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LA WALHALLA MACHINE: ROBERT LEPAGE & WAGNER
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MACCHINE DI SCENA: dalla Hamlet machine alla Walhalla machine.

E’ impossibile dissociare Lepage dal suo giovane e altrettanto geniale stage designer Carl Fillion, con il quale crea da sempre quelle macchine sceniche per le quali è universalmente acclamato. Con lui ha dato vita al mondo d’ombre viventi e video di The seven streams of the river Ota, al dispositivo roteante di Elsinore, il marchingegno per il suo più folle progetto di one-man-show; ai pannelli scorrevoli, specchianti e proiettabili di La face cachée de la lune.
E’ Carl Fillion a spiegare il segreto con cui egli trasforma un’unica scena, da un’idea iniziale discussa insieme con Lepage, in un vortice infinito di luoghi:
I like to transform the scenic environment by creating elements that move and turn, on stage, in full view of the audience. My main visual signature as a designer can be found in the way I sculpt the space and keep it in motion.
La matrice della metamorfica macchina scenica di KA (e aggiungiamo noi, anche del Ciclo wagneriano), non è altro che il dispositivo girevole ideato per Elsinore, pur in una scala qua monumentale adatta a volteggi, acrobazie, proiezioni. In Elsinore un unico elemento scenico, un dispositivo di alluminio mobile e rotante, attraverso le sue molteplici possibilità di movimento e attraverso la relazione che instaura con il personaggio che abita dentro i suoi meccanismi, mostra un’indivisibile polarità, l’empietà della corte e la lealtà di Amleto. L’unico suo attributo è la trasformabilità:
Carl Fillion ha raccontato di aver creato un prototipo basandosi dapprima sull’immagine, fornita dal regista stesso, di un monolite, e poi sul movimento del corpo umano; la forma finale risultante è quella di un cerchio inscritto in un quadrato (all’interno del quale si trova il rettangolo in forma di apertura-varco), simbolo dell’armonia, della perfezione e dell’uomo stesso. Un enorme pianale metallico quadrato può alzarsi in verticale a 180°, sollevarsi parallelamente al palco, diventando indistintamente muro, soffitto o parete. Il dispositivo (chiamato “the machine”) contiene, invisibile, un disco circolare, che permette, solidale con la parete o autonomamente, ulteriori rotazioni, lente o veloci. Esattamente collocato al centro del disco, un varco rettangolare usato come una porta, finestra o tomba. Alla struttura furono poi aggiunti due schermi laterali e un fondale. La scena, oltre alla struttura mobile, era così costituita da tre enormi pareti modulari; quelle che affiancano la scena furono ricoperte di spandex e servivano per proiettare le immagini (in movimento e fisse) in diretta, raddoppiando Amleto, ingigantendolo o sezionandone una porzione del volto, producendo l’effetto di una visione stereoscopica (la visione contemporanea ma separata dei due occhi). Anche il dispositivo “monolitico” poteva diventare schermo proiettabile. La tecnologia non altera il dramma: lo esalta.
Per la regia del ciclo wagneriano, Lepage chiamerà ancora Fillion e si trascinerà dietro proprio i collaboratori tecnici, artisti, videomaker, i creatori di effetti visivi, persino i produttori esecutivi del Cirque du soleil, forse gli unici in grado di garantire un allestimento all’altezza di un teatro dalla fama colossale come il Metropolitan Square Garden di New York.
Josef Svoboda disegnò le scene della tetralogia di Wagner Der Ring des Nibelungen 3 volte: al Covent Garden a Londra (1974-76), al Grand Théâtre di Ginevra (1975-77), e al Théâtre Antique d’Orange, Francia (1988). Ma è la versione londinese, in cui lo scenografo cecoslovacco utilizzò il laser quella più vicina alla ipertecnologica versione di Lepage; tra Svoboda e Lepage non bisogna dimenticare la versione “techno” dell’Anello dei Nibelunghi a firma della Fura dels Baus 
Per l’atmosfera del Crepuscolo degli dei la scena si libera di ingombranti oggetti per ospitare un unico monstrum leonardesco che sembra uscito dalle mani di un alchimista d’altri tempi, un erede naturale della fantasia avanguardista di Svoboda: “Scenography is the interplay of space, time, movement and light on stage”.
Ecco allora il protagonista incontrastato della scena, l’enorme macchina progettata da Fillion per l’intera tetralogia, vera opera di ingegneria meccanica, fatta di 45 assi di 9 metri di fibra di vetro ricoperta di alluminio, mobili autonomamente l’uno dall’altro e che si sollevano e ruotano a 360° grazie a un complesso sistema idraulico che permette un gran numero di forme differenti, diventando la spina di un dragone, una montagna o il cavallo delle Valchirie:
Lepage spiega che:
“What happens in Das Rheingold is that we’re in a world of mists and lightning, and fire and water, an elemental realm. That’s why the set is morphing into these elements that remind us of rocks and spines. As we move on, and the Ring tells the story of demigods and human being and eventually of society, and social classes and ranks, the set slowly moves toward architectural propositions.”
L’inclinazione dei piani si presta a un gioco di voli di scale che fa ricordare i disegni di Adolphe Appia per Wagner.
I movimenti dell’architettura di scena (costruita da Scène Éthique di Montréal) avvengono con intervalli da 5 o 10 minuti e sono controllati in parte a mano in parte da un computer. Un’uso — pare — strabiliante e fortemente realistico del 3D senza visori da parte del pubblico, è stato creato per le scene della foresta in Siegfried.
Così Lepage: “It was important that we create a theatre machine that would be similarly versatile—a set that had its own life and could actually go through different metamorphoses but, at the same time feel very organic. Very early on, we decided to create a spine to the set that allows us to move things and articulate things. So the set is actually not only illustrating some of the ideas in the Ring, but it’s also literally supporting the characters and the ideas…it was important for us that the set be very nimble, very flexible, very adaptable, and alive, so that it not only moves, but it also breathes”.
La chiameranno la Walhalla machine, qua in azione per la Cavalcata delle Walkirie. E, da vera diva, strappa applausi a scena aperta:
http://www.youtube.com/watch?v=TAEQMp4soOw&feature=related
Sulla superficie di questi assi che somigliano a tasti di un gigantesco pianoforte e che nei movimenti ricordano un po’ i mostri fantasy di Dune, vengono proiettate immagini in videomapping, a mostrare alberi della foresta, caverne, le acque del Reno. Sono state usate sia immagini statiche che immagini interattive, quest’ultime ottenute grazie a un sistema di motion tracking da telecamere.
Réalisations con Maginaire inc., hanno realizzato gli effetti video 3D e interattivi gestiti dal software Sensei.
http://www.youtube.com/watch?v=1_ssNfEXu_0
La macchina scenica complessiva è di tali proporzioni e di tale pesantezza (45 tonnellate) che il Metropolitan ha fatto sapere di aver rinforzato il palcoscenico. I giornali hanno parlato di “un’affascinante combinazione di complessa tecnologia e semplicità estetica”, “traditionale e rivoluzionario” ma anche di una produzione “troppo simile a un musical di Broadway” mentre il N.Y. T va giù ancora più pesante e titola la recensione: Ring V/s Spider man.
Produzione dunque, che rimarrà negli annali anche per l’impiego di una tecnologia avanzatissima e per il numero straordinariamente alto di tecnici e progettisti, e di conseguenza, per essere forse uno dei più costosi allestimenti teatrali di tutti i tempi (si parla di sedici milioni di dollari). Cosa che non sembra aver preoccupato molto Peter Gelb, general manager del Metropolitan dal momento che ha venduto l’esclusiva della diretta HD ai teatri e ai cinema di quaranta Paesi.
Per Lepage, dunque, un sold out esteso a tutti i media del pianeta.
http://www.youtube.com/watch?feature=endscreen&NR=1&v=1y5BQPmxho0
MACCHINE DI SCENA: la Walhalla machine.
Robert Lepage dal 2007 ha iniziato a lavorare alla regia d’opera per l’intera tetralogia wagneriana, ovvero L’anello dei Nibelunghi per il Metropolitan di New York diretto dal maestro James Levine; inaugurato la scorsa stagione conDas Rheingold e Die Walküre, e proseguito con Siegfried nell’ottobre 2011 si concluderà nel gennaio 2012 con Die Götterdämmerung; il ciclo verrà riproposto al MET nella sua interezza tra il 25 aprile e il 2 maggio 2012.
E’ impossibile dissociare Lepage dal suo giovane e altrettanto geniale stage designer Carl Fillion, con il quale crea da sempre quelle macchine sceniche per le quali è universalmente acclamato. Con lui ha dato vita al mondo d’ombre viventi e video di The seven streams of the river Ota, al dispositivo roteante diElsinore, il marchingegno per il suo più folle progetto di one-man-show; ai pannelli scorrevoli, specchianti e proiettabili di La face cachée de la lune.
E’ Carl Fillion a spiegare il segreto con cui egli trasforma un’unica scena, da un’idea iniziale discussa insieme con Lepage, in un vortice infinito di luoghi:
I like to transform the scenic environment by creating elements that move and turn, on stage, in full view of the audience. My main visual signature as a designer can be found in the way I sculpt the space and keep it in motion.
 
Come ha notato Deborah Zoratti nella sua tesi di laurea al Dams di Imperia, la matrice della metamorfica macchina scenica di KA (e aggiungiamo noi, anche del Ciclo wagneriano), non è altro che il dispositivo girevole ideato perElsinore, pur in una scala qua monumentale adatta a volteggi, acrobazie, proiezioni. In Elsinore un unico elemento scenico, un dispositivo di alluminio mobile e rotante, attraverso le sue molteplici possibilità di movimento e attraverso la relazione che instaura con il personaggio che abita dentro i suoi meccanismi, mostra un’indivisibile polarità, l’empietà della corte e la lealtà di Amleto.
L’unico suo attributo è la trasformabilità. Un enorme pianale metallico quadrato può alzarsi in verticale a 180°, sollevarsi parallelamente al palco, diventando indistintamente muro, soffitto o parete. Il dispositivo (chiamato “the machine”) contiene, invisibile, un disco circolare, che permette, solidale con la parete o autonomamente, ulteriori rotazioni, lente o veloci. Esattamente collocato al centro del disco, un varco rettangolare usato come una porta, finestra o tomba. Alla struttura furono poi aggiunti due schermi laterali e un fondale.
La scena, oltre alla struttura mobile, era così costituita da tre enormi pareti modulari; quelle che affiancano la scena furono ricoperte di spandex e servivano per proiettare le immagini (in movimento e fisse) in diretta, raddoppiando Amleto, ingigantendolo o sezionandone una porzione del volto. La tecnologia non altera il dramma: lo esalta.
Per la regia del ciclo wagneriano, Lepage chiamerà ancora Fillion e si trascinerà dietro proprio i collaboratori tecnici, artisti, videomaker, i creatori di effetti visivi, persino i produttori esecutivi del Cirque du soleil, forse gli unici in grado di garantire un allestimento all’altezza di un teatro dalla fama colossale come il Metropolitan Square Garden di New York.
Per l’atmosfera del Crepuscolo degli dei la scena si libera di ingombranti oggetti per ospitare un unico monstrum leonardesco che sembra uscito dalle mani di un alchimista d’altri tempi, un erede naturale della fantasia avanguardista di Svoboda.
Ecco allora il protagonista incontrastato della scena, l’enorme macchina progettata da Fillion per l’intera tetralogia, vera opera di ingegneria meccanica, fatta di 45 assi di 9 metri di fibra di vetro ricoperta di alluminio, mobili autonomamente l’uno dall’altro e che si sollevano e ruotano a 360° grazie a un complesso sistema idraulico che permette un gran numero di forme differenti, diventando la spina di un dragone, una montagna o il cavallo delle Valchirie:
Lepage spiega che:
“What happens in Das Rheingold is that we’re in a world of mists and lightning, and fire and water, an elemental realm. That’s why the set is morphing into these elements that remind us of rocks and spines. As we move on, and the Ring tells the story of demigods and human being and eventually of society, and social classes and ranks, the set slowly moves toward architectural propositions.”
 
