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Al Teatro Dimora L’Arboreto dal 2 al 5 luglio Chroma Keys residenza creativa per la ricerca e la produzione della performace site-specific di Motus per Santarcangelo Festival
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residenza creativa per la ricerca e la produzione della performace site-specific di Motus per Santarcangelo Festival

di Enrico CasagrandeDaniela Nicolò e Silvia Calderoni
tecnica e video design Paride DonatelliAndrea Gallo e Alessio Spirli (aqua micans group)
una produzione Motus con Santarcangelo Festival
con il sostegno di MiBACTRegione Emilia-Romagna
si ringrazia Matteo Marelli per la collaborazione

residenza creativa L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino

 

Abbiamo bisogno d’aria, dell’imprevisto degli spazi aperti… e, come in un piano sequenza senza inizio né fine, di metterci ancora in viaggio con altri esseri alieni. Dopo anni di tournée in teatri oscuri e artificiali, luoghi connotati e uscite di sicurezza, torniamo allo smarrimento del Fuori. Per questa edizione del festival, tutta all’insegna dello stupore/terrore per l’imprevisto, scegliamo proprio il cuore di Santarcangelo, piazza Ganganelli, per sondare i nostri peak. Questa performance-scheggia impazzita di Panorama è un tributo dal sapore cinematografico all’andare senza meta, sfidando gli angoli inquieti della percezione visiva. I vecchi artifici, Truka e Chroma Key ci aiuteranno a spostare l’asse del vero, ad aggiungere finzione alla finzione, “assaltando l’impossibile” sino a… che fare? Ad esempio, lanciarsi in una corsa sfrenata con l’auto ed entrare dritti in mezzo al mare, come i protagonisti di Pierrot le fou di J.L. Godard!

Presentazione

7 – 8 luglioore 21.30 – Piazza Ganganelli – Santarcangelo di Romagna (RN)
nel programma di Santarcangelo Festival

 

Motus nasce nel 1991, compagnia nomade e indipendente, in costante movimento tra Paesi, momenti storici e discipline. I fondatori Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, animati dalla necessità di confrontarsi con temi, conflitti e ferite dell’attualità, fondono scenicamente arte e impegno civile attraversando immaginari che hanno riattivato le visioni di alcuni tra i più scomodi “poeti” della contemporaneità. Compie venticinque anni la compagnia fondata da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò: un anniversario importante per il gruppo, esploso negli anni Novanta con spettacoli di grande impatto emotivo e fisico, che ha saputo prevedere e raccontare alcune tra le più aspre contraddizioni del presente. Ha attraversato e creato tendenze sceniche ipercontemporanee, interpretando autori come Beckett, DeLillo, Genet, Fassbinder, Rilke o l’amato Pasolini, per approdare alla radicale rilettura di Antigone alla luce della crisi greca o a una Tempesta shakesperiana, interpolata da Aimé Césaire, capace di evocare la tragedia dell’emigrazione e di creare instant community in tutto il mondo.
Hanno ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui tre premi UBU e prestigiosi premi speciali per il loro lavoro. Silvia Calderoni, attrice di Motus dal 2005, ha vinto diversi premi tra cui premio UBU come migliore attrice Italiana (2009), MArteAwards (2013), Elisabetta Turroni (2014) e Virginia Reiter (2015).
Liberi pensatori, portano i loro spettacoli nel mondo, da Under the Radar (NYC), al Festival TransAmériques (Montréal), Santiago a Mil (Cile), Fiba Festival (Buenos Aires), e in tutta Europa.

www.motusonline.com

The plot is the revolution-video doc di Motus in memoria del LIVING THEATRE
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Un documentario a cura di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, con Judith Malina, Silvia Calderoni, Tom Walker e Brad Burgess. Inserito nel programma HELLO STRANGER, il progetto speciale che la città di Bologna dedica a Motus in occasione dei 25 anni di attività. Un percorso nella poetica della compagnia riminese con spettacoli, installazioni, film, incontri verso direzioni inesplorate, alla ricerca di ogni “altro” possibile.

Motus è un gruppo teatrale nomade e indipendente fondato nel 1991 a Rimini da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, che non concepisce frontiere tra Paesi, generi e forme artistiche. Ha realizzato spettacoli teatrali, performance, installazioni e workshop partecipando a grandi festival internazionali.

#hellostranger #motus25

 

Il documentario è il montaggio di una serie di materiali video inediti delle prove al Teatro di Clinton Street di New York dell’estate 2011. Questo backstage è la storia di un innamoramento e della caduta progressiva di barriere fra due compagnie e due attrici che sono entrate in telepatica simbiosi. Il tutto avvenne in quella sala che purtroppo oggi non esiste più: nel febbraio 2013 il Living è stato sfrattato e Judith Malina trasferita nel New Jersey, in una casa di riposo per anziani attori, dove ha trovato la morte, serenamente, il 10 aprile 2015.

 

Regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò
riprese Daniela Nicolò
montaggio Iolanda Di Bonaventura
con Judith Malina, Silvia Calderoni, Tom Walker e Brad Burgess.
Produzione Motus

Foto:

Motus, The Plot is a revolution- vido doc foto di Tiziana Tomasulo

 

TEATRO MULTIMEDIALE. Dall’opera d’arte totale al cyber teatro. Saggio di AMM (2005)
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(pubblicato su Encyclomedia, 2005)

 Le stesse forme solide, sotto l’occhio dell’attore, un vero e proprio mago, potranno muoversi, cambiare, animarsi, vivere insomma su tutti i piani del teatro ed in tutti i sensi. Ma che mi sia ancora permesso di immaginare adesso lo spettatore futuro in una gabbia di plexiglass con due busti e due volti come i personaggi delle tele cubiste di Picasso. Circondato da suoni, da luci, da colori, da forme, da ombre, sarà sensibile, e con tutti i suoi sensi, a tutte le moltitudini di combinazioni, di armonie, di ritmi, di motivi melodici, sensibile a tutti i punti, rette, curve, angoli conici, linee visive, uditive, statiche, che si svolgono nel magnifico e straordinario caleidoscopio teatrale….. Per il momento, tranquillizziamoci, non abbiamo che uno stomaco ed un cervello. Ma tutto è possibile. Poliéri

 Digitale significa Teatro.

 Le caratteristiche delle tecnologie multimediali digitali stanno delineando nuovi scenari economici, sociali, cognitivi e linguistici: scrittura e lettura sempre più ipermedializzati stanno modificando secondo Thomas Maldonado il processo stesso della memoria umana mentre Lev Manovich afferma che il sistema informatico sta influenzando il sistema culturale nel suo complesso.

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Il teatro non risulta impermeabile a questo divenire multimediale della società sia pur con notevoli resistenze: le nuove tecnologie digitali trasformano radicalmente tutte le fasi produttive dello spettacolo, dalla progettualità alla sua dimensione scenica, coinvolgendo anche il contesto stesso di ricezione (dall’osservazione all’immersione) in relazione al prodursi di nuove modalità ibride di creazione e di comunicazione artistica. L’idea di multimedialità (termine oggetto di un vivace dibattito teorico, cfr. A.M.Monteverdi, A.Balzola, pp.21) e conseguentemente di interattività, è stata variamente sperimentata nel mondo delle arti sceniche (così come nelle arti visive e sonore) sin dalle avanguardie storiche e dalle seconde avanguardie, trovandone una prima definizione (ed una significativa dimensione interdisciplinare), e precede o addirittura prefigura l’innovazione tecnologica che la concretizza ovvero il digitale con la possibilità di trasferimento, elaborazione e interazione di qualsiasi testo, immagine o suono nell’ambito dello stesso metamedium. Nuove frontiere per il teatro si aprono grazie alle possibilità di conversione in un unico intercodice (“la sinestesia obbligata del digitale“, come ricorda Derrick De Kerchove) e al principio di variabilità, interattività, ipermedialità, simulazione (L.Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, ) proprie del sistema integrato digitale, una vera e propria nuova concezione del mondo che obbliga a ripensare l’arte nel suo rapporto con la scienza e con la tecnica. Non più, dunque, operazioni artistiche separate tra loro dalla tecnica: “Il testo, o meglio l’ipertesto drammaturgico il progetto scenico, la partitura sonora-musicale, l’installazione, il video il software, lo spettacolo, non appartengono più a generi diversi ma divengono fasi di un processo aperto, tassello di un mosaico spaziale e temporale mutante, flessibile e comunicativamente forte”.

Similitudine di funzione e di processo: se nella ormai storica formulazione teorica di Brenda Laurel (Computer as Theatre, 1993) il teatro serve da modello per la rappresentazione dell’interazione uomo-computer, la nozione di environment, di performance, di event accomunerebbe proprio spettacolo live e multimediale digitale (A.Pizzo, p.19-24; J. Murray). Così come ogni spettacolo si dà qui e ora, nella “compresenza fisica reale di emittente e destinatario” e nella “simultaneità di produzione e comunicazione” (M.De Marinis,), nella sua immediatezza, nell’attualizzazione di un testo che non esiste se non nell’insieme di relazioni (umane-spaziali-temporali), anche il digitale vive in un tempo percepito come presente e come un continuo generarsi di processi (un tempo fatto cioè “non più di eventi, come il tempo televisivo, ma di infinite virtualità”, ricorda Edmond Couchot), nella interazione tra macchina e agente attraverso interfacce. Secondo tale approccio teorico sarà proprio la presenza del digitale in scena (e non genericamente dell’audiovisivo che appartiene all’era della “riproducibilità”) ad “aumentare” (enhanced theatre è una delle definizioni del teatro digitale) il senso di presenza e di liveness del teatro. I termini della questione posti da Walter Benjamin vanno così ridefiniti a partire non più dalla perdita dell’aura dell’opera in una prospettiva digitale e virtuale dell’arte, ma di un’acquisizione di datità reale, nella “generazione senza referenzialità”seguendo il pensiero di Pierre Lévy e Philippe Quéau, perché il virtuale crea “un nuovo stato di realtà”  (P.Queau, Le frontières du virtuel et du réel in L.Poissant (a cura di) Esthétique des arts médiatiques, (vol.1), Presses de l’Université du Québec).

 Continuità e rottura.

Verso una (nuova?) sintesi scenica dei linguaggi.

Il digitale propone modalità tecniche ed espressive sia di rottura che di continuità. Rottura rappresentata dalla tecnologia di sintesi numerica, in base alla quale non c’è più un rapporto generativo con la realtà materiale, e continuità con alcuni principi cardine del modernismo e dell’avanguardia del Ventesimo secolo, specificamente teatrale: l’unione dei linguaggi -anche quelli della tecnica-, la partecipazione allargata dell’evento spettacolare, la ricercata condizione di azione e interazione (di cui l’interattività appare oggi come la realizzazione concreta), la creazione di un ambiente dalla “totalità percettiva” e sinestetica (“la sinestesia è l’inclinazione naturale dei media contemporanei” affermava l’artista video Bill Viola).  La prospettiva multimediale del teatro – come hanno dimostrato Béatrice Picon-Vallin, Denis Bablet, Nicola Savarese, Andrea Balzola, Fréderic Maurin- perfeziona l’utopia di sintesi delle arti delle avanguardie storiche: la Gesamtkunstwerk di Wagner (l’opera d’arte totale o comune o unitaria secondo le diverse traduzioni) ovvero il dramma unificante di parola e musica (Wor-Ton-Drama) espresso in particolare ne L’opera d’arte dell’avvenire (1849), da inscriversi nell’onda poetica e di pensiero del Romanticismo tedesco (Goethe, Schelling) pur suscitando posizioni e interpretazioni ad esso divergenti e addirittura opposte nei registi fondatori del teatro moderno che trovarono inadeguata la riforma scenica del compositore tedesco, fondamentalmente prefigurava una comune aspirazione a un’ideale di accordo dei diversi linguaggi componenti lo spettacolo, in sostanza una “strategia della convergenza, della corrispondenza e della connessione” (E.Quinz, in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p.109).

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Teatro diventa, pur nella diversità delle proposte teoriche, un campo magnetico per tutte le arti (Kandinski): dalla totalità espressiva del nuovo teatro di Edward Gordon Craig operata dal regista-demiurgo luogo di una “musica visiva”, alla sintesi organica e corporea di arti dello spazio e arti del tempo secondo Adolphe Appia, alla composizione scenica astratta di suono, parola e colore di Wassily Kandinsky sorretta dal principio costitutivo dell’unità interore che non doveva oggettivare la realtà ma costituire un evento spirituale capace di suscitare vibrazioni e risonanze condivise dal pubblico. Ancora, il teatro della totalità del Bauhaus con la rappresentazione “simultanea sinottica e sinacustica” di Moholy-Nagy, la “simbiosi impressionista dei linguaggi” della multiscena tecnologica di Josef Svoboda che negli spettacoli della Lanterna Magika combinava in una composizione sincronica, plastica e sonora, l’azione dell’attore o del danzatore, la scena cinetica, il suono stereofonico, gli schermi di proiezione mobili e il cinema.

Infine il programmatico “No Borderline between Arts” di George Maciunas per il movimento Fluxus, non più scultura, poesia e musica ma evento che inglobi tutte le discipline possibili. Sintesi, totalità e sinestesia: principi che si sono declinati in una rinuncia agli spazi tradizionali del teatro all’italiana per rivitalizzare in senso espressivo e relazionale, nell’ottica di una “drammaturgia dello spazio” (M.De Marinis, 2004) luoghi trovati dell’esperienza quotidiana connotati in questo modo di un carattere di efficacia drammaturgica. Il teatro si apre a condividere altre spazio-temporalità, altre modalità narrative, integrando la tecnica e trasformandola in linguaggio espressivo sin dalle prime esperienze simboliste, all’indomani dell’invenzione della luce elettrica, con Gordon Craig e Adolphe Appia. Si tratta di un cammino verso una narrazione non lineare e cinetico-visiva affine al montaggio cinematografico, verso inedite modalità di avvicinamento fisico allo spettatore fino a una sua inclusione nell’opera attraverso un percorso ambientale e “reattivo” e una sempre più spinta dilatazione tecnologica fatta di dispositivi diversi e strategie scenografiche adeguate a soddisfare un’esigenza di prossimità o una mobilità rispetto all’evento o agli eventi sparsi, mobilità che riguarda anche lo scavalcamento di ruolo e intercambiabilità tra attore e pubblico. Dalle imprevedibili azioni di disturbo delle spettacolazioni composite futuriste fino all’attacco “alla sensibilità dello spettatore” teorizzato da Antonin Artaud che nel Secondo manifesto del teatro della crudeltà, parlava di un teatro che “grazie alla soppressione della scena, si estenderà alla sala intera e, partito dal suolo si arrampicherà sui muri […], avvolgerà fisicamente lo spettatore, lo terrà in un’atmosfera ininterrotta di luce, di immagini, di movimenti e di rumori”.  Anche l’evoluzione dei media di immersione e le tecnologie di realtà virtuale per convogliare esperienze artificiali multisensoriali hanno una lunga storia rintracciabile nella pittura, nel cinema, nel teatro e affondano le radici negli scorci prospettici rinascimentali in cui l’osservatore era illusionisticamente incluso nello spazio dell’immagine e nelle ingegnose macchine barocche per i cambi di scena (N. Savarese, pp.242-249). La ricerca di una partecipazione dell’osservatore nell’opera si inaugura con i panorami pittorici a 360° e con l’esperimento polivisivo o cinema simultaneo di Abel Gance (Napoléon, 1927), per proseguire con il Cinerama presentato all’Esposizione mondiale di Parigi che proponeva dieci film da 70mm proiettati contemporaneamente, pionieristico tentativo di espandere il campo visivo dei film sfruttando le zone periferiche dell’occhio umano, con il Sensorama, con il Cinema espanso e quello in 3 D, ed infine con i visori stereofonici Head Mounted (HMD) progettati da Ivan Sutherland nel 1966 e finanziati dall’Esercito americano. Da una parte il cinema delle avanguardie “chiama al lavoro dello sguardo ma anche al coinvolgimento di tutti i sensi” (S. Lischi, in A. Balzola, A.M.Monteverdi, p.62) con schermi semisferici o rotanti, simultaneità di proiezioni, alterazioni di velocità, generale sovvertimento della passività dello spettatore, dall’altra il teatro con macchinari per muovere le scene, piattaforme girevoli, palcoscenici simultanei e circolari, proiezioni cinematografiche (Mejerchold in Terra capovolta), scenografie dinamiche e tridimensionali innovative (rampe elicoidali per R.U.R. di Kiesler) si apre alla percezione di quella che Maria Bottero con una bella immagine definisce “la curvatura del mondo”, verso cioè una multidimensionalità e un nuovo rapporto tra attore e pubblico raggiunto sia con l’architettura sia con l’uso di immagini cinetiche sincronizzate con l’azione scenica (M. Bottero, Frederick Kiesler, Milano, Electa, 1995). L’architetto Walter Gropius dichiarò che lo scopo del suo Teatro totale progettato per Piscator doveva essere quello di trascinare lo spettatore al “centro degli avvenimenti scenici” ed “entro il raggio di efficacia dell’opera”. Erwin Piscator il regista fondatore del Proletarisches Theater nella Germania della fallita Rivoluzione di Novembre di Karl Liebknech e Rosa Luxemburg e pioniere di una scena multispaziale e multimediale secondo una famosa definizione di Fabrizio Cruciani, in Ad onta di tutto (1925) inserì sia immagini fisse che il film documentario, ovvero pellicole autentiche che mostravano gli orrori della guerra; in Oplà, noi viviamo (1927) insieme con lo scenografo Traugott Müller progettò una costruzione scenica a più piani prevedendo un largo impiego, oltre che dei disegni di George Grosz, di proiezioni cinematografiche per creare “una connessione tra l’azione scenica e le grandi forze che agiscono nella Storia”. L’Endless Theatre di Frederick Kiesler, il Teatro anulare di Oskar Strandt, il teatro ad U di Farksas Molnàr fino ai più recenti dispositivi di Poliéri (la sala giroscopica, la scena tripla, la sala automatica mobile, scena e sala telecomandate, ruotanti e modificabili), sono alcuni esempi di una ricerca volta a determinare un allargamento della cornice scenica, che avvolgesse letteralmente il pubblico in un ideologica spinta alla partecipazione globale.

 

Il Teatro dei mezzi misti: il paradigma dell’interdisciplinarietà, dell’ambiente e dell’interazione.

Musica,  danza e film con esclusione drastica del testo o addirittura della parola, il carattere “attimale” dell’opera in base al quale conta principalmente l’accadere dell’evento (lo spazio-tempo reale a volte dilatato per diverse ore) e il contesto ambientale (i luoghi urbani), vengono definite le caratteristiche del nuovo teatro dei mezzi misti, o intermedia, che si inaugura con 18 Happening in 6 Parts  nell’ottobre del 1959 alla Reuben Gallery di New York sotto gli auspici del fondatore, Allan Kaprow: nastri non sincronizzati, diapositive proiettate, suoni e rumori provenienti da un autoparlante, pareti affrescati con collage, oggetti sparsi, azioni eseguite meccanicamente e frasi ripetute da attori si susseguivano in un alternarsi di luci colorate davanti e intorno a un pubblico invitato a spostarsi nelle tre camere separate da pareti di plastica in cui era stato suddiviso lo spazio. Queste le costanti dell’happening individuate dallo storico e artista Michael Kirby: struttura a compartimenti (unità di azioni distinte e autonome, realizzate in sequenze o simultanee e in luoghi diversi); carattere non verbale (prevalenza di suoni puri); assenza di matrice (di tempo, luogo e personaggio); azione indeterminata (ma non improvvisata); uso di materiali concreti, quotidiani; utilizzo di elementi alogici. Kirby rintraccia anche l’eredità nei Merzbau di Kurt Schwitters (1923-1924), nella tecnica e nel principio compositivo del collage e dell’assemblage dada e neodada (da Max Ernst e Jean Arp a Robert Rauschenberg), nello spettacolo futurista (l’integrazione sonora e rumoristica e le declamazioni simultanee del Teatro della Sorpresa di Marinetti e Cangiullo) e dadaista (Relache di Picabia con partitura di Satie, 1924). A questo bisognerebbe aggiungere anche i ready-made di Marcel Duchamp e il concetto di rifunzionalizzazione estetica. Ma l’influenza più diretta sarebbe data da un lato dalla musica indeterminata di John Cage (e dal concerto-evento Untitled event al Black Mountain Collage del 1952) dall’altro dall’action painting, dalla pittura gestuale, dalla teatralità dell’azione artistica, dalla pratica ambientale dell’arte e dall’agire performativamente dentro l’opera. Naturale evoluzione dell’happening è l’enviromental theatre o teatro ambientale: alla fine degli anni Cinquanta Richard Schechner esplorava lo spazio trovato della città -già luogo deputato di manifestazioni e di sit in di protesta- aggiungendo al fatto teatrale una dimensione ambientale, decretando come ricordava il regista americano fondatore del Perfoming group, la fine del “punto di vista unico, sorta di marchio di fabbrica del teatro tradizionale”. Nel testo Six Axioms for Environmental Theatre (1968) Schechner sviluppa la nuova idea di teatro: il fatto teatrale è un insieme di rapporti interagenti (tra gli attori, tra il pubblico, e tra essi e lo spazio e gli elementi della rappresentazione); tutto lo spazio è dedicato alla rappresentazione ed è dedicato al pubblico; l’evento teatrale può avere luogo sia in uno spazio totalmente trasformato sia in uno spazio <<lasciato come si trova>>; il punto focale è duttile e variabile; ogni elemento della rappresentazione parla il suo proprio linguaggio; il testo non è necessariamente il punto di partenza o lo scopo della rappresentazione. E potrebbe addirittura non esserci”.

Dal Teatro-azione agli ambienti inter(e)attivi

Il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina nella sua lunga attività contro il teatro di rappresentazione a favore di un teatro-vita che nella pratica scenica si tradurrà in una ricerca ben salda agli ideali libertari anarco-pacifisti, volta ad attivare un’esperienza comune di consapevolezza sociale e il Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine e la loro messa in scena della creazione collettiva della Storia, hanno posto l’accento sulla tematica politica e sociale del teatro quale luogo di un’azione condivisa. Insieme a Luca Ronconi e al suo lavoro teatrale degli anni Sessanta e Settanta sull’originale messinscena della “spazialità nascosta del testo” (Balzola, p.) e sulla simultaneità delle azione sceniche dai testi-fiume di Holtz, Ariosto, Kraus in luoghi extrateatrali drammaturgicamente significanti come il Lingotto e l’ex Orfanotrofio Magnolfi di Prato, questi gruppi della neoavanguardia sperimentale hanno ridefinito i contorni di un nuovo luogo teatrale  (che poneva anche l’accento sulla rifunzionalizzazione artistica degli spazi della collettività: il Teatro-Territorio, secondo una definizione dell’architetto Gae Aulenti). Luogo teatrale espanso e dilatato che viola lo spazio prossemico dello spettatore, spezzando le tradizionali “barriere architettoniche” e il principio stesso della frontalità, liberando una soggettiva selezione di visione, e ponendo le condizioni per una partecipazione – in senso fisico ed ideologico – all’azione scenica, prefigurando le possibilità immersive delle tecnologie multimediali e delle installazioni interattive e di realtà virtuali.

Se il pubblico diventava co-protagonista nell’Antigone del Living Theatre attraverso un allargamento dello spazio della scena a tutta l’architettura teatrale e ne Gli ultimi giorni dell’Umanità era libero di muoversi nello spazio operando un proprio montaggio di visione, nelle installazioni di Myron Kruger definite dall’artista significativamente Responsive Environments (come Videoplace), in quelle di David Rokeby (a partire da Very Nervous System, 1986) e soprattutto negli ambienti sensibili di Studio Azzurro (come Coro e Tavoli) l’obiettivo dichiarato è quello di creare un’esperienza sensoriale e relazionale, creativa e soggettiva di dialogo tra osservatore-performer e ambiente, attraverso un dispositivo elettronico sonoro, visivo e grafico: “Uno spazio socializzato è il senso primo della nostra definizione di ambienti sensibili. Si tratta di pensare a contesti dove l’atto interattivo non sia confinato ad una dimensione individuale, come capita nella maggior parte dei casi con questi sistemi (una persona determina il dialogo e altre eventualmente stanno a osservare). Contesti in cui al dialogo con la macchina si associ e si mantenga anche il confronto, anche complice, con le altre persone(…)E’ una garanzia per partecipare alle scelte, che saranno sempre più frequenti nella nostra società proprio per il diffondersi dei sistemi interattivi di consultazione, meno soli e isolati da un confronto umano ancora indispensabile” (Paolo Rosa, Rapporto confidenziale su un’esperienza interattiva, in S.Vassallo, A. Di Brino Arte tra azione e contemplazione).

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Immersione partecipativa, ricerca di uno spazio sensoriale e sollecitazione ad una visione e un ascolto “sinestetico”sono alcuni degli obiettivi di molti artisti multimediali che approdano così, quasi naturalmente in un territorio prettamente teatrale verso una “dramaturgia dell’interazione opera-pubblico che trasferita in teatro diventa interazione opera-attori-pubblico e segna un decisivo passaggio dal video in scena alla scena-video interattiva e sinestetica” (A.Balzola, 2004): “Videoambientazioni, con questo termine cercavamo di evidenziare non solo la relazione con lo spazio, ma il dialogo tra uno spazio e gli elementi messi in gioco, superando la dimensione puramente scenografica. Il teatro era già presente in embrione come ambito nel quale sconfinare, del quale interessarci per lo sviluppo naturale della ricerca nella videoinstallazione. Era inevitabile pensare al teatro anche come luogo dove continuare a sviluppare la pratica della narrazione, da svolgere attraverso i monitor, il rapporto tra lo spazio e chi lo fruisce, lo spettatore o l’attore (Studio azzurro, Camera astratta, Ubu, 1988) Nello spettacolo Studio azzurro Giacomo mio salviamoci! (1998, versi, lettere di Leopardi) l’intera scena è un ambiente virtuale parzialmente interattivo dove i personaggi con le loro azioni possono provocare eventi visivi e sonori. L’evento spettacolare per Giardini Pensili è invece uno spazio dinamico, un’opera-ambiente fatta di suoni e immagini rigorosamente live e in metamorfosi digitale continua. L’immersione è resa possibile da una “iperstimolazione sensoriale” visiva e acustica (R.Paci Dalò, Pneuma, 2005): suoni dalle frequenze anomale, gravi e sovracute, inseguono e avvolgono lo spettatore attraverso sistemi di spazializzazione multicanale (come in Metamorfosi con Anna Buonaiuto e Italia anno zero) associati a strati di immagini-sinopie trattati digitalmente che affiorano a tratti con ritardi, effetti e rallentamenti (Metrodora, Stelle della Sera).  Esperienze sensoriali quasi destabilizzanti per lo spettatore sono inoltre, quelle provocate dalle performance del gruppo austriaco Granular Synthesis  e quelle del collettivo giapponese di danzatori Dumb Type che lavorano sulle astrazioni video, sulla scomposizione granulare del suono e sulle subfrequenze che sconvolgendo i canoni tradizionali dell’ascolto e della visione alla ricerca di una corrispondenza tra segnale elettromagnetico e recettori visivi, tra attività neuronale e processo digitale, trovando nel tecnologico una grande metafora del contemporaneo.

Dal teatro-immagine alla Postavanguardia

Il Teatro-immagine è legato alla figura di Robert Wilson, punto di riferimento di quella ricerca teatrale degli anni Settanta volta sempre più ad uno “spazio definito nella sfera del visivo” (S. Sinisi, Dalla parte dell’occhio. Esperienze teatrali in Italia, 1972-1982), verso una raffinata visionarietà antinarrativa sempre più affine alla processualità e allo spazio-tempo tecnologico (cinematografico e video). Da A Letter for Queen Victoria (1974), Einstein on the Beach (1976), Edison (1979)  realizzati con effetti luministici colorati a forte vocazione pittorica e improntati a un’estetica minimalista (anche nel suono, grazie al contributo fondamentale della musica ripetitiva di Philip Glass) fino a Monsters of Grace (1999) quest’ultimo contenente animazioni computerizzate in 3D, Wilson ha da sempre modellato i suoi spettacoli-quadro in un’ottica di totalità e sintesi architettonica tra le parti: scritture di luci e suoni, ritmi visivi e sonori calcolati al secondo con azioni rarefatte e rallentate, aderenti sistematicamente al principio dello slow motion e del loop.

