinamica che io trovo molto eccitante, c’è un’effervescenza… ed è sempre il rifiuto della ghigliottina della prima: si prova uno spettacolo per un anno, si fa qualche anteprima e poi il debutto e da quel momento non si muove più nulla, se alle persone piace, bene, se non piace.. è tutto finito. La ghigliottina. Io non ho voglia di stare dentro un sistema così, io penso che si debba lavorare su un progetto sino a farlo funzionare. E’ difficile farlo nel sistema attuale ma noi crediamo fermamente in questo processo creativo.
Gli attori hanno sempre voglia di recitare come quando si fanno i match di improvvisazione: non si sa se funzionerà o meno. Bisogna essere un po’ dipendenti dall’adrenalina per lavorare così.
Questo non giustifica nulla, se ci sono dei problemi drammaturgici ne siamo coscienti e cerchiamo di fare meglio. Ma è lo sport che pratichiamo, è uno sport diverso.

La creazione collettiva? Un’idea fricchettona a cui io credo ancora 
Siamo partiti da un gioco di carte, se giochiamo insieme e io chiedo ad esempio “A cosa vi fa pensare il colore rosso o il nero nel gioco delle carte?” Mi direte qualcosa e io non potrò mai essere in disaccordo con un’impressione di un altro, quindi non ci sono mai dei conflitti da questo punto di vista. Ma se si facesse così col tema della guerra nascerebbero subito dei conflitti perché tutti arrivano da una classe sociale differente e da un posto diverso e sul tema abbiamo opinioni diverse.
Si inizia con delle cose più poetiche e chiedo ad esempio ciò che le carte evocano e le persone raccontano fatti personali. Io prendo tutto questo materiale cerco di analizzarlo e intrecciarlo, cosicché il lavoro prende il colore di chi partecipa e questo spettacolo è davvero il risultato di queste sei persone più me.
Può capitare che per ragioni professionali qualcuno non possa continuare la tournèe e venga sostituito da un altro attore che cambierà ancora il colore dello spettacolo, e farà delle cose migliori o anche peggiori. Io so che in tutte le creazioni non c’è niente che si perde e niente che si crea. Molto spesso ci si riunisce intorno al tavolo portando delle idee che poi vengono abbandonate, addirittura buttate via ma che poi in qualche modo finiscono per riaffiorare facendosi strada in diversi modi e risalendo a galla per trovare la loro collocazione.
E’ così: una vecchia idea fricchettona degli anni Sessanta di creazione collettiva ma io ci credo ancora, ci sono persone che sono più al loro agio con questo modo di lavorare piuttosto che in una dittatura di regia.

L’attore deve essere in pericolo: la regola del teatro dai match di improvvisazione 
Noi non ci aspettiamo che lo spettatore si interessi al lungo processo di creazione. Noi cerchiamo di fare il meglio nel momento in cui lo stiamo facendo, per lo spettatore che c’è in quel momento, in quel luogo, senza giustificare nulla di quello che accade in scena facendo riferimento agli spettacoli precedenti o a quelli futuri. Tutte le sere cerchiamo di fare il meglio. C’è un motivo per il quale procediamo così, ed è per il fatto che il teatro abituale, convenzionale non suscita in noi lo stesso interesse. Non è una critica, non dico che quello non è un buon teatro, dico solo che quel tipo di teatro non ci mette in pericolo ogni volta che lo mettiamo in scena. Più regole ci sono, meno interessante sarà per un attore o per un regista.

Io arrivo dai match di improvvisazione e ho lavorato per il circo dove gli artisti provano i numeri di giocoleria ma non sono mai veramente sicuri di essere pronti. Credo però che lo spettatore riceva comunque qualcosa di importante ed è per questo che io difendo questo modo di fare e tutti i rischi che questo comporta. Cerchiamo di fare il meglio che si può la sera che si fa lo spettacolo; poco importa se a volte la drammaturgia è un po’ in bilico; il pubblico vede delle persone che sono in “pericolo”, che hanno questa energia e a volte questo fa scattare il miracolo, a volte è davvero miracoloso! A volte per niente.. Succede sempre che c’è qualcosa che fa scattare la molla della soluzione giusta, ci prendiamo il rischio di offrire questo.