L’inclinazione dei piani si presta a un gioco di voli di scale che fa ricordare i disegni di Adolphe Appia per Wagner.
I movimenti dell’architettura di scena (costruita da Scène Éthique di Montréal) avvengono con intervalli da 5 o 10 minuti e sono controllati in parte a mano in parte da un computer. Un’uso — pare — strabiliante e fortemente realistico del 3D senza visori da parte del pubblico, è stato creato per le scene della foresta inSiegfried.
Qua l’animazione con i movimenti possibili della macchina:
Così Lepage:
It was important that we create a theatre machine that would be similarly versatile—a set that had its own life and could actually go through different metamorphoses but, at the same time feel very organic. Very early on, we decided to create a spine to the set that allows us to move things and articulate things. So the set is actually not only illustrating some of the ideas in the Ring, but it’s also literally supporting the characters and the ideas…it was important for us that the set be very nimble, very flexible, very adaptable, and alive, so that it not only moves, but it also breathes”.
La chiameranno la Walhalla machine, qua in azione per la Cavalcata delle Walkirie. E, da vera diva, strappa applausi a scena aperta:
ecco il trailer ufficiale del MET di New York:
Sulla superficie di questi assi che somigliano a tasti di un gigantesco pianoforte e che nei movimenti ricordano un po’ i mostri fantasy di Dune, vengono proiettate immagini in videomapping, a mostrare alberi della foresta, caverne, le acque del Reno. Sono state usate sia immagini statiche che immagini interattive, quest’ultime ottenute grazie a un sistema di motion tracking da telecamere. Réalisations con Maginaire inc., hanno realizzato gli effetti video 3D e interattivi gestiti dal software Sensei.
La macchina scenica complessiva è di tali proporzioni e di tale pesantezza (45 tonnellate) che il Metropolitan ha fatto sapere di aver rinforzato il palcoscenico. I giornali hanno parlato di “un’affascinante combinazione di complessa tecnologia e semplicità estetica”, “traditionale e rivoluzionario” ma anche di una produzione “troppo simile a un musical di Broadway” mentre il N.Y. T va giù ancora più pesante e titola la recensione: Ring V/s Spider man.
Produzione dunque, che rimarrà negli annali anche per l’impiego di una tecnologia avanzatissima e per il numero straordinariamente alto di tecnici e progettisti, e di conseguenza, per essere forse uno dei più costosi allestimenti teatrali di tutti i tempi (si parla di sedici milioni di dollari). Cosa che non sembra aver preoccupato molto Peter Gelb, general manager del Metropolitan dal momento che ha venduto l’esclusiva della diretta HD ai teatri e ai cinema di quaranta Paesi.
Per Lepage, dunque, un sold out esteso a tutti i media del pianeta.

Videomapping: dal monumentismo digitale al videomapping teatrale
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 Lev Manovich afferma che il profondo cambiamento che investe la cultura all’epoca della rivoluzione dei media computerizzati riguarda anche lo spazio e i relativi sistemi di rappresentazione e organizzazione, diventando anch’esso un media: Proprio come gli altri media – audio, video, immagine e testo- oggi lo spazio può essere trasmesso, immagazzinato e recuperato all’istante; si può comprimere, riformattare, trasformare in un flusso, filtrare, computerizzare, programmare e gestire interattivamente.[1]

Ricorda ancora che se tutte le azioni avverranno in un prossimo futuro, nello spazio del virtuale e della simulazione, lo schermo, ultima appendice della cornice intesa come spazio fisico separato che impedisce il movimento di chi osserva, scomparirà del tutto a vantaggio di un effetto compositivo sfumato che ricerca, “scorrevolezza e continuità”: L’apparato della realtà virtuale si ridurrà a chip impiantato nella retina e connesso via etere alla rete. Da quel momento porteremo con noi la prigione non per confondere allegramente le rappresentazioni e le percezioni (come nel cinema) ma per essere sempre in contatto, sempre connessi, sempre collegati. La retina e lo schermo finiranno per fondersi.

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Più che eliminati, gli schermi, in realtà si sono ingranditi; a caratterizzare la scena urbana degli ultimi anni è infatti, il fenomeno del gigantismo. Vengono chiamate “ipersuperfici”, “media facciate interattive” quelle pareti architettoniche permanenti o temporanee, destinate a ospitare superfici luminose e colorate, megaproiezioni video e schermi al plasma: gigantesche proiezioni con immagini e scritte a LED fanno parte del paesaggio e dell’arredo metropolitano e costituiscono ormai, l’armamentario basico della pubblicità. Nella definitiva mediatizzazione del contesto urbano le insegne digitali (digital signage) raggiungono ormai, formati terracquei. La dimensione esperienziale del public space, della piazza, delle stazioni, dei metrò attraverso schermi multidimensionali, secondo Simone Arcagni, si lega a quella più intima, individuale, televisiva: “Media, urbanistica, performance concorrono a realizzare una nuova esperienza spettatoriale, in parte anche cinematografica[2].

Urban screens, architectural mapping, facade projection, 3D projection mapping, videoprojection mapping, display surfaces, architectural Vj set, sono alcune delle definizione usate e l’ambito è quello della cosiddetta  Augmented Reality (ma Lev Manovich preferisce parlare di Augmented Space perché c’è una sovrapposizione di elementi elettronici in uno spazio fisico), una tecnica che fa interagire la realtà e la sua ricostruzione digitale e ne modifica la percezione visiva. Sulla base di questi esperienze di realtà aumentata sono state create opere video artistiche architetturali e spettacoli teatrali con scenografia/attore virtuale che prevedono una mappatura (mapping) 2D, 3D di grande realismo e una proiezione su enormi superfici: pareti di palazzi, castelli, torri ma anche fondali teatrali. E’ una nuova arte mediale, un’arte media-performativa.

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I confini del teatro si allargano: l’ambiente non è più lo sfondo, è l’opera. Animazione, musica, sperimentazioni video-grafiche, live performance e interattività si prestano allo sviluppo di un nuovo formato multimediale artistico dall’effetto sorprendente.

L’estetica del meraviglioso, ovvero quella che Andrew Darley nel suo libro Digital culture: surface, play and spectacle in new media genres definisce l’estetica della superficie, è alla base di queste forme spettacolari legate alla cultura digitale e nello specifico, al videomapping: la proiezione architettonica reclama uno sguardo panoramico e avvolgente nei lavori di Urban screen, Nuformer, Macula, Apparati effimeri, Visualia, AntiVj, Architecture 1024, Obscura digital; dice Giovanni Boccia Artieri: è così che l’intreccio tra la forma della spettacolarizzazione e la realtà tecnologica del medium riprende le forme del meraviglioso presenti nelle modalità ottocentesche di intrattenimento di massa consentendone anche una ridefinizione dello spazio urbano: effetti speciali visivi ed immersivi dove talvolta la forma conta più del contenuto, dove sono i giochi di superficie ad essere rilevanti[3].

Si tratterebbe di un’estetica, quindi, che ha un gran debito nei confronti dei panorama e diorama e delle diverse fantasmagorie della cultura popolare ottocentesca[4] ma anche degli scorci prospettici in pittura, del quadraturismo, delle tecniche visive di sfondamento volumetrico. Si può dire allora che il video mapping e l’architectural mapping sono la prosecuzione ideale, in epoca di realtà aumentata e di dispositivi immersivi, delle macchine ottiche e degli esperimenti anamorfici[5]del Seicento.

Come ci ricorda Thomas Maldonado, la civiltà occidentale in fondo, è diventata una produttrice e consumatrice di trompe-l’œil, tecnica che si è emancipata dai vincoli del virtuosismo artigianale per avvalersi di tecnologie digitali la cui resa tende oggi sempre più al realismo:

La nostra è stata definita una civiltà delle immagini (…) Questa definizione sarebbe più vera, se aggiungessimo che la nostra è una civiltà in cui un particolare tipo di immagini, le immagini trompe-l’œil, raggiungono, grazie al contributo di nuove tecnologie di produzione e di diffusione iconica, una prodigiosa resa veristica(…) La conferma più incisiva viene, oggi, dall’avvento della grafica computerizzata, soprattutto se si pensa ai suoi ultimi sviluppi finalizzati alla produzione di realtà virtuali.[6]

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Siamo di fronte a una rinnovata “macchina di visione”: in fondo le video proiezioni in mapping si basano sullo stesso principio su cui erano fondate anche le “visioni ineffabili” del Cinquecento, quelle cioè, soggette all’anamorfosi, forzatura estrema della prospettiva lineare rinascimentale. Nelle opere anamorfiche, la realtà può essere percepita solo attraverso uno specchio deformante, mentre il mapping video non è che una maschera che deforma/crea una realtà inesistente.

Per dare spessore storico-artistico a questa nuova tecnica video d’illusione tridimensionale digitale sopra un’architettura, si potrebbero citare la prospettiva monumentale e le architetture dipinte barocche (il cosiddetto quadraturismo, il “lavoro di quadro” secondo l’espressione del Vasari con riferimento alla rappresentazione di finte architetture in prospettiva che “sfondano” i limiti dello spazio reale, ingannando l’occhio, quella che Omar Calabrese definisce la tripla spazialità nella pittura) e il trompe-l’œil. La suggestione, la costruzione fittizia dello spazio, l’unione del fondo al primo piano e il conseguente artificio illusionistico sono alla base dell’arte monumentale: dal Vasari degli Affreschi della Cancelleria al Tiepolo degli affreschi a Palazzo Labia, dal Veronese della Cena in casa Levi al Michelangelo della Cappella Sistina, la pittura si unisce all’architettura e si fonde con essa.

Ripercorrendo la storia del Teatro, si possono citare le tecniche di raffigurazione pittorica dello spazio con lo sfondo dipinto prospetticamente, le scenografie illusionistiche del Cinquecento e del Seicento e relativa trattatistica: dai disegni di Baldassarre Peruzzi per la Calandria (1514) alle scene-tipo dipinte del Serlio e ispirate alla classicità per la scena comica, tragica e satirica (1545), alla sezione teatrale dell’opera Perspectivae libri sex di Guidubaldo (1600) ai libri di Andrea Pozzo (1693) e di Ferdinando Galli Bibbiena (1711), passando per la celeberrima Pratica di fabbricar scene e machine ne’teatri di Nicolò Sabatini (1638)[7].

Per la contemporaneità, ecco due esempi di scenografia realizzata con una tecnica di illusione prospettica:

– il landscape di Robert Lepage realizzato dallo scenografo Robert Fillion per Andersen Project (2005), un dispositivo concavo che accoglieva immagini in videoproiezioni le quali, grazie ad uno studiato rialzamento centrale della struttura, sembravano avere corporeità tridimensionale e interagire con l’attore, letteralmente immerso in questo ambiente costruito intorno a lui.

– la gabbia prospettica de LOspite dei Motus ispirato al film Teorema di Pasolini, una scenografia monumentale che incombe e schiaccia i personaggi, costituita da una profonda pedana inclinata chiusa su tre lati composti da altrettanti schermi ospitanti immagini video. Come hanno dichiarato gli stessi autori, la struttura che si appoggia su palcoscenici dei teatri all’italiana, è stata ideata pensando alle macchinerie classiche. Il trittico video con tutta la sua imponenza, rilascia l’illusione di uno spazio tridimensionale, di una camera ottica, di un’enorme casa senza la quarta parete.

L’ingegnosità di queste tecniche scenografiche permette, in entrambi i casi, un’artigianale ed efficace integrazione di corpo e immagine, restituendo l’illusione tridimensionale delle immagini.

L’utilizzo nel teatro del vero e proprio videomapping riguarda non solo le scenografie (si proiettano ambienti digitali su volumi in scena) ma anche gli oggetti, gli attori, i costumi e l’intero spazio, in alcuni casi, interagendo tra di loro.

Il gruppo Urbanscreen lo applica in un curioso esperimento con il palcoscenico a dimensione di facciata, per realizzare il quale è stata pensata una drammaturgia. Il riferimento è a What’s up? A virtual site specific theatre realizzato a Enschede (Olanda) nel 2010 dove gli attori in proiezione si muovevano costretti dentro una scatola che raccoglieva la loro intimità, incastonata tra le pareti dell’edificio in un’atmosfera surreale kafkiana. O ancora in Jump! dove la facciata dell’edificio diventa una sorta di parete di free climbing per attori che saltano, si arrampicano, si nascondono tra le finestre. Per l’opera Idomeneo re di Creta, da Mozart, Urban screen usa un’architettura di luce in mapping che aderisce perfettamente ai volumi sui quali agiscono i cantanti lirici[8]; questi sono strutture poligonali mobili di legno bianco variamente collegate tra di loro a formare blocchi simili a delle scogliere con il riferimento al dio Nettuno dell’opera. Le proiezioni aderiscono alla struttura sia pur disomogenea per merito di un software brevettato da Urbanscreen chiamato Lumentektur.

I bolognesi Apparati effimeri realizzano invece, un cameo scenografico di gusto barocco in videomapping nella regia lirica di Romeo Castellucci per Orfeo ed Euridice (2014), ricostruendo in scena un “boschetto di verzura” incastonato in una scena completamente spoglia che riporta dall’atmosfera mesta al paesaggio bucolico degno di un quadro di Nicolas Poussin, da dove emerge una eterea figura femminile. Siamo in Arcadia, la scena si svela e il video proietta sulla scenografia con effetti speciali di grande precisione, l’illusione del vento sulle foglie, le luci sulle acque e le ombre della sera. Il barocco tecnologico di Apparati effimeri genera lo stupore e la meraviglia riservati ai grandi affreschi del passato ed è perfettamente in sintonia con quest’opera che privilegia una partecipazione emotiva e sensoriale: lo schermo accoglierà la proiezione video in diretta della donna in coma vigile, che rappresentava nella finzione teatrale, il “doppio” contemporaneo dell’Euridice del mito[9].