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In Hamlet: a Monologue (1995) la luce diventa un tema, con una propria autonomia espressiva ed emotiva, quasi fosse luce-stato d’animo mentre l’effetto visivo generale rimanda alle tecnologie audiovisive, quasi fosse un video ad alta definizione: l’intenso sfondo luminescente rispetto al corpo dell’attore simula infatti un particolare effetto mixer, l’effetto intarsio o chromakey. Il teatro-immagine segna una stagione particolarmente fertile che vede tra i protagonisti Mario Ricci, Giuliano Vasilicò, Simone Carella e Memé Perlini il cui spettacolo Pirandello: chi? (1973), tra “frammenti-immagine”, corpi-manichini che emergono dal buio grazie alle luci di taglio e citazioni dal cinema surrealista viene considerato il Manifesto della nuova tendenza. Ma il passaggio a un’estetica teatrale legata ai nuovi media si ha con la Postavanguardia,  ufficializzata nel 1976 a Salerno alla rassegna diretta da Giuseppe Bartolucci. Invaso da altri linguaggi (cinema, fotografia, fumetti, musica rock, mass media, fantascienza) e attirato dalla fascinazione urbana, il teatro della postavanguardia “accentua ulteriormente gli aspetti visionari dello spettacolo e agisce sulle facoltà percettive del pubblico per attirarlo in un cerchio di suggestioni di carattere ipnotico” (A.M.Sapienza). Sono protagonisti: Simone Carella (regista di Autodiffamazione, spettacolo astratto senza attori), la Gaia scienza di Giorgio Barberio Corsetti (La rivolta degli oggetti), il Carrozzone (primo nucleo dei Magazzini criminali, con I presagi del vampiro, manifesto programmatico del loro teatro analitico-esistenziale). Successivamente spettacoli come Punto di rottura (1979) dove quattro monitor sezionano lo spettacolo e Crollo nervoso (1980) degli ex Magazzini Criminali diventano un fondamentale punto di riferimento per la successiva generazione teatrale sempre più spinta verso le suggestioni dei mass media (A.Balzola, in A.Balzola, A.M.Monteverdi, pp.306-311; ed inoltre A.Balzola, 1995)

Videoteatro anni Ottanta

La rassegna Paesaggio metropolitano/Teatro-Nuova Performance/Nuova Spettacolarità (1981), inaugura un nuovo teatro che si esprime attraverso l’esplorazione dei media e si ispira al panorama della metropoli e dell’immaginario cinematografico e videografico. Krypton, Falso movimento di Mario Martone, la compagnia di  Giorgio Barberio Corsetti con Studio Azzurro esploreranno radicalmente, sia pur con modalità profondamente diverse, il territorio della multimedialità definendo con alcuni spettacoli-manifesto, i contorni tipologici di una stagione teatrale innovativa significativamente definita “video teatrale”: “L’esperienza videoteatrale in Italia nella prima metà degli anni Ottanta (…) sperimentava le nuove possibilità tecniche offerte dal video attingendo alle invenzioni , ma anche imboccando itinerari propri: dialettica straniante tra corpo reale sulla scena e corpo virtuale sullo schermo; sperimentazione di modalità di ripresa che interagissero fisicamente con i corpi degli attori/danzatori; ossessione dei primi piani e dei particolari dei volti e dei corpi che a teatro sfuggono in un quadro percepito sempre, inevitabilmente, come totale e lontano; suggestione dei colori freddi e brillanti dell’elettronica; uso in funzione espressiva della bassa definizione, della sgranatura materica e delle scie luminose dell’immagine video; elaborazione dell’immagine in post-produzione, con l’ausilio del mixer e del computer, soprattutto lavorando sulle chiavi cromatiche, sugli effetti di scomposizione dell’inquadratura e di montaggio” (A.Balzola, 1995).

Prologo a diario segreto contraffatto e Camera astratta (1987) di Giorgio Barberio Corsetti e Studio Azzurro rimangono gli spettacoli più emblematici di quest’epoca in cui si introduce una struttura complessa di dialogo tra corpo e ambiente, tra luce e spazio, tra immagine video e presenza attoriale. In Prologo vien allestita una doppia scena, una materiale e una immateriale, una visibile e una invisibile, ovvero il palco agito di fronte al pubblico e un retroset dove gli attori vengono ripresi mentre la loro figura intera è riproposta al pubblico in diretta, ricomposta su quattro file di tre monitor impilati. In Camera astratta invece un’architettura geometrica mobile attraversava il palco in varie parti, con monitor posti su binari o montati su assi oscillanti e sospesi come un pendolo: in una perfetta sincronia di movimenti, incorporavano e scomponevano il corpo dell’attore con un passaggio continuo e fluido della narrazione dal video al teatro. Nell’idea degli autori la Camera astratta è la mente stessa del personaggio e gli eventi dello spettacolo sono come le emanazioni-manifestazioni degli istanti-pensiero che attraversano questa scena interiore.

 

Dispositivi di visione

La Duguet nel celebre saggio Dispositif (1988) ricorda come sia stato proprio il teatro degli anni Sessanta a offrire i paradigmi e le premesse per una spazializzazione e temporalizzazione delle opere video intese non solo come immagine ma come dispositivi multipli che innescano un processo di durata e letteralmente di “esplosione” verso l’esterno, verso il contesto spaziale: la messa al bando del punto di vista unico, l’apertura ad una temporalità plurima, la partecipazione dello spettatore ad un evento reale, fisico e immediato, il suo coinvolgimento in un percorso narrativo, percettivo ed emotivo. La presenza di schermi  e monitor in scena comporta necessariamente una diversa partecipazione e una diversa disposizione percettiva poiché le immagini sono decontestualizzate, frammentate, velocizzate, simultanee su più schermi e lo spettacolo diventa “polivisuale e sembra che siano convocati tutti gli stadi della storia del nostro sguardo” (B-Picon-Vallin). L’effetto prodotto richiama secondo molti critici, alla molteplicità di  prospettive e alla scomposizione della figura umana delle avanguardie pittoriche primonovecentiste, quella cubista principalmente. In Marat Sade (1984) di Carbone 14, compagnia di Québec creata da Gilles Maheu nel 1980, La Dispute da Marivaux di D. Pitoiset (1995) e in The Merchant of Venice (1994) di Peter Sellars, il video sottolinea il volto, ferma il tempo e isola il gesto; volti che sembrano imprigionati nella scatola televisiva, come le teste “ritagliate” su cuscini nelle videoinstallazioni di Tony Ousler. Il video in scena introduce il cosiddetto “effetto specchio” diventando dispositivo psicologico introspettivo (come in Hajj, dei Mabou Mines, 1981). Il corpo dell’attore viene replicato e il suo doppio elettronico rimette allo sguardo dello spettatore l’immagine di un’interiorità invisibile e indicibile: è il passato o l’altrove, il nascosto e il perturbante, la memoria e il vissuto.

In Elsinore di Lepage (1995) Amleto si “guarda dentro”, e nella solitudine di Elsinore -luogo mentale- incontra tutti i personaggi generati da lui stesso, ombre e gigantesche proiezioni (su grande  schermo) delle proprie angosce che evidenziano la scomposizione della sua personalità psichica. Uno dei migliori esempi di integrazione di dispositivi multischermo con la scena è rappresentato da The Seven Streams of the River Ota (1994) di Robert Lepage. La scena è strutturata come la facciata di una tradizionale casa giapponese, con sette schermi-pannelli trasparenti fatti di spandex su cui vengono proiettate immagini video e ombre: l’effetto di “intarsio”permanente tra l’immagine videoproiettata e corpo dell’attore e tra la figura e sfondo monocromo luminescente genera un surreale dialogo tra corpi e luce, e rende quasi letteralmente il senso più profondo dello spettacolo: l’impossibilità di cancellare dalla memoria l’Hiroshima della bomba atomica. La scena fatta di schermi diventa una lastra fotosensibile e l’intero spettacolo una scrittura di luce, metafora di un percorso insieme di ricordo, di illuminazione e di conoscenza.

Il gruppo italiano Motus, tra i protagonisti della cosidetta Generazione Novanta, con il progetto Rooms  confluito nella versione definitiva dal titolo Twin Rooms (2000-2003) ispirato al romanzo Rumore bianco di De Lillo, palesa attraverso un particolare dispositivo visivo e sonoro, un procedimento cinematografico. L’azione teatrale, che procede per riquadri e close up e ricostruisce un set, simula il cinema; la regia teatrale diventa regia di montaggio:  la struttura (una camera d’albergo) si raddoppia dando vita a una “digital room” con due retroproiezioni affiancate di immagini preregistrate o provenienti da telecamere a circuito chiuso e mixate live con quelle girate in diretta dagli stessi attori in scena. La cornice scenografica di questo expanded live cinema invade tutto lo spazio del palco e le immagini riempiono ogni interstizio possibile, generando un sovraccarico di visibile. Il video incombe quale inquietante presenza dentro questo claustrofobico contenitore di corpi ridotti a immagine su schermo procedimento visivo che drammatizza efficacemente il nuovo totalitarismo consumistico narrato cinicamente da De Lillo, forse il più grande romanziere postmoderno. Domina nello spettacolo un eccesso di visibilità e anche un incrudelimento e una morbosità dell’occhio della telecamera che sorveglia e si sofferma sui corpi. Il video in scena  inglobato nell’architettura integra il procedimento del romanzo: lo shock dell’immediatezza, il senso di alienazione e di perdita di identità nel flusso della rappresentazione del sé.

 

Un’estetica del processo?

Dall’autore all’attiv-attore

La multimedialità digitale definisce una nuova estetica non più dell’oggetto ma del processo e del  flusso (C.Buci-Glucksmann) in cui per la prima volta nella storia delle tecniche figurative la morfogenesi dell’immagine e la sua distribuzione (diffusione, conservazione, riproduzione e socializzazione più estesa) dipendono dalla stessa tecnologia (dall’immagine-matrice all’immagine-rete secondo E.Couchot). Le opere interattive hanno la capacità di modificarsi grazie alla presenza e all’azione degli spettatori, intermediari tra strumento, artista e spettatore, diventati veri coautori dell’opera. Navigazione ipertestuale, ambienti virtuali 3 D, immagini di sintesi, installazioni interattive: da un’opera chiusa e strutturata a un’opera-sorgente che contiene nella sua attualizzazione ed esecuzione una possibilità di continua variazione. Se l’artista è l’autore della proposizione, della concezione dell’opera, del suo dispositivo, del suo contesto, della sua manifestazione, il visitatore attraversandola la interpreta, ne è il performer (A.M.Duguet Installazioni video e interattive. Definizioni e condizioni di esistenza). Edmond Couchot preferisce invece parlare di due autori: un autore a monte all’origine del processo, ovvero colui che definisce programmaticamente le condizioni della partecipazione e un autore a valle che si inserisce nello sviluppo dell’opera e ne attualizza in maniera non preordinata, le potenzialità.

In Storie mandaliche 3.0 : il collettivo artistico Zonegemma ha messo in atto una complessa drammaturgia ipertestuale (ipertesti di Andrea Balzola) confluita in uno spettacolo di narrazione interattivo (con uso prima del Mandala System poi del programma di animazione Flash MX). Poiché il mandala viene costruito secondo un percorso labirintico e una logica di corrispondenze, anche  le storie hanno delle inter-connessioni: il pubblico può decidere di passare da un personaggio ad un altro ad ogni bivio ipertestuale, viaggiando all’interno di un labirinto di migliaia di possibili narrativi. La novità della tecnica affabulatoria del cyber-contastorie Giacomo Verde  che recupera un’oralità antica aggiornandola ai media digitali, l’immagine in animazione per permettere una navigazione anche in Internet, la ricercata atmosfera generale di sinestesia attraverso le sonorità spettromorfologiche create da Mauro Lupone, ma soprattutto il particolare reticolo ipertestuale percorso dal pubblico fanno di Storie mandaliche 3.0 il primo e pionieristico esempio italiano di teatro interattivo, con un’interattività non di interfaccia ma di progetto e di relazione. In CCC (2003) di Davide Venturini-TPO l’opera, definita dagli autori “un’azione teatrale a metà tra un atelier multimediale e uno spettacolo”  non è altro che un tappeto interattivo: un video proiettore invia dall’alto immagini animate e un sistema di trentadue sensori nascosti sotto il tappeto: il movimento di una o più persone all’interno di esso genera suoni e immagini che sono l’armamentario di un racconto di viaggio in Giappone tra i colori e le forme di un giardino Zen. L’artista innesca le condizioni più adatte per  sviluppare un’esperienza riflessiva e socializzante al tempo stesso, che sia da un lato di gioco ma anche di codici, di segni, di spazi, di nuove e immateriali architetture; è un’esperienza spontanea collettiva e condivisa, di emozione sensoriale, di contemplazione estetica, di concentrazione interiore.

Verso un teatro virtuale

Il teatro affronta la questione del virtuale aprendosi anche ad un nuovo un versante interattivo, attraverso la creazione di una scena delle interfacce (E.Quinz, in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p.403). Secondo Quinz due sono le possibili classificazioni di questa nuova scena: la prima è rappresentata da un puro sistema di interfacce in cui il dispositivo e il software servono sostanzialmente da intermediari fra il computer e le unità periferiche (videocamere, strumentazione virtuale). Si tratta in pratica di una vera e propria regia digitale che combina fonti diverse visive e sonore: immagini video ed eventuale elaborazione digitale in tempo reale, immagine da Internet, o d’archivio, sonorità elettroniche realizzate e trasformate in diretta.

Il secondo tipo, definito da Quinz “ambiente-mondo”, è quello degli ambienti virtuali veri e propri, incentrato sull’interazione fra corpi reali e corpi virtuali, sulla creazione computerizzata di oggetti interattivi a partire dalla captazione di movimenti degli interpreti in combinazione con l’utilizzo di periferiche di interazione uomo-macchina tramite sensori (elettromagnetici, elettromeccanici e fotoelettrici) come i data glove per la manipolazione della Realtà Virtuale e i sistemi di Motion Capture o la piattaforma EyesWeb elaborata dal Laboratorio di Informatica Musicale di Genova di Antonio Camurri che catturano gesti e movimenti umani (ma anche pulsazioni cardiache, variazioni di temperature), generando uno spazio reattivo, un ambiente multimodale interattivo (A.Camurri in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p. 414); l’attore indossando queste interfacce può gestire autonomamente in tempo reale e con il solo movimento, input da diverse periferiche e animare oggetti, ambienti, grafica, immagini, suoni, personaggi 3D e comporre l’azione scenica vera e propria. L’interfaccia si pone allora fra due sistemi di natura diversa, fra i quali il computer svolge delle operazioni di traduzione.

Il data glove o guanto interattivo è stato usato in Italia da Giacomo Verde e Stefano Roveda per dare vita al burattino virtuale Euclide nel 1992 mentre Jean Lambert Wild con Orgia (2002) ha sperimentato efficacemente il rapporto tra corpo dell’attore e immagine mediato da un’interfaccia (Sistema Daedalus): questa generava esseri artificiali, organismi del fondo marino, il cui “comportamento” e il cui movimento era influenzato dai livelli di emotività, respiro, temperatura e battito cardiaco degli attori muniti di particolari sensori.

https://www.youtube.com/watch?v=6zzrSi_irIw

Come ricorda Emanuele Quinz che ha elaborato la più originale proposta teorica in materia di digitale applicato alla scena (soprattutto in riferimento alla coreografia) “grazie alle interfacce il linguaggio scenico si arricchisce di un nuovo strato, basato sulla fluidità dei codici, sulla circolazione di input e output e sul trasferimento e la trasformazione dei dati. L’obiettivo di questi cantieri di ricerca e processi di sperimentazione è di esplorare una nuova sintassi capace non solo di tenere conto dei nuovi flussi delle informazioni sulla scena, ma di integrarli al servizio della composizione drammaturgica e coreografica” (E.Quinz in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p. 405)

Marce.lì Antunez Roca, fondatore della compagnia catalana Fura dels Baus propone un nuovo cyber teatro o teatro tecno-biologico in cui l’ibridazione (ovvero l’interpenetrazione, come precisava Mac Luhan) e lo scambio non sia solo più solo tra macchine e dispositivi ma tra corpo e tecnica, tra organico e inorganico, tra robotica e biologia, operando al confine tra “corpi in -macchinati e macchine in-corporate” (M. Antunez); il performer incarna l’utopia post-umana della tecno-mutazione, dell’ampliamento della struttura biologica verso nuove sensibilità extratattili diventando, attraverso innesti temporanei di dispositivi elettronici ed elettromagnetici, cybermarionetta e robot cibernetico, potente metafora della liberazione del corpo verso nuovi e inesporati spazi di sensorialità (dai robot pneumatici che reagiscono alla presenza del pubblico- Requiem, 2000-, al corpo-macchina del performer, appendice del computer sottoposto alla invadente molestia telematica da parte dello spettatore attraverso un touch screenEpizoo, 1994-).

Mutazione come seconda natura, come una sorta di felice alienazione dell’uomo nella sfera biotecnologica, passaggio indolore ad una nuova realtà, a una nuova “artificialità naturale”, tematica e che ha molto in comune con la nuova carne del cinema mutageno di David Cronemberg, col cyborg di Donna Haraway, e con i post umani di Bruce Sterling ne La matrice spezzata. In Transpermia. Panspermia inversa (2003) Antùnez, come già in Afasia, sostituisce il keyboard con il dressskeletron o esoscheletro, una protesi elettromeccanica, vero prolungamento protesico della sua corporeità recuperando grazie al programma Midi Reactor, funzioni organiche non più limitate alla vista e al tatto, potendo suonare con il suo corpo e modulare la voce, animare immagini  e disegni che mostrano ironiche ipotesi di interfacce e robot da usare nel quotidiano per identità sempre mutanti. Il performer (“uomo-orchestra” come lo ha definito incisivamente Carlo Infante che ha seguito sin dagli esordi i lavori dell’artista catalano) controlla così suono, immagine multimedia, videocamera in tempo reale, sequencer MIDI poiché il suo esoscheletro è in realtà una piattaforma che gli permette di connettere insieme e gestire una molteplicità di programmi, facendo di se stesso, un’interfaccia delle interfacce. Questi esempi affermano la centralità dell’attore quale fulcro vitale dell’esperienza scenica e mostrano una nuova ricerca teatrale  che prende come punto di partenza l’interprete, il cui corpo-interfacciato permette di far funzionare l’intero spettacolo; il nuovo cyber-attore torna ad assumere i connotati della Supermarionetta profetizzata da Craig,  dell’”uomo-architettura ambulante” ovvero adeguata alle leggi dello spazio cubico ambientale di Oskar Schlemmer ed infine dell’attore biomeccanico mejercholdiano per il quale “il corpo è la macchina e l’attore il meccanico”(A.Pizzo, p.132;  N. Savarese, 248-262).

Frontiere futuribili si intravedono per un nuovo teatro on line già esplorato dai navigatori della grande rete mondiale in occasione di alcuni eventi globali di hyperdrama e virtual drama (L.Gemini, p.136-137):#hamnet,1993 degli Hamnet Players, la prima performance realizzata via Internet attraverso il canale Internet Relay Chat; Clicking for Godot del DeskTop Theatre; Connessione remota , 2001 realizzata contemporaneamente on stage e on line con l’attivazione di una webcam e dialoghi in chat e Webcam teatro (2005) che utilizza le cosiddette webcommunity, entrambi progetti di Giacomo Verde. L’idea di una performatività deterritorializzata, estesa a vari canali per sperimentare diversi luoghi anche immateriali della comunicazione (senza fondamenta e smisurati, come nel caso delle opere nelle architetture del cyberspazio) e diverse modalità di partecipazione, ha alcuni precedenti significativi: Telenoia di Roy Ascott del 1992, performance mondiale durata 24 ore che connetteva attraverso tutte le tecnologie della comunicazione dell’epoca, bbs, fax, videofono, teletext, artisti che si scambiavano poesia, musica e immagini a cui fece seguito un anno dopo La lunga notte, concerto radiofonico in simultanea interattiva ideato da Roberto Paci Dalò-Giardini Pensili. E soprattutto The CIVIL warS: a tree is best measured when it is down di Robert Wilson, spettacolo kolossal ideato per le Olimpiadi di Los Angeles del 1984 in cui l’utopia di opera totale si trasfigurò in una composizione seriale di lirica, danza, cinema, pittura da dilatare (anche attraverso l’universo della diretta televisiva via satelite) in cinque paesi diversi del globo in sintonia temporale, progetto -realizzato solo parzialmente-che sfuggiva decisamente alla scena tradizionale e ai suoi tempi.

La rete intesa anche come potenziale teatro della protesta e della nuova disobbedienza civile, come luogo di un nuovo rekombinant e tactical theatre: si tratta del pensiero del collettivo statunitense Critical Art Ensemble e dell’Electronic Disturbance Theatre di Ricardo Dominguez, punti di riferimento della comunità artistica digitale mondiale e che si ispirano per le loro oper’azioni performative attraverso la rete, al Living theatre e al movimento situazionista. Le loro azioni (sit in virtuali, scioperi della rete) rientrano nell’ambito del cosiddetto hacktivism, etichetta usata per definire pratiche di attivismo, sabotaggio e controinformazione attraverso le nuove tecnologie. Il vero interrogativo, al di là dei generi e dei canali usato è: può il teatro -anche quello che usa le tecnologie più nuove – mettere in discussione modelli, sistemi, poteri? Brecht è ancora attuale? E’ proprio Brecht nei testi relativi alla Radio (1927-1936) ad aver intuito che il problema stava nell’appropriazione e nell’epicizzazione del mezzo, nel totale controllo espressivo da parte dell’artista -e della voce collettiva  che si nasconde dietro di lui- dello strumento tecnico e della nuova concezione dell’arte che supera la separazione tra “produttore” e “consumatore”.

Motus, MDLSX a Short Theatre
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MDLSX è ordigno sonoro, inno lisergico e solitario alla libertà di divenire, al gender b(l)ending, all’essere altro dai confini del corpo,dal colore della pelle, dalla nazionalità imposta, dalla territorialità forzata, dall’appartenenza a una Patria.
È verso la fuoriuscita da tutte le categorie – anche artistiche – che MDLSX tende, in un “scandaloso” viaggio teatrale di Silvia Calderoni che – dopo 10 anni con Motus – si avventura in un esperimento dall’apparente formato di Dj/Vj Set. Terreno magmatico in cui collidono fiction e autobiografia, MDLSX oscilla da Gender Trouble a Undoing Gender. Citiamo Judith Butler che, con pagine di Paul B. Preciado e altri cut-up dal caleidoscopico universo dei manifesti Queer, tesse il background di questa Performance-Mostro

con Silvia Calderoni

regia
Enrico Casagrande e Daniela Nicolò
drammaturgia
Daniela Nicolò e Silvia Calderoni
suoni Enrico Casagrande
in collaborazione con
Paolo Baldini e Damiano Bagli
luci e video Alessio Spirli

produzione
Elisa Bartolucci e Valentina Zangari
distribuzione italia Sandra Angelini
distribuzione estera Lisa Gilardino

Short Theatre Festival
Roma
• 3-4 settembre 2015

Terni Festival
Terni
• 24-25 settembre 2015

Centro teatrale “Na Strastnom”
Mosca
• 5 ottobre 2015

Motus
via Castore, 49 | 47923 Rimini • It
www.motusonline.com | info@motusonline.com
tel/fax +39 0541 326067

Contatti
Sandra Angelini relazioni@motusonline.com | cell. 329 8625523

Too Late! (antigone) contest#2 MOTUS, Milano
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Too Late! (antigone) contest#2

Sala Fassbinder
Teatro Elfo
| PucciniMilano
812 giugno 2015 h. 21.30
ideazione e regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò
con Silvia Calderoni e Vladimir Aleksic

un progetto Motus in collaborazione con Fondazione del Teatro Stabile di Torino e Festival delle Colline Torinesi e il supporto di Magna Grecia Festival ’08, L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, CARTA BIANCA programme Alcotra coopération France – Italie, Provincia di Rimini, Regione Emilia Romagna e Ministero della gioventù – progetto G.E.CO e MiBAC.

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Too Late! un confronto/scontro/dialogo fra due soli attori, sulle ipotetiche rappresentazioni di una splendente Antigone d’oggi che lascia emergere “vaghe ombre” dall’Antigone del Living Theatre (vista in video). Il too late! che allora echeggiava nel coro è rimasto talmente impresso da essere posto a titolo per questa performance intesa come un contest. Silvia/Antigone/Emone si confronta con Vladimir/Creonte, secondo un crudo meccanismo di esposizioni e sfide che amplificano, in modo subdolo, i giochi di potere fra padri e figli, ma anche quelli dei “Nuovi Dittatori” d’oggi.
Al centro del confronto sono le relazioni di potere, dalle micro intolleranze quotidiane alla perversione dei “Padri Mediatici” che agiscono “per il bene” dei figli: si entra nella sfera dell’intimo, per colpire al cuore l’intoccabile famiglia italiana. Lo spettatore, che condivide con gli attori lo spazio scenico, diviene attore/testimone di una rappresentazione che “anarchicamente” deborda dai limiti convenzionali, fugge il teatro per sporcarsi con le incertezze e povertà del quotidiano.

Archivio: Splendid’s dei MOTUS
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All’ultimo piano del celebre Plaza Hotel di Roma in Via del Corso e di fronte ad un ristrettissimo numero di spettatori-ospiti, i Motus hanno inaugurato il loro personale, raffinato e originalissimo omaggio a Jean Genet. Un’edizione straordinaria e irripetibile per questo Splendid’s, un’occasione unica per la perfetta aderenza del luogo prescelto per l’azione scenica con quello descritto da Genet: “lampadari, lusso, tappeti”.

Gli 8 gangster armati di mitra, vestiti con abiti neri o gessati – griffati Costume Nationale – si trovano dentro l’hotel per una storia di rapimenti e sparatorie e, in una circostanza non chiarita, qualcuno di loro ha ucciso una ricca americana. Sono asserragliati dentro la camera da giorni, e l’hotel, come da miglior tradizione di film d’azione, si trasforma in una prigione senza via di fuga: le tende di velluto ben chiuse per non essere visti dai tiratori scelti, le bottiglie di birra vuote sparse per terra, le carte, i piatti, il letto disfatto e il generale disordine. Ascoltano la radio, Scott cerca i notiziari sulla vicenda Splendid’s. Il cadavere della donna è in bagno. Lo spettatore dentro la stanza, da voyeur, date le circostanze, diventa un “testimone oculare”.

 

I personaggi, dicono le loro ragioni e scandiscono le proprie paure da sempre nascoste muovendosi a tempo di musica. La banda diventa un corpo di ballo. Ballano sempre. E’ un tango, un valzer, una marcia funebre o una musica orientale e tengono il ritmo con i piedi, si affrontano danzando ma “senza mai toccarsi”- come avverte Genet nella didascalia dell’atto I. Una danza macabra di uomini con mitra trasforma il salotto in una pista da ballo. La trama non va molto più in là di un’attesa – di una sentenza, di un colpo di mitra, di una resa – durante la quale tutti si spogliano progressivamente del personaggio che hanno da sempre rivestito. L’unica certezza è che non hanno scampo. E’ con loro un poliziotto. Passato “dall’altra sponda”, è diventato dapprima loro complice per puro sadismo e istinto di crudeltà (“Li amavo i ragazzi; e comincio ad amarli con più passione ancora da quando li ho presi a mitragliate…“) poi, “rovesciandosi come un guanto” il loro carnefice, tradendoli, e consegnandoli alla polizia che circonda l’hotel. Pierrot, il fragile, si uccide. Jean, la reginetta del ballo, apre le danze di questo galà con morto. Loro, i coraggiosi vorrebbero, nel gran finale, arrendersi, lasciando trasparire il loro vero volto: “A me piace alzare le mani in alto”.
In questo ambiguo gioco delle parti, vince chi ha saputo usare la maschera giusta al momento giusto, quella che le circostanze richiedono. La maschera sociale è menzogna, travestimento effimero, che dura, appunto, il tempo di un giro di danza. 

Motus, Nella tempesta, 10 aprile a Pontedera
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Nt © Tiziana Tomasulo 5778_ok

uno spettacolo di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò

con Silvia Calderoni, Glen Çaçi, Ilenia Caleo, Fortunato Leccese, Paola Stella Minni
drammaturgia Daniela Nicolò
produzione Motus
con Festival TransAmériques, Montréal, Théâtre National de Bretagne, Rennes, Parc de la Villette,
Parigi, La Comédie de Reims – Scène d’Europe, Reims, Kunstencentrum Vooruit vzw, Gent, La Filature, Scène Nationale, Mulhouse, Festival delle Colline Torinesi, Torino, Associazione dello Scompiglio, Vorno, Centrale Fies – Drodesera Festival, Dro, L’Arboreto – Teatro Dimora, Mondaino
con il sostegno di Emilia Romagna Teatro Fondazione, AMAT, La Mama, New York, Provincia di Rimini, Regione Emilia-Romagna, MiBAC

 

Ci sono persone per le quali il movimento, il poter scegliere dove e come spostarsi nel mondo è possibile, e possono decidere dove lavorare, amare, invecchiare. Altre per cui questo è proibito. Ed è soprattutto una questione di denaro. E quando non si ha niente, avere il mare – il Mediterraneo – è molto. Come un pezzo di pane per chi ha fame. Solo che, lentamente, questi ultimi cinquecento anni di sfruttamento coloniale, hanno inclinato l’orizzonte del mare. Non unisce, separa: è un mare in salita.
Cementato da controlli alle frontiere, polizie internazionali, gestione selvaggia dei confini, omertà e silenzi. Il mare nostrum! A chi appartiene davvero questo mare? Questo cimitero a cielo aperto, che protegge le sue coste e annega i suoi naviganti.

Per lo spettacolo vi chiediamo di portare una coperta, che servirà per costruire la scenografia. I Motus hanno pensato a un oggetto facile da reperire e da ridistribuire in ogni città.
Vi chiediamo di arrivare in teatro con una coperta, piccola o grande, leggera o pesante, vecchia o nuova. È un invito che fa appello alla disponibilità di ciascuno, nel totale rispetto della libertà di accettare o meno questa sollecitazione.
Al termine dello spettacolo le coperte saranno donate alla SPRAR Unione dei Comuni della Valdera c/o Comitato Arci della Valdera e alla Cooperativa ARNERA che gestiscono due progetti di accoglienza profughi e richiedenti asilo sul territorio Pisano e dell’Unione Valdera. www.serviziocentrale.itwww.arnera.org

Durante lo spettacolo si fa uso di luci stroboscopiche.

SEGUE DJ SET CON SILVIA CALDERONI

 

PROMO NELLA TEMPESTA

NELLA TEMPESTA_Short @FTA Montrèal from motus on Vimeo.

Impressioni da L’OSPITE dei MOTUS. Percorso d’archivio.
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Motus aveva iniziato il cammino verso Pasolini  con lo spettacolo Come un cane senza padrone, rilettura “filmica” di Petrolio. La descrizione pasoliniana della periferia romana si traduceva spazialmente in una videoinstallazione «a tre ante» posizionata sulla parte destra del palcoscenico: umanità povera ma spensierata (lunghi piani-sequenza puntati sui «ragazzi del popolo») e paesaggio desolante ripreso contemporaneamente su tre lati dalla macchina in corsa. Nella parte sinistra un film: l’incontro tra l’ingegnere e il cameriere e il loro rapporto sessuale esplicito nel «pratone». Un «film di letteratura», come amano definirlo, con il testo narrato in diretta, con notevole bravura (e attenzione ai sincronismi) dall’attrice (Emanuela Villagrossi) e i sussurri, gli ansimi degli orgasmi in un doppiaggio sempre live dagli attori (Dany Greggio e Franck Provvedi). Campeggiava sulla scena, la macchina perfettamente ricostruita in vetroresina, di Pasolini.