Una drammaturgia a incastri 
Siamo sicuri che faremo come spettacolo: picche, cuori, danari e fiori ma queste carte prima eranospade, coppe, danari e bastoni. Questo perché le carte arrivano dal mondo arabo. Picche, ovvero spade è legato al mondo militare; il cuore/coppe è legato all’idea dell’amore ma è anche il sacro Graal, quindi è una carta legata alla religione, alla magia, alla superstizione, (si svolgerà un po’ nel mondo della magia a Parigi nel diciannovesimo secolo e non ha nulla a che vedere con lo spettacolo in corso).
L’altro è denari, che in inglese è diamonds, cioè legato a qualcosa che ha valore. Prima questa carta era rappresentata dalla moneta, quindi è legata al mondo del commercio; l’ultimo è fiori/bastoni che rappresenta l’agricoltore, l’operaio, ma rappresenta allo stesso modo la rivolta.
Adesso abbiamo toccato il tema militare nel prossimo ci sarà il tema della magia poi mondo degli affari e così via. Sono tutti temi collegati ed è importante per noi che nel primo spettacolo siano rappresentati tutti i semi.
E’ la prima volta che cerchiamo di seguire quattro storie contemporaneamente, normalmente negli spettacoli seguiamo le storie una dopo l’altra, qui cerchiamo di farlo contemporaneamente.

 C’è in queste quattro storie un rappresentante per ogni seme:
♠ spade/picche (la storia militare);
♥ cuori/coppe (la coppia che si sposa a Las Vegas;ci sono anche dei riferimenti alla fede e al sistema religioso);
♦ danari/ori (il mondo degli affari, col personaggio che soffre di gioco compulsivo che viene a Las Vegas per affari);
♣ bastoni/fiori (il mondo proletario, gli impiegati del casinò e della caffetteria che sono tutti immigrati e parlano in spagnolo).
Per noi è importante che le quattro carte siano rappresentate nella prima uscita in una sorta di microcosmo che inizi l’intreccio. Non sappiamo ancora se queste quattro storie avranno un legame ma sappiamo ci saranno dei temi che si intrecciano e si faranno eco lungo tutto il progetto. Il grande desiderio è quello di presentare in futuro i quattro spettacoli.

13 carte, 7 attori 
Non abbiamo ancora ingaggiato tutti gli attori ma ci saranno 7 attori per cuori. Abbiamo 13 carte, 6 attori per picche e 7 per cuori. Ci sono delle regole anche per questo: mescoleremo le carte per poi dividerle in due mazzi e decidere chi farà la terza parte e chi la quarta.
Anche per chi fa il montaggio dello spettacolo è chiara questa situazione in cui delle immagini trovano lentamente la loro collocazione, ma non si può mai forzare questo processo in modo definitivo.

Film e teatro: “Il teatro è NOW!” 
Una differenza tra far dire una cosa a un film e farla dire a uno spettacolo è che nel film si ha il materiale relativo alle riprese e si può solo cercare di incastrarlo col montaggio, cercando di far parlare le immagini ma resta tutto nelle immagini. Io invece posso benissimo dire ai miei attori, in qualsiasi momento di fare una cosa con un’intenzione completamente diversa e loro rimetteranno tutti gli orologi a zero. Nel cinema questo ovviamente, non si può fare perché è già tutto registrato. Per questo che trovo interessante recitare con questa particolarità del teatro: ogni giorno è un nuovo giorno e non si sa mai cosa accadrà.
Io non faccio molto cinema ma le prime volte che l’ho fatto, scrivevo la sceneggiatura, si girava si faceva il montaggio, poi il film veniva distribuito e durante il tempo di distribuzione magari ad un festival, parlavo con la gente del mio film e avevo l’impressione di vedere il fantasma delle mie idee passate. Quello che vedevo era quello che ero, magari due anni prima! Questo a teatro non succede mai. A teatro si parla di ciò che abbiamo fatto ieri, che faremo oggi e domani, anche se la tournèe è iniziata da cinque anni. E’ sempre now! Per questo io mi sento molto più vicino al teatro.

Di Anna Monteverdi e Giancarla Carboni.