Robert Lepage, acclamato regista teatrale e cinematografico, che usa sistemi tecnologici in scena, applica il videomapping nel suo più ambizioso progetto: la regia lirica per la tetralogia di Wagner (L’anello dei Nibelunghi) prodotta per il Metropolitan di New York (2014). Protagonista incontrastato della scena è l’enorme macchina progettata per l’intera tetralogia, vera opera d’ingegneria meccanica, fatta di 45 assi di 9 metri di fibra di vetro ricoperta di alluminio, mobili autonomamente l’uno dall’altro e che si sollevano e ruotano a 360° grazie a un complesso sistema idraulico che permette un gran numero di forme differenti, diventando la spina di un dragone, una montagna o il cavallo delle Valchirie. La chiameranno la Walhalla machine[10]. Sulla superficie dei singoli assi, sono proiettate immagini in videomapping a mostrare alberi della foresta, caverne, le acque del Reno, le luci del Walhalla.

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IAM project: un progetto europeo dedicato al videomapping.

IAM (International Augmented Med) è un progetto internazionale di cooperazione che coinvolge quattordici partner di sette Paesi (Italia, Spagna, Egitto, Giordano, Libano, Palestina, Tunisia) nel Bacino del Mediterraneo ed è sostenuto dal programma ENPI CBC Mediterranean Sea Basin (2007-2013) [11]. Capofila del progetto è il Comune di Alghero; l’altro partner italiano è il Diraas dell’Università di Genova[12]. Il progetto sviluppa un ambito d’innovazione e scambio di competenze tecniche tra i diversi partner con l’obiettivo di promuovere grazie alle tecnologie, il turismo e l’economia dei diversi Paesi. Il fulcro dell’attenzione di IAM è l’incremento promozionale di beni culturali e di risorse naturali in una visione di cooperazione internazionale, attraverso l’uso della Realtà Aumentata (AR) e delle tecniche multimediali e interattive, con un’attenzione specifica proprio al videomapping. In questi anni sono stati attivati workshop specifici, Festival di realtà aumentata, progetti pilota in ciascuno dei Paesi partner.

La città di Byblos in Libano ha ospitato presso il vecchio porto, il primo evento IAM di videomapping nella cornice spettacolare di un Festival nell’estate 2013. La proiezione, della durata complessiva di sei minuti, avvolgeva interamente due muri, resti di antiche costruzioni, posti a circa 80 metri di distanza dalla banchina del vecchio porto dove era collocato il pubblico; dato il successo dell’evento, un secondo videomapping è stato realizzato nell’estate 2014. Ad Alexandria d’Egitto dopo un workshop preparatorio in cui erano coinvolti tra gli altri, alcuni studenti della Facoltà di architettura coordinati dal professor Yasser Aref, ha avuto luogo nel maggio 2014 uno spettacolare videomapping sulla facciata della più famosa e antica biblioteca al mondo, la Biblioteca Alexandrina[13]. La tematica della proiezione, che univa suoni e effetti di luce con elementi digitali, era la storia di Alessandria dalla sua fondazione fino alla fine del periodo classico.

Agli inizi di ottobre è stata invece la città catalana di Girona ad ospitare ben tre eventi originali specifici di videomapping all’interno delle Jornades app. Oltre al videomapping del gruppo di Barcellona Koniclab thtr fondato da Alain Bauman e Rosa Sanchez, partner tecnici di IAM, Girona ha ospitato il videomapping su Casa Pastors dei due vincitori del subgrant.

Marko Bolkovic con il suo gruppo VISUALIA proveniente dalla Croazia, ha presentato un mapping di grande impatto visivo totalmente realizzato in 3D, dal titolo Transiency, ispirato alla metamorfosi della vita, mentre il francese Yann-Loïc Lambert, video designer, ha proposto un videomapping narrativo dal titolo Records. Mentre Lambert ha guardato al racconto filmico, trattando la superficie parietale come uno schermo cinematografico o una fotografia da riempire di poetiche immagini di memorie della città e anche di disegni, Bolkovic ha azzardato un mix esplosivo di effetti optical bianco e nero e forme dai colori flashanti. In Transiency appare il classico gioco di scomposizione dei singoli elementi architettonici (mattoni, pietre, finestre) e trovano spazio una serie di riferimenti alla natura: le nubi, l’acqua, l’albero con le radici e infine la forma più semplice di vita (un bruco) che diventa una forma simbolicamente sempre più complessa (la farfalla). La disegnatrice Ania Ladavac ha creato immagini di fiori e infiorescenze per significare la metamorfosi, poi le illustrazioni sono state scansionate, vettorializzate e importate per creare un modello 3D. Nel finale, Casa Pastors si ricopre di colori e texture che sono un omaggio alla regione che ospita l’evento.

Le regole per una drammaturgia del mapping: Koniclab

Sempre alla ricerca di nuovi territori tecnologici da esplorare e sperimentare drammaturgicamente (dal videoteatro alla videodanza interattiva alle videoinstallazioni alle performance telematiche) la compagnia catalana Koniclab approda negli ultimi anni al videomapping sia negli spazi pubblici che nei teatri. Il videomapping di Koniclab realizzato nell’ottobre 2014 a Girona è legato al progetto europeo IAM ENPI CBC MED di cui Koniclab è partner. La proiezione è avvenuta sopra una facciata di un palazzo storico del XVII secolo. Ramificazioni, colori e un pulsare di luci e creazioni visive in movimento anima la proiezione di Processus bilatéral d’influence che ha al centro il sentimento della vita, essendo la struttura un edificio che negli anni ha ospitato un antico ospedale e una farmacia. I corpi dei danzatori proiettati ci riportano anche alla dimensione teatrale, e la struttura diventa un immenso palcoscenico in uno spazio pubblico. La narrazione visiva suggerisce spazi e tempi lontani ed evoca territori ultraterreni resi tangibili da geometrie e ramificazioni che lambiscono l’architettura reale e virtuale insieme, in una composizione sonora e visiva che unisce elemento astratto e reale insieme, immagine e immaginazione. Il rosa è il colore dominante che mescola il sentimento di vita a quello di amore.[14]

Così Konic definiscono le tre regole per una drammaturgia del mapping:

l’inter-relazione immagine-oggetto-supporto volumetrico, trasmette il fatto che la drammaturgia è focalizzata sull’immagine “mappata” sull’oggetto. Questo per sottolineare che l’oggetto aumentato si è trasformato in un ibrido immagine-oggetto. La narrazione visiva è guidata da questa articolazione oggetto-immagine, e non solo dall’immagine. Quindi, l’oggetto dovrebbe idealmente essere correlato con le composizioni visive proiettate su di esso.

-il concetto di mapping: è una pelle fatta d’immagini e luce che coprono l’oggetto volumetrico. Una pelle dinamica e flessibile, che si adatterà come un vestito per l’oggetto su cui è proiettata o visualizzata.

-la tecnologia, nel comprendere che la mappatura sta costruendo un dispositivo percettivo composto di luce, immagine, suono, software, hardware, spazio e tempo, architettura, attori e spettatori, e tutti questi elementi insieme, crea un insieme esperienziale e relazionale.

Konic conclude che:

Il mapping deve convivere con il testo drammaturgico, con le azioni dell’attore, con la coreografia e i suoni prendendo parte alla narrativa complessiva del lavoro scenico e contribuendo alla tensione e allo sviluppo della performance attraverso le evoluzioni visive. Possiamo considerarlo come uno spazio trattato, o come una scenografia dinamica, che porterà storie, azioni nel tempo, dalla sua evoluzione audiovisiva. I media coesistono con gli attori e /o ballerini e portano alla performance un altro strato in una gerarchia orizzontale con gli altri elementi che la compongono. Possiamo pensare a un lavoro globale, in cui le diverse discipline e materiali partecipano alla narrazione e composizione dell’opera.  Il pubblico, dalla nostra esperienza, percepisce la performance nel suo complesso ed è spesso sorpreso dal dialogo intimo e in qualche modo magico, stabilito tra luce -immagine-suono- oggetto o architettura- e gli attori / corpi, che porterà la giusta proporzione tra la scala umana e la scala umana-finzionale. Quando la proiezione è interattiva, questa offre una partecipazione diretta del pubblico nella performance, che poi coesisterà con gli attori e poi potrà diventare una parte del mondo fittizio, e fare un ulteriore passo per diventare da soggetto sociale a parte attiva dello spettacolo.

 

 

[1] L.Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Olivares, 2000

[2] S. Arcagni, Urban screen e live performance in “Nòva-Il sole24 ore”, 11 marzo 2009.

[3] G.Boccia Artieri, La sostanza materiale dei media: video culture digitali tra virtuale e performance, Pref. a A. Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006, p.12.

[4] A. Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006, pp.71-74.

[5] L’anamorfosi è una rappresentazione in prospettiva realizzata su un piano o su una superficie curva, la cui visione è possibile solo da un punto di vista non perpendicolare al piano su cui si trova l’oggetto, pena la visione deformata di quest’ultimo. Come ci ricorda Baltrušaitis: L’anamorfosi – parola che compare nel Seicento, benché si riferisca a combinazioni già note da tempo – inverte elementi e princìpi della prospettiva: essa proietta le forme fuori di se stesse invece di ridurle ai loro limiti visibili, e le disgrega perché si ricompongano in un secondo tempo, quando siano viste da un punto determinato. Il procedimento si afferma come curiosità tecnica, ma contiene una poetica dell’astrazione, un meccanismo potente di illusione ottica e una filosofia della realtà artificiosa. J.Baltrušatis, Anamorfosi o magia artificiale degli effetti meravigliosi, Milano, Adelphi, 1969, p. 13.

[6] T. Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 48.

[7] Cfr.F. Marotti Lo spazio scenico. Teorie e tecniche scenografiche in Italia dall’età barocca al Settecento, Roma, Bulzoni, 1974.

[8] Su Urbanscreen vedi l’intervista su www.annamonteverdi.it

[9] Sullo spettacolo cfr. la recensione di Anna Monteverdi, L’Orfeo di Castellucci, Musica celestiale per un angelo in coma vigile in “Rumorscena.it” giugno 2014.

[10] Sulla regia di Lepage vedi A.M.Monteverdi, Rimediando il teatro con le ombre, con le macchine, con i new media, La Spezia, ed. Giacché, 2012.

[11]Sul sito di IAM http://www.iam-project.eu/ si trovano tutte le informazioni del progetto.

[12] Il Comune di Alghero ha in programma l’evento finale del progetto nell’ottobre 2015 che vedrà workshop dedicati al videomapping e realizzazione di proiezioni architetturali su alcuni edifici storici ed una mostra di videoarte.

[13] Per il videomapping sono stati usati 3 proiettori Sanyo, 20.000 Ansi Lumen con lenti 3D. Il software usato per fare modellazione, mapping e proiezione è stato 3DMax, After Effects e Mad Mapper. Vedi mia intervista a Mr Yasser Aref sul sito di IAM.

[14] Intervista a Konic di Anna Monteverdi dal sito IAM project.

Memoria, racconto e tecnologia. Rouge décanté di Guy Cassiers e Lipsynch di Robert Lepage
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Memoria, racconto e tecnologia 
Rouge décanté di Guy Cassiers e Lipsynch di Robert Lepage
di Erica Magris
Il teatro come luogo di esplorazione della memoria e di reviviscenza del ricordo. Tre gli spettacoli che, con segni diversi, interrogano i meccanismi che sottendono il depositarsi delle esperienze nella coscienza e il loro ruolo nella formazione dell’identità individuale : Mnemopark della compagnia svizzera Rimini Protokoll, Rouge decanté del regista fiammingo Guy Cassiers, e infine, anche se in maniera differente, l’ultima creazione di Robert Lepage, Lipsynch.