Foto di Laura Arlotti.

Motus continua il percorso – con una continuità che ricorda Orpheus glance e Twin Rooms – con L’ospite, tratto da Teorema. Rimane la letteralità e rimane il film (parti della sceneggiatura di Teorema o brani da Petrolio o dagli Appunti per un film su San Paolo diventano scritture luminose che si imprimono nel film che scorre), ma il video in scena non è più installazione ma grandiosa e imponente scenografia, quasi architettura che trattiene immagini, cose e persone. Tre giganteschi schermi portano dentro la psicologia della storia – la desertificazione della borghesia, il suo immobilismo. Il «trittico video» con tutta la sua imponenza, rilascia «l’illusione» di uno spazio tridimensionale, di una camera ottica, di un’enorme casa senza la «quarta parete» a cui è affidata la cronaca in immagine (ripetitiva, automatica, letteralmente a loop) di una famiglia della ricca borghesia industriale. Davanti alla casa con giardino all’inglese, anche i personaggi dànno l’impressione (e non molto di più) di essere padre, madre, figlio, figlia «in uno stato che non critica se stesso» (come scriveva Pasolini)


Foto di Laura Arlotti.

Siamo dentro la cattedrale gotica dove si venera un’icona preziosa: l’immagine rassicurante e venerabile della sacra famiglia borghese. Pasolini parlava diTeorema come «nato su fondo oro, dipinto con la mano destra, mentre con la mano sinistra lavoravo ad affrescare una grande parete (il film omonimo). In tale natura anfibologica, non so sinceramente dire quale sia prevalente, se quella letteraria o quella filmica». L’ospite viola questo interno, questa stanza neutra, piatta, costruita secondo un asse prospettico perfettamente centrale e ne sconvolge le regole: le inquadrature, i campi, le proporzioni, ne mette in luce le quintature, la maschera posticcia, mostra il graticcio, i cavi, fa saltare le valvole di sicurezza, scardina l’apparente tranquillità, che ha la forma di un fondale teatrale dipinto introducendo nella finzione (ovvero nel film) l’evento inatteso e liberatorio. Vanificata l’illusione, rimane la realtà nella sua veste più tragica, una volta constatata l’insofferenza dei personaggi verso la propria nuova condizione e diventati tutti «casi di coscienza» (Pasolini).
La scena si fa leggere per scansioni verticali e orizzontali (come fa il pennello elettronico del video) perché ha varie profondità e altezze di azione: una specie di passerella-giardino in posizione ribassata con erba riportata, accudito dalla serva (che ascenderà in alto con i tiranti del teatro), lo spazio anteriore entro l’ambito dello schermo leggermente rialzato, in cui le immagini dei corpi a dimensione naturale si mescolano con chi lo percorrre ed infine la parte dietro gli schermi, che unisce in un effetto chromakey e dissolvenza, corpi, ombre, luci e immagini retroproiettate. Ricordava l’artista video Bill Viola che la stanza a sei facce cinta da quattro mura non è altro che «la distillazione archetipica del mondo mentale che proprio la prospettiva di Brunelleschi, un’invenzione urbana, articolerebbe ulteriormente. La mente non soltanto è confinata nello spazio tridimensionale, ma lo crea».
Lo spettacolo finisce con un conflagrazione finale (le bombe fasciste? le stragi degli anni Settanta?) e nella corsa folle e nell’urlo, «destinato a durare oltre ogni possibile fine», del ricco padrone Paolo nel deserto, quel deserto simbolo di una condizione estrema di solitudine ma anche luogo di illuminazione e di mistica visione, quel deserto che ha punteggiato tutto il racconto e che non può che ricordare l’ambientazione di molti film di Pasolini e le atmosfere dei video di Bill Viola (Chott el Djerid, Déserts).

 

X Racconti crudeli della giovinezza di Motus: il doppio codice del teatro
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X (ICS) è prima di tutto un progetto doppio, teatro e cinema, uno spettacolo in cui saltano le gerarchie e le preoccupazioni di specificità del mezzo per dare vita a una narrazione espansa, doppia, contemporanea tra cinema e video, graphic e videogames art e teatro con un libero nomadismo di linguaggi già ampiamente sperimentato dal gruppo nelle precedenti prove teatrali (da Twin roomsSplendid’s, da Come un cane senza padrone a L’ospite) contro ogni tentativo di totalizzazione e genere.
E’ una rinuncia a un riferimento unico, stabile e stanziale (di stile, di linguaggio); del resto nomade e ribelle agli schemi è la vicenda narrata di due ragazzi, simboli di una generazione inquieta, tra degradazione urbana ed erranza esistenziale con un sottofondo di paesaggio da “bordo stradale”: sentimenti a brandelli in una città selvaggia, giovani vite umane ai margini perennemente vaganti e in bilico, forse in frantumi, comunque precarie ma la cui precarietà è vissuta con un sotterraneo senso di euforica libertà nelle pieghe della città tra ipermercati e angoli industriali abbandonati (i famosi “non luoghi della surmodernità” di Marc Augé).
Spiega la compagnia:

Scegliamo una formula ibrida, brevi cortometraggi come cartografie immaginarie di personaggi immersi nelle inquietanti urbanizzazioni periferiche e, sulla scena, corpi, racconti fatti di corpi, messi a nudo e confronto con il mutare della pelle e del desiderio, tra dolore e leggerezza, perché il passaggio di tempo non può e non deve essere necessariamente sfavorevole, ma farsi fonte di nuove risorse.

Il corpo della bravissima attrice-danzatrice Silvia Calderoni che incarna a pieno lo spirito Motus e la sua filosofia postmodern, funziona come cesura, anello vitale di questa doppiezza dello spettacolo: spirito libero, vaga con i suoi pattini a distribuire volantini in uno shopping center mentre si consumano i riti cannibalici del consumismo quotidiano, e là incontra un ragazzo. Stessa inquietudine, stessa solitudine, stesso spaesamento. La storia è narrata, cantata, esposta per quadri visivi tra frenesia, sesso e suicidio. I luoghi periurbani evocano ancora una volta le periferie pasoliniane e i “frammenti disgreganti” e i “grossi pezzi sanguinanti di cruda esperienza” delle vite nei romanzi di De Lillo (le definizioni sono di Fredric Jameson).

Il teatro rincorre il tempo del video: gli attori (Silvia Calderoni, Dany Greggio, Sergio Policicchio, Alexandre Rossi, Nicoletta Fabbri) in una prova intensa e persino commovente, stentano a stargli dietro: ma è il cinema a inseguire la realtà, a offrirgli insomma il copione e la sceneggiatura o viceversa? Il video spia i personaggi nella loro fuga dalla realtà e insegue gli attori stessi nel loro lavoro di scavo psicologico, come già accadeva nell’Ospite. Un enorme schermo amplifica dettagli di una storia che il teatro può solo accennare: le immagini in bianco e nero pixellate sono sguardi evocativi di un turbolento e angosciante paesaggio-stato d’animo, ma sono anche schermate di videogames di altri tempi, mentre i ragazzi indossano improbabili mantelli da supereroi che combattono gli alieni. Come ci ricordano Daniela Nicolò e Enrico Casagrande,

sulla linea del percorso pasoliniano compiuto con Come un cane senza padrone e L’ospite, ci rivolgeremo, complice il mezzo cinematografico, a un paesaggio ancora una volta in radicale trasformazione…Brevi cortometraggi come viaggi tra i giovani e le periferie umane: i nostri attori sono stati filmati a conttto con i ragazzi che gravitano e si incontrano alle panchine dei parchi pubblici, di desolati centri commerciali, o nelle sale prove musicali. L’immagine anonima della panchina è usata da noi come simbolo della zona liminale tra città e campagna, come luogo di incontro e di attesa: cos’è del resto l’adolescenza se non una fremente, snervante attesa dell’età adulta che a volte giunge troppo presto o non arriva mai.

Vale la pena ricordare alcuni dei riferimenti letterari e cinematografici di questo spettacolo definito dagli autori “un viaggio all’interno dello junkspace contemporaneo”: non solo gli amati De Lillo, Fassbinder, Gus Van Sant e neanche soltanto Easton Ellis offrono spunti e personaggi dai lucidi deliri e identità paranoiche e autodistruttive ma James Purdy, Douglas Coupland (non a caso lo scrittore della “generazione X”) e il consumismo da lui descritto quale simbolo stesso della morte al lavoro, il Ballard de Il regno a venire, la generazione crudele di Nagisa Oshima. Un rinvio quello di Ballard giustificato anche dalla nota attenzione e attrazione da parte dell’autore di fantascienza per geografie anomali, per le periferie delle metropoli come territori psichici («Per questo le periferie mi interessano, perché vedo accadere il futuro. Lì ti devi svegliare al mattino e devi decidere di compiere un atto deviante o antisociale, perverso, foss’anche prendere a calci il cane, per poter affermare la tua libertà»).
Ecco le ragioni della scelta del tema e dei riferimenti dalle parole stesse degli autori:

Abbiamo scelto il sottotitolo dal film degli esordi di Oshima non tanto per citare quel film ribelle e criminale che sconvolse la cinematografia giapponese degli anni Sessanta, ma per l’eloquenza del titolo, il presupposto in esso conchiuso ovvero l’idea di racconto, lo sguardo rivolto all’indietro, all’evocare in svariate forme, momenti frementi, attimi di estasi, rivolta e narcisismo sfrenato vissuti in quel periodo magico e contraddittorio che è la giovinezza che in piena sindrome di Peter Pan (quella X Generation degli anni Novanta cinicamente descritta da Douglas Coupland) cade vittima del tranello consumistico che appiattisce la comunicazione sostituendola con narcisismi autistici, protesi alla continua alterazione della “confezione corpo”, del suo “package” da merce di scambio amorosa.

ICS racconti crudeli della giovinezza Ideazione e regia. Enrico Casagrande e Daniel Nicolò.
Con Silvia Calderoni, Nicoletta Fabbri, Dany Greggio, Sergio Policicchio, Alexander Rossi.
In video: Adriano e Luio Donati, il gruppo musicale Foulse Jockers.
Produzione video Motus e Francesco Borghesi (p-bart.om). In collaborazione con Camera stylo. Riprese: Francesco Borghesi, Daniela Nicolò. Stefano Bisulli. Video compositing: Francesco Borghesi. Text Compositing: Daniela Nicolò. Sound Compositing. Enrico Casagrande. Elementi scenografici Erich Turroni.

Motus i primi spettacoli, con un’intervista a Daniela Niccolò.
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Motus, ricordando alcuni primi loro spettacoli
ll loro teatro attraversa da sempre i territori più svariati della visione: cinema, video, architettura, fotografia; una visio eclettica e poliedrica, irrispettosa delle specificità dei generi che opera in scena sul cut up di burroughsiana memoria, sul découpage, sulla tecnica del mixer e del montaggio cinematografico.

Orpheus glance e Twin rooms hanno molti punti in comune e tra questi il luogo, un interno (che ricorda il tema del “territorio mutante” e della “territorializzazione esistenziale” di Guattari) e la lunga genesi costruttiva: modifiche, innesti narrativi e visivi
Il rapporto con lo spazio mutante è stata la spinta sin da quando abbiamo iniziato a occuparci di teatro, proponendo performance in centri sociali, gallerie d’arte, spazi urbani; successivamente quando siamo entrati in teatro, che ha spazi già strutturati, abbiamo sentito la necessità di creare ulteriori pareti, un’architettura effimera, smontabile, un dispositivo architettonico. L’idea era di concepire l’interno in un’ottica di conflitto con l’esterno, la scena urbana con l’io psichico e corporeo, radicalizzato in Orpheus con la resa di un ambiente domestico iperrealistico, La struttura scenica è però una simulazione, anche se ha arredi, pareti, è un modello: per realizzarlo abbiamo lavorato con architetti e designer. Recentemente abbiamo fatto anche workshop per la Domus Academy per raccontare il nostro sguardo teatrale sulla tematica degli interni.Motus - Orpheus La struttura è poi funzionale al nostro discorso sul cinema, al tema del montaggio.

ll ruolo del video in Twin rooms: moltiplicatore di sguardi, introspettivo, narcisistico
In tutti i nostri spettacoli abbiamo evocato il cinema ma volevamo evitare l’effetto estetizzante del fondale con le immagini proiettate che è poi l’uso più diffuso; arrivare al video è stato un percorso necessario, una modalità che integra i meccanismi di narrazione dello spettacolo. Inizialmente avevamo il dispositivo che era un ambiente solamente abitato (il dialogo è il sonoro di un film) e volevamo mantenere questa separazione tra la narrazione filmica e gli attori: tutto rimandava all’idea di set cinematografico, l’azione era fatta per essere filmata, era materiale per un film. In Twin rooms (fase finale di Rooms, ndr) è stato come esplicitare questo meccanismo di narrazione: i due schermi sono attraversati da immagini provenienti da telecamere diverse. La storia è tratta dal romanzo di DeLillo White noise, ma è continuamente frammentata. La presenza di una telecamera nelle mani di un attore permette di focalizzare un particolare della scena, è un altro occhio, oltre a quello dello spettatore. Ci interessava questa triangolazione di sguardi, un occhio interno, digitale che cattura il dettaglio, il primo piano che a teatro necessariamente perdi. Noi in regia, abbiamo tutti questi “sguardi” che combiniamo imotusnsieme con un montaggio in diretta sulla base di una partitura, ma gli attori hanno grande libertà, ormai hanno l’abitudine a recitare con la telecamera in mano e ad avere molti occhi puntati su di loro.

Il progetto Rooms nasceva come installazione-mise en boite di corpi esposti in un ambiente privato, intimo e tornerà ad essere installazione video senza corpi
Su Twin rooms abbiamo molto materiale video: tutte le diverse versioni sono state registrate, tutte le microvariazioni di una stessa scena e abbiamo poi le riprese video girate dagli attori; per Riccione Ttv 2004 (che dedicherà ai Motus una personale, ndr) abbiamo pensato ad un’installazione con una propria caratteristica spaziale: i monitor dovrebbero rimandare tutti i diversi sguardi sull’azione, senza perderne però la continuità. L’idea è quella di mantenere contemporaneamente ma separatamente questi diversi punti di vista, questa molteplicità di sguardi, lontani e ravvicinati.

Anche Splendid’s ispirato all’opera di Genet, diventerà un film e già dimostrava una forte tendenza alla “bidimensionalità”, fotografica, o cinematografica…
Genet aveva concepito il testo di Splendid’s già come una “sceneggiatura cinematografica” con i riferimenti ai film americani d’azione.

Motus: selezione di articoli on line
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percorsi_orlandofurioso04

3.4
Glance=Sguardo
(Sull’Orfeo dei Motus)
di Anna Maria Monteverdi

28.5
Attraversamenti
Teatro e Cinema nel progetto Rooms del Motus
di Anna Maria Monteverdi

34.5
Genet si mette in Motus
Splendid’s in anteprima al Plaza di Roma
di Anna Maria Monteverdi

 

67.83
Debutta a Rennes L’ospite dei Motus da Teorema di Pasolini
dal 20 al 30 aprile al T.N.B. Théâtre National de Bretagne
di Motus

 

71.14
Impressioni da Teorema
Motus e L’ospite
di Anna Maria Monteverdi

71.15
L’integrazione dell’immagine video sulla scena: l’esempio dei Motus
Una tavola rotonda sull’Ospite (in francese)
di Didier Plassard

86.8
L’ospite Pasolini
Una conversazione con Daniela Niccolò su Pasolini, L’ospite & altro
di Andrea Lanini

 

101.84
Altofragile: un percorso formativo con i Motus
Per la realizzazione di un lungometraggio
di Motus

107.30
Tracce di Fassbinder nel Motus operandi
Conversazione con Daniela Nicolò sull’ultimo spettacolo dei Motus Rumore rosa, ispirato al cinema di RW Fassbinder
di Andrea Balzola

111.19
Il doppio codice dei Motus
X (ICS) racconti crudeli della giovinezza a Santarcangelo
di Annamaria Monteverdi

VERSO UNA NUOVA SCRITTURA SCENICA. Dagli atti del convegno CREATION NUMERIQUE, LES NOUVELLES ECRITURES SCENIQUES 2003 | 2004
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Le théâtre dans la sphère du numérique.

 VERSO UNA NUOVA SCRITTURA SCENICA (Anna-Maria Monteverdi)

Il panorama del teatro di ricerca italiano che si è arricchito della presenza dei media in scena come è stato rilevato da più critici e storici del teatro e studiosi di nuovi media da Brunella Eruli a Anna Maria Sapienza a Andrea Balzola ha un grande debito nei confronti del Teatro-immagine degli anni Settanta (tra i protagonisti Carlo Quartucci, Memé Perlini, Mario Ricci, Leo De Berardinis) alla cui definizione contribuiscono alcune esperienze a metà tra il teatro e le arti visive ed eventi videoperformativi. Teorizzatore di questa tendenza è stato Giuseppe Bartolucci, uno dei critici militanti che ha portato contributi notevoli alla diffusione e alla promozione del teatro di ricerca italiano come organizzatore di alcune delle rassegne che hanno prodotti i “manifesti” e sancito i principi del Nuovo teatro. Questa prevalenza dell’immagine sulla parola sarà riconosciuta ufficialmente in Italia alla rassegna di Salerno Incontro/Nuove tendenze (1973). I differenti metodi di composizione e di espressione sperimentati, nel comune rifiuto del testo drammatico, propongono l’elaborazione di una scrittura scenica innovatrice che privilegiasse, come ricordava Bartolucci, i tre elementi di: spazio, immagine, movimento temi che ci riconduncono anche ai padri fondatori della regia, la cinetica scenica di Craig, lo spazio-immagine di Appia.

Il teatro della post-avanguardia (inaugurato ufficialmente dal convegno di Salerno del 1976) accentuerà ulteriormente le caratteristiche antinarrative e visive, visionarie e oniriche inaugurate dal teatro-immagine: ne sono protagonisti la Gaia scienza di Giorgio Barberio Corsetti e il Carrozzone (primo nucle dei Magazzini Criminali, oggi solo Magazzini) e in seguito Falso movimento di Mario Martone (1977 col nome di Nobili di Rosa), Krypton di Giancarlo Cauteruccio quest’ultimi insieme con il Tam teatromusica di Michele Sambin e Pierangela Allegro creeranno le premesse per il fenomeno del cosiddetto media-teatro o videoteatro ancora una volta inaugurato con una rassegna a Roma dal titolo Nuova Spettacolarità nel 1981.

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Il videoteatro è un termine che è andato genericamente a definire sia la produzione videografica di ispirazione teatrale legata a uno spettacolo -quella che Valentina Valentini definisce una videodrammaturgia residua– sia creazioni completamente autonome (videodocumentazioni, biografie videoartistiche, produzioni di teatro televisivo pensiamo alle sperimentazioni televisive di Ronconi, Carmelo Bene e Martone); ma videoteatro è sopratutto, performance tecnologiche o spettacoli teatrali che utilizzano l’elettronica in scena. In queste produzioni entra con chiara contaminazione l’esperienza contemporanea della metropoli, l’universo cinematografico, i fumetti, la musica rock, e le tecnologie elettroniche. In Martone l’uso di macchine elettroniche è senz’altro più limitato ma l’attenzione è volta all’assimilazione del linguaggio e dell’espressività tecnologica che va al di là degli strumenti usati. Corsetti protagonista assoluto di questa stagione videoteatrale introduce una struttura complessa di dialogo tra corpo e ambiente, luce e spazio, immagine video e presenza attoriale in tre spettacoli di cui ricordiamo La camera astratta. Camera astratta (1987) di Corsetti con Studio azzurro presentato a Dokumenta kassel e poi vincitore del premio Ubu massimo riconoscimento per il teatro di ricerca. Paolo Rosa parla di un percorso del gruppo video Studio azzurro verso il teatro, di una espansione in senso teatrale delle videoinstallazioni; teatro “latente presente in embrione come ambito in cui sconfinare”; in Camera astratta si mette in scena il “carattere bicefalo del video” come ricordava Philpe Dubois, “dispositivo e immagine-processo”: c’è una doppia scena, una materiale e una immateriale, una visibile e una invisibile, un set e un retroset dove gli attori vengono ripresi e la loro immagini riproposte in diretta nella parte frontale del palco. I monitor in scena che scorrono su binari o appesi in aria e in una complessa articolazione di movimenti, incorporano e scompongono il corpo dell’attore. Corsetti parla della presenza elettronica che “rafforza le potenzialità dell’azione teatrale”. La presenza del monitor agisce come elemento linguistico e drammaturgico nuovo in un contesto teatrale.

Giacomo Verde. www.verdegiac.org E’ videomaker, tecnoartista, mediattivista legato alla sperimentazione delle tecnologie povere con le quali mostra nelle installazioni e a teatro come la creatività non dipenda da un forte dispiegamento di mezzi. Le sue oper’azioni sono da sempre una critica al “consenso mediatico” e variazioni sul tema della necessità di un uso politico delle immagini e di una riappropriazione-socializzazione dei saperi tecnologici. A teatro l’accento è posto sul live, sulla performatività dei media per comprendere questa realtà tecnologicamente aumentata, come scrive in un suo bel testo: “Per un teatro tecno.logico vivente. Verde parla di una tecnonarrazione che rivitalizzi l’antica arte della narrazione orale con i nuovi strumenti comunicativi e che faccia sentire lo spettatore necessario alla rappresentazione; la tecnologia deve essere un mezzo che amplifica il contatto, il tempo reale e non una gabbia che detta regole e ritmi preregistrati e immutabili”. Verde è attore-narratore autore di videocreazioni teatrali, e di videofondali live e/o interattivi progettati per performance, reading poetici, concerti. Il teleracconto, ideato nel 1989 e inaugurato con Hansel e Gretel (H & G Tv), coniuga narrazione teatrale realizzata con piccoli oggetti e macroripresa in diretta. Una telecamera inquadra in macro alcuni oggetti collocati vicinissimo alla telecamera; questi, attraverso la riproduzione televisiva e soprattutto attraverso la trama del racconto orale associata alla disponibilità immaginativa del pubblico si trasfigurano fino a diventare quello che la storia ha necessità di raccontare.

Il perfomer è narratore che manipola oggetti e le immagini di questi oggetti ripresi in diretta, gioca sullo spiazzamento percettivo.Coi Teleracconti Verde ci mostra come è facile attraverso una telecamera “far credere che le cose sono diverse da quelle che sono”, in altre parole, che le immagini trasmesse dalla televisione non sono quelle della realtà ma quelle di chi vuole fissare per noi un punto di vista sul mondo. Si può considerare una continuazione o prolungamento del teleracconto OVMM acronimo da Ovidio metamorfoseon, dalle metamorfosi di Ovidio. L’attore Marco Sodini racconta con parole con azioni e coreografie i miti di trasformazione. Sullo sfondo, immagnini create in dretta da Verde. Verde presente e visibile in scena mette in atto un doppio dispositivo di ripresa, la webcam che riprende lo spazio con l’attore e la videoproiezioni, e la videocamera che riprende sullo schermo del computer le immagini della webcam sulle quali vengono sovrapposti piccoli oggetti, materiali e riflessi. Le immagini sono tutte in tempo reale e seguono il ritmo della scena, si moltiplicano attraverso l’azione dell’attore. Anche la musica e i suoni rispondono al principio del live, suoni campionati che sono un tappeto sonoro continuo vengono trasformati in diretta con variazioni di intensità, sovrapposizioni ed echi della voce del protagonista. Nella primavera del 1998 Giacomo Verde e il drammaturgo e critico Andrea Balzola pongono per la prima volta mano ad un progetto di narrazione teatrale con uso di tecnologia interattiva ispirandosi, per la stesura dei testi, alla forma e al significato del Mandala, guida della meditazione e simbolo della trasformazione spirituale dell’individuo. E’ Storie mandaliche di Giacomo Verde e Zonegemma. La scelta della tecnologia va inizialmente al sistema Mandala System per Amiga, e contestualmente si pongono le premesse per la scelta dell’iconografia e il primo abbozzo di un testo che viene concepito con caratteristiche ipertestuali, ovvero connessioni, incastri, corrispondenze tra i personaggi e i luoghi. Balzola li definisce “iperracconti”. Sono sette storie di trasformazioni nei diversi regni: umano, minerale, vegetale, animale e divino, ovvero sette storie di personaggi “linkate” tra loro a formare una rete e un labirinto: il bambino-uomo, il mandorlo, la principessa nera, il corvo, il cane bianco, la pietra del parco, l’ermafrodita. Ogni storia e ogni personaggio è associato a un colore, ad un elemento e ad un punto cardinale. La struttura del mandala è concentrica: ha quattro porte che corrispondono ai punti cardinali. Le storie portano sempre al centro: il mandala è la determinazione di un percorso che conduce all’illuminazione attraverso un rito di orientamento. Nel Mandala System è possibile fondere insieme sfondi, ambienti bidimensionali con oggetti tridimensionali attraverso la videocamera: la videocamera riprende in diretta il corpo o la mano del narratore che viene digitalizzata in tempo reale e la sagoma della figura ripresa, appare sovrapposta alle immagini e agli oggetti generati, invece, dal computer. Lo spettacolo ha attraversato diverse fasi ed è appena terminata una sua ulteriore metamorfosi con le animazioni in flash MX (programma per animazioni audiovisive 2 d usato in Internet) delle immagini che sostituiscono il Mandala system per un’ipotesi anche di futura fruizione Web. Il cyber contastorie (la definizione è di Giacomo Verde, che ci tiene a definire il narratore sulla base dell’immagine del tradizionale raccontastorie) anziché la tela disegnata, ha davanti a lui immagini in videoproiezione che lui stesso può trasformare seguendo il ritmo in tempo reale del suo racconto.

Motus. www.motusonline.it

Motus è uno dei gruppi di punta della cosiddetta generazione Novanta, o terza ondata, fenomeno esploso agli inizi degli anni Novanta che ha come epicentro la Romagna; è lì che si crea un terreno favorevole e le premesse per una nuova ricerca teatrale da parte di giovanissimi romagnoli grazie anche alla presenza del Teatro delle Albe e della Socìetas Raffaello Sanzio; gruppi che, date le caratteristiche simili, formali e contenutistiche, vengono accorpati insieme dalla critica a farne una etichetta un movimento, che contraddistingueva una nuova tendenza del teatro. I nuovi gruppi teatrali dopo essere stati per lungo tempo invisibili (questo era anche il nome di una rassegna che li proponeva a San Benedetto del Tronto) nati e cresciuti nella semiclandestinità, nelle pieghe e nell’ombra della cultura ufficiale, in spazi underground, in circuiti alternativi, extrateatrali decentrati in Romagna in centri sociali o spazi occupati (Link a Bologna, Interzona Verona) ottengono una loro visibilità di pubblico grazie al Festival Crisalide, Opera prima di Rovigo e Teatri 90: Motus, Fanny e Alexander, Teatrino clandestino, Masque teatro Teatro degli Artefatti Nuovo complesso camerata. Teatro dai forti connotati visivi, legato a un vero culto dell’immagine caratterizzato anche dall’eccesso di visione, una visione mediatizzata, televisione, video, cinema (Cronenberg), pittura e fotografia (da Warhol a Muybridge), pubblicità e che scopre ispirazione e tematiche e spazi di rappresentazione dall’ambito urbano metropolitano (dai metrò alle discoteche alle camere d’hotel); ossessiva indagine sulle tematiche del corpo (postorganico, cyber, corpo fagocitato nell’intero meccanismo tecnologico; corpo mostrato, violato, nei suoi aspetti estremi di violenza e di sesso); attenzione verso i meccanismi di visione del corpo stesso: esposto a obiettivi fotografici, e video, costretto dentro teche trasparenti. Il tema del teatro come sguardo, della ricerca di particolari dispositivi di visione è una delle costanti del giovane gruppo riminese fondato nel 1990 da Enrico Casagrande e Daniela Niccolo. Il loro teatro attraversa da sempre i territori più svariati della visione: cinema, video, architettura, fotografia. Sguardo catturato in scena da una fotocamera in Catrame tratto da Ballard e che guarda a Crash di Cronenberg; corpo dell’attore rinchiuso in teche di plexiglass e costretto in una struttura circolare in movimento in Orlando furioso, trasgressivo spettacolo che li ha imposti all’attenzione del pubblico. La caratteristica del loro teatro è che lo spettacolo nasce dapprima come installazione, come scultura scenica perché protagonista è il luogo come dispositivo scenico che si impone con le sue grandi proporzioni nello spazio dell’archittettura del teatro.

Twin Rooms , Motus
Twin Rooms , Motus

Motus : da Vacancy room a Twin rooms.