Nel primo, a cui purtroppo non ho avuto la possibilità di assistere, dei pensionati con la passione del modellismo e un’attrice che interpreta se stessa guidano lo spettatore in un universo in miniatura attraversato con una videocamera, componendo con i loro racconti personali la storia di una Svizzera inedita, solitamente camuffata sotto gli stereotipi e le immagini da cartolina. Anche negli spettacoli di Cassiers e Lepage le vicende personali assumono una dimensione più vasta, in Rouge décanté, subendo la collisione con gli sconvolgimenti della Storia, in Lipsynch, entrando in relazione con le vite di altri individui, con cui formano reti invisibili, ma determinanti.
Cassiers, artista che ha iniziato la sua carriera fra i Paesi Bassi e il Belgio fiammingo negli anni Ottanta, compagno di viaggio di Jan Fabre e Jan Lauwers, ha dedicato numerosi dei suoi spettacoli multimediali, spessp tratti da opere letterarie, all’esplorazione dell’interiorità e dei meccanismi della memoria. Con Rouge décanté, realizzato in una doppia versione olandese e francese, si accosta ad uno dei maggiori scrittori viventi di lingua olandese, Jeroen Brouwers, in particolare al romanzo autobiografico che dà il titolo allo spettacolo (il testo è stato tradotto in italiano e pubblicato dall’editore Ila Palma di Palermo nel 1998, ma è quasi introvabile). Nelle pagine del romanzo, l’autore racconta la vicenda che lo ha colpito da bambino e che, nonostante il tentativo di una rimozione totale, ha segnato il corso della sua vita: la reclusione in un campo giapponese durante l’occupazione dell’Indonesia olandese avvenuta nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Un evento considerato “minore” nella storia del conflitto, raramente riportato nei manuali e coperto da un pesante velo di autocensura e di pudore dagli stessi olandesi, convinti di non avere patito atrocità paragonabili a quelle subite dagli ebrei in Europa e di non avere quindi il diritto di raccontare. La reticenza, lo sforzo di minimizzare e cancellare sono anche al centro dell’opera di Brouwers : dopo una vita trascorsa nel silenzio, la morte della madre con cui da anni non intratteneva nessuna relazione, sconvolge il suo artificiale equilibrio e lo spinge ad addentrarsi in un faticoso e doloroso percorso attraverso le esperienze vissute all’epoca, quando, a cinque anni si trovò a testimone di episodi di quotidiana crudeltà. L’incisione della piaga infetta dei ricordi produce un racconto frammentario, in cui la ricostruzione del passato si intreccia con l’analisi di vicende recenti, legate in particolare al rapporto con la madre con le donne, e con l’esplorazione degli anfratti più oscuri di se stesso.
L’opera di Brouwers è un colpo di fulmine per Cassiers, che, insieme alla sua equipe di collaboratori, decide di portare il romanzo sulla scena. L’adattamento, curato anche da Corion Baart, nasce dalla strettissima complicità con l’attore Dirk Roofthooft, che incarna la figura del narratore protagonista. Come i tre spiegano al pubblico alla fine della rappresentazione canadese, con una modestia ed una disponibilità sorprendenti, il copione non è stato fissato a tavolino, ma è scaturito dal coinvolgimento dell’attore in un processo di verifica continua della parola nel passaggio dalla scrittura all’oralità. Cassiers et Roofthooft si sono attenuti fedelmente alla lingua di Brouwers, e hanno deciso di presentare dei brani nella loro integralità, limitando le modifiche a dei tagli sulla macrostruttura del romanzo, ma senza intaccare, per quanto possibile, il suo sviluppo e la sua organizzazione lessicale e sintattica.
Roofthooft incarna sulla scena il percorso di conoscenza della scrittura, presentandoci un uomo tentennante, sfuggente, afflitto da una serie di piccole manie, cui riesce a dare spessore con una gestualità minima ma ripetitiva, e con l’esitazione e l’imperfezione nella dizione, accentuati nel caso della versione a cui ho assistito dall’uso della lingua francese. Questi elementi – la difficoltà nell’esprimersi e nel comunicare, il rapporto ossessivo e maniacale con la realtà – sono da subito concentrati nell’incipit dello spettacolo : nella semi oscurità della scena, si percepisce inizialmente solo uno rumore ritmico, come uno strofinamento, che sembra durare qualche minuto; progressivamente, si distingue il personaggio, seduto, completamente assorbito nell’eliminazione delle callosità dei piedi. Senza tralasciare la pedicure, i cui rumori diventano una sorta di accompagnamento armonico del pensiero, inizia a consegnare al pubblico frasi, frammenti di riflessioni e racconti che a lentamente andranno a comporre la sua storia. L’alter ego di Brouwers risulta inizialmente antipatico, molto antipatico. Ma quest’uomo egoista, cinico, sgradevole, che ha sepolto la madre in una casa di riposo, si trasforma mano a mano che avanza nel recupero e nella rivelazione del suo passato, e mostra il suo volto fragile, ferito, umano, instaurando con gli spettatori una relazione dinamica, che sottilmente passa dalla repulsione all’empatia e alla commozione. Con la sua sola presenza Roofthooft, senza mai cedere al patetismo e al sentimentalismo, serra l’attenzione degli spettatori in un silenzio teso e partecipe, che immobilizza la sala nel corso della rappresentazione, pur difficile e impegnativa.
In realtà, non è del tutto esatto affermare che l’attore sia solo sulla scena : Cassiers lo inserisce infatti in un dispositivo tecnologico, all’apparenza statico ed essenziale, assolutamente non spettacolare, ma che lavora insieme a Roofthooft, lo accompagna e ne forma la recitazione. Sei telecamere circondano il palcoscenico come se fosse un ring, simmetricamente e perpendicolarmente poste sui quattro lati del palco. Le loro traiettorie sono unite da strisce rosse che formano una rete regolare sulla superficie nera e liscia del palcoscenico, su cui sono collocate inoltre alcune basse vasche d’acqua rettangolari e delle mattonelle bianche parallele alla linea del proscenio. Il Giappone è così evocato attraverso i colori – nero, rosso e bianco –, la geometria essenziale degli elementi scenici, che ricordano i giardini dell’Oriente, ed infine dall’enorme veneziana a pannelli mobili che ricopre interamente la parete di fondo. Un tavolino, una sedia ed una veneziana più piccola, di vetro opacizzato, spezzano l’ordine quadrangolare del palco, e suggeriscono il luogo reale, quotidiano, della vita del personaggio, spiato anche qui da una telecamera.

Roofthooft si muove in questo spazio sorvegliato. Con estrema precisione segue le traiettorie dello sguardo delle telecamere, come imprigionato dal suo passato e dalle sue stesse strategie di difesa. Per tutta la durata dello spettacolo, la sua immagine, ora in primo piano, ora in piano americano, ora in dettaglio, viene proiettata sulla parete di fondo o della veneziana intermedia, ingigantita, trattata a volte in diretta con effetti di colorizzazione o di ralenti. L’immagine elettronica declina differenti articolazioni della visione e del rapporto reale/virtuale: può duplicare e amplificare la visione della scena, offrirne un punto di vista eccentrico, mostrando il viso dell’attore quando dà le spalle al pubblico ad esempio, o infine incrostarsi sul suo corpo, straniando e complicando la percezione, come nella sequenza in cui la proiezione dell’occhio incrocia il petto dell’attore in piedi sulla linea del proscenio. Ogni frammento narrativo, ogni momento di rivelazione si concretizzano sulla scena in una posizione specifica che Roofthooft assume rispetto al dispositivo e in un gesto ripetuto con i pochi oggetti presenti sul palco quasi nudo. Come lo sguardo dello spettatore è moltiplicato e conteso da diversi punti di attrazione, così lo sguardo dell’attore è duplicato e diviso fra la platea e la telecamera. In questo modo, Cassiers problematizza la comunicazione fra attore e spettatore, e tende intorno al dispositivo scena-sala una rete che ora avvicina e ora distanzia i due poli fondanti dell’evento teatrale. Oltre alla visione, anche il suono gioca un ruolo determinante in questa dialettica. Non solo la voce di Roofthooft è amplificata da un microfono, ma anche i rumori del suo corpo e degli oggetti che si trova a manipolare. Il respiro, i battiti, i fruscii, gli scricchiolii sono diffusi tramite un sistema di spazializzazione, che avviluppa lo spettatore e ne complica i punti di ascolto. La “gabbia-maschera” multimediale di Cassiers conduce lo spettatore nello spazio dell’interiorità, dentro i processi mentali e delle reazioni emozionali del personaggio. Questo palcoscenico mediatizzato diventa il luogo in cui non solo viene restituita la parola a chi è stato escluso dalla storia, ma in cui ci si immerge all’origine di questa parola e se ne segue il difficoltoso affiorare da una memoria vanamente rimossa.

Anche in Lipsynch di Lepage, seconda tappa di cinque ore di un work in progress ancora in corso, troviamo la storia di una vittima dimenticata, inserita però in un montaggio caleidoscopico di altre storie ad essa inconsapevolmente o meno legate. Prima di affrontare lo spettacolo, devo però dire due parole sull’atmosfera che lo circonda: assistere a una creazione di Lepage in patria è già di per sé un’esperienza interessante, che induce a interrogarsi sulla posizione che il teatro può assumere nella società contemporanea. Come prevedibile, il teatro è colmo, ma, cosa più interessante, di persone di tutte le età, fra cui molti giovani e giovanissimi, e all’apparenza di diversa estrazione. Già nel foyer si respira una tensione particolare, una specie di frenesia che sprizza dal chiacchiericcio vivace e che non si trasforma nel silenzio concentrato dei grandi eventi teatrali una volta entrati in sala. Al contrario, il pubblico continua a rumoreggiare, e un attimo prima dell’inizio dello spettacolo, esplode in un applauso.
Nella particolarissima situazione del Québec, provincia francofona nel cuore della cultura anglosassone che domina il mondo, Lepage ha acquisito con i suoi spettacoli un posto di beniamino nel cuore del pubblico, diventando quasi una sorta di star popolare nei confronti della quale la considerazione critica ed estetica si mescola ai reagenti più irrazionali dell’affetto e dell’identificazione. Se il rapporto fra il regista e il suo pubblico si articola secondo queste coordinate, l’evento teatrale e lo spettacolo subiscono anch’essi una trasformazione? In effetti, il teatro sembra ritrovare la spontaneità e il carattere festivo, liberandosi dall’etichetta polverosa di prodotto culturale d’elite che, almeno per quanto riguarda la situazione europea, rischia di soffocarne la vitalità e di porne in discussione la stessa necessità. Nell’ottica québecois, forse più libera da pregiudizi culturali e da rigide partizioni di generi, il teatro, anche quello artisticamente valido e sperimentale, mi sembra non perda completamente un certo valore spettacolare di intrattenimento – anche se, ammetto, la parola non mi piace – il che non significa a priori superficialità di argomenti, rifiuto della riflessione e routine estetico-formale. Condividendo l’esperienza di Lipsynch con il pubblico québecois, ho avuto l’impressione di capire meglio il teatro multiculturale e multimediale di Robert Lepage, che, come un funambolo, è capace di coinvolgere completamente lo spettatore nelle storie che racconta, avanzando sospeso in equilibro fra semplicità e complessità, ironia e pathos, narrazione e lirismo.
L’incipit dello spettacolo appartiene a quest’ultimo registro. Sulla scena spoglia, illuminata da una fredda luce blu, entra la soprano Rebecca Blankenship, la cui imponente figura bionda crea un immediato collegamento con I sette rami del fiume Ota, e canta l’aria struggente della sinfonia n° 3 di Henryk Mikolaj Górecki, le cui parole introducono al tema fondamentale della maternità, dell’origine dell’essere umano e della sua identità. Lepage non ci colpisce con un’immagine scenica, ma con una voce intensa, le cui vibrazioni sono ulteriormente amplificate e potenziate da un microfono, e ci introduce allo spettacolo attraverso una soglia profonda, che ci lascia come sospesi prima del teatro. La voce umana è infatti il cuore di Lipsynch, l’elemento conduttore le vicende dei sette personaggi raccontate nello spettacolo, organizzate in sequenze autonome il cui senso complessivo viene svelato nell’ultima parte dello spettacolo: Ada, cantante lirica si trova in un aereo a tenere fra le braccia il neonato Jeremy alla morte della madre, e decide di adottarlo; Thomas, compagno di Ada, neurologo di chiara fama è tormentato da dubbi religiosi e esistenziali; Marie, doppiatrice canadese, viene operata al cervello da Thomas, e dopo un periodo di convalescenza in cui perde l’uso della parola, si consacra alla ricerca del ricordo della voce del padre defunto; Jeremy, cresciuto, diventa regista cinematografico, e durante la realizzazione del suo primo film, vive un amore sfortunato; Sebastiàn, fonico impegnato nel montaggio sonoro del film di Jeremy, alla morte del padre torna in Spagna e si trova a fare i conti con il suo passato; Elizabeth, anch’essa doppiatrice, ex-prostituta dal passato oscuro, è accusata della morte di Toni, attore inglese amico di Sebastiàn; infine Lupe, madre biologica di Jeremy, è la vittima silenziosa all’origine di questi destini incrociati, giovane del Nicaragua venduta dalla zio a trafficanti tedeschi, violentata e costretta a prostituirsi ad Amburgo, città da cui sta sfuggendo proprio su quell’aereo dove invece trova la morte all’inizio dello spettacolo.
Come si capisce anche da questi brevi cenni, che non rendono certamente la complessità della trama, Lepage torna con Lipsynch al tipo di composizione caratteristico in particolare della grande epopea I sette rami del fiume Ota, riprendendo l’organizzazione combinatoria della narrazione, in cui le vicende individuali di diversi personaggi in epoche e luoghi diversi, che sembrano scorrere parallele, sono in realtà intrecciate in nodi invisibili che ne determinano il corso. In questo caso, a differenza della creazione su Hiroshima, non è la Storia a costituire il filo conduttore di queste tranches de vie, ma l’esplorazione del linguaggio, e, per citare l’assonanza francese voix/voie evocata nel programma di sala, la ricerca della propria voce e della propria strada nel mondo. Poiché la Storia non è il fulcro della narrazione, la collocazione cronologica delle varie sequenze non è specificata, ma esse slittano senza indicatori dal passato ai giorni nostri. Tutto si svolge in una temporalità particolare, una sorta di presente sospeso che procede per sussulti, quasi traducendo anche nell’organizzazione dell’azione scenica il décalage fra parola detta e riprodotta, immagine e suono, suono e senso, pensiero e linguaggio che accomuna le differenti vicende.
L’effetto di sospensione che abbiamo sottolineato riguardo all’incipit costituisce infatti una cifra dello spettacolo, legata anche al dispositivo scenografico ideato da Lepage e Jean Hazel. A partire da tre strutture mobili e modulabili, dotati di pareti scomponibili e schermi trasformabili, Lepage costruisce sul palcoscenico gli ambienti più differenti – aeroplani, treni, appartamenti, strade, metropolitane – unendo però in questo meccano in metamorfosi continua la complessità tecnologica della progettazione alla semplicità ludica di alcune soluzioni : l’atterraggio dell’aereo è reso dall’inclinazione repentina dei passeggeri e dal lampeggiare di luci stroboscopiche, le fermate della metropolitana dallo scorrere sul fondo scena del logo proiettato delle varie stazioni e dal passaggio dietro i finestrini di figure poste su carrelli. La scenografia viene trasformata a vista alla fine di ogni microsequenza narrativa, grazie all’intervento di numerosi tecnici : in questi silenzi, riempiti solo nella vicenda di Jeremy, in cui i servi di scena diventano i macchinisti del set cinematografico, guidati da una petulante e assai poco femminile direttrice, la rappresentazione si ferma, il flusso si interrompe, e rimane solo il rumore del lavoro teatrale. Un effetto così marcato, che ha disturbato alcuni spettatori, forse è imputabile ad un difetto di rodaggio dello spettacolo, visto che si tratta solo di una seconda tappa, ma credo che, benché perfettibile, il ritmo sincopato dell’azione faccia parte del senso d’insieme dello spettacolo. A questo proposito, non possono non venire alla mente gli ultimi due spettacoli di Ariane Mnouchkine, Le dernier caravansérail e Les éphémères, che, come la creazione di Lepage sono nati da un lavoro collettivo intorno a vicende individuali inserite in una riflessione più ampia sul fenomeno contemporaneo dell’immigrazione e sul valore universale delle piccole esperienze umane. Anche in questi casi, gli intermezzi fra una scena e l’altra, in cui gli attori si avvicendano a pulire, sistemare e preparare il palcoscenico, sono una maniera per rendere palpabile il teatro nel suo farsi e nella sua concreta materialità.

Lepage svela la costruzione della rappresentazione, e mostra gli artifici tecnologici di cui egli stesso si serve come regista, ma di cui si servono anche i personaggi all’interno delle loro vicende. Lo spettacolo mette in scena la difficoltà di comunicare e di ricordare che affligge in maniera sempre diversa i differenti personaggi, in un universo contemporaneo globalizzato, dove il viaggio, la comunicazione a distanza e la riproducibilità determinano non solo lo svolgersi dei destini individuali, ma modificano le modalità del pensiero, dell’azione e del racconto. Fra i tanti momenti significativi, mi limito a ricordarne due, che mi hanno particolarmente toccato. La prima è un’intervista a una donna che Thomas guarda sullo schermo del televisore, mentre sul lato del palco la scena viene ripresa in diretta con una telecamera. La donna, anziana, su una sedia a rotelle, con un marcato accento inglese e con una chioma che ce la fanno immaginare nelle campagne di oltremanica intenta a vendere torte a una festa di beneficenza, imbastisce un racconto di vari episodi della sua giovinezza, che ottiene inizialmente un effetto piuttosto comico. Ma a poco a poco, le continue precisazioni, gli inciampi nella testimonianza e le inesattezze linguistiche sempre più frequenti, spengono il sorriso e lo trasformano in compassione e soprattutto in una sorta di senso di colpa per non avere compreso : la donna è affetta dal morbo di Alzheimer, che sta stracciando in brandelli la memoria della sua vita, sta distruggendo la sua coscienza e la sua capacità di pensare e di comunicare.

In un altro racconto affidato ad una telecamera nella finzione, ma in realtà realizzato sul palcoscenico, la parola riesce invece a ricostruire il passato e a preservarne il ricordo. Lupe racconta a una giornalista il rito di iniziazione alla prostituzione coatta : lo stupro collettivo. Seduta su una sedia, Lupe mette insieme con fatica le parole, mentre dall’altra parte della scena, un uomo incappucciato, seduto anch’egli, si leva la camicia e passa le mani sul petto davanti a una telecamera. L’immagine del petto viene proiettata sull’abito bianco di Lupe, e mentre il suo racconto avanza, guardiamo con un disgusto che diviene insopportabile queste mani toccarla, mentre lei rimane impotente e noi spettatori muti testimoni dell’orrore. Come in Rouge décanté, il racconto mediatizzato, affidato alla telecamera o completato dall’immagine elettronica, acquista potenza ed intensità.

Lipsynch è una creazione ancora in formazione, che potrà svilupparsi in futuro secondo variazioni, metamorfosi e ampliamenti imprevedibili, e che probabilmente non ha ancora raggiunto la perfezione di funzionamento di un ingranaggio ben oliato. In ogni caso, come del resto gli spettacoli maggiori di Lepage, affascina già per la capacità del regista canadese di muoversi fra i registri, di raccontare il mondo di oggi fra iperrealismo e stilizzazione, in un intreccio necessario fra i temi e le storie affrontate, e le forme e i linguaggi convocati per metterle in scena. I due spettacoli presentati al festival di Montréal, pur nell’evidente e radicale diversità delle loro atmosfere e delle loro soluzioni, danno la misura di quanto il teatro oggi possa essere potente, e di come le ibridazioni intermediali offrano strumenti e metodi per inventare nuove forme, raccontare e svelare a se stessa l’umanità contemporanea.

Metamorphosis of the stage: The far side of the moon and Elsinore
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Published in E. Quinz,  Digital performance
Before Galileo turned his telescope toward its surface people believed the moon was a polished mirror, its dark scars and mysterious contours reflections of our mountains and seas.  The Soviets launched a probe to circle the moon. We faced a far and unseen side of the moon: a marked and disfigured  face  by scars ‘cause of meteorite.
R. Lepage, The far side of the moon.

In the South-central District of Montréal, in the premises of the C factory (former industrial ovens transformed today into a multi-functional stage by the founding company Carbon 14), at the Festival of Theatres des Amerique (2001) Robert Lepage presented The Far Side of the Moon with an original score by Laurie Anderson, in the same year as Kubrick’s Space Odyssey.

 The exploration of the moon by Americans and Russians (up to Galileo Galilei “mirror of the Earth”, as it is said in the Prologue) is the metaphor used by Lepage to speak about another search, that of the internal, intimate and private space.

It’s the story of two brothers, a meteorologist and a doctoral student (but also a subscriptions sale man always fascinated by extraterrestrial investigations). Estranged by their very different life style and dispositions, they meet again for their mother’s death. The moon and the mother, with their respective mythical and symbolic apparatus, are the spectacle’s two central theme which ceaselessly interlace. The two brothers’ life is spattered by “domestic investigations”: the circular shape of the astronauts’ helmet and that more common, of a washing machine’s window blend in a strange exchange which transforms themselves into the maternal uterus, into the image of Earth seen in Tv’s whether report, into the Moon, or also into a goldfish tank. Daily life and History, personal recollections and collective memory, both shaped by “an index” of image archives, are mingled the one with the other, until they merge. We came to the world like little astronauts who breathe for the firs time after the umbilical cord-back of the new born child, given by the midwife, thanks to which he breathes in his first oxygen blow, setting in the breathing process.

Will somebody really manage to build this enormous “Eiffel Tower” (reminiscent of Tatlin’s Monument for the third international) which, set up beyond the stratosphere, as we are told  at the beginning of the spectacle, should be able to pick up what remains a secret to us: the hidden side of the Moon? Which probe will ever manage to discover the most mysterious and repressed side of our Self?

 

 

 

ACTOR and MIRROR

Autobiography, journey and concrete objects are the inspiring motives of this spectacle:

 There are two departing points- Lepage explained to us-: the first idea was to work on the concept of the Cosmos, and of the Moon, the second was to create something related to my mother, who died two years and a half ago. The two themes didn’t seem to be linked at first, but met little by little: the moon is a rich and interesting subject, either for mythology and for the scientific aspect, but mostly it is the symbol of the Mother. It is then that I understood that the first subject could contain the other one.

Then, I wanted “to play” not only in the sense to interpret, but really to play as a child; I looked for the object capable of creating a link between the various themes and one day I found in the street, among waste, the circular window of a washing machine. At first I saw the scientific aspect (the object to travel in space), then the common object . I still remember a laundry where my mother had taken me when I was a kid. At the time it had seemed to be Nasa’s power plant”[1]

 The autobiographical theme, as an embryo for theatrical creation, seems to be constantly present in Lepage’s solo spectacles (Vinci, Les aiguilles et l’opium, Elsinore, Andersen Project). The chosen method to create the right distance with the particular episode (moral questions, the loss of a friend or a mother, a love crisis) and, at the same time maintain this background of authenticity and transform a confession into fragments of collective memory and experience, is the creation of a couple of characters bound to each other in different ways. The central autobiographical figure is linked to a character who actually is not really an antagonist an alter ego (also present under the shape of an electronic double), a living mirror which sometimes takes the role of a famous historical figure (Leonardo, Cocteau, Miles Davis, Andersen).

The unfolding of the spectacles always shows, not the contrast among  the various personality but the simultaneity of an internal individual conflict and an identity with multiple and complex facets, of a platonic dialectic of opposites: “Fragmentation of identity allows Lepage to balance person and character in a complex negotiation of self and other in which neither takes precedence”[2].

The double or the multiple binary of the narrative becomes a complex theatrical mechanism  since the show is conceived for a single actor on stage; it is the story’s role then to evoke the spectre of technology. Image-producing technology machines, the electronic apparatuses, panels, screens, are always, indeed, metaphor of a glance, internal or multiplied, and intervene to show the repressed, the hidden side of reality, exactly as the characters, historical or imagined, called to plead as witness-antagonists, are nothing but projections (mirrors or reflections) of an internal self, manifestly divided and literally broken in two, which calls for its own existence: “I used to look for my reflection in his courage, he was my mirror and today he is dead”; this is how Philippe, the protagonist of Vinci speaks about his friend Marc, who has committed suicide.

If in The Far Side of the Moon the characters-mirrors are the two brothers, united in amniotic liquid and by the mother’s umbilical cord, but separated in life; in Les aiguilles et l’opium, it is the protagonist who relives his own love drama (suffered as an abstinence crisis) following the model of well known stories of dependencies (Cocteau), of passions and separations (Miles Davis and Juliette Gréco). In Vinci the protagonist, a Canadian photographer, arriving in Europe after the death of a friend, makes a journey on Da Vinci’s grounds and finds himself confronted with the genius of humanism by raising questions relative to his own “artistic and moral integrity to protect it from profit-making mentality”: “An artist like you, who has inspired by the beauty of things, who loathed human suffering and feared cataclysm –how do you explain that you invented war machines, engines of destruction?” And Da Vinci answers with a sibylline sentence “Art is a paradox”.

 

THE ACTOR AND THE MACHINE: Elsinore and The Far Side of the Moon

 Elsinore, is a spectacle conceived for a single actor on stage, is based on a single place, Elsinore and it is the exploration of Hamlet’s mind: all the characters – as Lepage himself clarifies- are parts or interior projection of his same Self; they are places in his mind: “The father the ear, the mother the eyes, the actors the mouth”.

In 1913 Edward Gordon Craig had thought of representing Hamlet in Moscow (in collaboration with Stanislawsky) as a “mono-dama”, that is to say a tragedy lived as a dream through the eyes of the protagonist, Hamlet; in the scenic indication which illustrates the drawing concerning Act 1, scene 2 (The Gold Court, included in his book Towards a new Theatre) where Hamlet is shown separated from the reigning couple and court thanks to a balustrade, lying in a sacrificial position and in the shadow, Craig explains that all the drama’ characters are only projections of Hamlet’s own imagination. According to Craig in his dream Hamlet materializes all around and over him the court of Denmark, the place of all impiety, exactly as it appears to his eyes:

 “You see the stage divided by a barrier. On the one side sits Hamlet, fallen as it were into a dream, on the other side you see his dream, on the other side you see his dream. You see it as it were through the mind’s eye of Hamlet (…). It’s not an actual thing –it’s a vision”[3].