Twin room è costruito intorno ad una struttura “abitabile”. Una camera d’albergo: bagno e camera da letto contigui e comunicanti percorsi a vista dagli attori in coppia, a gruppi o singoli; quasi una sensazione di immobilità di azione in questa rigida delimitazione dello spazio, e di uscita dal tempo. E’ il luogo stesso a suggerire questa dimensione astratta: la camera d’albergo è un (non) luogo intimissimo e anonimo insieme La struttura è quadro che isola e insonorizza dal mondo. E’ anche la scatola ottica davanti alla quale poter esercitare, la propria (voc)azione voyeuristica (in quanto spettatori). Lo svolgimento dello spettacolo rivela molte affinità con il procedimento filmico. Il soggetto stesso è un vero e proprio topos a lungo esplorato e rivisitato dalla cinematografia e da un certo film di genere. Il progetto teatrale è terminato con la creazione di un ulteriore dispositivo di sguardi: una struttura modulare che raddoppia la stanza: una digital room che duplica i personaggi: le immagini proiettate provenienti da telecamere in mano agli attori e da microcamere fisse contribuiscono a dare l’impressione di assistere ad un “doppio film” .Le immagini preesistenti vengono mixate live con quelle girate in diretta. La regia teatrale diventa regia di montaggio. Twin room è ispirato a DeLillo (Rumore bianco) ha avuto una prima visione in forma installattiva al Museo Pecci di Prato; in scena un “contenitore” d’ambienti: camera d’albergo e bagno che si impone quale macchina dello sguardo e simbolo di una esasperata ricerca di uno spazio interiore; un luogo riempito di oggetti, parole, suoni e immagini evocati dal cinema e dalla letteratura.Il ruolo del video in Twin rooms: moltiplicatore di sguardi, introspettivo, narcisistico, mnesico. Video come una finestra sull’io. Per certi aspetti il video esaspera operazioni come The merchant of Venice di Peter Sellars. Un eccesso di visibilità e anche un incrudelimento e una morbosità dell’occhio della telecamera che si sofferma sui corpi. E questo è in De Lillo, interessato a quello che il consumo cannibalico delle immagini potrebbe dirci sull’inconscio collettivo politico e culturale. I personaggi di De Lillo parlano sullo sfondo di immagini televisive di morte e disastri, da Piazza Tienanmen, alla tragedia allo stadio di Hillsborough. In De Lillo i personaggi passeggiano tra i grandi magazzini e si vedono ripresi dalle telecamere, i loro volti andare in diretta in televisione. Le tecnologie negli spazi urbani ci coinvolgono , nelle strade, nelle banche, vediamo immagini di noi stessi ovunque. La sorveglianza non viene soltanto assunta da istituzioni pubbliche e ufficiali, sta assumendo caratteristiche individuali e familiari. Scrive in un romanzo De Lillo: “La gente agisce in terza persona, si trasforma via via nella propria succursale di spionaggio, nella propria compagnia televisiva, nella propria stazione televisiva. Filma le percosse della polizia, i maltrattamenti delle baby sitter ai bambini che custodiscono”. C’è una video vigilanza diffusa. La città viene a costituire un mosaico di microvisioni e microvisibilità. Il video in scena quindi integra il procedimento del romanzo: lo shock dell’immediatezza, il senso di alienazione e di perdita di identità nel flusso della rappresentazione del sé: “Una sera camminavano accanto a un grande mafazzino,andavano a zonzo. E Marina guardando verso un televisore in vetrina vide la cosa più sorprendente, una cosa talmente strana che dovette fermarsi a fissarla, afferrandosi saldamente a Lee. Era il mondo che andava dal di dentro verso il di fuori. Stavano a bocca aperta a fissare se stessi dallo schermo tv. Era in televisione!” (Don DeLillo).

Convegno Le Théatre dans la sphére du Numèrique, Paris, Centre Pompidou (in francese)
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Le premier Rendez-vous du programme de rencontres
« Création numérique, les nouvelles écritures scéniques » s’est déroulé le Vendredi 24 octobre 2003 au Centre Georges Pompidou dans le cadre du Festival Résonances de l’Ircam.

Il programma del convegno 

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Un grand merci à Anna-Maria Monteverdi qui a fait un compte-rendu de la journée

Ce premier Rendez-vous intitulé « Le théâtre dans la sphère du numérique » s’est déroulé face à un important public d’artistes, de chercheurs, de professionnels des arts de la scène et d’étudiants français et étrangers. Après une présentation du programme et de la journée par Anomos et Dédale puis Franck Bauchard, conseiller Théâtre au Ministère de la Culture et de la Communication, Bernard Stiegler, Directeur de l’Ircam, a proposé une introduction générale de la question « arts de la scène et technologies ».

Le programme a ensuite abordé les trois étapes suivantes :

Arts de la scène et technologies, la création contemporaine en perspective historique.
Cette première partie était organisée autour de deux axes :
– Les précurseurs : les avant-gardes de 1900 à 1960.
– Le choc du numérique : quelques expériences significatives de la question « arts de la scène et nouvelles technologies » de 1960 à nos jours.

Les nouvelles formes scéniques, panorama européen.

Il s’agissait ici de dresser un état des lieux européen des acteurs et des projets artistiques, de dégager, par pays ou zone géographique, les grandes tendances actuelles et de montrer comment les caractéristiques culturelles propres à chaque pays influent sur cette question des rapports arts de la scène et technologies. Les questions professionnelles (lieux de production, de diffusion, festivals) ont également été abordées. Les trois zones géographiques qui ont fait l’objet d’une attention particulière sont : l’Europe du Sud (Italie), l’Europe du Nord (Allemagne, Pays-bas) et l’Europe de l’Est (Pologne).

Arts de la scène et technologies, la création contemporaine en perspective historique.

Les précurseurs

Dans le cadre de la section dédiée aux précurseurs, la directrice du Laboratoire de Recherches sur les Arts du Spectacle du CNRS Béatrice Picon-Vallin (qui était absente, mais dont le texte a été lu par Clarisse Bardiot, collaboratrice du programme « Création numérique, les nouvelles écritures scéniques ») a proposé une interprétation de la scène technologique contemporaine qui s’inspire des avant-gardes du 20ème siècle : la scène actuelle serait une dernière contribution au thème de la conquête d’un théâtre de l’expression totale et d’un nouvel espace scénique généré non pas à partir de la peinture ou de la littérature, mais de la lumière et du mouvement :
« La scène architectonique » de Craig, la scène constructiviste ou celle du Bauhaus, génèrent des machines à jouer, échos des recherches de l’avant-garde plastique, capables entre autres innovations radicales, de découper l’espace tridimensionnel en une série de cadres précis dans lesquels et entre lesquels le comédien devra maîtriser le mouvement scénique, le jeu se voyant défini comme maîtrise des formes plastiques dans l’espace. La lumière tend également à éliminer la peinture pour distribuer elle-même dans l’espace qu’elle fluidifie couleurs et mouvements (…) Aujourd’hui, la machine à jouer se fera machine à projeter des images, et le jeu des comédiens devra tenir compte de celles-ci, fixes ou animées, qui peuvent habiter l’espace dans son ensemble, apparaître sur toute surface constituant le dispositif, et non plus seulement sur les écrans suspendus au dessus de la scène ou placés au fond du plateau (comme dans les années 20) – images qui peuvent même capter l’acteur en direct et être retraitées, toujours en direct, images surgies, fantomatiques, toujours au bord de l’évanouissement, de la disparition, par lesquelles l’acteur de chair est redoublé, agrandi, magnifié ou sous surveillance.
(B. Picon-Vallin, Un stock d’images pour le théâtre. Photo, cinéma, vidéo, in B. Picon-Vallin, sous la direction de, La scène et les images, Paris, CNRS Editions, 2001, p.21-22).

Béatrice Picon-Vallin propose une subdivision temporelle en cinq actes de cette histoire du théâtre technologique à laquelle tous les facteurs ont contribué de manière directe, qu’ils soient de nature sociale, politique, idéologique ou économique.

1. Les années 20 en Russie
2. Les années 20-30 en Allemagne
3. Les années 50-60 à Prague
4. Les années 60 aux Etats-Unis
5. Les dernières vingt années du 20ème siècle en Europe et aux Etats-Unis

Béatrice Picon-Vallin a porté une attention particulière au « théâtre de la totalité » de Moholy-Nagy, à l’acteur-marionette d’Oskar Schlemmer et à son célèbre ballet triadique et à Josef Svoboda, le scénographe tchèque, inventeur de la « Lanterne magique » et du système de poly-projections Polyécran présenté à l’exposition universelle de Bruxelles (1958). Des extraits du documentaire  biographique de Denis Bablet Jospef Svoboda scénographe (1983) ont été présentés. Un des extraits montrait le spectacle Intolérance 1960, sorte de manifeste pour une idée d’un théâtre multimédia (ayant de nombreuses implications politiques), qui a été créé en 1960 avec le musicien Luigi Nono sur le livret d’Angelo Maria Ripellino pour la Fenice de Venise dans un premier temps (mais les images furent censurées) et pour Boston dans un second temps. Cette dernière version prévoyait la substitution des images cinématographiques avec un système de reprise télévisuelle à circuit fermé : c’était en somme, comme le rappelle Bablet, « une nouvelle forme d’opéra, un nouveau type de théâtre total ».
Lire le texte de l’intervention de B. Picon-Vallin

Sylvie Lacerte, ex-directrice générale du Find lab (laboratoire international de recherche et de développement de la danse) de Montréal et doctorante à l’UQAM, a proposé l’exemple pionnier des EAT – Experiments in Arts and Technologies — l’organisation fondée conjointement en 1966 par les ingénieurs Billy Klüver et Fred Waldhauer de la téléphonie Bell et les artistes Robert Raushenberg et Robert Whitman. Cette organisation a été lancée lors de la manifestation 9 evenings : theatre and engineering qui s’est déroulée en 1966 à New-York. Il s’agissait de performances qui mêlaient ensemble danse, théâtre, musique et vidéo. Parmi les artistes présents, il y avait : J. Cage, S. Paxton, D. Tudor, R. Rauschenberg, L. Childs. Sylvie Lacerte a travaillé à la reconstruction détaillée de ces œuvres artistiques qui intégraient de façon inhabituelle les technologies. Comme le rappelle la chercheuse dans son texte sur l’histoire de l’EAT, en ligne sur http://www.olats.org :
Pour la mise sur pied de cet événement, un système électronique environnemental et théâtral fut inventé par l’équipe des ingénieurs. Le THEME – Theater Environmental Module – fut mis sur pied pour répondre aux besoins de dix artistes, en fonction de situations théâtrales bien spécifiques. Le THEME, qui n’était pas visible de la salle, permettait entre autres, le contrôle à distance d’objets et la possibilité d’entendre des sons et de voir des faisceaux lumineux provenant de sources multiples et simultanées.

Sylvie Lacerte a montré un extrait d’une des neuf performances, Open score de R. Raushenberg et J. MC Gee (ingénieurs ) avec Franck Stella et Mimi Kanarek, qui jouaient une partie de tennis avec des raquettes dont les manches étaient équipés de micros sans fil qui amplifiaient le bruit de la balle.


Le choc du numérique 

Dans la seconde section du panorama historique, Christopher Balme, professeur de théâtre et directeur du Département Arts du spectacle de Mayence (Allemagne) a proposé une intervention sous le nom de « Contamination et déploiement ; théâtre & technologies 1960-2003 ».
Dans cette intervention, Balme traçait trois trajectoires du rapport entre théâtre et technologies :
– l’art vidéo
– le théâtre multimédia
– la performance numérique et la performance à travers Internet
Après avoir anticipé les positions anti-technologiques du théâtre des années 60, en particulier celles de Jerzy Grotowski et Peter Brook, Balme a souligné très justement à quel point cette querelle du théâtre et des technologies est un sujet encore largement débattu. Pour la partie relative à la première vague de l’innovation technologique, les expériences artistiques de Nam June Paik, mais aussi celles de Jacques Polieri dans les années soixante ont été évoquées ainsi que les œuvres vidéos de Bill Viola et les spectacles de Giorgio Barberio Corsetti pour la période relative aux années soixante-dix et quatre-vingts. Balme soutient que ces artistes, pourtant éloignés dans leur pratique artistique, ont tous en commun une même attitude esthétique qui cherche à dépasser la dichotomie traditionnelle entre l’art et la technologie. En référence au passage de l’art vidéo à la scène, certains artistes de la soi-disant « scène multimédia » états-uniennes dont le Wooster Group d’Elizabeth Lecompte, pionnier dans l’utilisation sur scène de la vidéo, live et préenregistrée, ont été cités.

Rappelons-nous le spectacle Brace-up ! :


Brace up!
, mise en scène de Elizabeth LeCompte: Scott Renderer, Jeff Webster (sur le grand moniteur), Paul Schmidt (sur le petit moniteur), Kate Valk. (photo © Mary Gearhart)

Leur travail est poursuivi de façon parfaite par John Jesurun et The Builders Association (on se souvient en particulier du spectacle Everything that rises must converge, 1990). L’interaction entre l’action de l’acteur et de la vidéo est un postulat important selon Balme pour le développement de la performance numérique et à travers Internet.

Balme a présenté certains extraits du spectacle de Robert Lepage Les sept branches de la rivière Ota, premier projet théâtral réalisé avec la compagnie pluridisciplinaire Ex Machina dans lequel le metteur en scène canadien développe une trame visuelle faite de silhouettes, corps, images vidéos littéralement mêlés ensemble de façon à former un théâtre d’ombre muet, métaphore visuelle de la persistance de la mémoire d’Hiroshima dans le monde occidental et oriental. Dans la seconde partie, relative au numérique, Balme a parlé de la première performance sur Internet, Hamnet (1993) des Hamnet Players de Stuart Harris.

Il s’agit d’une performance réalisée via un système de chat à travers le canal Internet Relay Chat (IRC) #hamnet. L’essai en ligne de Brenda Danet offre une lecture précise de cette expérience :http://jcmc.huji.ac.il/vol1/issue2/contents.html.

Lire le résumé de l’intervention de Christopher Balme (en anglais)

Les nouvelles formes scéniques, panorama européen.

L’Europe de l’Est : l’exemple de la Pologne
Pour le panorama européen, Izabella Pluta-Kiziak, doctorante à l’Université de Silésie (Pologne), a proposé une intervention intitulée « Entre l’Internet et la réalité post-communiste » avec des fragments vidéos des spectacles de Komuna Otwock : Bez tytulu et Trzeba zabic pierwszego boga.


Desing: Gropius / Dlaczego nie bedzie rewolucji – Komuna Otwock.

La chercheuse a rappelé que le phénomène du théâtre et des nouvelles technologies est totalement différent en Europe de l’Est par rapport à l’Europe de l’Ouest ou aux Etats-Unis. L’actuel changement politique est d’ailleurs un facteur déterminant de ce phénomène. Il existe cependant des implications économiques et de forts liens avec la tradition théâtrale qui freinent une réelle expérimentation dans cette direction.
La chercheuse a proposé :
– un cadre historique de ce que l’on appelle le théâtre alternatif après 1989 et la direction du théâtre de recherche polonais à partir de la question « Peut-on vraiment introduire les nouvelles technologies dans le théâtre polonais après Grotowski et Kantor ? »
– un panorama des manifestations, festivals, centre de ressources. Entre autres, ont été présentés : le Festival international de théâtre alternatif Réminiscences théâtrales à Cracovie, Malta-Festival de Théâtre à Poznan (http://www.malta-festival.pl/) et WRO Centre (http://www.wrocenter.pl/), Centre des arts des médias à Wroclaw (qui organise la biennale des arts des médias).
– La génération des metteurs en scène « plus jeunes, plus talentueux », qui utilisent la vidéo sur scène : Grzegorz Jarzyna avec Psychosis 4.48 ; Anna Augustynowicz, Mloda smiercBalladyna.

Lire le texte de l’intervention d’Izabella Pluta-Kiziak

L’Europe du Nord : l’exemple de l’Allemagne et des Pays-Bas 
Meike Wagner, professeur en arts du spectacle à l’Université de Mayence a présenté deux projets :
– Alientje (2002) du groupe holandais Wiersma & Smeets qui travaille avec des projections, des personnages en papier, des objets filmés avec un simple système audiovisuel. Il s’agit d’un projet pour enfants.

– Cyberpunch (2003) du groupe théâtral de Thomas Vogel à Berlin. Il s’agit d’un projet de « cyberstage » avec des personnages virtuels en interaction avec des marionnettes et des acteurs réels sur scène. Le « cyberstage » de Thomas Vogel est un work in progress.

Lire le texte de Meike Wagner

L’Europe du Sud : l’exemple de l’Italie
Pour le panorama italien, Anna-Maria Monteverdi a proposé une digression sur trois aspects historiques :
– l’héritage du théâtre-images : panorama du théâtre de recherche italien enrichi par la présence des médias sur la scène et l’héritage du théâtre-images des années soixante-dix.
– Le videoteatro italien : de la post avant-garde à la « nouvelle spectacularité » : Giorgio Barberio Corsetti, Studio Azzuro.
– Teatri 90 et la « Troisième vague » : la nouvelle génération du théâtre italien.
Et, comme cas d’étude, Giacomo Verde de Teleracconto et Storie Mandaliche 2.0 ; et la compagnie Motus : « de l’installation au théâtre » (Twin rooms).

Motus est une compagnie de théâtre basée à Rimini (Italie) et dirigée par Daniela Nicolò et Enrico Casagrande. Ex Generazione Novanta, Motus est une jeune compagnie qui s’inscrit d’ores et déjà parmi les compagnies historiques. Leur théâtre traverse depuis toujours les territoires les plus variés de la vision : cinéma, vidéo, architecture, photographie…, une visio éclectique et multiforme, irrespectueuse des spécificités de genre qui transpose sur scène les techniques du cut up, du découpage, du mixer et du montage. Dans le projet Rooms qui atteint son point culminant avec Twin Rooms, ils mettent en scène De Lillo et le cauchemar de la vidéosurveillance. La ville comme une mosaïque de micro-visions – énorme « digital room » contiguë à la scène-dispositif représentant une chambre d’hôtel – accueille un amas incontrôlable d’images et une tentation psychotique à leur consommation.

Giacomo Verde est « médiactiviste », computer artist et technoperformer. Il a construit son esthétique sur l’idéologie dulow tech pour socialiser les savoirs technologiques. Par le biais du théâtre, il soutient la cause de la démocratie et de l’accès aux technologies et pose la question politique des images télévisuelles. Le teleracconto — ou le fait de filmer en direct des objets en gros plans, conjointement à leur vision sur moniteur (critique ironique de l’univers médiatique) selon une modalité théâtrale (techno) narrative pour enfants — est devenu un procédé clé de son théâtre : les images sont créées en live et les effets numériques constituent la toile de fond vidéo qui se modifie suivant le cours de la narration en OVMM inspiré des Métamorphoses d’Ovide. C’est une manière d’affirmer de façon provocatrice que « la télévision n’existe pas » et que « toutes les images sont abstraites ». Storie Mandaliche 2.0 (2003) créé avec Zonegemma et Xear.org est l’un des premiers exemples de spectacle interactif appliqué à une dramaturgie hypertextuelle (textes d’Andrea Balzola).

MOTUS, Caliban Cannibal al Festival delle Colline torinesi
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CALIBAN CANNIBAL
martedì 10 giugno ore 19, mercoledì 11 giugno ore 21, giovedì 12 giugno ore 19
Teatro Astra, Torino

Costruito nell’ambito degli Ateliers de l’Euroméditerranée di Marsiglia, questo spettacolo che fa seguito a Nella tempesta ha come cornice una “lightweight emergency tent”, ossia una tenda di primo soccorso per i rifugiati, abitata da A e C. A potrebbe essere Ariel, afasica e narcolessica, C potrebbe essere Caliban dopo l’esplosione dell’isola, dopo la ribellione a Prospero, dopo la rivoluzione dei gelsomini…

    di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò
    regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò

    con Silvia Calderoni e Mohamed Ali Ltaief (Dalì)
    video Enrico Casagrande, Andrea Gallo e Alessio Spirli (Aqua Micans Group)
    traduzioni Nerina Cocchi
    produzione Elisa Bartolucci
    organizzazione Silvia Albanese Valentina Zangari
    distribuzione estera Lisa Gilardino
    ufficio stampa Sandra Angelini

    produzione Motus / 2011 > 2068 AnimalePolitico Project
    nell’ambito di Ateliers de l’Euroméditerranée – Marseille Provence 2013
    con il sostegno di Santarcangelo•12•13•14, Angelo Mai Altrove Occupato, Face à Face – Paroles d’Italie pour les scènes de France

    anteprima nazionale

    durata 1h

    Ici, avance une marge. Ou alors c’est un centre qui
    Recule. L’Orient n’est pas complètement Orient
    Ni l’Occident parfaitement Occident
    L’identité est ouverture à la pluralité
    Elle n’est ni citadelle ni tranchée.

    Mahmoud Darwich (Assonance i.m. Edward Saïd)

    Dopo la “tempesta” un viaggio e un approdo. Temporaneo. Una light emergency tent – leggerissima tenda di primo soccorso per rifugiati – si installa veloce nelle zone vuote di spazi pubblici e privati: dalle piazze, ai parchi, ai centri commerciali… ai teatri.
    Non-luogo sospeso e transitorio abitato da due improbabili figure: A + C. Sono insieme per caso e necessità, precipitati nel rifugio dopo tormentate vicende di naufragi reali ed esistenziali, grandi gesti e rivendicazioni frustrate. Cercano di comunicare senza parlare la stessa lingua. Cercano di raccontarsi, senza voler raccontare tutto, mescolando italiano, francese, arabo… inglese massacrato. Cercano di sostenersi senza aver le forze per poterlo fare fino in fondo.
    “A” potrebbe essere Ariel dopo La tempesta, afasica e narcolessica, a confronto con una libertà inseguita negli slogan, ma fondamentalmente temuta. Fragile come il crisantemo, “il fiore della morte”, che ha portato con sé. “C” potrebbe essere Caliban dopo l’esplosione dell’isola, dopo l’attentato a Prospero. Dopo i fuochi d’artificio. Dopo la rivoluzione dei gelsomini…
    Poi una partenza, l’approdo nel Mondo Nuovo, con l’odore di treni sulle mani, uno zaino e un hard disk con i materiali video per un documentario sulle rivolte tunisine ed egiziane, work in progress… Ma anche una valigia piena di libri: non i libri di Prospero, i suoi libri, sottolineati, studiati a memoria, negli anni. Poeti arabi e opere di filosofi francesi: “Foucault, l’artificiere per eccellenza” innanzitutto, anche se scrive nella lingua odiata e amata. Assorbita a forza e mal digerita. Cannibalizzata per ansia di sapere. Per trovare poi altre parole. Nuove/antiche parole…
    Il contatto tra A e C è fulminante. Un nuovo maestro? No, semplicemente un fratello.
    E la relazione scespiriana si capovolge.

    Questi erano i presupposti della “fiction” a cui volevamo lavorare… ma durante le prove ogni tentativo di ripetizione dello script è stata divorata dal Tempo Reale, dalla potenza dell’incontro vissuto “in vitro”, fra le pareti sottili della tenda. Filtro osmotico con il mondo. Ogni parola, ogni gesto è stato filmato da due piccole videocamere, one-shot: ne è nato un film di poesia che riflette lo sguardo più intimo dei due protagonisti… Silvia e Dalì si sono dati in pasto all’ “occhio belva” della camera, abitando realmente lo spazio, viaggiando e dormendovi insieme, per conoscersi davvero, provare a rompere gli argini e «trasformare l’anidride carbonica in ossigeno, come le piante». Violent flowers!

    Portano sui corpi pezzi di mondi attraversati, detriti di desideri, ora accatastati in un angolo del riparo. Un rifugio, una dimora temporanea? Un altrove. Senza fondamenta sicure. A rischio di essere sfasciato dalla prima tempesta… ma in ogni caso che problema c’è? Ci si sposta. Se ne costruisce un altro. Si può anche vivere per abitare solo tempi e spazi circoscritti. Essere frattura del tempo e dello spazio.

    Le Nomadisme comme une Forme de Resistance era il titolo del MucchioMisto Workshop che Dalì ha organizzato con noi a Tunisi, nel marzo 2013. Ma Dalì, di origini berbere, non è un attore, è laureato alle Beaux Arts di Tunisi, ora studia filosofia ed è in continua lotta con la burocrazia europea per potersi spostare liberamente, come chiunque Deve aver diritto di fare… Anche se quel Mare che ci dovrebbe unire, separa e continua a sputare morti sulle spiagge siciliane.

    INSTANT COMMUNITY
    Come Nella Tempesta, dove le coperte usate in scena – e portate dagli spettatori – vengono poi donate ad associazioni per l’assistenza ai migranti di ogni città che ospita lo spettacolo, la tenda d’emergenza, al di là delle significazioni intrinseche che già come segno evoca, diventa oggetto-materiale da impiegare per altri scopi. Non muore con la fine della performance. È luogo effimero che può essere velocemente montato a Festival, occupazioni e iniziative politiche, per concentrarvi attività di vario tipo: può divenire spazio di incontri, letture, conferenze… essere messo a disposizione di altri artisti per eventuali piccole performance o videoinstallazioni… ospitare chi non ha alloggio o spazio per lavorare… o semplicemente essere allestita a spazio giochi per bambini. Un’eterotopia mobile.
    Questo è il nostro modo di essere nel paesaggio artistico… mettere un tappeto, costruire un riparo… Avere comunque una base che ci distanzia, un distacco che sottolinea la nostra identità, senza però chiudere la cerniera. Lasciare aria alla condivisione, all’attraversamento e soprattutto all’accoglienza.

    Motus prosegue il viaggio dentro 2011>2068 AnimalePolitico Project con un altro “incontro con uomini straordinari”, dopo The plot is the revolution con Judith Malina – che continua a credere con fervore nella «Bella Rivoluzione Anarchica Non Violenta» – Mohamed Ali Ltaief, è stato parte attiva di una rivoluzione – che non definisce più tale – ed è profondamente deluso, ma non rassegnato.
    Come noi.

    MOTUS
    Motus nasce a Rimini nel 1991, fondato da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. La compagnia realizza i propri progetti agendo e reagendo ai fatti del quotidiano, nutrendosi delle contraddizioni del contemporaneo, traducendole, facendone materia attiva di riflessione e provocazione. Con le produzioni Occhio Belva (‘94), Catrame(‘96), O.F. ovvero Orlando furioso (‘98), Orpheus Glance e Visio Gloriosa (2000) il teatro di Motus acquisisce una rilevante notorietà nazionale ed estera. Del 2001-‘02 è il progetto Rooms con gli spettacoli Twin Rooms e Splendid’s. Del 2003-‘04 sono gli spettacoli ispirati a Pasolini Come un cane senza padrone e L’Ospite e del 2005 quelli ispirati a Fassbinder, Piccoli episodi di fascismo quotidiano e Rumore rosa. Del 2007 è X(ics) Racconti crudeli della giovinezza, percorso sui temi della gioventù e delle periferie urbane italiane, francesi e tedesche. Il progetto Syrma Antigónes, avviato nel 2008, nasce dall’idea di condurre un’analisi del rapporto/conflitto fra generazioni assumendo la figura tragica di Antigone come archetipo di lotta e resistenza. Dal progetto nascono i tre contest Let the sunshine inToo late! eIovadovia, e lo spettacolo Alexis. Una tragedia greca. Silvia Calderoni, che collabora con la compagnia dal 2005, riceve nel 2010 il Premio Ubu come migliore attrice under 30.
    Dal 2011 Motus inaugura un nuovo percorso di ricerca intitolato 2011>2068 AnimalePolitico Project per intercettare inquietudini, slanci, immagini e proiezioni sul “domani che fa tremare”, esplorando un ricco e intricato panorama di scrittori, filosofi, artisti, fumettisti e architetti rivoluzionari che hanno immaginato (e provano ancora ad immaginare) il Futuro Prossimo Venturo. Del progetto fanno parte: The Plot is the revolution, emozionante incontro scenico fra due Antigoni, Silvia Calderoni e un mito del teatro contemporaneo: Judith Malina del Living Theatre, il trittico W. Tre atti pubblici costituito da WhenWhereWhoNella Tempesta e Caliban Cannibal.

    I Motus hanno partecipato al Festival con undici spettacoli: Splendid’s nel 2003,Come un cane senza padrone nel 2005, Rumore Rosa e Piccoli episodi di fascismo quotidiano nel 2006, X(ics) Racconti crudeli della giovinezzaCrac Let the sunshine in nel 2009, Iovadovia nel 2010, Alexis. Una tragedia greca nel 2011 (coprodotto dal Festival e creato all’Espace Malraux di Chambéry nell’ambito di Carta Bianca), The plot is the revolution nel 2012 e Nella Tempesta, anch’esso coprodotto e presentato in prima europea nel 2013.

    motusonline.com

    L’écran contre la scène (tout contre): Motus, René Pollesch, Frank Castorf, par Didier Plassard
    85

    publié dans  J.FERAL et E.PERROT (dir.),Le Réel à l’épreuve des technologies, Presses Universitaires de Rennes,2013.

    Quand la photographie électrique, en séries, sera introduite sur la scène, […] la projection pourra se dire toute-puissante et peu de choses lui seront refusées. Adolphe Appia[1].

     Effets d’absence ou scène augmentée ?

     L’analyse la plus courante, lorsqu’on se penche sur l’intégration de l’image vidéo dans la mise en scène contemporaine, repose sur le postulat que la palette expressive du théâtre s’en trouverait à chaque fois élargie : écrans et moniteurs permettraient d’accroître l’efficacité de la représentation théâtrale, faisant même naître selon certains chercheurs une forme de « scène augmentée »[2], au sens où l’on parle d’une « réalité augmentée » pour désigner l’hybridation du réel et du virtuel. La complexification des modes de présence de l’interprète, le croisement des espaces-temps fictionnels ou le développement de niveaux narratifs autonomes, tels qu’ils résultent de l’introduction de ces images sur la scène, viendraient simplement enrichir des moyens scénographiques et dramaturgiques déjà éprouvés, sans remettre en cause leurs modes de fonctionnement ordinaires.

     Ce postulat d’une addition des langages de l’image et de la scène, qui était déjà celui des avant-gardes historiques lorsque, dès 1916[3], elles imaginaient d’associer projection cinématographique et représentation théâtrale, mérite aujourd’hui d’être réexaminé. Depuis le milieu des années 1990, en effet, sont apparus des dispositifs scéniques qui, en privilégiant des écrans de très grandes dimensions, l’absence durable des acteurs sur le plateau ou le caractère intrusif de l’appareillage technique, inaugurent une nouvelle direction de travail dans l’histoire déjà longue des relations entre la scène et l’image projetée : la variation des registres de présence[4], explorée par Jacques Poliéri, Josef Svoboda et la scène expérimentale américaine dans les années 1960, puis systématisée par tant de metteurs en scène et de chorégraphes au cours des décennies suivantes, laisse en ce cas la place à ce que je serais tenté d’appeler des « effets d’absence ».