 To further underline the dynamics of the action, Craig manages to intervene in a decisive manner on the text, showing how it is necessary to think of the drama in its entirety to introduce the idea –which it wasn’t realized – expressed to Stanislawsky during a study day in Moscow, to keep Hamlet on stage always:

 “I would like Hamlet to always remain on stage, in every frame, during all the drama; he can remain on stage, in every frame, during all the drama; he can remain far, lying down, sitting facing the person acting, on the side, at the back but the spectator should never lose sight of him. I want the public to feel the existing contact between what is happening on stage and Hamlet: and in that way to feel, more strongly, the horror of Hamlet’s situations”.

 For Lepage a single scenic element through a mobile device holding multiple possibilities of movement and through the relation which it establishes with the character that lives inside its mechanisms, shows this indivisible and opposite polarity. Its only attribute is the ability to transform, its attitude is the mutability.

 “The combination of the moving set, continually creating new relationships between the performer and the space and the depiction of a range of backstage areas configures a number of the play’s themes. Elsinore is about instability, about a whirly of activity around a central figure, about continual tensions between a human figure and a piece of machinery which one could express, metaphorically as a tension between individual and state or even the human and the cosmic[4].

 Elsinore is the place, at the same time, physical and mental of the tragedy, at the centre of which is placed Hamlet, forced to stay in-between, to live separately-close to the corrupt court, relegated to an impossibility of free movement, while the scene ceaselessly moves around him (and not the contrary). All the characters in one, all the places in one: this scene machine (“humanized” as the stage designer Carl Fillon likes to define it[5]), subject to variations and changes, a true theatrical mask, takes expressions, faces and different personalities, transforms constantly. If all the scenes have been built as a basis for the movement of the scenic device itself, the actor is forced to follow its rhythm, its breath. He can cross it, remain suspended, lean on it and thus create a relation of symbiotic complicity. He can have a dialogue with it, and find some protection in it but also dangers between its cogs; a reversal of roles definitely takes place: the machine which has crushed its last artificial determinism to become a body, is the true protagonist and the actor a kind of “actorial supermarionette”, is the spare part. If the machine is humanized, the actor becomes a machine: “For me –Lepage explains- he machinery is in the actor, in his way of saying the text , of approaching acting: there is a mechanics in there also”. And also: “I tell stories with machines. The actor himself is a machine: I know that several actors do not like being spoken of as being machines but when you make theatre, it’s little like that” [6]. Craig’s prediction seems to turn out right.

But in Elsinore the theatrical machine is also the X-ray machine which penetrates into the meanders of Hamlet’s thoughts, and carries to his consciousness recollections and truths in the shape of images and which, as Horace, will tell his story. The technological theatrical machine becomes a lie detector, that is to say –like the title of one of the most famous Lepage’s spectacle-  a polygraphe: theatre is the place where the true is revealed.

 The far side of  the moon is, by certain aspects, the closest to Elsinore’s universe. Lepage creates, in fact a dark grey metal background which occupies all the depth of the stage, and which hides environments split by sliding panels; on its surface some images are projected which are extracted from documentaries on the moon’s discovery, super-8 films of the character’s life (memory as a television images store).

An opening in the middle, shows a glimpse of always different objects and environments: a cupboard, an elevator, rooms. Interiors.

To this background also corresponds a fourth physical wall: an enormous mirror which extends on all the length of the stage endowed with movements of rotation which transform it, either into an object of the stage, or into a reflecting ceiling, giving to the spectators, while the actor is moving at the ground, the impression of a duplicated body engaged in dance almost  in absence of any gravity. Like the screens of the “kinetic-visual” theatre of Gordon Craig (defined “the thousand scenes in one”) which allowed several combinations and variations adapting scenic environments to the requirements of the drama and partially realized for the Moscow Hamlet of 1913, the stage of Lepage’s mobile face transforms thanks to movement and light:

“The theatre is the art of transformation at all levels. Transformation becomes not a manner, but really the actual foundation of my work”[7].

The setting of the spectacle requires three complete working days and a team of fourteen people. The used mechanism makes one think of the old mechanisms and machinery (“ingenii”) of the Renaissance theatre, the time of invention of mobile stages and a true mixture of marvels and ars mecanica (remembering Vasari’s stage and the Buontalenti’s inventions for the Theatre of Uffizi in Florence).

Everything occurs as if there was another spectacle behind the spectacle: technicians and sound and light engineers, but also numerous “manipulators”, activating, behind the stage slaves move panels, set up the scenic arsenal and steer projectors by the means of ropes. As if they were activating a marionette. To explain the importance of the backstage, Lepage refers to Japan:

The first time I assembled a show, I played an improvisation in front of the technicians and machinists. The technician is the first co-worked and the first spectator. When I was in Tokyo, a person said to me that he worked in the “shadowy part” of the show; he explained to me that the Japanese theatre is a matter of balance between the light part  and the shadowy part of the show because there are two sides of the same medal. The Japanese is aware of the fact that theatre is a totality and that what takes place behind, at the level of technique or organization, has the same importance as what takes place on stage. Occidental theatre, on the contrary, is obsessed by the visible part of the scene, by the stage alone.

 The essence of Lepage’s theatre is a metamorphic stage, which transforms ceaselessly, and becomes all that the narration needs to develop and this, in all visibility to the spectators: technology is unmasked, its functioning is at sight because, as Lepage says “People are not worried by the technology which they understand”. And also: “Video has become totally domestic and common, one can thus uses it on stage. The principle is understood and, as a result, the spectators accept that technology can contain poetry”[8].

A technology, therefore, which does not want to arouse bewilderment, which doesn’t want to amaze the spectator but, on the contrary, reassure him: its use on stage always implies in fact, an effort of collaboration and creation between the two parts of the game (it is the purpose of theatre). Here we have in synthesis the idea of integrated technology according to Lepage: “You still have to give a lot of leeway to the audience’s imagination”; and furthermore:

 A lot of the technologies I use in my show are low tech, although they may look high tech. There are three slide projector, a bit of shadow play, and that it is. There is nothing else. There is a motor that makes the thing goes round, there is nothing originally high tech in any of the effects it produces, but may be it’s a god thing it looks like high tech, because it means you can actually do a lot with very little. There’s nothing that electronic about it…For me that is an interesting technology to let into the theatre now because people now know how it works. Fifteen, twenty years ago, when people did not have access to video camera, they would have been flabbergasted to see a production using video in this way. You put people in a very empowered position if you don’t show them the strings or give them the clues to your approach[9].

 Lepage mentions Osaka’s traditional Japanese puppet theatre (the bunraku theatre) where the oldest of the three manipulators removes his hood  and show his own face, giving thus a show of his own masterful manual ability (a special manner of manoeuvring puppet introduced in 1705 by the famous Tastumastu Hachirobei, and called de-zukai). So, in spite of his detractors (some critics spoke of an over use of technologies in his theatre) Lepage’s stage is always closer to the mechanical. His machine, as reminds the theatre critic Georges Banu, “is structured like an old tool: it doesn’t charm at all, dispute current technological performances and it does not belong to the extreme-contemporary as long as its devices and circuits makes the show not infallible and allow the hypothesis of the incident to stay open”[10] (which it could insure –if one follows Benjamin- a value of presence, aura and originality). Elsinore has known numerous technical inconveniences: at the Edinburgh Festival was necessary to suspend its programming.“A show –reminds Lepage –has to contain risks”.

 

The theatre and the fire.

 Lepage speaks of light and its opposite, shadow as fundamental constituents of his stage;  his definition is partially inspired by Leonardo Da Vinci’s theory of art and partially by Japanese Theatre:

 Every year, since the XV-th century, the Japanese inaugurate the NO Theater Festivals with light spectacles at night and they use fires to illuminate the stage. Even if you consider it  shape of art or a form of entertainment, the purpose is to celebrate light.

We owe the first apparition of Theatre in History, to the light, as Lepage reminds:

 Technology is the re-inventation of fire. At the beginning of Theatre, lots of centuries ago, the actor spoke with the spectator in front of the fire and with his shadow behind. Fire is a natural element but its use marks the beginning of technology and at the same time, the beginning of Theatre: afterward, all the various uses of fire are became painting, cinema, video…Fire was replaced by technology, it supplies electricity but people still come to the theatre to sit down around the fire. People want to assemble and listen to stories: it is the same thing today as centuries ago. It is the same philosophy: every time I have to re-invent the use of fire.

 With this sentence Lepage leads reflection to an anthropological dimension, and posits technology in a close relation to the concept of theatrical communities, which bring us as Victor Turner wrote, to reconsider the birth of the theatre from rite, from the “social drama” and from the oral world.

“The paideia of orality –underlined the Italian philosopher Carlo Sini- favoured a high identification with the tale. It was necessary to take position in favour of Achilles or Hector; there was no place for a neutral attitude and even less for an aesthetic listening. Oral memory and its creativity are collective phenomena”[11]. The question aroused by this enhanced theatre is bound to a kind of perception and participation and sharing the theatrical event with the audience, which technology itself seeks: “People want direct life, three dimensional interaction, and that’s something that belongs


[1] Robert Lepage interview by Anna Maria Monteverdi, Montréal 6 June 2001. Direct speeches and quotations must be considered as being a part of this conversation. The interview is a part of the videodocumentary La faccia nascosta del teatro (by Anna Maria Monteverdi and Giacomo Verde, 2002) and is included in A.M.Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage, Pisa, Biblioteca Franco Serantini Editori, 2004. For more information see: www.ateatro.it

[2] J. Bunzli,  Autobiography in the house of mirrors: the paradox of identity reflected in the solo show of Robert Lepage, in J. Koustas, J. Donohoe, Theater sans frontieres, Michigan State University, 2001.

[3]E.G.Craig, Towards a new Theatre, London, 1913;

[4] A.Lavender, Hamlet in Pieces, New York, 2001

[5] Cf. Carl Fillon interviewed by Anna Maria Monteverdi in About Elsinore, a videodocumentary about the setting of Elsinore (2002).

[6]R.Lepage “Le Devoir”, 16 Nov., 1995

[7] R.Charest, Connecting Flight, London, TCG, 1999, p. 161

[8] R.Lepage, Histories paralleles “Les Inrockuptibles”, n.77, nov. 1996

[9] R.Lepage in conversation with R.Eyer; on line: http://nt-online.org/platforms/robertlepage.html

[10] G. Banu, Theatre et technologies ou Celui qui dit oui/ Celui qui dit non in « Cahier du Theatre Jeu », n. 90, 1999

[11] C.Sini, Filosofia e scrittura, Bari, Laterza, 1994, p.29

A proposito di Hamlet: Wilson e Lepage.
63

Riflessione sul volume di Andy Lavender Hamlet in pieces (New York, Continuum), analisi di trespettacoli ispirati al testo shakesperiano: Hamlet: a Monologue di Robert Wilson, Qui est là, Peter Brook ed Elseneur di Robert Lepage. 

Teatro immagine, teatro tecnologico, teatro della tradizione della ricerca. 
Due di questi spettacoli furono concepiti come solo (Wilson e Lepage); tutti e tre i lavori di questi maestri della regia contemporanea furono progettati e allestiti tra il 1995 e il 1996.
Approfitto del tema libro per ricucire ragionamenti (che forse ci portano anche lontano dalle conclusioni del libro stesso) offerti dalla personale memoria dello spettacolo di Wilson (utilizzando il videodocumentario The Making of a Monologue, Usa, 1995) e di Lepage (utilizzando, anche in questo caso, la registrazione audiovisiva realizzata a Londra in occasione dello spettacolo al Royal National Theatre di Londra, consultabile presso l’Archivio di Lepage) La coincidenza temporale causò anche qualche piccolo inconveniente e contrattempo:

“Nel 1993 poco prima di dare via al mio progetto”, ricorda Robert Lepage nel libro-intervista di Rémy Charest, “incontrai Bob Wilson a Toronto e mi disse della sua idea di fare una regia di un Amleto come one-man-show. Come me, voleva fare la parte di tutti i personaggi e il suo spettacolo sarebbe iniziato solo due mesi prima del mio. E durante un incontro che ebbi a Monaco, Peter Brook mi disse che era interessato all’Amleto di Shakespeare specialmente nella questione della traduzione. Dati tali progetti, mi trovai in una terribile situazione e per un po’ misi da parte Amleto“. 