     En 1994, le monologue Slight return, de l’auteur et metteur en scène new-yorkais John Jesurun, enfermait l’interprète, pour toute la durée de la représentation, à l’intérieur d’un cube de bois de 2 mètres de côté posé sur la scène. Seule une rangée de 5 moniteurs vidéo, suspendus devant ce cube aveugle, permettait aux spectateurs de suivre ce qui se passait à l’intérieur et de voir indirectement l’interprète. La même année, Le Marchand de Venise de Shakespeare, dans la réalisation de Peter Sellars, accompagnait la presque totalité de l’action scénique par sa captation vidéo, filmée en direct depuis la scène, puis retransmise sur des moniteurs suspendus au-dessus des rangées du public. Aucun emplacement dans la salle ne lui permettant de regarder simultanément le plateau et le moniteur le plus proche, le spectateur était donc conduit à diriger ses yeux alternativement vers l’un ou vers l’autre, conscient de ce que chacun de ses choix l’obligeait à renoncer aux informations venues de la scène (réelle ou électronique) qu’il cessait un instant de regarder, et même dans une certaine mesure de voir. Par ailleurs, la présence insistante sur le plateau de micros et de caméras (souvent portés par des acteurs), comme de moniteurs et d’ordinateurs, créait autour des interprètes tout un « arsenal électronique »[5] qui modifiait en profondeur les relations interpersonnelles en interférant de manière répétée dans leur jeu.

     Ces exemples, choisis parmi d’autres, constituent les prémices d’une évolution qui, en quelques années, s’est accentuée. Bien loin de contribuer à la mise en place d’une « scène augmentée », ajoutant aux prestiges les plus anciens du théâtre l’écho des technologies les plus récentes, l’intégration à très fortes doses de l’image électronique dans la représentation théâtrale tend, chez différents metteurs en scène, à s’accompagner d’une raréfaction, d’une destructuration, voire d’une quasi-disparition de l’action scénique. Ce sont ces « effets d’absence » que je me propose ici d’examiner en prenant appui sur deux productions allemandes et une italienne, réalisées entre 2002 et 2004 : Le Maître et Marguerite, mis en scène par Frank Castorf d’après le roman de Boulgakov[6] ; Pablo au supermarché Plus, spectacle conçu et réalisé par René Pollesch[7] ; et Twin rooms, une création de la compagnie Motus[8]. En préalable, cependant, je présenterai rapidement le cadre interprétatif général dans lequel s’inscriront ces analyses.

     Révolution numérique et spectacle vivant

     Parmi les multiples mutations que connaissent les sociétés contemporaines, il en est deux qui entraînent des conséquences importantes pour les arts de la scène, conduisant à une redéfinition des protocoles et des enjeux de leurs manifestations. La première est ce qu’il est convenu d’appeler la « révolution numérique », l’extension, à des domaines toujours plus nombreux de la vie sociale ou privée, des technologies de l’informatique et des réseaux. Celles-ci, sans que nous en soyons toujours conscients, transforment en profondeur nos systèmes de représentations, au sens le plus littéral du terme : c’est-à-dire les stratégies par lesquelles nous construisons une série d’états intermédiaires (donc de transitions, de négociations, etc.) entre la présence et l’absence, le « da » et le « fort » du jeune enfant que regardait jouer Sigmund Freud[9]. Les nouvelles technologies de l’information et de la communication – c’est une banalité de le remarquer – nous amènent de plus en plus souvent à composer avec ces états intermédiaires, ces absences rendues presque présentes, ces présences partiellement absentes, dont la gamme ne cesse de s’étendre. D’où l’hypothèse, formulée notamment par Hans-Thies Lehmann, selon laquelle les arts de la scène, mettant en jeu la présence plutôt que la représentation[10], assumeraient aujourd’hui une fonction compensatrice en regard de la place grandissante qu’occupent les simulacres techniques dans nos vies : le théâtre et la danse permettraient de retrouver l’épaisseur et le grain de la présence corporelle, chargeant celle-ci d’une aura (au sens de Walter Benjamin) dont aucune image enregistrée, fût-elle interactive, ne peut se revêtir. La présence physique constituerait ainsi le nouvel horizon d’attente des arts de la scène, la performativité leur nouvelle grammaire.

     La seconde mutation est le fractionnement des collectivités préexistantes, des solidarités familiales, locales ou professionnelles, et l’isolement croissant de l’individu dans une masse humaine qui, physiquement présente, lui demeure pourtant étrangère. Pour reprendre les analyses de David Le Breton[11], le sujet occidental contemporain se construit à partir d’une série de coupures symboliques par rapport au monde, à ceux qui l’entourent mais aussi à sa propre existence corporelle. La perception en commun d’une même œuvre, dans un même temps et dans un même lieu, prend de ce fait une valeur particulière. Sans aller jusqu’à penser, comme Denis Guénoun, que le rassemblement du public dans une salle confère, à lui seul, une dimension politique au théâtre[12], on peut considérer que le partage du sens et de l’émotion, dont Schiller faisait déjà l’une des clés de l’utilité morale du théâtre[13], permet la construction d’un sentiment de communauté rendu plus précieux encore aujourd’hui. Comprendre et ressentir, de manière éphémère, ce que comprennent et ressentent les inconnus assis autour de lui devient ainsi un élément fondateur de l’expérience du spectateur de théâtre, à la différence de celui de cinéma dont l’attention, sans cesse relancée par le montage, se concentre presque exclusivement sur l’écran.

     Il résulte de ces différents facteurs que le double phénomène de la coprésence (du public face aux acteurs, des spectateurs entre eux) constitue très vraisemblablement l’un des enjeux principaux de la « séance théâtrale » aujourd’hui : si nous nous rassemblons encore au théâtre, c’est en premier lieu pour y voir des acteurs en vrai et pour vivre à plusieurs, simultanément, la même expérience artistique. Suivant cette hypothèse, l’introduction des nouvelles technologies sur la scène, qui résulte de la nécessité pour le théâtre de nouer plus fortement le lien avec le monde actuel en mettant en jeu nos façons de vivre, de communiquer, de penser, entre donc en contradiction avec l’attente d’une forme même éphémère de refondation communautaire. Sans doute est-ce là l’une des raisons pour lesquelles se trouve généralement privilégié le traitement en direct de l’image, puisqu’il conserve la dimension temporelle (et parfois même spatiale, lorsque l’action filmée est visible sans l’intermédiaire de la caméra) de l’expérience partagée. Dans ce régime, largement dominant, l’image vidéo permet de regarder différemment une action scénique elle-même directement visible des spectateurs. Ainsi peut-elle servir, paradoxalement, à maintenir d’une certaine façon le sentiment de coprésence entre la scène et la salle, en s’inscrivant dans une boucle de validation réciproque : l’écran, recevant la trace lumineuse de l’action scénique, lui prête l’effet d’autorité et de vérité qui émane de toute image enregistrée, tandis que le plateau témoigne de la conformité entre ce que montre l’écran et ce qui s’accomplit sur ses planches.

    L’écran comme scène rivale

     Bien autrement en va-t-il des réalisations scéniques qui, comme celles précédemment évoquées de Castorf, de Pollesch ou de la compagnie Motus, prennent le parti de déjouer avec une radicalité beaucoup plus grande les protocoles de la double coprésence : celle de la scène et de la salle, de par l’absence durable d’acteurs sur le plateau ; celle des spectateurs entre eux, de par la transformation partielle d’un public de théâtre en public de cinéma, c’est-à-dire en un regroupement d’individus séparés les uns des autres par le pouvoir de fascination des images. L’attente d’un instant de partage se trouve ainsi déçue, la représentation théâtrale refusant de constituer, devant la performance d’interprètes de chair et d’os, le rassemblement d’une communauté de sens et d’émotions.

    D’autres productions – de Denis Marleau et Zaven Paré, par exemple[14] – poussent ce refus plus loin encore, jusqu’à l’exclusion complète des interprètes vivants sur la scène, en ne donnant à voir que des masques sur lesquels sont projetés les traits des acteurs. À la différence de ce « théâtre de l’effacement »[15] intégral, cependant, les trois productions dont il sera question ici ont pour caractéristique commune de nouer la présence à l’absence : les acteurs participent physiquement à la représentation, mais l’action scénique, en les dérobant à notre regard ou en ménageant des obstacles à celui-ci, nous interdit l’accès direct à leur performance. La tension est ainsi plus forte de ce que l’objet du désir est là, que nous le savons, mais que la jouissance nous en est refusée.

     Dans la mise en scène du Maître et Marguerite par Frank Castorf, par exemple, le dispositif scénique de Bert Neumann est constitué principalement d’un long bungalow vitré occupant presque toute la largeur de la scène, et que surmonte un écran de projection de grandes dimensions. À sept reprises, pendant des plages temporelles de six à quinze minutes totalisant exactement un quart du spectacle (62 minutes sur quatre heures de représentation), aucun acteur n’est physiquement présent sur la scène : seule la médiation de diverses caméras et de l’écran nous permet d’assister aux séquences interprétées en temps réel derrière le décor, dans une forme de studio de télévision ou de « coulisse électronique » (pour reprendre cette expression à Giorgio Barberio Corsetti[16]) où sont reconstitués la Judée de Ponce Pilate et les immeubles de Moscou. La clinique psychiatrique du docteur Stravinski, elle aussi visible uniquement sur l’écran, est figurée par une cellule et une cabine de douche formant un sas entre le bungalow vitré et le studio de télévision. Quant aux scènes qui se déroulent dans la maison du Maître ou dans celle de Marguerite, elles sont jouées dans une petite chambre construite au-dessus du bungalow et jouxtant l’écran du côté cour : les acteurs peuvent alors être simultanément aperçus dans l’encadrement de la fenêtre de cette chambre, comme si le public les regardait depuis une rue, et vus de très près sur l’écran, grâce au cameraman qui les filme à l’intérieur de la pièce. Le sentiment de frustration qui naît de la prise de conscience que les actions visibles sur l’écran ont lieu en direct, mais dans un hors champ visuel, se trouve encore renforcé du fait que les acteurs, lorsqu’ils sont physiquement présents sur la scène, restent presque toujours séparés des spectateurs par la paroi transparente formant la façade du bungalow, lui-même placé en retrait sur le plateau – un dispositif que le scénographe Bert Neumann a déjà réalisé pour une autre mise en scène de Castorf : Les Démons, d’après Dostoievski, en 2000. Aussi n’est-ce qu’à travers le double obstacle de la distance et d’une vitre de plexiglas que déplacements, mimiques et gestes nous parviennent généralement, comme en partie désincarnés, lorsqu’ils n’apparaissent pas seulement sur l’écran. Ce choix scénographique n’est évidemment pas sans incidence sur la perception : la captation du spectacle conservée par la Volksbühne permet ainsi d’entendre l’interpellation, suivie d’applaudissements, d’une spectatrice demandant de parler plus fort aux acteurs qui dialoguent derrière la paroi transparente.

    Dans Pablo au supermarché Plus, de René Pollesch, les parts respectives de la présence réelle et de la présence à l’écran sont exactement l’inverse de celles du Maître et Marguerite : pour un spectacle d’une heure et demie, les apparitions physiques des acteurs ne totalisent guère plus qu’une petite vingtaine de minutes[17], tandis que l’écran vidéo qui surplombe la scène de la Rollende-Road-Schau[18] de la Volksbühne de Berlin ne s’éteint jamais. Aussi, plus fortement encore que dans la mise en scène de Frank Castorf, les interprètes évoluant sur scène ou bien parmi les spectateurs ont-ils à rivaliser avec ceux qui, souvent en très gros plan, continuent d’occuper l’image. La plus grande part de l’action scénique, filmée en direct, est dissimulée aux yeux du public par un vaste container rouge qui, disposé latéralement du côté cour, fait à la fois office de loge et de « coulisse électronique », tandis qu’une estrade latérale, côté jardin, est destinée à la régie technique. Quelques rares et minuscules instants de jeu à l’intérieur du container peuvent toutefois être aperçus grâce à une ouverture ménagée telle une fenêtre sur sa façade, mais partiellement occultée par un rideau de lanières scintillantes et l’inscription « BILLIG » (‘pas cher’). Machine à produire la frustration du public de théâtre, ce dispositif scénique semble n’avoir pour fonction que d’attester de la présence des acteurs à l’intérieur du container, tout en les soustrayant à la vue en direct pendant les trois-quarts du spectacle.

     Twin rooms, pour sa part, repose sur un principe entièrement différent. Dans cette réalisation de la compagnie Motus, librement inspirée du roman Bruits de fond (White Noise) de Don DeLillo ainsi que de films d’Abel Ferrara, de Gus Van Sant et de Wong Kar-wai, le public se trouve face à un double espace scénique que surmonte, de façon gémellaire, un double écran de projection vidéo : tandis que le décor construit sur le plateau représente, séparées par une cloison percée d’une porte, la chambre et la petite salle de bains d’un motel américain, les deux écrans disposés juste au-dessus ont exactement la même forme et les mêmes dimensions que l’encadrement des deux pièces. À l’exception de quelques brefs noirs à l’écran ou de moments d’obscurité sur la scène, ces quatre fenêtres ouvertes sur l’action mobilisent alternativement le regard du spectateur sans que celui-ci parvienne à percevoir la totalité de ce qui s’accomplit sous ses yeux : prenant brusquement conscience d’une modification survenue dans l’un ou l’autre des espaces concurrents, il est sans cesse conduit à déplacer le foyer de son attention.

     La discontinuité et le sentiment de confusion qui résultent de ces multiples réagencements oculaires sont encore agravés par les jeux de redoublement, de variation, de prolongement visuel ou de contrepoint expressif que produisent l’alternance, sur les écrans, des images filmées en direct depuis différentes caméras fixes ou mobiles, ainsi que l’introduction de quelques séquences enregistrées. Enfin deux techniciens, l’un tenant une caméra, l’autre un micro au bout d’une perche, viennent fréquemment s’interposer entre les acteurs présents sur la scène et le public, de sorte que la perception pleine et entière du jeu se trouve contrariée : celui-ci, le plus souvent dirigé vers les caméras plutôt que vers le public, tend d’ailleurs à se rapprocher des codes cinématographiques, donnant aux spectateurs le sentiment d’assister non à une représentation théâtrale, mais au tournage d’un film. La construction même de l’espace scénique, encombré de meubles et fermé par des murs parallèles qui rendent difficile la perception du fond de scène, renforce cette impression d’un plateau destiné à être filmé plutôt que regardé par un public de théâtre.

     

     

     

    Le théâtre affaibli

     À l’intérieur de chacune de ces trois productions, l’action scénique se trouve donc déplacée, occultée ou gênée par le (mais aussi au profit du) dispositif filmique, tandis que l’image vidéo, de grandes dimensions, puissamment éclairée et surplombant la scène à la manière des écrans géants utilisés dans les concerts de rock ou certains meetings politiques, s’impose brutalement aux regards. Le théâtre cesse ici de se définir comme le lieu de la manifestation de corps vivants, ou même comme celui de la rencontre ou de l’hybridation entre la réalité physique et l’image projetée, pour devenir celui d’un combat inégal entre, d’une part, une scène matérielle affaiblie ou marginalisée, et d’autre part une « scène » électronique usant de tout son pouvoir de sidération.

     Cet affaiblissement des moyens propres du théâtre ne résulte pas seulement du dispositif scénique ni de la relégation d’une grande partie de l’action hors de la sphère de visibilité immédiate. La rivalité de la scène et de l’image s’accompagne en effet, chez Castorf et Pollesch, d’un déséquilibre très accentué entre leurs fonctions dramaturgiques respectives. Dans Le Maître et Marguerite, l’écran se fait l’instrument privilégié du gag visuel (la démarche chaloupée d’un chat de dessin animé pour accompagner Woland chantant Sympathy for the devil[19], la tête de Berlioz tranchée par les roues du tramway, les mésaventures du directeur du Théâtre des Variétés transporté loin de Moscou), du gag verbal (les messages publicitaires d’une salle de cinéma porno), en même temps qu’il accueille un grand nombre des moments-clés du roman de Boulgakov (la confrontation de Ponce Pilate et de Yeshoua, les scènes de la clinique psychiatrique, la rencontre de Marguerite et d’Azarello, l’envol vers la nuit de sabbat, etc.), traitées de manière dramatique ou comique. Le bungalow vitré, en revanche, abrite un médiocre snack-bar décoré de l’inscription au néon « I want to believe » et un salon équipé d’un billard. Dans cet espace entièrement dédié à l’attente, les personnages bavardent, fument, boivent, déplacent les sièges, font un peu de rangement, paressent sur un canapé, pique-niquent, etc. Son rôle peut même apparaître plus dérisoire encore, à la faveur de certaines brèves entrées en scène : on voit par exemple l’un des pensionnaires de la clinique sortir de l’écran, pousser la porte du sas qui le conduit sur le plateau, directement à la vue du public, prendre une boisson dans le réfrigérateur du snack-bar puis s’en retourner dans sa chambre à l’écran, réduisant ainsi l’espace théâtral à la fonction d’une simple réserve d’accessoires dans le hors-champ de l’image.

     Par contraste avec une action scénique si ténue ou si ralentie, l’écran se charge d’un jeu beaucoup plus intense : cadrés en plan serrés, regardant très souvent la caméra ou même s’adressant à elle, les acteurs surenchérissent en expressivité à la façon des utilisateurs amateurs d’une webcam. Ainsi, lorsque Marguerite a perdu la trace du Maître, voyons-nous l’actrice Kathrin Angerer, miaulante de colère et de désespoir, errant à quatre pattes entre des immeubles miniatures, regarder alternativement l’objectif et les fenêtres éclairées ; puis, lorsqu’elle apprend du démon Azarello qu’elle pourra sauver son amant si elle accepte de se rendre à une nuit de sabbat, la jeune femme, multipliant les grimaces, les balbutiements comiques et les manifestations d’étonnement face à une caméra qui étire ses traits tant elle s’est rapprochée, prend longuement les spectateurs à témoins devant l’étrangeté du personnage et de sa proposition.

     Dans Pablo au supermaché Plus, les rares apparitions matérielles des acteurs s’accompagnent de brusques décharges d’énergie (cris, explosions de colère) ou d’instants ludiques (boniment et vente au public, jeux, brèves traversées de la scène) formant contraste avec l’action qui se déroule à l’intérieur du container, presque entièrement constituée de prises de parole à l’écran. Pour ces dernières, le regard-caméra, micro tenu à la main juste devant la bouche, est de règle : les interprètes, cadrés en gros plan, s’adressent de façon posée, complice ou détendue aux spectateurs comme s’ils parlaient à la télévision. Violemment éclairés, démesurément agrandis par la projection, accompagnés d’une musique d’ambiance syncopée aux tonalités latino-américaines, leurs visages s’imposent visuellement au-dessus de la scène. Et si les propos, comme souvent chez Pollesch, sont autant de textes-manifestes inspirés d’études sociologiques, ponctués de grossièretés, et qui semblent aléatoirement distribués entre les interprètes, ils affirment cependant des prises de positions politiques ou socio-économiques qui font de l’écran une tribune[20]. L’entrée en scène, dès lors, n’apparaît que comme une parenthèse dans la série de ces prises de paroles, un bref instant d’exutoire pour les frustrations dont elles témoignent – à moins que, comme dans le numéro de karaoké sur lequel s’achève la représentation, elle ne scelle définitivement l’asservissement de la performance théâtrale à l’image médiatique.

    La présence recomposée

    J’avançais précédemment l’hypothèse selon laquelle le sentiment de coprésence entre la scène et la salle peut connaître une forme de réélaboration – voire, en certains cas, de renforcement – par l’intromission des écrans, la diffusion en direct de l’image venant offrir un autre point de vue sur une action théâtrale déjà visible des spectateurs, dans un double système de validation réciproque. Ce n’est cependant pas ce qui se vérifie avec Le Maître et Marguerite de Castorf : d’abord parce que, comme dans le spectacle de René Pollesch, l’écran n’y redouble généralement pas la scène physique, chaque site développant ses propres séries d’actions plus ou moins autonomes ; mais aussi parce que, dans les rares moments où cela se produit, la relation entre les deux points de vue s’établit plutôt suivant le modèle du trucage à l’image et de son explication sur le plateau. Ainsi le vol de Woland et de sa troupe est-il réalisé par les acteurs couchés sur le dos et agitant les jambes dans le salon du bungalow, leur reflet dans un miroir oblique placé au-dessus d’eux étant filmé par une caméra puis projeté sur l’écran.

    Twin rooms, pour sa part, use largement du dispositif vidéo pour donner aux spectateurs un autre point de vue sur l’action scénique, mais à l’intérieur d’une économie toute particulière, car c’est l’image qui restitue sa pleine lisibilité à un jeu théâtral éloigné et difficilement perceptible en raison de l’encombrement du plateau. Grâce à elle, nous n’avons pas seulement accès au détail de l’expression ou des gestes des acteurs ; nous découvrons aussi, par exemple, que la sortie de l’une des protagonistes, Eva, n’est qu’une feinte, et que celle-ci reste cachée près de la porte-fenêtre de la chambre pour épier les conversations ; puis que la même Eva, quelques temps plus tard, se glisse entre deux lits sans que les autres personnages s’en aperçoivent et que là, allongée sur le sol, elle regarde une série de clichés photographiques. Caméras et techniciens contruisent donc un espace sous contrôle, une « scène surveillée »[21] où rien ni personne ne paraît pouvoir échapper aux regards.

    Mais c’est aussi l’image vidéo qui, par le montage des plans (ou par leur juxtaposition sur les deux écrans contigus, à la manière d’un effet de split-screen), peut rapprocher les corps et raccorder les regards d’interprètes éloignés l’un de l’autre ou semblant s’ignorer sur le plateau, alors même qu’ils sont en train de dialoguer. Procédé habituel au théâtre puisqu’il permet au public de se percevoir comme destinataire indirect de la réplique, le décrochage du face-à-face entre les interlocuteurs se trouve ainsi corrigé par le système de projection. De façon comparable, monologues et confessions, dits par les acteurs face à l’objectif, se révèlent sur l’écran être adressés aux spectateurs. Véritable machine de vision, au sens développé par Paul Virilio[22], le dispositif formé par les diverses caméras, la régie technique et les écrans, s’il contribue en premier lieu à disloquer l’image scénique en quatre fenêtres concurrentes, permet donc en certains cas de recomposer les situations énonciatives et de restituer à l’action dramatique sa cohérence, sans qu’il soit toujours possible de décider si celle-ci a été déconstruite sur le plateau pour produire un effet de surthéâtralisation ou pour recréer les conditions d’un tournage.

    Accueillant parfois, sous forme de séquences pré-enregistrées, les souvenirs ou les rêveries des protagonistes, les écrans servent aussi à piéger l’attention du public, en particulier dans les séquences qui reprennent, pendant de longs instants, les plans fixes en provenance de caméras de surveillance. Alors qu’il a pu vérifier, depuis le début du spectacle, que l’image électronique de la salle de bains coïncide exactement avec son original sur le plateau, le spectateur découvre à plusieurs reprises un certain nombre de différences : assis sur les W.-C., le protagoniste masculin, Jack, est entièrement habillé à l’écran alors qu’il porte seulement un pantalon dans la réalité. Un peu plus tard, un caniche, qui n’apparaît qu’à l’image, fait son entrée dans la même salle de bains : sans que le public ait pu s’en rendre compte, la captation en direct depuis la caméra de surveillance a laissé place à une séquence pré-enregistrée par celle-ci. Répétée en boucle, l’entrée du petit chien prend alors le sens d’un prolongement imaginaire – et ironique – du dialogue : deux acteurs, sur scène, rejouent en effet une situation extraite du film de Gus Van Sant My own private Idaho, dont on peut entendre simultanément la bande sonore :

    (Voix de Mike) : Si j’avais eu des parents normaux, une éducation à peu près correcte, j’aurais pu devenir un mec assez équilibré je crois.

    (Voix de Scott) : Ça dépend de ce que t’appelles normal.

    (Voix de Mike) : C’est vrai ouais. Enfin, je veux dire des gens normaux, du genre papa, maman, avec un chien, ce genre de conneries… Normaux… normaux. Non, j’avais pas de chien.[23]

    Par ces légers décrochages, l’image vidéo commente et, dans une certaine mesure, élargit les significations de l’action scénique ; mais, dans le même temps, le jeu des différences, en focalisant durablement l’attention, détourne les spectateurs de l’interprétation des acteurs et parasite la communication théâtrale. L’effet de distraction qui en résulte tend donc à se rapprocher de celui des procédés, bien plus appuyés, dont use Frank Castorf dans sa mise en scène du Maître et Marguerite : par exemple lorsque, dans les premiers instants de la représentation, l’écran fait défiler comme sur un affichage lumineux les slogans publicitaires burlesques d’une salle de cinéma porno (« Vous ne voulez pas vous FÂCHER avec votre FEMME ? OK ! OK ! OK ! Restez tranquillement chez vous et regardez ARD ou ZDF[24] – MAIS – MAIS – MAIS RÉFLÉCHISSEZ BIEN, chez nous aussi vous êtes assis au PREMIER RANG »), tandis que les acteurs interprétant les deux écrivains Berlioz et Biezdomny ont commencé d’échanger leurs points de vue sur la personnalité réelle de Jésus à l’intérieur du snack-bar.

     Pour ce qui concerne Twin rooms, cependant, le principal obstacle à l’établissement d’une relation directe entre acteurs et spectateurs réside, comme je l’ai déjà évoqué, dans le caractère intrusif de l’appareillage technique. En plus de deux caméras de surveillance placées dans la salle de bains, on peut d’abord relever la présence de deux ou trois techniciens (selon les représentations), munis de caméras sur pied et placés au milieu du public, qui filment l’action scénique depuis des angles de vue identiques à ceux des spectateurs, mais avec des effets de zoom ou de cadrage modifiant l’échelle et orientant la vision. Surtout, un perchiste et un cameraman, évoluant à l’avant-scène puis à l’intérieur du décor, s’imposent visuellement dans la proximité immédiate des comédiens, quand leurs silhouettes ne se découpent pas tout simplement devant eux ; au bout d’une vingtaine de minutes (soit environ au quart de la représentation), ces deux hommes, par leur comportement de plus en plus étrange et envahissant, commencent de s’affirmer comme personnages autonomes, sur les marges de l’action principale. Nous les voyons ainsi se filmer eux-mêmes, prendre la parole pour se désigner comme Vladimir et Damir, poser devant les caméras de surveillance de la salle de bains, écrire sur son miroir, dialoguer entre eux (pour rejouer, par exemple, l’extrait de My own private Idaho précédemment cité), mais aussi commenter d’une mimique humoristique ou imiter les échanges entre les deux protagonistes, les amants Jack et Cate qui vivent la fin de leur relation amoureuse. Ponctuée d’extraits de la bande sonore et de situations empruntées à Snake eyes (Dangerous game) d’Abel Ferrara, lequel prend justement pour argument la réalisation d’un film sur la défaite d’un couple, l’action de Twin rooms multiplie donc les parallélismes et les interférences entre fiction théâtrale, fiction cinématographique, tournage d’un film et préparation d’un spectacle, allant jusqu’à interrompre les acteurs dans leur jeu pour faire entendre les conseils que leur donne, en voix off, l’un des deux metteurs en scène de la compagnie Motus, Enrico Casagrande[25].

     Ce n’est toutefois pas seulement la pleine jouissance d’une action dramatique, portée par des acteurs sur un plateau de théâtre, qui se trouve ainsi refusée dans ces trois productions par le dispositif de captation et de projection vidéo : l’image, elle aussi, connaît de fréquents parasitages dus aux apparitions, en amorce dans le cadre, de la perche d’un preneur de son, d’un micro, voire d’une autre caméra et du cadreur qui la manipule. Même la présence à l’écran des interprètes et le déroulement du récit filmé sont ainsi contrariés par les approximations volontaires du dispositif technique, le média cessant d’opérer comme une simple médiation pour agir à la manière d’une gêne ou d’un encombrement.

     Les relations interpersonnelles à l’intérieur de la sphère mimétique, par exemple, se voient fréquemment déconstruites par la présence de la caméra et le pouvoir d’attraction qu’elle semble exercer sur les comédiens, selon un régime qui relève des usages télévisuels, non de la fiction cinématographique. C’est en particulier massivement le cas dans Pablo au supermarché Plus : à lui seul, le recours systématique au micro tenu à la main signifie que le véritable destinataire de la réplique n’est en aucun cas un autre « personnage » (pour autant qu’on puisse encore utiliser ce terme dans l’analyse des spectacles de René Pollesch), ni même simplement un partenaire de jeu, mais bien, comme dans une émission télévisée, le public devant l’écran. Les gros plans sur les visages face à l’objectif et la succession des prises de parole détachées confirment donc ce qu’annonce la simple visibilité du dispositif de prise de son : le refus de constituer toute apparence de dialogue à l’image autant que sur une scène. Cette juxtaposition de discours solipsistes apparaît d’ailleurs d’autant plus surprenante que les interprètes multiplient les gestes de tendresse ou de complicité les uns à l’égard des autres. L’enlacement familier des corps, souvent filmés au repos (assis ou couchés) à l’intérieur du container, fait ainsi contraste avec un dispositif énonciatif exclusivement orienté vers le spectateur.

     Comme j’y ai déjà fait allusion, plusieurs séquences filmées du Maître et Marguerite voient elles aussi des interprètes se détourner de leurs partenaires de jeu pour regarder avec insistance la caméra : prise à témoin, interrogation muette, expression d’inquiétude, d’amusement ou d’embarras. C’est en particulier ce que font à diverses reprises Marguerite face aux étranges propositions d’Azarello ou de Woland, le directeur du Théâtre des Variétés Stepan Likhodieiev devant le contrat prétendument signé de sa main que lui présente le même Woland, ou bien Biezdomny dans sa cellule, expliquant au directeur de la clinique psychiatrique curieusement allongé à côté de lui qu’il a parlé avec un homme ayant vécu à l’époque de Ponce Pilate, puis l’entendant dire qu’il peut quitter la clinique quand il le veut. Dans chacune de ces situations, l’interpellation du spectateur par le regard-caméra crée une forme de déliaison de la relation dialoguée (les autres interprètes présents à l’image continuant de s’adresser à leur partenaire comme si de rien n’était), en même temps qu’une mise en perspective de la situation de double énonciation propre à la communication théâtrale. C’est donc, à certains égards, la recomposition d’un effet de coprésence (et peut-être, par là, une rethéâtralisation) qui s’opère à l’intérieur du dispositif vidéo, l’adresse au public par le biais de l’image venant renouer une relation que l’interposition du média électronique travaille par ailleurs à défaire.