Si tratta, in realtà, di lavori molto distanti: Lepage allestisce una scena tecnologica-modernista (nonostante il tentativo della critica di voler legare l’opera di Lepage con il teatro-immagine di Wilson), Wilson sintetizza e accentua il dramma nel ricercato contrasto bianco e nero delle luci di scena, Brook guarda alla tradizione del teatro (Craig, Stanislavskij, Artaud, Mejerchol’d, Zeami).
Le sezioni del saggio di Lavender propongono una sorta di cronistoria degli spettacoli e un’analisi delle diverse fasi di creazione (nel caso dello stesso Lepage assolutamente essenziale per comprendere il senso più profondo dell’opera, la quale scaturisce proprio da una lunga elaborazione a più mani ed in cui cambiamenti sostanziali intervengono anche a lavori ultimati, dando vita a numerose varianti – interpretate da attori diversi da Lepage – di uno stesso spettacolo; il suo teatro è un vero “cantiere in costruzione permanente”). Scopo dichiarato del libro: cercare di indagare come sono state create le diverse interpretazioni dal testo shakesperiano. Partendo da Wilson, la caratteristica del suo Hamlet non è la variazione della trama, ma è l’abolizione della trama stessa all’interno della più generale abolizione del tempo della storia.
Secondo Wilson il testo di Shakespeare è una roccia. Wilson mette in scena il testo-roccia che viene a sua volta letteralmente inglobato nell’attore. Questi si fa cavità entro cui si raccoglie l’intera opera letteraria. L’immagine che Wilson suggerisce per darci un luogo (in senso craigghiano) e sopra il quale l’attore si presenta nella prima e più famosa scena è, appunto, la roccia, anzi una serie di lastre di pietra sovrapposte. Lastre di pietra che non sono elemento scenografico, ma appunto il testo di Shakespeare. La roccia non è immune al divenire. Esso accade, si sgretola, si demolisce. Quei pezzi man mano che si prosegue nello spettacolo diventano parte del corpo dell’attore stesso. Molti strati di roccia all’inizio fino a diventare niente perché totalmente assorbiti dall’attore. La metamorfosi della roccia va di pari passo con l’evoluzione della storia, con il suo divenire e l’attore ne è parte integrante. Nel finale la roccia diventa il baule del trovarobato teatrale: gli abiti dei personaggi (ovvero, tutto quello che rimane quando la storia è già stata raccontata) sono diventati il mestiere dell’attore. All’immagine della roccia Wilson pone una luce. Tutto è calcolato perfettamente con effetti computerizzati e l’attore deve adattare i propri tempi alla macchina. Le luci hanno una base che si stabilisce tra il bianco e il nero e tra il nero e il nero. A questi si accompagna un riflettore che mostra dettagli che sono i simboli dell’intero dramma. La luce direzionale permette di offrire un elemento costante dell’intero spettacolo: è il braccio, che è la vera arma. E’ l’assassinio, è il gesto fratricida (Caino che uccide Abele), è il gesto archetipico della civiltà: il primo unico gesto fondatore. La nostra civiltà è segnata dal gesto. L’attore-Amleto evoca la Regina Gertrude che ha un braccio artificiale.
Il testo viene frammentato e ricomposto sulla base di temi comuni, anticipando a posticipando eventi o prelevandoli da situazioni diverse ma solo esclusivamente dall’Amleto. Il movimento è circolare, il testo non è letto nella sua successione ma si muove dalla fine e si ritorna alla fine. Tutto è presente contemporaneamente. La storia che viene racconta è già accaduta. Tutto sembra costruito come una sorta di flashback, il movimento è all’indietro, un riaffiorare di parole nella memoria di Amleto. Aver distrutto la trama, confuso le battute, ha fatto distruggere la stori: il teatro non è più ripetizione ma nuovo sguardo. Con questo tema ci troviamo in pieno nel teatro di ricerca: palcoscenico è il luogo dove ci si colloca oltre il tempo della narrazione per privilegiare il tempo-ora, quello dell’istante e della complessità. L’elemento portante di tutto il lavoro di Wilson è, indubbiamente, la luce; 370 unità di luci e speciali stoffe per il fondale per provvedere all’effetto di “blackness”; il nero è il colore predominante associato allo spettacolo: il suo visual book (un vero story board in 15 riquadri appena abbozzati e riportato nel libro di Lavender) creato per la preparazione dello spettacolo mostra schematicamente questo accentuato contrasto bianco e nero. Il nero è ora una tenda laterale (con un evidente richiamo alla “tendina cinematografica”), ora il fondale, ora il sipario teatrale (che ribadisce la natura “teatrale” della storia: la scena è, cioè, continuamente “incorniciata”).

Elseneur (1995) si basa su un luogo – come mi ha precisato Lepage in una intervista – ed è un’esplorazione della mente di Amleto. Tutti i personaggi sono luoghi della sua mente: il padre l’orecchio, la madre gli occhi, gli attori la lingua; tutti i personaggi dell’Amleto sono, dunque, parti del suo stesso io. Ma la testa di Amleto, è a sua volta contenuta in un altro luogo, Elsinore, appunto. Un unico elemento scenico, un dispositivo mobile e roteante (progettato dal geniale stage designer Carl Fillion) attraverso le sue molteplici possibilità di movimento ed attraverso la relazione che instaura con il personaggio che abita dentro i suoi meccanismi, mostra questa indivisibile e opposta polarità. L’unico suo attributo è la trasformabilità:

“The combination of the moving set, continually creating new relationships between the performer and the space, and the depiction of a range of backstage areas configures a number of the play’s theme. Elseneur is about instability, about a whirly of activity around a central figure, about continual tensions between a human figure and a piece of machinery which one could express, metaphorically, as a tension between individual and state, or even the human and the cosmic”. (A. Lavender, Hamlet in pieces. Shakespeare reworked by Peter Brook, Robert Lepage, Robert Wilson, New York, Continuum, 2001) 

Carl Fillion, come mi ha raccontato nel corso di un’intervista, ha creato un prototipo basandosi dapprima sull’immagine, fornita dal regista stesso, di un monolite e poi sul movimento del corpo umano. La forma finale risultante è quella di un cerchio inscritto in un quadrato, simbolo dell’armonia, della perfezione e dell’uomo stesso: un enorme pianale metallico quadrato è collegato a dei motori che gli permettono di alzarsi in verticale a 180 gradi, spostarsi orizzontalmente, diventando indistintamente muro, soffitto o parete. Il dispositivo (che lo stesso Lepage chiama “the machine”) contiene, invisibile, un disco circolare che permette ulteriori rotazioni, lente o veloci. Esattamente collocato al centro, un varco rettangolare, una porta (o finestra o tomba). Alla struttura furono aggiunti due schermi laterali per le immagini in proiezione.
Importantissima l’indicazione fornita da Lepage al set designer Fillion circa il tema del monolite su cui il regista avrebbe voluto costruire l’intero dramma perché, a suo avviso, sintesi visiva del dramma: il blocco unico del monolite non può essere scalfito ma può assumere, teatralmente parlando, angolature diverse. Il monolite di pietra (che nel progetto di scena diventerà, invece, di metallo) è Elsinore, il mondo della corte, duro e compatto, a simboleggiarne la disumanità e la falsità: non è, infatti, attraversato dalla luce, non è trasparente. Ed è infinitamente più grande dell’uomo stesso. In riferimento al monolite ideato da Lepage per l’Amleto non sfuggirà all’occhio degli studiosi di teatro il richiamo ai numerosissimi disegni, progetti di scena e bozzetti preparatori di Edward Gordon Craig per Amleti e Macbeth mai realizzati e alle xilografie che illustrano gli screen (pannelli semoventi progettati per l’Amleto di Mosca in collaborazione con Stanislavskij, 1912). Questi materiali, da intendersi come idee o visioni dal testo di Shakespeare lontane da una specifica produzione, mostrano proprio altissime e massicce architetture di pietra, colonne monolitiche, pilastri giganteschi scanditi da una luce vibrante che incombono minacciosamente su una scena che si impone per il suo caratteristico respiro verticale e per la sproporzione tra essa stessa e l’attore. Elsinore è il luogo, al tempo stesso fisico e mentale, della tragedia, al cui centro è collocato Amleto, costretto a “stare tra”, a vivere separato-unito dalla corte corrotta, relegato ad un’impossibilità di libero movimento, mentre la scena si muove incessantemente intorno a lui. Questa macchina (“umanizzata”, come piace definirla allo stesso Fillion), soggetta a variazioni e mutevolezze, vera maschera teatrale, assume espressioni, volti e caratteri diversi, trasformandosi continuamente, vivendo di vita propria. Se tutte le scene sono state costruite in base al movimento stesso del dispositivo scenico, l’attore è obbligato a seguirne il ritmo, il respiro, attraversandola, standovi in bilico, aggrappandovisi, creando una relazione di convivenza simbiotica, dialogandovi, trovando in essa protezione ma anche pericoli mortali tra gli ingranaggi; è chiaro che avviene un rovesciamento dei ruoli: la macchina, che ha spezzato le sue ultime determinazioni artificiali per essere corpo, diventa vero protagonista e l’attore, diventato una sorta di “macchina attoriale-Supermarionetta”, suo deuteragonista. Se la macchina è umanizzata, l’attore diventa macchina: “Pour moi, la machinerie”, ammette Lepage, “est dans l’acteur, dans sa façon de dire le texte, d’approcher le jeu: il y a une mécanique là-dedans aussi “. La profezia di Craig sembra avverarsi. 1 Ma in Elseneur la macchina è anche la macchina a raggi X che penetra nei meandri dei pensieri di Amleto portando all’evidenza della sua coscienza ricordi e verità in forma di immagini e che, come Orazio, racconterà la sua storia.

1. “Je raconte des histoires avec des machines. L’acteur en soi est une machine. Je sais que plusieurs acteurs n’aiment pas q’on parle d’eux comme étant des machines mais lorsque tu fais du théâtre, c’est un peu ça “, R. Lepage, in Lepage tourne la page, “Le Devoir”, 16 novembre 1995. Sul rapporto che, nello spettacolo di Lepage, lega luogo e attore e sul tema della mobilità della scena riconosciamo, le medesime soluzioni progettate da Craig con i suoi screens. Così Ferruccio Marotti spiega tale rapporto: “La scena di Craig muta il suo volto non per seguire il filo di una storia, bensì per creare il luogo ideale per ogni stato d’animo, per ogni emozione, per ogni atmosfera (…) Craig creava non più un’immagine immobile ma una visione dinamica dello spazio, privo di qualunque soluzione di continuità; e ogni elemento in scena – compreso l’attore – diventava una funzione spaziale, era integrato nello spazio puro, nel suo divenire e trasmutarsi continuo sotto l’impulso dell’ispirazione poetica”. F. Marotti, Amleto o dell’oxymoron, Roma, Bulzoni, 1966, p. 73.

LA WALHALLA MACHINE: LEPAGE e WAGNER
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Lepage l’inarrestabile: dal Cirque du soleil a Wagner.

Pubblicato su Interactive Performance e su Carte Sensibili e in A.M. Monteverdi, Rimediando il teatro con le ombre, con le macchine, con i new media, La Spezia, Ed. Giacché, 2012.

Un successo senza fine

Chi visita il sito ufficiale di Ex Machina, la struttura di Robert Lepage con quartier generale a Québec City, fa fatica a crederci. Il numero di allestimenti e produzioni (concerti, spettacoli di prosa e d’opera, installazioni luminose, proiezioni videoarchitettoniche, pubblicazioni fotografiche d’arte) che la R. L. inc. firma annualmente è impressionante, come impressionante è il numero di spettacoli in tournée contemporaneamente in tutto il mondo da anni, cosa assolutamente impensabile per qualunque produzione italiana.
La Face Cachée de la Lune (che ha debuttato nel 2001) è di ritorno da un tour in Grecia, Andersen Project (realizzato nel 2005) è stato negli States nel 2012, Le Dragon Bleu è ora in Canada, Eonnagata in Giappone, The Nightingale and Other Short Fables in Olanda, Lypsinch in Australia, mentre New York ha chiuso l’anno 2011 con Il crepuscolo degli dei a firma di Lepage al Metropolitan.

Nel giro di pochi anni Lepage ha firmato uno spettacolo di ispirazione shakesperiana (The Tempest), interpretato da nativi in esclusiva per una regione del Canada, il Wendake; una gigantesca proiezione videoarchitettonica sui silos del porto di Québec City per i 400 anni della fondazione della città (The Image Mill) e due scenografie per il Cirque du Soleil (compagnia internazionale di nuovo circo con base a Montréal, fondata nel 1984 da Guy Lalibertè e Daniel Gauthier). Si tratta di Totem (2010, set designer Carl Fillion) Ka (2005, spettacolo stabile al MGM Theatre di Las Vegas; set designer Mark Fischer, l’architetto che ha firmato anche i concerti dei Pink Floyd e degli U2; una scheda completa suWikipedia).