    Le vivant comme désordre

    On pourrait encore relever, dans la mise en scène de Castorf comme dans le spectacle de la compagnie Motus, plusieurs moments de jeu avec les caméras de surveillance : par les poses affectées qu’ils prennent devant elles, ou par les regards qu’ils leur lancent, les personnages soulignent qu’ils sont conscients d’être filmés, voire tentent d’établir une communication avec ceux qu’ils imaginent être en train de les regarder depuis leurs écrans de contrôle. De tels instants ludiques, qui contribuent eux aussi, au moins indirectement, à rétablir l’adresse au public, participent par ailleurs d’un régime particulier de la relation aux images, lequel mérite d’être examiné plus attentivement. Car si l’image vidéo est omniprésente dans ces trois productions, si son intégration à l’intérieur de la représentation théâtrale déplace, menace, mais sans doute aussi recompose les modes opératoires de celle-ci, les formes qu’elle adopte sont loin d’être indifférentes.

    Il est frappant de constater, en premier lieu, qu’un spectacle aussi nourri de souvenirs cinématographiques que Twin rooms ne convoque jamais, à l’écran, que des images cadrées approximativement: soit que les comédiens entrent et sortent indifféremment du champ des caméras de surveillance ; soit que les images, filmées avec une caméra tenue à bout de bras, aient le tremblé et les incertitudes propres à ce type de prise de vue ; soit encore que, même équipés de caméras sur pied, les cadreurs usent d’une maladresse affichée pour suivre les déplacements sur le plateau, se laissant fréquemment surprendre par une sortie du cadre ou par un geste brusque qui traverse le premier plan. De manière plus générale, effets de zoom et mouvements de caméra s’effectuent sans fluidité, avec de brefs à-coups, des passages au flou, de fréquents recadrages et des réajustements qui, s’ils peuvent rappeler certains plans mouvementés dont Abel Ferrara a trouvé l’inspiration chez John Cassavetes, soulignent aussi la médiation opérée par l’image électronique en révélant la présence des opérateurs occupés à recueillir les traces de l’action scénique. Qu’ils naissent du contraste entre la fixité des caméras de surveillance et la motilité des corps qui s’inscrivent dans leur champ, ou bien des difficultés apparentes qu’éprouve le cadreur à suivre les interprètes dans leurs déplacements, les ajointements incertains de la présence scénique et de la présence à l’écran interdisent qu’on oublie l’existence de la machine de vision ni le contrôle qu’elle exerce sur les activités du plateau.

    Les choix esthétiques qui président au traitement de la plupart des images du Maître et Marguerite[26], dans la réalisation de la Volksbühne, sont plus déconcertants encore. Souvent portées, les caméras cadrent ici encore de façon approximative les acteurs, s’attardent sur des détails insignifiants, multiplient les perspectives déformantes et les accidents de prise de vue (mouvements involontaires, difficultés de mise au point, passages inopinés dans le champ, etc.). Pendant la rencontre de Yeshoua et de Ponce Pilate, en particulier, on peut voir nettement, se détachant sur la coulisse, le bord de la toile du décor représentant un paysage de Judée ; puis la précipitation des serviteurs pour remplir la baignoire du procurateur romain bouscule le cadreur et sa caméra dont l’objectif, pendant toute la suite de la séquence, conservera les gouttelettes d’eau projetées par les éclaboussures du bain.

    Mais, à d’autres moments de la représentation, l’écran accueille aussi diverses séquences soit simplement reprises de caméras de surveillance (cinq minutes de plan fixe au ras des rails, dans l’attente du tramway qui tranchera la tête de l’écrivain Berlioz), soit relevant d’une forme de pratique amateur ; par exemple des images de Moscou qui pourraient avoir été filmées par n’importe quel touriste parcourant les rues de la ville, ou bien les scènes tournées dans la petite chambre du Maître et de Marguerite, comparables aux vidéos visibles sur YouTube ou les blogs d’Internet : absence durable de montage, cadrage vacillant, défocalisations, glissements d’un personnage à l’autre pour suivre les prises de parole, etc. Même les trucages réalisés à l’aide de la vidéo numérique, en incrustant un élément filmé en direct sur un fond pré-enregistré, affichent la maladresse d’un clip amateur de par la différence des températures de couleurs et l’absence du moindre raccord entre les deux plans de l’image : ainsi de la tête de Berlioz roulant entre les rails du tramway, d’un acteur en frac dansant sur le jeu d’échecs des acolytes de Woland, ou bien du directeur de théâtre Stepan Likhodieiev se retrouvant dans un désert qu’on lui présente comme la ville de Scheveningen (et non celle de Yalta où il croyait être…), puis fuyant un chasseur noir armé d’une sagaie en plein cœur de la savane africaine.

    Cette esthétique de la webcam et du film vidéo amateur contraste donc fortement avec la présence affichée des équipes techniques comme aussi avec la puissance des moyens de diffusion utilisés : très grandes dimensions de l’écran, luminosité et définition de la projection, etc. Même le spectacle de René Pollesch, s’il tend davantage à se rapprocher du régime télévisuel de l’image – en particulier avec l’usage visible des micros, qui placent les comédiens dans la position classique du journaliste ou du présentateur –, s’en écarte résolument en raison du traitement informel du cadrage et de l’absence de montage. D’une durée de près de quatre minutes, le premier plan projeté après le noir initial, par exemple, fait office de scène d’exposition : micro à la main, l’une des actrices (Christine Groß) présente différents objets disposés à l’intérieur du container ainsi que ses cinq partenaires de jeu et un chien, apparemment endormis, comme vivant ensemble dans ce lieu. Nous la voyons à chaque fois demander « Was ist denn das ? » (‘Qu’est-ce que c’est que ça ?’), puis la caméra tenue à l’épaule va chercher l’objet ou le comédien ainsi désigné, s’en approche, pivote pour le recadrer dans l’image, enfin revient par le même chemin jusqu’au visage de la jeune femme qui attend d’être de nouveau face à l’objectif pour reformuler sa question.

    De façon plus marquée encore que dans la mise en scène de Frank Castorf, la caméra de Pablo au supermarché Plus explore les lieux avec une maladresse voulue, traquant la source des voix lorsqu’elle n’est pas immédiatement perceptible à l’écran ou bien musant pour découvrir les activités – souvent minimales – des différents occupants, les surprendre dans leurs moments d’intimité, recueillir leurs propos, etc. L’absence presque complète de montage conduit à de très longs balayages optiques dans l’espace intérieur du container, à des plongées brusques, des rotations, des allers-retours qui accompagnent chaque mouvement du caméraman et semblent suivre les déplacements spontanés de son regard. Dans ce champ infiniment mobile, les interprètes disparaissent et reparaissent par simple glissement dans l’image, sans que l’enchaînement de ces apparitions ne construise un récit, au sens cinématographique du terme, ni qu’il engage véritablement autre chose que de simples variations thématiques ou rythmiques à partir de la situation initiale.

    S’il est un trait commun aux trois productions qui viennent d’être évoquées, c’est bien, on le voit, d’associer en une combinaison inédite et fortement déstabilisatrice pour le public théâtral l’hyper-présence des écrans, la minoration ou le confinement hors champ de l’action scénique et le traitement informel des images projetées. Si, en première analyse, on peut être tenté d’établir une relation d’homologie entre la place accordée au dispositif vidéo dans ces spectacles et celle qu’occupent généralement écrans ou moniteurs dans nos vies (faisant ainsi de ce nouveau paradigme des relations entre la scène et les images le reflet des mutations en cours dans la société), il apparaît clairement que Frank Castorf, René Pollesch, Enrico Casagrande et Daniela Nicolò se refusent à faire des « scènes » électroniques qu’ils convoquent sur le plateau les simples véhicules des images produites par l’industrie cinématographique ou médiatique, ni de leurs imitations même lointaines. En puisant leurs modèles dans les pratiques visuelles les moins élaborées, les metteurs en scène affaiblissent significativement le pouvoir de fascination des écrans et, surtout, tentent de compenser par le regard-caméra, le débordement du jeu ou la présence perceptible de l’opérateur les « effets d’absence » de l’acteur sur le plateau : d’une certaine façon, l’introduction massive du dispositif vidéo sur la scène théâtrale s’accompagne par là de son propre correctif.

    Mais la prédilection pour les modèles de la webcam, de la caméra de surveillance ou du film amateur, avec les approximations visuelles qu’elle induit, doit sans doute aussi s’interpréter sur un autre plan. À peu près entièrement affranchie de la grammaire filmique, l’image vidéo projetée sur la scène fait toujours apparaître un corps, dans toute sa singularité désordonnée : soit en trahissant chaque mouvement de celui qui porte la caméra et de son regard qu’elle prolonge, soit en soulignant, par le contraste avec sa propre immobilité, les hésitations et les accidents ordinaires de la vie. Image ensauvagée ou instabilité dans le cadre, l’humain apparaît à chaque fois comme désordre et inadéquation, c’est-à-dire dans une tentative de prise de distance à l’égard des habitudes visuelles qui fondent le régime moyen de l’imagerie médiatique. Parmi les diverses façons dont le théâtre compose un espace de mise en perspective critique face à l’industrialisation des médias et du divertissement, le double jeu de la frustration des attentes et du décentrement des images par les énergies du vivant n’est sans doute pas l’une des moins efficaces.

    Twin rooms

    DIDIER PLASSARD,Professeur en études théâtrales Université Paul Valéry - Montpellier III
    Rédacteur en chef "Prospero European Review".

     

    [1] Adolphe Appia, « Notes de mise en scène für Den Ring des Nibelungen » (1891-19892), Œuvres complètes, vol. 1, L’Age d’homme, Lausanne, 1983, p. 114.

    [2] Analogie proposée notamment par Antonio Pizzo (université de Turin), lors de la journée d’études Faire écran : le théâtre et son ailleurs selon Giorgio Barberio Corsetti, université de Lille III, 20 janvier 2009. En toute rigueur, cependant, l’appellation de « scène augmentée » devrait exclusivement s’appliquer aux dispositifs théâtraux mettant en jeu des effets de réalité virtuelle.

    [3] Voir Pierre Albert-Birot, « À propos d’un théâtre nunique », SIC, n° 8-9-10, août-octobre 1916, rééd. Jean-Michel Place, Paris, 1980, p. [64].

    [4] Concept développé par l’équipe « Théâtre et cinéma » du Laboratoire de recherches sur les arts du spectacle du CNRS ; voir Béatrice Picon-Vallin, « Hybridation spatiale, registres de présence », in B. Picon-Vallin (dir.), Les Écrans sur la scène, L’Age d’homme, Lausanne, 1998, pp. 28-29.

    [5] Frédéric Maurin, « Usages et usures de l’image – Spéculations sur Le Marchand de Venise vu par Peter Sellars », ibid., p. 96.

    [6] Der Meister und Margarita, mise en scène de Frank Castorf d’après le roman de Mikhail Boulgakov, création le 14 juin 2002 à Vienne dans le cadre des Wiener Festwochen. Reprise le 9 novembre 2002 à la Volksbühne de Berlin.

    [7] Pablo in der Plusfiliale, spectacle de René Pollesch, création le 26 mai 2004 à la Volksbühne de Berlin.

    [8] Twin rooms, spectacle conçu et réalisé par Enrico Casagrande et Daniela Nicolo, compagnie Motus, création le 9 février 2002 à Venise dans le cadre de la Biennale.

    [9] Voir Sigmund Freud, Au-delà du principe de plaisir, Payot, Paris, 1968, p. 52.

    [10] Hans-Thies Lehmann, Postdramatisches Theater, Verlag der Autoren, Francfort/Main, 1999, p. 146. Je me réfère ici à l’édition allemande plutôt qu’à la traduction française (L’Arche, 2002), par endroits fautive et surtout amputée d’un tiers par rapport au texte d’origine.

    [11] Voir David Le Breton, Anthopologie du corps et modernité, PUF, Paris, 1990.

    [12] Voir Denis Guénoun, L’Exhibition des mots et autres idées du théâtre et de la philosophie, Circé, Belfort, 1998, p. 10 ; et, pour une brève discussion de cette thèse qui, de mon point de vue, confond l’institution d’un espace religieux et celle d’un espace politique : Didier Plassard, « Théâtre et politique – L’écriture de la violence dans Fin de partie et En attendant Godot », Études théâtrales, n° 20, Centre d’Études Théâtrales, Louvain, mars 2001, p. 79.

    [13] « […] quel triomphe pour toi, ô Nature, […] de voir des hommes de toutes les classes, de tous les pays, […] devenus frères par la toute-puissance de la sympathie, […] se fondre de nouveau en une seule famille […]. Chaque spectateur partage le ravissement de tous, et reflété par mille yeux, ce ravissement revient avec plus de force et d’éclat dans son cœur, qui n’est alors rempli que d’un seul sentiment, celui d’être homme » (Friedrich von Schiller, « Le théâtre considéré comme institution morale », Mélanges philosophiques, esthétiques et littéraires, trad. par F. Wege, Paris, Hachette, 1840, pp. 385-386).

    [14] Voir, par exemple, le double dossier « Modernité de Maeterlinck – Denis Marleau » publié dans Alternatives théâtrales, n° 73-74, Bruxelles, juillet 2002, et celui sur Le Théâtre des oreilles de Valère Novarina dans Alternatives théâtrales, n° 72, Bruxelles, avril 2002 (pp. 8-23).

    [15] Zaven Paré, « Sur le théâtre des oreilles – Sur le théâtre de l’effacement », Alternatives théâtrales, n° 72, pp. 17-20.

    [16] Voir D. Plassard, « Dioptrique des corps dans l’espace électronique : sur quelques mises en scène de Giorgio Barberio Corsetti », in B. Picon-Vallin (dir.), op. cit., pp. 149-170.

    [17] Calcul réalisé à partir de l’enregistrement vidéo du spectacle, Pablo in der Plusfiliale, Volksbühne Films, 2005.

    [18] Conçue par le scénographe Bert Neumann comme un « container théâtral mobile », la Rollende-Road-Schau de la Volksbühne est une scène sous chapiteau ouvert qui permet la diffusion de spectacles, de concerts, de films ainsi que différentes animations, principalement dans les zones périphériques qui « résistent au théâtre ». Voir Hannah Hurtzig, RRS – Rollende-Road-Schau vom Rosa-Luxemburg-Platz, Das mobile Container-Theater der Volksbühne, Alexander Verlag, Berlin, 2002.

    [19] Comme le rappelle Castorf, cette chanson des Rolling Stones est directement inspirée de la lecture par Mick Jagger du roman de Boulgakov.

    [20] « Parce que la pièce […] a été donnée en première au Festival de la Ruhr, co-financé par les syndicats, Pollesch réfléchit aussi méchamment que possible au désarroi avec lequel les syndicats réagissent à un capitalisme de plus en plus dur et à la rupture des systèmes de protection sociale. D’une part, [il] exprime sa solidarité avec les mouvements de protestation contre le néo-libéralisme. Mais dans le même temps Pollesch, marginal professionnel, fait clairement apparaître la frontière qui le sépare du courant ‘classes moyennes’ du DGB (Deutscher Gewerkschaftsbund) : quand on n’a encore jamais appartenu au centre social, on prend connaissance avec un léger malin plaisir de la manière dont les garanties des citoyens sont brisées. Et l’on s’en remet à l’économie parallèle, aux réseaux sociaux et aux trucs utilisés par les marginalisés pour assurer leur survie. » (Peter Laudenbach, in Der Tagesspiegel online, 28 mai 2004, cité d’après le site Internet du Goethe-Institut : http://www.goethe.de/kue/the/nds/nds/aut/pol/stu/frindex.htm#plusfiliale).

    [21] Cf. Georges Banu, La Scène surveillée, Actes Sud, Arles, 2006.

    [22] Voir Paul Virilio, La Machine de vision, Galilée, Paris, 1988.

    [23] Gus Van Sant, My own private Idaho, film long-métrage, New Line Cinema, États-Unis, 1991. C’est la version doublée en français de ce film qui était utilisée pendant les représentations de Twin rooms. Sur scène, cependant, les acteurs répétaient ces répliques en italien, donnant à entendre deux fois le même texte avec quelques légères transformations.

    [24] Chaînes de télévision allemandes.

    [25] Le second est Daniela Nicolò.

    [26] Il faut cependant remarquer qu’un petit nombre de séquences sont filmées de façon plus académique : le cadrage est fixe, et la régie en direct crée des effets de montage champ / contrechamp en alternant les sources de la prise de vue. C’est le cas, par exemple, du deuxième intermède filmé montrant Ponce Pilate, lors de sa discussion avec Caïphe.

    Rimediando il teatro di Beckett con il video
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    Pubblicato in Atti del convegno dell’ADI (Associazione Docenti di Italianistica), Università di Sassari, 2012.

    Come hanno trattato o interpretato la materia e le visioni beckettiane gli artisti multimediali nelle loro installazioni, videoperformance e spettacoli tecnologici? E’ opinione comune che sia la stessa poetica di Samuel Beckett, così radicalmente altra rispetto ad una scrittura drammaturgica tradizionale, oscillante e sospesa in un tempo a-dimensionale, nella rinuncia all’illusione della comunicazione, nella negazione della possibilità di un raccontare, nell’inutilità di ogni agire, ad aprirsi ad apporti creativi altri, offerti dalla specificità del mezzo video e filmico.

    Ersilia D’Alessandro ha parlato di una loro “vocazione cinematografica”, Avantaggiato di un Beckett “ultramediale”[1]. Non è solo il Beckett filmico e tele teatrale (da Film con Buster Keaton ai tele play ai radiodrammi: Ghost trio, Quad, But the clouds, Di’Joe) ad aver offerto notevoli spunti ad artisti video, quanto alcuni testi brevi che hanno avuto rarissime rappresentazioni teatrali per l’oggettiva impossibilità di messa in scena.

    Si può parlare effettivamente, di una “vocazione all’immagine” di alcuni testi corti di Beckett (scritti dal 1963 al 1982) che, più ancora della nota produzione teatrale (Finale di partita, Aspettando Godot, Giorni felici) hanno offerto un ambito straordinario di sperimentazione video artistica (video creativa o video teatrale).

    Si tratta di prose e testi teatrali dal minimo ingombro che si offrono quali rapide illuminazioni, pennellate di spessore concettuale e di  esasperata bellezza. Per queste densissime miniature, di fulminante respiro, Beckett creò il neologismo di dramaticules a sottolineare la compressione drammatica che le sostanzia e la decaduta pretesa di qualsiasi io autoriale: PlayCome and GoBreath, Catastrophe.

    Dello stesso periodo (dal 1963 al 1972) sono alcune prose brevi in cui lo scrittore irlandese abbandona definitivamente la forma narrativa dei romanzi “adulti”, ritorna in parte al francese degli esordi, e imprime alla scrittura una vera e propria torsione sottrattiva (Trilogy, Not I, Comment c’est, All the strange away).

    Pensiamo a Non io, monologo torrentizio dell’unico personaggio Bocca, in cui la testa della protagonista, come decollata, illuminata da un violento fascio di luce, secondo le indicazioni dell’autore, si staglia su un fondale di fitta e impenetrabile oscurità. Nei brandelli sconnessi del veloce monologo, affiorano frasi di una memoria drammatica che la protagonista assicura non appartenerle. Il passato che la donna maledice, spesso con toni di oscena e blasfema ferocia, è il ricordo di un dolore cosmico senza rimedio.

    Pensiamo, poi, alla assenza pressoché assoluta di azione contenuta in Come and Go (la versione breve e al femminile di Aspettando Godot, in cui tre donne anziane sedute in una panca, sono in attesa di qualcosa da moltissimi anni e mantengono dei segreti che si sussurrano alternativamente all’orecchio) in cui emergono solo gli sgargianti colori precisamente individuati da Beckett per le vesti delle donne. In Breath Beckett arriva a immaginare una sola situazione scenica della durata programmata di 35 secondi.

    Testi quindi, quasi refrattari alla scena, persino restii anche alla forma libro e che prevedono sotterraneamente, un linguaggio altro rispetto alla letteratura e al teatro. Mi riferisco per esempio, a Play e alla dinamica convulsa del racconto di un tradimento, scritto per tre personaggi secondo una logica da montaggio alternato. Il racconto prevede non “non stop”, un circuito infinito di parole (Repeat again è l’indicazione di Beckett per gli attori, quando ciascuna delle loro versioni termina).

    E’ evidente quindi, un processo di definitiva spoliazione poetica, di scarnificazione linguistica in cui la parola sopravvive come reperto estremo, come elemento residuale di una comunicazione di per sé lacunosa e intermittente: questa è stata la fonte di ispirazione per un gruppo nutrito di artisti legati al video teatro, per la “nuova ondata anni Novanta” e per la nuovissima generazione di artisti multimediali che usano il video per produzioni creative autonome.

    Il video sembra offrire una sorta di rimedio, un risarcimento, una soluzione creativa alternativa per visualizzare in forma di immagine, quell’universo beckettiano fatto di sintetiche o scarnificate partiture che hanno la densità e la forza della parabola. Si tratta talvolta di pochi  suggerimenti scritti da Beckett più che di trame con indicazioni di movimento  che implicano, sul piano della regia video, inquadrature e montaggio di grande precisione, costruite sull’attesa e sull’assenza, lunghi piani sequenza in cui la macchina da presa, sempre presente come “occhio belva” incarna un ruolo: quello della coscienza o della morte che incombe.

     Anche in questi testi presi in esame, come nella più ampia produzione teatrale matura, le figure di Beckett sono in una condizione di immobilità (in Play dentro urne), di scacco, di prigionia soffocante autoindotta (All the strange away), in silenzio, in attesa, protesi verso il nulla. Atterrano nel fango (Come è), si rialzano ogni volta per riprendere l’andatura vacillante, inforcano le stampelle, si spostano su sedie a rotelle o sedie a dondolo (Passi), strisciano, annaspano, si osservano invecchiare e marcire (Come and go), si guardano andare in pezzi, tragici testimoni di un vuoto mai definitivo, mai risolutorio (“la morte stenta ad arrivare”).

    Il corpo umano è accecato dalla luce abbagliante (All the strange away) imprigionato in una scatola di cui si danno ossessivamente le dimensioni, o di un sacco dove condividere vita e punizioni reciproche (Come è). Trasposte sul monitor queste partiture visuali accentuano i ruoli dei personaggi nella loro fissità spaziale e esasperano la condizione di ripetitività della loro esistenza senza via di fuga (Play) grazie a loop  e ralenti, piani sequenza silenziosi e incombenti, primi piani soffocanti.

    Breath, sorta di grado zero della scrittura, testo-lampo della durata obbligata di 35 secondi, con luce intermittente e null’altro in scena se non cumuli di spazzatura, si ispira l’artista greco Nikos Navridis per l’omonima installazione video esposta alla 51a Biennale di Venezia e Damien Hirsh. David Mamet e William Kentridge guardano invece, a Catastrophe (1982, dedicato al drammaturgo ceco Vaclav Havel) per il loro omaggio video a Beckett. Un attore (Protagonista) è in piedi su un podio mentre, con l’aiuto di un Assistente, un Regista lo prepara per uno spettacolo teatrale che sembra non consistere in null’altro che nella sua stessa apparizione fisica. Viene trattato come un oggetto, spogliato, messo in posa. Della sua volontà non si tiene conto ed è a tutti gli effetti un manichino nelle loro mani, trattato come una vittima degradata e umiliata. Ma la fine è particolare: il regista chiede di illuminarlo per avere la sua “catastrofe” o conclusione. Mentre la luce è tutta su di lui, anziché rimanere immobile come da copione, l’Attore alza la testa spegnendo lo scroscio di applausi. Proprio con questo gesto finale egli riafferma, a un passa dal baratro, la sua dignità. I tre personaggi corrispondono ai tre ruoli nel potere di uno Stato: un dittatore, un servo che obbedisce ed esegue gli ordini, il popolo che subisce e poi si ribella. Il teatro svela la gerarchia della società.

     Il cortometraggio di Mamet con l’interpretazione di Harold Pinter (Director), Rebecca Pidgeon (Director’s Assistant) e con l’ultima toccante apparizione di John Gielguld (Protagonist) fa parte del progetto Beckett on film (2000) prodotto da RTE, Channel 4 e Irish Film Board, presentato al 57° Festival del Cinema di Venezia nella sezione Nuovi Territori. La storia si svolge dentro un teatro tra ombre inquietanti e fari di scena. L’anziano attore ha ancora la forza, nel finale, di ribellarsi.

     Monument (3’,1990) di William Kentridge è il secondo cortometraggio della saga di Soho Eckstein. La tecnica di animazione usata è quella usuale di Kentridge, lo stop motion, ovvero una successione di immagini filmiche di fasi diverse del disegno a carboncino realizzato appositamente per raccontare la storia. In questa come in altri episodi della saga, la tematica affrontata è quella della storia postcoloniale del Sudafrica, degli orrori del capitalismo e dell’apartheid, complice questa volta, la simbolica trama beckettiana della relazione di potere tra Regista-Attore-Assistente. Monument è stata esposta come installazione alla Tate Gallery.

    Nel 1968 Bruce Nauman, esponente dell’area concettuale americana e tra i pionieri della videoarte statunitense insieme con Dan Graham e Peter Campus, crea Beckett Walk o Slow Angle Walk.  Si tratta di un’opera video-performativa che mostra il dispositivo video nella duplice funzione di processo e immagine spazializzata. In Beckett walk una telecamera fissa collegata a un monitor per ciascun lato di uno spazio architettonico quadrato che si sviluppa in altezza, riprende dall’alto la persona che ne percorre il perimetro. I suoi movimenti non sono naturali: Nauman realizza una sorta di happening o performance mediatica ripetitiva, a loop: il performer con le mani dietro la schiena alza una gamba a 45 gradi e la lascia poi ricadere a terra con grande rumore.

    Comportamenti bizzarri, rovesciamenti del corpo che vengono ritagliati nella scatola del monitor e che contrastano con quel geometrico percorso obbligato che regolamenta il suo tracciato nello spazio. Come ricorda Valentina Valentini: “Non è gratuito il riferimento a Beckett, che è stato un incontro importante per Nauman, perché in entrambi il linguaggio è un elemento che trova in se stesso il proprio fondamento, non sta al posto di…, non è uno strumento espressivo legato alla dimensione soggettiva e intersoggettiva di locutori e perlocutori”[2].

    Natalia Antonioli regista teatrale toscana con un background di studi filosofici, ha percorso per un’occasione specifica nel 1999 (il Premio Autore Donna) l’itinerario beckettiano con una serie di installazioni video e sonore che risultarono vincitrici della sezione Nuove Proposte. L’autrice nel catalogo curato da Marina Corgnati, le definisce “microregie”, concertazioni installattive dalla durata minima, quasi istantanea, seguendo scrupolosamente le indicazioni beckettiane per i suoi dramaticules.

    Passi è realizzato come un tracciato di scritte bianche con correttore (frasi dal testo stesso di Beckett) su materiale plastico scuro posto a terra a formare gli otto numeri del gioco infantile della campana. Il gioco  non termina mai perché ricomincia sempre, e così è per la voce registrata associata all’installazione: un cadenzato ripetere delle parole beckettiane per bocca di bimba.  Tra le installazioni spicca senz’altro la resa video-letterale di Ohio Impromptu. Il tavolo con due sedie e due monitor propone un dialogo impossibile e infinito tra Ascoltatore e Lettore, tra Io e Non io: un interlocutore assente – simboleggiato dalla neve del televisore non sintonizzato – e un video-braccio che comanda ma dà regole non ascoltate.

    In tutte le installazioni i frammenti del testo originario sono sparsi in forma di sasso o cemento inciso (Giorni felici III), di carta ghiacciata (Quella volta), accartocciata, di ritagli di singole minuscole lettere ricomponibili a scelta da chiunque secondo il meccanismo della casualità. Il teatro è dietro un’unica immagine che condensa, “ghiaccia” quell’istante, “quella volta” e si concede ma per tracce fossili, all’archeologo-visitatore. Metronomi a battere il tempo per nessun strumento, voci inabissate che si disperdono dentro coni metallici, vetri che accolgono bocche afone, corpi smembrati dall’occhio della telecamera, dondoli dal movimento inarrestabile, giochi della morte e giochi dell’infanzia.

    I monitor isolati, gli oggetti casuali, le sequenze narrative monche sono lì a sostituire attori e trama e a testimoniare un’assenza imprecisata o un’attesa infinita. L’installazione è infatti, una scena provvisoriamente abbandonata, laddove una presenza umana si è dileguata e ha lasciato ombre elettroniche e guanti in lattice, borsetta, ombrellino e collana di perle. Nella dimensione irricostruibile e indecifrabile del luogo e della storia, nella negazione del tempo e contemporaneamente nella resa di “creature in fuga”, il senso di un Beckett messo per una volta in mostra e non in scena.

    Studio azzurro nel 2004 ha firmato le scenografie digitali per Neither. All’opera musicale per soprano e orchestra concepita da Morton Feldman nel 1976, Beckett aggiunse su commissione dello stesso compositore, il libretto. Feldman chiese infatti a Beckett per l’opera, la “quintessenza” della sua poetica, che fu prontamente consegnata in forma di un pugno di righe come una sorta di suprema astrazione o distillato del suo pensiero, intorno al tema universale dello stare al mondo, in una condizione sempre oscillante tra l’io e il non io.

    Studio Azzurro sceglie una dimensione evocativa quasi surreale, sorretta da pochi oggetti in formato video digitale, che rimandano al mondo beckettiano: un dondolo, l’uccello in gabbia, un uomo nel letto, l’albero, le scale, una porta semiaperta che non è retta da alcun muro, una lama di luce in un palcoscenico vuoto, quel teatro secondo le stesse parole di Paolo Rosa, simbolo di nessun luogo e insieme crogiuolo di tutti i luoghi possibili.

    Waiting for Godot sbarca su Internet nel 1997. Presentato al Digital Story Telling Festival. Waiting for Go.com è uno spettacolo di teatro on line con uso delle chat room e con personaggi interpretati da utenti collegati in quel momento; icone grafiche rappresentano non solo Didi e Gogo (Estragone e Vladimiro) ma anche altri personaggi improbabili come Mister Muscle, che si inseriscono ogni qual volta entra un nuovo utente; Waiting for Go.com ha un suo ambiente visivo offerto dalla piattaforma Palace.com che non è altro che il palcoscenico virtuale della rappresentazione. Del testo non rimane pressoché nulla se non alcune suggestioni dei personaggi. Il pubblico era costituito anche dagli spettatori reali del festival grazie a video-proiezioni. Nel resoconto on line sul sito della compagnia, dal titolo Clicking for Godot l’autore Scott Rosenberg esalta la nascita di un genere, il digital puppet theatre in un nuovo teatro on line, le cui modalità di (non) comunicazione rimanderebbe proprio al tema dell’assenza in Beckett:

     IIn Aspettando Godot nulla accade per due volte in ciascuno degli atti. Nelle chat rooms nulla accade la maggior parte delle volte, le persone si ritrovano ogni sera e aspettano per lo più che accada qualcosa, che qualcuno dica qualcosa di interessante, che un diversivo gli aiuti a passare il tempo. 

     L’artista multimediale e musicista Roberto Paci Dalò creatore della compagnia Giardini Pensili si è dedicato a Beckett in un paio di occasioni: la prima volta con l’installazione visiva e sonora Beck/ett realizzata a Castel Sant’Elmo per la grande mostra dedicata al Living Theatre e curata dalla Fondazione Morra, con la voce campionata di Julian Beck. Nel 2006 ha dato vita a uno spettacolo videopoetico (altrimenti definito dall’autore “esecuzione scenica”) di notevole valore a partire dall’ultima produzione poetica di Beckett e interpretato da Gabriele Frasca e Patrizia Valduga, a loro volta poeti (e traduttori) in scena insieme a una giovane attrice francese, Caroline Michel. Qual è la parola si regge su atmosfere rarefatte, trasparenze, voci sussurrate o disperse, parole inanellate a suoni e immagini evocative, in una composizione fragilissima e intensa, sottoposta a un trattamento digitale in diretta. Proprio il digital live è quella modalità – più volte sperimentata da Giardini Pensili – che rende la tecnologia stessa significativo evento poetico in sé.

    Un originale omaggio in video ispirato a Not I, monologo del 1972 di Beckett, è quello di Mald’è, giovane compagnia campana video/teatrale di Matilde de Feo e Mario Savinio. Il video di 11’ (che ha una forte pregnanza visiva, e aderenza alla poetica beckettiana e un’ottima realizzazione tecnica), è una cascata ininterrotta di parole dallo strano personaggio di Bocca (interpretata dalla stessa De Feo). Bocca va a occupare un angolo di un ambiente elettronico caratterizzato da un biancore abbagliante e da cui emergono a tratti, segni grafici esplosi e frammentati, fonemi vomitati, risucchiati e poi sparsi ancora nel vuoto elettronico. Dalla bocca “reale” ma isolata dal contesto corporeo, si passa a quella digitale, una macchia rossa che mentre parla si sfalda, si sdoppia, si sovrappone in un’infinita metamorfosi elettronica. Riconoscibile sempre più a stento come un organo fisico scompare affogato nel bianco, quel bianco accecante che domina molta parte della produzione beckettiana.

    Atto senza parole I di Carlo Caprioli e regia di Enrico Maria Lamann è stato presentato a Film Maker di Milano e al Lodi Film Festival del 2005. Carlo, figlio di Vittorio Caprioli interpreta col video quell’invisibile potere che regge i fili, guida gli oggetti della sopravvivenza e quindi il destino dell’uomo nel deserto in cerca dell’acqua continuamente sottratta. E’ un’entità lontana che governa gli eventi muovendoli virtualmente da un non meglio precisato mondo parallelo fantascientifico, indossando data glove e virtual eyes. I limiti spaziali non oltrepassabili dall’uomo sono dati dal campo stesso dell’inquadratura. L’uomo è prigioniero dentro il video, dentro la scatola quadrata del monitor. Da lì il protagonista non può uscire, prigioniero senza scampo in un deserto bianchissimo e in uno schermo al plasma.

    La luce bianca torna ancora a infierire e annulla i contorni delle cose, disintegrando qualsiasi apparenza antropomorfa nel muto deserto siderale materializzato da Beckett in All strange away. A questo si ispira il video di Motus A place (that again). La compagnia si cimenta in un tratteggio di corpi evanescenti come ectoplasmi che nella loro liquefazione di fronte al bianco totale, diventano figure simili alle pitture di Bacon. E’ in scena e in video l’ossessione della fine descritta esemplarmente con un minimalismo d’immagine agghiacciante. Dalle note della produzione video di MOTUS:

     Azione. Un luogo, ancora quello. Mai un’altra domanda. Un luogo. Poi qualcuno, ancora quello. Ancora le sue scarne parole che ci perseguitano come quella luce abbagliante che invade e folgora. Ovunque. Ancora quello spazio vuoto. Bianco assoluto. Dove tutto si vede. In cui tutto precipita. Senza alternative. All strange away. Diabolico tentativo di fermare il tempo, di dilatare l’istante del trapasso, definitivo, verso il momento in cui “nessun rumore di respiro è percepibile”. Immagina solo carne silenziosa. Mangiata dallo sguardo. Occhio belva. Che cerca negli angoli senza ombra. Il video indaga nelle pieghe della pelle. Con rigore scientifico. Espone. Così è la morte o meglio, così è la caduta secondo BECKETT.

    Il bianco elettronico è il non luogo beckettiano. Dove affogano i pensieri sessuali, le memorie del personaggio. Come ricorda Mussapi  nell’antinferno beckettiano non c’è grido, non c’è richiesta di ascolto, perché tutto avviene dopo il corso del tempo, di cui sussistono illusorie dilatazioni dell’istante, spasimi molecolari della durata, movimenti microscopici di una immobilità ormai in fase di definitivo assestamento come lava ormai solidificata”[3].


    [1] L. Avantaggiato, MultiBeckett. Samuel Beckett tra vecchi e nuovi media, in “Biblioteca teatrale”, n. 81-82, 2007.

    [2] V. Valentini, Corridoi, labirinti, soglie: come mettere in gioco lo spettatore, in Dal vivo, Roma, Graffiti , 1996.

    [3] L. Mussapi, Postfazione a Beckett, S. ,Quello che è strano via

    Nuovi media nuovo teatro?
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    Le definizioni, la mutazione, gli schermi

    Pubblicato su “Il castello di Elsinore”

    Definizioni 
    Virtual (Reality) Theatre (o VT o VTheatre o VR performance), Digital Puppet Theatre, Virtual Puppetry, Interactive Theatre, Augmented Reality Theatre, Artificial Theatre, Enhanced Theatre, Expanded Performance, Cyborg Performance, Cyber Performance, Mobile Performance, Digital Performance, Computer Theatre, Mixed Reality Stage, Real Time Performance, Instant Digital Theatre, Live Online Performance, Net Drama, E-Theatre, Internet Theatre, Net Theatre, Chat Performance, Id Theatre, Webcam teatro, Hacker teatro, Web Streaming Performance, Web-based Drama, Digital Story Telling, Telematic Performance, Performance in Remote Connection, Networked Theatre, (Computer) Mediated Theatre, Intermediated Performance, Hyperdrama, Interactive Generative Stage, Multimedia Interactive Performance, Intelligent Stage, Activation Space, Multidisciplinary Media Performance, Trans-media Performance, Electronic Theatre, Live Cinema, Interfaced Theatre, Image-based Theatre, Synesthetic Theatre, Crossmedial Performance, Fractal Theatre, Machinic Performance, Recombinant Theatre, Chromakee Performance, Mocap Performance

    Queste definizioni possono dare un’idea, oltre che della corsa ai neologismi nell’ambito dei nuovi media, del variegato panorama di proposte – almeno terminologiche – con cui il multimedia digitale off line e on line è sbarcato sulla scena.
    Forse dovremmo aggiungere anche la riformulazione della “drammaturgia” che diventa iperdramma ovvero “una nuova scrittura ipertestuale che utilizza le nuove tecnologie audiovisive, digitali e interattive”(1); o, secondo Marcel.lí Antunez Rocasistematurgia, cioè

    “una drammaturgia che ha bisogno dell’informatica, basata sul principio della gestione della complessità del computer. La sistematurgia è un processo interattivo che indaga attraverso nuovi prototipi, un arco di mediazione che include l’interfaccia, il calcolo e i nuovi mezzi di rappresentazione; sta al servizio di una narrazione, di un racconto, di un organismo teatrale ma lo fa in maniera interattiva usando uno strumento ipermediale.“(2) 

    Originali anche le definizioni dei nuovi tecno-interpreti, reali o virtuali: mediattore, cybernarratore, synthetic actor, digital story teller, hyperactor (3), networked news teller (4).
    Flavia Sparacino parla di “mediattori” per definire “gli agenti software digitali dotati di intelligenza percettiva e di abilità espressive e comunicative simili a quelle di un performer” (5); Lance Gharavi parla invece di “agente aggiunto” (e conia il termine di VED, Virtual Environment Driver) per definire colui che nelle sperimentazioni dell’Institute for Exploration of Virtual Reality (i.e.V.R., fondato con Mark Reaney e Ronald Willis) manipola in real time l’ambiente di realtà virtuale e guida a vista sul palco, la navigazione del pubblico attraverso i mondi virtuali (6). I cambi d’abito o di personaggio sono anch’essi virtuali (7). I costumi prendono infatti forme insolite: protesi esoscheletriche, servo-meccanismi pneumatici, potenziometri, appendici elettromagnetiche o sensori di posizionamento. Osserva il digital stage designer Paolo Atzori:

    Computer indossabili contengono protesi percettive, microcamere, microfoni, sensori ecc, la sua posizione, i suoi movimenti e persino certe funzioni vitali vengono costantemente registrate, con reti di sensori e sistemi di motion tracking e video capture, in-put che vengono campionati, elaborati ed eventualmente trasferiti come informazioni per altri sistemi, come, per esempio, reti neurali con programmi per il riconoscimento gestuale.” (8) 

    In Italia resistono ancora il termini generici come “teatro tecnologico” o “scena digitale”, ma le definizioni inglesi e angloamericane sottolineano più propriamente alcuni caratteri chiave, in uno scambio (che qualcuno ha definito “dialogo tra simili”) fattivo tra teatro e digitale: l’ibridazione, la sinestesia, la multidisciplinarietà, l’ipertestualità, l’interazione-reattività tra soggetto-ambiente-pubblico, la nuova percezione aumentata dai sistemi informatici immersivi, la dislocazione spazio-temporale dell’evento, la connessione tra reale e virtuale, oltre alla specificità delle tecnologie e dei sistemi (ambienti interattivi, realtà artificiale, sistemi di captazione del movimento) e delle modalità di comunicazione e “trasmissione” usati (via modem, via streaming audio/video o via mobile). Ma soprattutto focalizzano il carattere “attimale”, istantaneo del digitale: il “qui e ora” della comunicazione teatrale diventa nella sua versione tecnologica il real time on site, on line, on air oltre che on stage, naturalmente.
    In questo elenco c’è un elemento innegabile: l’impossibilità a classificare in una sola definizione onnicomprensiva una pratica, una tipologia d’arte in costante evoluzione e che a causa (o in virtù) della sempre maggiore sua tendenza alla transdisciplinarietà(9), sembra sfuggire a ogni tentativo di categorizzazione. Le opere d’arte digitali (media arts), come è stato rilevato da più parti (10), si rivelano infatti in una forma mutante e combinatoria: “ibridi, eterocliti, stratificati, multi-supporto” (11). Sollecitano esperienze plurisensoriali attraverso interfacce che richiedono una partecipazione fisica, intellettiva ed emotiva integrale, anche a distanza (12).
    Il teatro interlacciato con il digitale va a delineare un vero e proprio “ecosistema” (13) fatto di simbiosi-innesti-migrazioni tra linguaggi e codici. Insomma, si inaugurano “un nuovo tipo di spettacolo, di percezione e di partecipazione” (B. Picon-Vallin) e un nuovo spazio di rappresentazione, inteso come “ambiente non più luogo neutro contenitore di eventi, ma spazio sensibile, estensibile, modellante e modulabile” (14).

    Spesso però una modalità non ne esclude un’altra: progetti concepiti per sofisticati sistemi di realtà virtuale in scena possono prevedere contestualmente anche modalità più tradizionali; o reincarnarsi in forma di installazioni o di operazioni intermediali; o approdare in rete e collocarsi così potenzialmente dappertutto, in un “crossing” tecnologico che sviluppa modaliltà di attraversamento e di integrazione sempre più complesse e interminabili. Le cross-ibridazioni (15) o le commutazioni (Couchot) tra sistemi, scritture, dispositivi di visione e di ascolto, complice il comune codice digitale, sono infatti potenzialmente infinite. Come ricorda Andrea Balzola,

    Il testo, o meglio l’ipertesto drammaturgico, il progetto scenico, la partitura sonora-musicale, l’installazione, il video, il software, lo spettacolo, non appartengono più a generi diversi ma divengono fasi di un processo aperto, tassello di un mosaico spaziale e temporale mutante, flessibile e comunicativamente forte”. (16)

    Quello che ci interessa verificare è se i nuovi media stanno effettivamente cambiando anche il teatro, quali sono le nuove forme espressive di scrittura scenica, ovvero – per prendere spunto dall’interrogativo di Manovich: “Come possono le nostre nuove capacità – archiviare masse di dati, classificarli, indicizzarli, collegarli, ricercarli automaticamente e recuperarli istantaneamente – realizzare nuove tipologie di narrazione?” (17)

    Nel cyber teatro il racconto diventa una tecnonarrazione (Giacomo Verde). I materiali vengono traslocati da un linguaggio a un altro (Peter Sellars, Motus, Xlab). E’ un teatro digitale che espande il concetto di presenza alle nuove possibilità di performance globale telematica e di teleazione a distanza (Electronic Disturbance Theater; Fake), che crea un dialogo interattivo e interdipendente tra attore, spettatore e immagine attraverso dispositivi multivisione e protesi esoscheletriche (Fortebraccio Teatro, Marcel.lí Antunez, Reaney-Gharavi). Sostituisce l’attore con una presenza virtuale ma non dimentica la tradizione e l’artigianalità delle macchine antiche (Lepage e Kentridge). Innesca virus nel corpo sociale in una prospettiva politica e interventista del teatro (Critical Art Ensemble). Infine, auspica una prossimità e un’interazione con lo spazio scenico inglobando il pubblico in un environment immersivo (Dumb Type; Granular Synthesis), sollecitando memorie e percezioni multisensoriali collettive (Studio Azzurro; Giardini Pensili) e percorsi narrativi non lineari, labirintici e rizomatici (Zonegemma, TPO), trasformando l’opera in un’esperienza relazionale e socializzante vissuta all’interno di un sistema aperto (l’hacker theatre di Giacomo Verde e Jaromil).

    In questa prospettiva il palcoscenico è solo uno dei possibili teatri dell’azione performativa, che può estendersi (spazialmente e temporalmente) in più ambienti interconnessi: le piattaforme multitasking dove diverse applicazioni possono operare contemporaneamente, le community web, le mailing list e i diversi network telematici (wireless, telefonia, instant messagging), in una strategia di territorializzazione multipla che non ha precedenti.

    MUTAZIONE, VARIABILITA’ E TEMPO REALE 

    Per Lev Manovich la variabilità (conseguenza della rappresentazione digitale e della organizzazione modulare delle informazioni) è il principio base, la “condizione essenziale” dei nuovi media all’epoca della convergenza digitale (18). Questa caratteristica “mutabile e liquida” (Manovich) applicata alla materia teatrale ha dato vita a un serie di esperienze artistiche e addirittura a nuovi format – il live cinema (19) – che giocano sulla possibilità di intervenire grazie al digital processing (il trattamento digitale delle “immagini che rispondono” secondo Edmond Couchot) sul corpus delle immagini e dei suoni in real time, dando vita a “composizioni sceniche” in costante divenire.
    La metamorfosi, l’intercambiabilità e l’interattività, insieme all’immediatezza, sono dunque la caratteristica dei nuovi media, esattamente come il teatro, caratterizzato, secondo la distinzione di Kowzan (20) da:
    1) compresenza fisica reale di emittente/destinatario;
    2) simultaneità di produzione e comunicazione.
    Béatrice Picon-Vallin sottolinea la “trasformabilità tecnologica” della nuova éra, in cui il nuovo teatro sottomettendovisi, ritrova l’antica radice:

    “Sottomettere il palcoscenico a questo principio di trasformabilità e non più soltanto a quello della riproducibilità, è una nuova prova che implica senza dubbio il rafforzamento della natura stessa dello spettacolo, effimero e che cambia ogni sera.”

    Biosensori, sistemi di motion capture e motion tracking, convertitori di segnali MIDI: assistiamo alle più svariate tecnomutazioni digitali dell’attore, e contestualmente anche a quelle della scena, che indossa gli attributi altrettanto proteiformi e metamorfici della maschera elettronica: vere performing machines sono gli automatics ideati dalla Fura dels Baus che negli spettacoli interagiscono con gli attori sul palcoscenico e con il pubblico (21). Robot musicali sono quelli creati dal software e robot designer catalano Sergi Jordá per Afasia di Marcel.lí Antunez Roca: un quartetto di robot costituito da chitarra elettrica, violino, batteria e cornamusa suonano grazie agli impulsi generati dai sensori indossati da Marcel.lí Antunez, che consentono anche animazioni interattive sullo schermo. In scena compare una nuova macchina, umanizzata ed “emancipata”, che “non racconta più sé stessa ma che racconta” (Studio Azzurro); le sue inattese interruzioni permettono di “far rigenerare su un palcoscenico, quella vibrazione aperta all’imprevisto, alla casualità, ai tempi di reazione” (Studio Azzurro).
    Performance con la macchina o addirittura della macchina “processore di media”, ovvero l’altra metà del palcoscenico, sono quelle dei gruppi Troika e Palindrome. Questi ultimi usano il software Eyecon ed elettrodi applicati al corpo (a uso di elettrocardiogrammi e elettroencefalogrammi) per controllare suono, luci e immagini: “Il performer deve “interpretare” il sistema interattivo così che i media siano veramente parte della performance live”.

    Le performance si differenziano anche per il tipo di software, oggetto mediale (22) o “grafo” utilizzato. Per la gestione live dell’archivio di immagini Roberto Castello e Giacomo Verde hanno usato il programma Arkaos (normalmente in uso per concerti di vjing); Renzo Boldrini gestiva in sintonia con la propria narrazione le animazioni in Flash per Dg Hamelin; Davide Venturini creava in Photoshop i disegni per Storie zip, mentre il mixaggio live delle immagini e il lumakey creato in diretta in Elsinore e in The Seven Streams of the River Ota di Robert Lepage creava le suggestioni coloristiche in sincrono con la rappresentazione; per Animalie e Qual è la parola Roberto Paci Dalò ha utilizzato il software Image/ine di Steim creato da Tom Demeyer. Catherine Henegan con The Shooting Gallery realizza con la rete una networked performance 2006.

    L’aspetto di regia audio si impone sempre di più sulla mera creazione di una “colonna sonora”. Voci e musiche di sintesi, landscape sonori, morphing audio in real time in relazione con le potenzialità e le simbologie della narrazione acquistano una rilevanza sempre maggiore. Come afferma Mauro Lupone sound design di Xlab:

    “Considerando che il suono investe lo spazio e si svolge nel tempo, articolare processi di elaborazione della voce significherà anche agire sulla memoria e su processi di percezione e di ascolto. Non solo quindi modificazioni timbriche-morfologiche, ma anche azioni in cui si esplora il sistema in relazione ai concetti di spazio e di tempo: illusioni sonore o dissociazioni visive-sonore, tendenze entropiche e accelerazioni/rallentamenti psicopercettivi connessi all’informazione, memorie e sedimentazioni che riemergono, esplorazioni nelle zone di limen del suono, moltiplicazione delle sorgenti e dei movimenti spaziali ad esse associati“.(23) 

    Per la cybernarrazione Storie mandaliche con ipertesto drammaturgico di Andrea Balzola, Lupone ha creato grazie al sistema di spazializzazione audio IMEASY una gestione direzionale quadrifonica live della complessa spettromorfologia che sottostava alle sonorizzazioni delle storie (24); nell’Ospite la compagnia Motus ha utilizzato un sistema simile di spazializzazione per la gestione in tempo reale, della traiettoria di 24 fonti audio (25).

    SCHERMI: teatro o cinema (e TV)? 

    E’ un dato di fatto che la scena digitale monitorizzata e cablata assomigli sempre più a un set televisivo o cinematografico, dato che da tempo ne ha ormai incorporato persino i codici, oltre che le definizioni (26). Se già negli anni Settanta Wilson si appropriava del linguaggio cinematografico (ripetizioni, ralenti, flashback, fermi immagine) bidimensionalizzando la scena, nel 1998 in Monster of Grace usava pionieristicamente come sfondo un film stereoscopico in animazione 3D. Alla fine degli anni Ottanta Robert Lepage portava in teatro con Le Polygraphe un vero e proprio “spettacolo cinematografico”: simulazioni di riprese, punti di vista insoliti come fossero inquadrature di una macchina da presa, applicazione del montaggio alternato alla drammaturgia, uso frequente del flashback e del flashforward. In The Merchant of Venice Peter Sellars introduceva intensi primi piani televisivi trasmessi in diretta nei monitor, che andavano a scavare l’interiorità del personaggio, mentre il BAG ricreava un set cinematografico con la messa in mostra teatrale degli effetti cinematografici (le macchine da truquage, come le definiva Méliès).
    In Twin Rooms Motus lavora sulla diretta televisiva: l’incubo mediatico descritto da De Lillo in Rumore bianco si innerva nel tessuto organico dei protagonisti: perseguitati da un invisibile occhio satellite che li raddoppia tra specchi e pareti lucide e trasparenti: nella proliferazione di corpi che contrasta con la loro solitudine, incarnano l’incubo psicotico della videosorveglianza.
    Nella scena organizzata spazialmente come una composizione a intarsio, il miglior esempio di integrazione di dispositivi multischermo con la scena è senz’altro rappresentato da The Seven Streams of the River Ota (1994) di Robert Lepage, primo lavoro nato in collaborazione con Ex Machina, l’equipe multidisciplinare da lui fondata a Québec City. La scena è strutturata come la facciata di una tradizionale casa giapponese, bassa e lunga, con sette schermi-pannelli trasparenti fatti di spandex su cui vengono proiettate (e retroproiettate) immagini video e ombre: l’effetto di “incrostazione” tra l’immagine video e corpo dell’attore e tra la figura e lo sfondo monocromo luminescente (quasi un chromakey) genera un surreale dialogo tra corpi e luce, e rende quasi alla lettera il senso più profondo dello spettacolo: il legame indissolubile tra Oriente e Occidente e l’impossibilità di cancellare dalla memoria collettiva l’Hiroshima della bomba atomica. La scena attraversata dalla luce del video diventa così una lastra “fotosensibile”, una scrittura di luce, metafora di un percorso di memoria, di illuminazione e di conoscenza.
    La scena contemporanea ha sviluppato insolite modalità di proiezione su superfici diverse. Se Svoboda nel 1958 all’Expo di Bruxelles inaugurava la multiproiezione (il polyécran), oggi si ricerca l’effetto evanescente dell’immagine: proiezione su doppio strato di tulle con l’attore reale incastonato in mezzo o su materiali che mantengono una “memoria di forma”, e perfino su elementi naturali e gassosi come l’aria e l’acqua vaporizzata. Fabio Iacquone con il suo Digital Versatile Theatre sta sperimentando proiezioni su gas e fumo, ricreando il mito delle apparizioni fantasmatiche. L’artista visiva Paola Lo Sciuto prova a ottenere l’effetto di “miraggio nel deserto” con un sistema scenotecnico da lei brevettato.
    La sfida più attuale è quella di restituire, grazie ai nuovi materiali di matrice polimerica e plastiche fotosensibili, volumetricità e tridimensionalità interattiva all’immagine, progettando nuove architetture immateriali e liquide, pieghevoli e arrotondabili, occultando in trasparenza la superficie piatta degli schermi di proiezione e la relativa cornice di separazione. Non ci si immerge più, non c’è più nemmeno bisogno di display a cristalli liquidi, occhiali con lenti binoculari o sistemi multimonitor per ampliare il campo visivo: ora sono gli oggetti a “fuoriuscire” dal loro mondo e ad affacciarsi direttamente nel nostro.

    Kathleen Ruiz, AVA project, trans-media performance.

    Nuovi sviluppi riguardano le avveniristiche tecnologie per i display che avvicinano sempre di più il teatro all’immaginario fantascientifico di Matrix e di Minority Report. Secondo le ottimistiche previsioni commerciali della Liquavista, neonata società della Philips specializzata nelle tecnologie applicate ai display, gli schermi LCD lasceranno presto il posto alla tecnologia O-led (Organic Light Emitter Diode, nata però già nel 1985) che si basa su strati di polimerici organici flessibili e elettroluminescenti interposti tra due elettrodi per proiezioni tridimensionali dall’effetto simil-olografico, che creano l’illusione di immagini sospese nel vuoto. Un’altra alternativa è l’Electrowetting Display, nato nel 2003: lo schermo è composto da particelle microscopiche sospese in un mezzo denso che dà simultaneamente la diffrazione, la riflessione e la trasmissione di tutte le lunghezze d’onda della luce.

    L’elemento strabiliante di questa tecnologia è che la scena dietro lo schermo è chiaramente visibile nell’area nella quale non ci sono immagini proiettate. L’applicazione è per ora limitata al campo dell’intrattenimento (discoteche o concerti e parchi divertimento) o della moda (show room). Il gruppo rock Gorillaz, che ha legato la propria immagine in videoclip ai fumetti, ha letteralmente “mandato in scena” a suonare agli Mtv Awards alcuni dei loro personaggi a cartoni animati in computer graphics, con tanto di asta di microfono, basso e batteria, proiettati su un invisibile e impercettibile schermo (27), con effetto di immagine simil-olografica come avrebbe potuto immaginarla Dennis Gabor: l’evento è stato universalmente riconosciuto come punto di svolta della virtualizzazione dei supporti.

    Ricorda Lev Manovich che se tutte le azioni avverranno in un prossimo futuro nello spazio del virtuale e della simulazione, lo schermo (ultima appendice della cornice, intesa come spazio fisico separato che impedisce il movimento di chi osserva) scomparirà del tutto a vantaggio di un effetto compositivo che ricerca, “scorrevolezza e continuità” (28):

    L’apparato della realtà virtuale si ridurrà a chip impiantato nella retina e connesso via etere alla rete. Da quel momento porteremo con noi la prigione non per confondere allegramente le rappresentazioni e le percezioni (come nel cinema) ma per essere sempre in contatto, sempre connessi, sempre collegati. La retina e lo schermo finiranno per fondersi”. 

    Ma per ora in teatro gli schermi, più che eliminati, si sono invece ingranditi. A caratterizzare la scena degli ultimi anni il fenomeno del gigantismoEnormi schermi delimitano la circonferenza dello spazio della rappresentazione in Ta’ziyé di Kiarostami, un’elaborazione teatrale che recupera un antico rito iraniano. Ugualmente enormi sono i fondali elettronici in alta definizione dell’Ospite di Motus, quello di Voyage e il ciclorama semicircolare di (Or), due spettacoli di Dumb Type; di Aladeen, di Gorky, le alte pareti avvolgenti come un gasometro di Granular Synthesis.

    Del resto le gigantesche proiezioni ormai fanno parte del paesaggio metropolitano e costituiscono l’armamentario basico della pubblicità, raggiungendo formati terraquei (il maxischermo pubblicitario da 24 metri inserito in un dirigibile formato da centinaia di led luminosi che lo rende visibile a 4 chilometri di distanza). Anche lo show design li ha impiegati, anche se in modi sempre più creativi: vedi le straordinarie invenzioni videosceniche e luministiche di Mark Fisher per i concerti rock dei Pink Floyd e degli U2, quelli di Robert Lepage per il Secret World Tour e il Growing Up Tour di Peter Gabriel e quelli a led con software generativo degli United Visual Artist per i Massive Attack.