Ma la vera fatica titanica lo ha visto impegnato, a partire dal 2008, nella regia dell’intera tetralogia wagneriana per il Metropolitan di New York diretto dal maestro James Levine. Il ciclo dell’Anello dei Nibelunghi è stato inaugurato la scorsa stagione con Das Rheingold e Die Walküre, è proseguito con Siegfried  nell’ottobre 2011 e si è concluderà nel gennaio 2012 con Die Götterdämmerung; l’intero ciclo verrà riproposto al MET nella sua interezza tra il 25 aprile e il 2 maggio 2012. Ogni produzione di Lepage è un evento accolto con enorme entusiasmo dal pubblico (ma non sempre con eguale entusiasmo dalla critica), a cui seguono girandole di premi, riconoscimenti prestigiosi che a loro volta attirano nuove commissioni milionarie. Anche il MIT di Boston lo ha recentemente insignito di un premio, l’Eugene McDermott Award in the Arts.
E’ passato molto tempo dall’epoca in cui, per finanziare i suoi primi film negli anni Novanta, come ricordava in un’intervista, era irritato alla sola idea di andare a chiedere finanziamenti per i suoi progetti artistici, a un “civil servant“. Oggi sono le grandi Fondazioni, i teatri internazionali a contenderselo a suon di milioni di dollari.

L’opera: a great meaning place
Nonostante il notevole cambio di scala rispetto ai palcoscenici e al pubblico degli inizi, la coerenza artistica di Lepage è degna di nota. Il regista e interprete quebecchese trasporta temi, motivi e idee del teatro di ricerca in territori a esso insoliti: negli stadi per i megaconcerti pop o nelle opera houseper i classici della musica lirica, veicolando in spettacoli per il grande pubblico la profondità narrativa, la visionarietà immaginifica e l’ingegno tecnico che caratterizza i suoi spettacoli teatrali. Le sue scene impongono anche un certo impegno acrobatico agli attori/ballerini/cantanti: la struttura metallica ideata per il Growing Up Tour, che si staccava da terra per salire verso l’alto, obbligava Peter Gabriel a cantare a testa in giù; in Ka gli artisti precipitano dall’alto di una piattaforma; nel ciclo wagneriano i cantanti cavalcano imponenti quanto virtuali cavalli, in bilico su una struttura alta otto metri.Nella piattaforma ideata per la tetralogia di Wagner è il movimento stesso della macchina scenica (insieme con le luci e le proiezioni) a creare una drammaturgia e un interessante dialogo con l’attore: alzandosi verticalmente, disponendosi perpendicolarmente essa evoca molteplici “luoghi”: montagne altissime, profondità marine, campi di battaglia. Quando si attraversano altri territori dell’arte la qualità della ricerca teatrale non si disperde, ma si estende ai diversi luoghi dello spettacolo, modificandone le convenzioni:

I’ve worked a lot with Peter Gabriel; his music isn’t operatic, but he creates big, popular gatherings to which architecture, dance and music are all invited. Opera needs a major makeover; the large opera houses are too in thrall to their conservative patrons. Opera should be a place for art forms to meet. It includes music, litterature, architecture, set designing, fine arts, choreography. Opera is a great meaning place.”

E’ proprio nell’ambito dell’opera che Lepage si è cimentato per la prima volta con la sua sperimentazione scenica più ardita, un’architettura in grado di accogliere immagini 3D ed effettistica cinematografica: l’ha utilizzata nella regia de La Damnation de Faust da Berlioz nel 1998 (rimasto in repertorio all’Opera di Parigi dal 2000 al 2005).

 

Per la regia del ciclo wagneriano, Lepage ha chiamato a collaborare, oltre al solito Fillion, anche i collaboratori tecnici, artisti, videomaker, i creatori di effetti visivi, persino i produttori esecutivi del Cirque du Soleil, forse gli unici in grado di garantire un allestimento all’altezza di un teatro dalla fama colossale come il Metropolitan di New York.
Anche Josef Svoboda disegnò le scene della tetralogia di Wagner Der Ring des Nibelungen, e addirittura per tre volte: al Covent Garden a Londra (1974-76), al Grand Théâtre di Ginevra (1975-77) e al Théâtre Antique d’Orange, in Francia (1988). La versione londinese, in cui lo scenografo cecoslovacco utilizzò il laser, è quella più vicina alla ipertecnologica versione di Lepage. E tra Svoboda e Lepage non bisogna dimenticare la versione “techno” dell’Anello dei Nibelunghi a firma della Fura dels Baus. 

Nella versione del 2008 de L’anello dei Nibelunghi per il Metropolitan di New York diretto dal maestro James Levine, Lepage vi aggiungerà anche un sistema di motion capture che cattura i movimenti dei cantanti e integra attori e immagini in una scena dall’aspetto di un enorme videowall. Un modo, come lui stesso racconta, per “tentare di illustrare l’energia della musica di Berlioz, estenderla non decorarla“. La tecnologia amplifica l’energia della musica perché:

“The survival of the art of theatre depends on its capacity to reinvent itself by embracing new tools and new languages. In a way, innovators in both arts and sciences walk on parallel paths: they have to keep their minds constantly open to new possibilities as their imagination is the best instrument to expand the limits of their fields.”

 E’ impossibile dissociare Lepage dal suo giovane e altrettanto geniale stage designer Carl Fillion, con il quale crea da sempre quelle macchine sceniche per le quali è universalmente acclamato. Con lui ha dato vita al mondo d’ombre viventi e video di The seven streams of the river Ota, al dispositivo roteante di Elsinore, il marchingegno per il suo più folle progetto di one-man-show; ai pannelli scorrevoli, specchianti e proiettabili di La face cachée de la lune. E’ Carl Fillion a spiegare il segreto con cui egli trasforma un’unica scena, da un’idea iniziale discussa insieme con Lepage, in un vortice infinito di luoghi:
I like to transform the scenic environment by creating elements that move and turn, on stage, in full view of the audience. My main visual signature as a designer can be found in the way I sculpt the space and keep it in motion.
 
 Per la regia del ciclo wagneriano, Lepage chiamerà ancora Fillion e si trascinerà dietro proprio i collaboratori tecnici, artisti, videomaker, i creatori di effetti visivi, persino i produttori esecutivi del Cirque du soleil, forse gli unici in grado di garantire un allestimento all’altezza di un teatro dalla fama colossale come il Metropolitan Square Garden di New York.
Per l’atmosfera del Crepuscolo degli dei la scena si libera di ingombranti oggetti per ospitare un unico monstrum leonardesco che sembra uscito dalle mani di un alchimista d’altri tempi, un erede naturale della fantasia avanguardista di Svoboda. La flessibilità e la trasformabilità, come in tutte le scenografie di Lepage, sono le caratteristiche primarie di questaWalhalla Machine e respirano insieme con l’attore che le sovrasta. Nel corso dell’intervista contentuta in Wagner’s Dream, lo stesso Lepage rivela che l’idea della macchina che contiene tutti gli ambienti gli è venuta in mente pensando all’Islanda, alla sua formazione vulcanica e tettonica, alle sue crepe e solchi dovuti alla lava, agli avallamenti e insieme alle enormi montagne, concentrati tutte in uno stesso paesaggio, tra ghiaccio e fuoco. Ancora una volta, come già accadeva in Elsinore, anche se in scala decisamente più ridotta, e poi anche con Ka, il gigantesco dispositivo progettato per il Cirque du Soleil in cui l’attore recita mentre tutto è in movimento, la macchina ha una conduzione “manuale”. La tecnologia precede: inventa, dispone, prepara, ma a guidarla è la mano dell’uomo. Ecco allora il protagonista incontrastato della scena, l’enorme macchina progettata da Fillion per l’intera tetralogia, vera opera di ingegneria meccanica, fatta di 45 assi di 9 metri di fibra di vetro ricoperta di alluminio, mobili autonomamente l’uno dall’altro e che si sollevano e ruotano a 360° grazie a un complesso sistema idraulico che permette un gran numero di forme differenti, diventando la spina di un dragone, una montagna o il cavallo delle Valchirie
Gli attori-cantanti, spesso meno agili e longilinei degli atleti del Cirque du Soleil, sono collocati sopra la struttura in posizioni davvero difficili: in alto, in bilico, scivolando sulle assi, arrampicandosi. I cantanti hanno anche dei “doppi” in veste di acrobati, che li doppiano nei movimenti troppo complessi.
La prima scena del Rheingold, con la famosissima ouverture con l’arpeggio in miB (che introduce il leitmotiv dello scorrere del fiume, delle onde, in un crescendo di strumenti), è il preludio alla scena delle Ondine, le figlie del Reno custodi dell’oro del loro padre. Questa scena ha sempre destato molte preoccupazioni per i registi, a causa della difficoltà di immaginare una scena che si svolge sott’acqua. In alcuni casi l’acqua è realmente presente in teche trasparenti in cui le Ondine sono sommerse (come nella versione della Fura dels Baus), ma di solito per simulare le onde vengono utilizzate stoffe azzurre, facilmente eliminabili dalla scena (come nella regia di Marininski per il Covent).
Lepage immagina tre sirene che scivolano in questo azzurro elettronico, con leggerezza, calandosi dalla macchina, nuotando o lasciandosi andare a corpo libero con il solo aiuto di una fune; intorno a loro una proiezione piccole pietre di mare e bollicine. Lepage spiega che:
“What happens in Das Rheingold is that we’re in a world of mists and lightning, and fire and water, an elemental realm. That’s why the set is morphing into these elements that remind us of rocks and spines. As we move on, and the Ring tells the story of demigods and human being and eventually of society, and social classes and ranks, the set slowly moves toward architectural propositions.”
 L’inclinazione dei piani si presta a un gioco di voli di scale che fa ricordare i disegni di Adolphe Appia per Wagner.
I movimenti dell’architettura di scena (costruita da Scène Éthique di Montréal) avvengono con intervalli da 5 o 10 minuti e sono controllati in parte a mano in parte da un computer. Un’uso – pare – strabiliante e fortemente realistico del 3D senza visori da parte del pubblico, è stato creato per le scene della foresta in Siegfried. Qua l’animazione con i movimenti possibili della macchina.
 Così Lepage:
It was important that we create a theatre machine that would be similarly versatile—a set that had its own life and could actually go through different metamorphoses but, at the same time feel very organic. Very early on, we decided to create a spine to the set that allows us to move things and articulate things. So the set is actually not only illustrating some of the ideas in the Ring, but it’s also literally supporting the characters and the ideas…it was important for us that the set be very nimble, very flexible, very adaptable, and alive, so that it not only moves, but it also breathes”.
 La chiameranno la Walhalla machine, qua in azione per la Cavalcata delle Walkirie. E, da vera diva, strappa applausi a scena aperta. Ecco il trailer ufficiale del MET di New York:
 Sulla superficie di questi assi che somigliano a tasti di un gigantesco pianoforte e che nei movimenti ricordano un po’ i mostri fantasy di Dune, vengono proiettate immagini in videomapping, a mostrare alberi della foresta, caverne, le acque del Reno. Sono state usate sia immagini statiche che immagini interattive, quest’ultime ottenute grazie a un sistema di motion tracking da telecamere.Réalisations con Maginaire inc., hanno realizzato gli effetti video 3D e interattivi gestiti dal software Sensei.
La macchina scenica complessiva è di tali proporzioni e di tale pesantezza (45 tonnellate) che il Metropolitan ha fatto sapere di aver rinforzato il palcoscenico. I giornali hanno parlato di “un’affascinante combinazione di complessa tecnologia e semplicità estetica”, “traditionale e rivoluzionario” ma anche di una produzione “troppo simile a un musical di Broadway” mentre il N.Y. T. va giù ancora più pesante e titola la recensione: Ring V/s Spider man.
Produzione dunque, che rimarrà negli annali anche per l’impiego di una tecnologia avanzatissima e per il numero straordinariamente alto di tecnici e progettisti, e di conseguenza, per essere forse uno dei più costosi allestimenti teatrali di tutti i tempi (si parla di sedici milioni di dollari). Cosa che non sembra aver preoccupato molto Peter Gelb, general manager del Metropolitan dal momento che ha venduto l’esclusiva della diretta HD ai teatri e ai cinema di quaranta Paesi. Per Lepage, dunque, un sold out esteso a tutti i media del pianeta.
Per chi non ha potuto vederlo dal vivo al MET può comunque vedere lo spettacolo in video grazie al cofanetto di 5 dvd appena messi in distribuzione per la Deutsche Grammaphone. Il costo non è per tutti, ma è sempre minore del biglietto per lo spettacolo teatrale (che arrivava fino ad alcune migliaia di euro). Nel cofanetto i 4 dvd corrispondono alle quattro opere (pur legate in un unicum come voleva Wagner, dalla storia, la saga germanica dei Nibelunghi) ovvero Das RheingoldDie WalküreSigfried,Gotterdämmerung. Il quinto dvd è il documentario Wagner’s Dream”: più che raccontare il processo creativo, mostra il dietro le quinte (o meglio, in questo caso, il “sotto le quinte”) della mostruosa macchina tecnologica progettata dal mago delle scene di Lepage, Robert Fillion.