    NOTE

    “Il passaggio dalla macronarrazione lineare alla micronarrazione non sequenziale fa seguito a due innovazioni portate dall’evoluzione interattiva dei media. La prima è lo zapping, cioè l’uso televisivo del telecomando che frammenta la fruizione di un programma e consente una visione parallela di più programmi. La seconda innovazione, ancora più radicale, è quella aperta dai nuovi media digitali, on line come il web e off line come cdrom e dvd, dove lettura-visione-ascolto non sono più lineari ma sviluppano una navigazione non sequenziale e ipertestuale. Allora la scrittura drammaturgica o si frantuma caoticamente come nella narrazione destrutturata, oppure elabora delle unità testuali minimali e nomadi, ma compiute, che possono agganciarsi e sganciarsi nell’ipertesto spettacolare” (A. Balzola, Verso una drammaturgia multimediale, in A. Balzola-A. Monteverdi, Le arti multimediali digitali, Milano, Garzanti, 2005).
    2 Intervista di Anna Maria Monteverdi a Marcel.lí Antunez Roca in www.ateatro.it .
    3 E’ Claudio Pinhanez a dare una definizion dell’hyperactor: “Un iperattore espande il corpo in modo da far accendere le luci, attivare suoni o immagini su uno schermo nel palcoscenico; controllare la risultante sembianza laddove la sua immagine o la sua voce sia mediata attraverso il computer; espandere le sue capacità sensorie ricevendo informazioni attraverso cuffie o occhiali-video o controllare strumenti fisici come videocamere, parti del set, robot o altri macchinari teatrali” (C. Pinhanez, Computer Theatre in www.cybertsge.org; cit da Pericle Salvini, Tesi su Teatro e tecnologia, Università di Pisa).
    4 “Il Networked News Teller è un attore di strada che porta con sé un computer indossabile con un occhio privato. Il computer esegue un programma che aggiorna le notizie costantemente sull’occhio privato dell’attore. Costruisce poi una pagina web che riporta la stessa notizia secondo i diversi punti di vista dei differenti news provider. Dopo aver scelto la notizia da discutere attraverso il suo occhio privato, il News teller interroga i passanti chiedendo la loro opinione. Il performer può recitare la notizia per strada basandosi sull’interazione con il pubblico e con le notizie che appaiono sul portatile… Questa ricerca tecnoartistica è direttamente ispirata al lavoro teatrale dell’attrice Anna Deavere Smith chiamato Twilight” (F. Sparacino, La realtà aumentata nella danza e nel teatro, in A. Menicacci-E. Quinz, La scena digitale. Nuovi media per la danza, Venezia, Marsilio, 2001).
    5 F. Sparacino, La realtà aumentata nella danza e nel teatro, cit., p. 101: “Definiamo mediattori immagini video, suoni, discorso, oggetti testuali in grado di rispondere al movimento e al gesto in modo credibile, estetico, espressivo e divertente. I mediattori sono agenti software la cui personalità influisce non soltanto sul loro stato interno (sentimenti) ma anche sulla percezione del comportamento dell’interprete (intenzioni) e sulle aspettative riguardo a interazioni future con attori umani”.
    6 Un resoconto dettagliato di Play di L. Gharavi, spettacolo in realtà virtuale dell’i.e.V.R,. è on line su www.ateatro.it n.101,
    7 Ci riferiamo all’interessante progetto di teatro d’opera The Jew of Malta, libero riadattamento da Christopher Marlowe con musica originale di André Werner e uso di sistemi di motion tracking commissionato dalla Biennale di Monaco. Protagonista centrale è Machiavelli: le coreografie e la scenografia sono basate sull’idea che tutto ruota intorno a lui. Così la topografia dei luoghi e gli ambienti virtuali sono generati real time dall’attore che interpreta Machiavelli grazie a un sistema di rilevamento ottico del movimento. Pochi attori interpretano tutti i personaggi dell’opera e i rapidi cambi di costume (anche questi virtuali) sono possibili grazie a proiezioni di trame e stoffe sui loro stessi corpi. tracciati real time da videocamere a raggi infrarossi.
    8 P. Atzori, Activation space, p. 347 in A. Menicacci-E. Quinz, cit.
    9 Accogliamo il concetto di trasndisciplinarietà riferito alle arti digitali come l’ha espresso da Sally Jane Norman nel Rapport d’étude à la Délégation aux Arts Plastiques Ministère de la Culture (1997) dal titolo appunto«Transdisciplinarité et Genèse des Nouvelles Formes Artistiques »: «La transdisciplinarité est une notion polysémique par excellence ( . …) Avant tout, nous avons voulu que la transdisciplinarité serve de point de départ à un dialogue sur le rôle et la place de l’art, dans une société profondément transformée par les technologies de l’information et de la communication».
    10 Cfr. Claudia Giannetti, Aesthetic paradigms of media art inserito nella rivista digitale Media art dello ZKM www.medienkunstnetz.de; e inoltre E. Couchot-N. Hillaire, L’art numerique, Paris, Flammarion, 2003.
    11 E. Quinz, cit.
    12 Sul tema delle interfacce vedi il numero monografico Interfaces, “Anomalie_digital arts” n. 3, Paris, 2003; e inoltre L. Poissant (a cura di), Interfaces et sensorialité, Presses de l’Université du Québec, 2003.
    13 Sull’ecosistema tecno-teatrale vedi l’introduzione di Anna Maria Monteverdi al suo Il meglio di ateatro-Teatro e nuovi media. “Con la parola ecologia – come è ormai dato acquisito grazie agli studi sulla fenomenologia di Merleau-Ponty, sull’epistemologia genetica di Piaget, sull’ecologia della mente di Bateson e sull’ecologia sociale e della cultura di Ingold – non si intende unicamente l’ambiente naturale circostante ma la relazione complessa tra gli elementi che compongono una certa “nicchia ecologica” (dunque animali, esseri umani ed oggetti tecnologici compresi) e la loro interazione sociale e ambientale. L’approccio metodologico “ecologico” si presta a nostro avviso a un’analisi integrata e non “riduzionista” degli elementi chiavi del tecnoteatro: ibridazione, connettività, scambio, simbiosi, interazione, rizomaticità. Dobbiamo inoltre a Bonnie Marranca il riferimento sistematico al teatro come “ecologia”: nel suo libro Ecology of Theater la studiosa americana fondatrice del “Performance Art Journal” offre una singolare interpretazione teatrale “ecocritica” dei giganti del teatro sperimentale degli anni Settanta-Ottanta: Wilson, Monk, Shepard, Breuer, Mabou Mines alla luce dell’idea di una “drammaturgia come ecologia”. Come è noto, inoltre, numerosi sono gli studi sul rapporto tra sistemi digitali, realtà virtuale e pensiero ecologico: l’ambiente virtuale come ecosistema digitale auto-organizzato, l’evoluzionismo tecnologico (Longo, Sini), la “connettività del sapere” e l’ecologia cognitiva di Pierre Lévy in base alla quale “non c’è più soggetto o sostanza pensante, né materiale, né spirituale… in una rete in cui dei neuroni, dei moduli cognitivi, degli umani, delle istituzioni di insegnamento, delle lingue, dei sistemi di scrittura, dei libri e dei calcolatori si interconnettono, trasformano e traducono delle rappresentazioni” (Lévy, 1992).
    14 A. Balzola, cit.
    15 Prendo in prestito questo termine assai chiarificatore da Derrick de Kerchove (“Perform Arts”, estate 2006).
    16 A. Balzola, cit.
    17 L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, p. 294
    18 Un nuovo oggetto mediale non è qualcosa che rimane identico a se stesso all’infinto, ma è qualcosa che può essere declinato in versioni molto diverse tra loro: L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, p. 57 e seg.
    19 Il vjng, trans-genere per eccellenza, è una performance video live che il digitale sta evolvendo in forme sempre più elaborate. E’ stato “nobilitato” anche nel nome, diventando live cinema: il prestigioso festival di arte elettronica “Transmediale” di Berlino edizione 2005 lo ha elevato al rango di altre storicamente forme di espressione tecnologica, ben più radicate, dedicandogli una sezione curata da Hans Beekmans (che ne è anche diventato il “teorico”). Molto diffuso in ambiti artistici oltre che nell’area dell’intrattenimento musicale, il vj come il dj – che facut’n’mix e scratching di tracce musicali preesistenti tramite campionatori- usa o mixer analogici o programmi digitali di gestione

    TRA REMEDIATION, AMBIVALENZA E INTERTESTUALITÀ, ALCUNE PREMESSE TEORICHE AL TECNO-TEATRO.
    20

    Da alcuni anni mi occupo di autori e registi teatrali contemporanei il cui lavoro viene associato alle tecnologie e alla multimedialità: da una parte Robert Lepage, William Kentridge, Heiner Goebbels, e dall’altra gruppi come Masbedo, Urban Screen, Motus, Konic thtr.Analizzandone il processo creativo e indagando le ragioni profonde dei loro allestimenti teatrali ho trovato, per i primi, alcuni richiami espliciti a motivi che appartengono più al teatro dell’origine che non a quello della videocultura digitale: dalle ombre (viventi e animate) alle macchine (dispositivi scenici o congegni prospettici). Sono questi ad adattarsi al mutato ambiente teatrale digitale e alle rinnovate esigenze della scena contemporanea e non viceversa. Lepage, Kentridge e Goebbels accettano la sfida del contemporaneo mascherando il vecchio con il nuovo, mostrando l’innovazione tecnologica come la naturale evoluzione di un sapere tecnico antico che appartiene “geneticamente” al teatro.

    Se Edward Gordon Craig brevettava nel 1910 a Londra i suoi celebri screen (“le mille scene in una”)[1]contenenti un richiamo alle scene del cinquecentista Sebastiano Serlio (autore del trattato Il secondo libro di Perspettiva,1545 e dei Libri di architettura, 1560)[2], il canadese Robert Lepage ripropone (sia nei suoi “one-man-show” che negli allestimenti per la lirica e per eventi per il grande pubblico) apparati macchinici e scene girevoli di stampo rinascimentale[3].

    Il compositore e regista tedesco Heiner Goebbelsper la sua scena auto funzionante, sonora e macchinica, senza attori o manovratori, si rifà piuttosto, agli automata[5].

    Nel secondo gruppo di giovani artisti e gruppi tecnoteatrali, è bene evidenziata un’altra singolare “concrezione”: l’adeguamento del nuovo teatro ai principi portanti dei new media e conseguente evoluzione dalla ormai storica “scena intermediale” (in cui avveniva uno scambio alla pari dei media) a quella ambivalente (in cui prevale il “formato mediale” di singoli supporti indipendenti sull’integrazione degli stessi), in una inedita formulazione di spettacolazione totale. Concetto quest’ultimo, bene espresso proprio dal regista e compositore tedesco Heiner Goebbels che specifica quanto i suoi lavori teatrali –che contengono elementi sia musicali che multimediali- non siano affatto finalizzati ad una “opera d’arte totale wagneriana”:

     “Non miro al Gesamtkunstwerk, al contrario. In Wagner ogni cosa tende e opera verso lo stesso fine. Ciò che vedi è esattamente ciò che senti. Nei miei lavori la luce, la parola, la musica e i suoni sono tutte forme a sé. Quello che cerco di fare è una polifonia di elementi in cui ogni cosa mantiene la sua integrità, come una voce in un brano di musica polifonica. Il mio ruolo è quello di comporre queste voci in qualcosa di nuovo”[6]

     Alcuni concetti (provenienti sia dalla critica letteraria e linguistica che dai media studies) ci vengono in aiuto per inserire nella più corretta cornice estetica, da una parte, questo strano connubio tra arcaismo e contemporaneità tecnologica, e dall’altro il mimetismo o trasformismo delle nuove performance ad alto tasso di multimedialità: primi fra tutti, l’intertestualità (il testo come “mosaico di citazioni”, secondo la Kristeva) e la “remediation”.

    La remediation è una modalità tecnica e linguistica che sta prendendo campo negli ultimi anni, configurandosi come un vero e proprio “nuovo stile”, approdando anche a teatro. Termine difficile da tradurre, la remediation (in italiano “ri-mediazione”) è entrato nel linguaggio comune grazie alla teorizzazione che ne hanno fatto nel 1999 Jay Davis Bolter e Richard Grusin (Remediation: Understanding New Media); in sostanza, nel momento in cui un nuovo mezzo di comunicazione appare sul mercato, questo si manifesta anche attraverso un’appropriazione o negoziazione (da parte sia dei media vecchi che di quelli nuovi), delle modalità, dei segni distintivi, dei codici artistici ed estetici dei mezzi che lo hanno preceduto, in una sorta di riorganizzazione delle forme comunicative. Per questo motivo un medium non scompare mai del tutto.

    La remediation altro non è altro, quindi, che la competizione tra vecchi e nuovi media, ma anche il “rimodellamento” di tutti i media (o di alcune caratteristiche di essi) solo apparentemente tra loro inconciliabili o incompatibili: come ricordano gli stessi autori: “Un medium si appropria di tecniche forme e significati sociali di altri media e cerca di competere con loro o rimodellarli[7]”.

    Jay Davis Bolter e Richard Grusin affermano che i nuovi media, ben lontani dall’essere entità indipendenti dai processi sociali ovvero, “agenti esterni che intervengono a scompaginare una cultura che sembra ignara di loro”, emergono dagli stessi contesti sociali, economici, culturali operando sui vecchi media un processo da loro definito appunto, di remediation che porta cioè, un “rimedio” all’incapacità dei vecchi media di rispondere alle mutate esigenze della società dell’informazione. Secondo Bolter e Grusin, i media digitali hanno messo in crisi i vecchi media costringendoli a “reinventare” se stessi, in sostanza ad attualizzarsi, a rimodellarsi e a scendere a compromessi con le richieste di un mercato sempre più attratto dalle tecnologie avanzate. Queste “rimediazioni” continuerebbero a succedersi dal Rinascimento ad oggi: nei tempi moderni la fotografia ha operato una rimediazione sulla pittura, la televisione ha fatto altrettanto con il cinema e con il teatro. Bolter e Grusin non parlano espressamente di teatro, anche se identificano e isolano tra i principi propri dei nuovi media proprio l’immediatezza e l’ipermedialità, elementi evidentemente non estranei alla grammatica del teatro (teatro come compresenza fisica di emittente e destinatario, secondo la definizione data dalla semiotica teatrale; teatro come “insieme di rapporti interagenti”, primo assioma del teatro ambientale di Richard Schechner[8]).

    Remediation è quindi la possibilità di una reviviscenza per vecchie tecniche che hanno la possibilità di riemergere dal dimenticatoio o dall’obsoleto, restando così, al passo con la contemporaneità multimediale e contribuendo alla formulazione di una nuova estetica rétro-digitale. La più logica interpretazione della rimediazione, seguendo le intuizioni di Bolter e Grusin e confrontandole con le riflessioni estetiche di Rosalind Krauss[9], sarebbe la reinvenzione di un dato linguaggio all’interno di una grammatica e di una tecnica assai distante ma resa meno estranea grazie alle caratteristiche proprie del digitale, che ricongiunge gli opposti e determina le mescolanze più impensabili.

    La contemporaneità artistica è fatta di innesti paradossali e di produzioni miste, di complessi progetti che vagano indifferentemente nel web, nelle gallerie d’arte e nei teatri provenendo dai mondi più distanti. In questa generalizzata computerizzazione della cultura (seguendo Lev Manovich[10]), la rimediazione produrrebbe una fenomenologia artistica aperta, mimetica e mutante.

    Si privilegia infatti, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno-artistico affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo e derivante indistintamente dal videoclip, dalle installazioni, dai concerti, dal vjing, dalla graphic art, fino al cinema di animazione e persino alla videogame art. Non mescolanza, maintertestualità: è l’intertestualità la logica prevalente delle nuove produzioni mediali, ricorda Giovanni Boccia Artieri: 

    Ci troviamo cioè entro una logica di produzione di testi che echeggiano testi precedenti, incedono sul gioco delle citazioni, evocano e suggeriscono, sono autoreferenti, e allo stesso tempo si aprono al remake, producendo uno stato di particolare eccitazione per la forma[11].

    L’ambivalenza indica un oggetto che ha una doppia proprietà o funzione, che si presenta sotto due aspetti diversi (non necessariamente in opposizione): in queste nuove produzioni tecnologiche il teatro non nasce dal teatro e soprattutto non si esaurisce nell’atto teatrale, ma acquista una vitalità infinita grazie al digitale potendo espandersi in forma di film, installazione, opera d’arte autonoma. Da una parte ritroviamo una storica poetica di intreccio di linguaggi, dall’altra una proposta estetica più vicina alla tematica del digitale che considera i singoli elementi di un progetto artistico come oggetti (o testi) multimediali[12] come interscambiabili, aperti alle più diverse incarnazioni e tali da poter sperimentare tutti i possibili incastri mediali, in un nomadismo tecnologico senza precedenti. Ogni format può essere, così, considerato alternativamente realizzazione artistica autonoma o tappa di un ulteriore processo di elaborazione – virtualmente infinito e rigorosamente aperto.

     Il principio di variabilità permette di avere a disposizione numerose opzioni per modificare la performance di un programma o di un oggetto mediale: un videogioco, un sito, un browser o lo stesso sistema operativo. […] Se noi applicassimo questo principio alla cultura tout court significherebbe che tutte le opzioni utilizzabili per dare a un oggetto culturale una sua identità specifica potrebbero in teoria, restare sempre aperte.[13]

     Ne risulta una indeterminatezza di genere che è la caratteristica dei nuovi formati digitali, apparentemente privi di un modello strutturale classificatorio. Si tratta, come osserva acutamente Laura Gemini di

     performance liminoidi e intermedie che mettono in luce la propria ambivalenza rendendosi difficilmente classificabili. È un’arte della performance che ha fatto propria la consapevolezza postmoderna, che ha riconosciuto l’esistenza di una rete complessa di flussi comunicativi e l’idea della conoscenza come partecipazione creativa dell’oggetto conosciuto. […] Parlare della performance artistica oggi significa non pensare né allo spettacolo come testo distinto (teatrale, televisivo, cinematografico o sportivo che sia) né allo spettacolare come categoria puramente estetica. Si deve piuttosto porre come condizione prioritaria la fluidità del mélange e rinvenire in quelle pratiche spettacolari che non si prestano ad essere classificate secondo rigide convenzioni formali. La stessa messa in scena va intesa come organizzazione di testi (cinema, teatro, televisione) che tendono alla progressiva indistinzione, a una dinamica di flusso che rende miglior merito alle forme comunicative contemporanee[14].

     Se Kentridge e Lepage sono emblematici di una tendenza alla rimediazione dei vecchi media che sta sempre più facendo scuola (dal mercato tornato in auge dell’analogico, al collezionismo delle tecnologie che “non ce l’hanno fatta”, ad artisti che mescolano deliberatamente vecchie tecniche, macchine e televisori a tubo catodico dentro installazioni interattive), dobbiamo riconoscere che numerosi sono i ricorsi, anche all’interno di ambiti di spettacolo commerciale (per esempi i concerti rock o i grandi eventi negli spazi pubblici), a dispositivi e invenzioni ottiche di fine Ottocento.

    L’estetica del meraviglioso ovvero quella che Andrew Darley definisce l’estetica della superficie, è alla base delle forme spettacolari legate al videomapping[15]: la proiezione su enormi superfici architettoniche reclama uno sguardo panoramico e avvolgente nei lavori di Urban screen, Nuform, Apparati effimeri:

    Urban screens

    E’ così che l’intreccio tra la forma della spettacolarizzazione e realtà tecnologica del medium riprende le forme del meraviglioso presenti nelle modalità ottocentesche di intrattenimento di massa consentendone anche una ridefinizione dello spazio urbano: effetti speciali visivi ed immersivi dove talvolta la forma conta più del contenuto, dove sono i giochi di superficie ad essere rilevanti[16].

     Estetica che ha un gran debito nei confronti di panorama e diorama e delle diverse fantasmagorie della cultura popolare ottocentesca[17] ma anche nei confronti degli studi sugli scorci prospettici in pittura, sul quadraturismo, sull’effetto pittorico illusorio di sfondamento volumetrico. Si può dire allora che il video mapping e l’architectural mapping sono la prosecuzione ideale, in epoca di realtà aumentata e di dispositivi immersivi, delle macchine ottiche e degli esperimenti anamorfici[18] del Seicento.

    Come ci ricorda Thomas Maldonado, la civiltà occidentale è diventata una produttrice e consumatrice ditrompe-l’œil, il quale si è svincolato dal virtuosismo fine a se stesso per avvalersi di tecnologie che tendono ad un iperrealismo:

     “La nostra è stata definita una civiltà delle immagini. (…) Questa definizione sarebbe più vera, se aggiungessimo che la nostra è una civiltà in cui un particolare tipo di immagini, le immagini trompe-l’œil, raggiungono, grazie al contributo di nuove tecnologie di produzione e di diffusione iconica, una prodigiosa resa veristica. Ciò appare chiaro con l’invenzione della fotografia e poi, in modo più evidente, con quella della cinematografia e della televisione. La conferma più incisiva viene, oggi, dall’avvento della grafica computerizzata, soprattutto se si pensa ai suoi ultimi sviluppi finalizzati alla produzione di realtà virtuali.”[19].

    Per approfondimenti vedi: A.M. Monteverdi, Nuovi media, nuovo teatro, Milano, FrancoAngeli 2011



    [1] Il brevetto degli screen, pannelli semoventi monocromi simbolo del suo teatro antirealista (Patent n.1771) viene depositato da Gordon Craig (che si firma  Stage-manager), il 24 gennaio del 1910. Nel documento Craig ne specifica caratteristiche tecniche, il funzionamento e i benefici per il nuovo teatro:

    The object of my invention is to provide a device which shall present the aesthetic advantages of the plain curtain but shall further be capable of a multitude of effects which although not intend to produce an illusion shall nevertheless assist the imagination of the spectator by suggestion. My invention consists in the use of a series of double jointed folding screens standing on the stage and painted n monochrome –preferable white or pale yellow. The screens may be used as background and in addition to this use, may be so arranged as to project into the foreground at various angles of perspective so as to suggest various physical conditions such as, for example, the corner of a street – or the interior of a building”. Documento proveniente dalla Collezione Arnold Rood e pubblicato in occasione della mostra Exploding Tradition: Gordon Craig 1872-1966 (Victoria & Albert Museum, Londra, 1998)

    [2] M.I.Aliverti, History and histories in Edward Gordon Craig’s written and graphic work.in Wagner E., Dieter-Ernst W. (a cura di) Performing the Matrix: Mediating Cultural Performance, Epodium, Monaco, 2008. La Aliverti partendo dalla Collezione di libri storici di teatro di Craig ora conservata alla Bibliothèque Nationale di Parigi (Départment des Arts du Spectacle) prende in esame l’influenza proveniente dallo studio dei Libri di Architettura del Serlio nel periodo tra il 1906 e il 1909, anni in cui Craig realizza la regia del Rosmerholm di Ibsen con Eleonora Duse e Hamlet (Mosca, 1908).

    Franco Mancini afferma che lo stimolo per la sua idea di palcoscenico mobile era, effettivamente, venuta proprio dalla lettura del trattato del Serlio “che illustrava, tra l’altro, uno schema di teatro dalla superficie scenica sezionata a scacchiera. Costituito da volumi geometrici a forma di parallelepipedo ripetuti anche nella zona della soffitta e lambiti lateralmente da paraventi con il compito di modificare lo spazio scenico in rapporto alla necessità dell’azione, il palcoscenico di Craig, pur presentando pressappoco le stesse caratteristiche descritte da Serlio. Se ne distaccava per la mobilità, in quanto ogni quadrato poteva sollevarsi a piacere. F. Mancini L’evoluzione dello spazio scenico dal Naturalismo al teatro epico, Bari, Dedalo, 1986, p.57.

    [3] La scena teatrale tra il Quattrocento e gli inizi del Seicento, in cui la prospettiva con scorcio aveva definitivamente sostituito le mansions paratattiche delle sacre rappresentazioni, viene a trasformarsi progressivamente proprio grazie all’introduzione di macchine e argani, congegni che permettevano trasformazioni rapide, cambi automatici oltre che voli, apparizioni di cieli e soli, demoni e angeli annuncianti o discendenti progettati da Brunelleschi, Vasari, Sangallo, Buontalenti in occasione delle feste di nozze farnese o medicea, per naumachie e contrasti. E’ negli “intermezzi” che lo spazio della scena è tutto per la macchina. Anche Leonardo si era cimentato come “apparatore” in occasione dell’Orfeo di Poliziano, come è testimoniato dagli studi e dai progetti datati 1506-1508 presenti nel codice Arundel conservato al British Museum di Londra. Vedi C. Molinari,Brunelleschi, Leonardo e la tradizione scenotecnica, in “Quaderni di teatro”, anno III, n. 10, 1980, p.6. Ed inoltre: C. Molinari, La scena vuota in E.G.Zorzi (a cura di) Teatro e spettacolo nella Firenze dei Medici. Modelli dei luoghi teatrali, Firenze, Leo S. Olschki, 2001

    [4] Il teatro d’ombre muto era utilizzato ampiamente per i Sacri Misteri. Sul tema vedi M. Rak, L’arte dei fuochi, comunicazione al convegno Bernini e l’universo meccanico, in “Quaderni di teatro” anno IV, n. 13, pp.46-59.

    [5] Automata è il titolo del volume di Erone di Alessandria, matematico che visse nel II sec. a.C. e tratta la meccanica dei corpi solidi. Erone descrive, tra gli altri, anche il famoso “teatro meccanico” con statue con sembianze umane che si muovevano , uccelli che cantavano, porte che si aprivano o chiudevano mossi dall’azione dell’acqua o del vapore.

    [6] Intervista a H.Goebbels a cura di I.Hewett, “The Telegraph” (GB),  22 giugno 2012.

    [7] J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation: competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini, 2003.

    [8] R.Schechner, La cavità teatrale, De Donato, Bari, 1968, pp. 23-72.

    [9] R.Krauss, Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte di oggi, Bruno Mondadori, Milano, 2006.

    [10]Lev Manovich in Il linguaggio dei nuovi media (Milano, Olivars, 2001) parla del principio ditranscodifica culturale che caratterizzerebbe la società permeata dai nuovi media. In sostanza, la computerizzazione trasforma tutti i media in dati informatici e questo ha un riflesso immediato sul piano delle azioni e dei comportamenti umani, sui processi cognitivi, sulla cultura:  “Le modalità con cui il computer modella il mondo, rappresenta i dati e ci consente di operare su di essi, le operazioni tipiche di tutti i programmi (ricerca, comparazione, ordinamento sequenziale e filtrazione), le convenzioni di funzionamento delle interfacce – in sintesi, ciò che si potrebbe chiamare ontologia, epistemologia e pragmatica del computer – influenzano il livello culturale, l’organizzazione, i generi e i contenuti dei nuovi media.”( p. 69).

    [11] G.Boccia Artieri, La sostanza materiale dei media: video culture digitali tra virtuale e performance, Pref. a A. Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006, p.12.

    [12] Un oggetto mediale è, secondo Manovich “qualcosa che può essere declinato in versioni molto diverse tra loro ”, L. Manovich, cit, p. 57.

    [13] Ibidem.

    [14]L.Gemini, L’incertezza creativa. I percorsi sociali e comunicativi delle performance artistiche, FrancoAngeli, Milano, 2003, pp. 69-70.

    [15] Si tratta di una tecnica video che fa interagire la realtà e la sua ricostruzione digitale e ne modifica la percezione visiva sovrapponendosi ad essa sino a stravolgerla. Sono esperimenti diaugmented reality applicati a spettacoli e eventi negli spazi all’aperto o in teatri, con proiezioni su enormi superfici (edifici o fondali teatrali).

    [16] G.Boccia Artieri, La sostanza materiale dei media: video culture digitali tra virtuale e performance, Pref. a A. Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006, p.12.

    [17] A. Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006, pp.71-74

    [18] L’anamorfosi è una rappresentazione in prospettiva realizzata su un piano o su una superficie curva, la cui visione è possibile solo da un punto di vista non perpendicolare al piano su cui si trova l’oggetto, pena la visione deformata di quest’ultimo. Come ci ricorda Jurgis Baltrušaitis: “L’anamorfosi – parola che compare nel Seicento, benché si riferisca a combinazioni già note a tempo – ne [della prospettiva, N.d.A.] inverte elementi e princìpi: essa proietta le forme fuori di se stesse invece di ridurle ai loro limiti visibili, e le disgrega perché si ricompongano in un secondo tempo, quando siano viste da un punto determinato. Il procedimento si afferma come curiosità tecnica, ma contiene una poetica dell’astrazione, un meccanismo potente di illusione ottica e una filosofia della realtà artificiosa.” J. Baltrušatis, Anamorfosi o magia artificiale degli effetti meravigliosi, Milano, Adelphi, 1969, p. 13.

    [19] T. Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 48.d

    I nuovi formati del teatro mediale
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    Pubblicato su Interactive-performance.it

    Nuove frontiere per il teatro si aprono grazie alle caratteristiche di immersione, integrazione,ipermedialità, interattività, narratività non lineare propri del sistema digitale: dall’evoluzione nel web delle performance alla creazione di ambienti interattivi, all’elaborazione di una nuova scrittura e drammaturgia multimediale. I nuovi media di oggi non equivalgono ai nuovi media di ieri per le caratteristiche tecniche innovative, per i meccanismi sociali che innescano e per l’impatto comunicativo che determinano, ma di una comunicazione di nuova generazione, ramificata, orientata all’immediatezza, all’interattività, allo scambio, alla creazione di reti di relazioni, proiettata cioè, al network.

    Emerge una nozione di scena aumentata (enhanced theatre è la definizione di teatro digitale data da Dan Zellner) che ha a che fare con il trattamento/processamento in tempo reale di informazioni multimediali, con il coinvolgimento sensoriale del pubblico e con la mediazione tra performer e computer. Una scena aumentata negli effetti e animazioni tridimensionali, nelle immagini in movimento, nella scena interattiva e in quella virtuale che sostituisce quella reale, negli attori sintetici che recitano in una live action insieme ai loro doppi in carne ed ossa, nella percezione del pubblico sollecitato a una visione multipla, a una compresenza di punti di vista.

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    Uno stile ambivalente e mimetico per il teatro tecnologico: Dumb Type e Masbedo.

    Teatro e digitale, per usare una terminologia cara a Marshall McLuhan, si stanno ibridando, anzi forse oggi siamo già alla seconda generazione tecnologica che sta dando vita a quello che si può definire, prendendo a prestito un termine dalla biologia, un teatro-chimera, un teatro dal doppio codice genetico caretterizzato da un libero nomadismo e mimetismo dei linguaggi.

    Le immagini in movimento, le animazioni, i sistemi interattivi, i programmi informatici per una gestione live del materiale audiovisuale sono stati già da tempo assorbiti nella materia teatrale inaugurando un nuovo genere al confine con le altre arti (installazioni, concerti, film, opere video). L’ibridazione, ovvero per usare l’esatta definizione mcluhiana, ‟l’interpenetrazione di un medium nell’altro” in questa generalizzata computerizzazione della cultura, produce una fenomenologia artistica mutante derivante dal web, dal fumetto, dal videoclip, dalla videoarte, dal vjing, dalla motion graphics, al passo con le tecnologie digitali, altrettanto metamorfiche e “mimetiche”.

    L’arte digitale è arte dell’ibridazione” afferma Edmond Couchot, una elaborazione interna alla scrittura, alla composizione, alla visione, alla forma della creazione d’arte di cui sarebbe responsabile proprio la natura “mutevole” dell’oggetto artistico multimedializzato. Le cross-ibridazioni tra sistemi di informazione, scritture, dispositivi di visione e di ascolto, complice il comune codice digitale, sono potenzialmente infinite: dai radiodrammi alle video performance, dalle installazioni performative, ai live set fino alla drammaturgia ipertestuale e on line in un’evoluzione continua e in una serie pressoché infinita di possibilità trasformative. Il testo, o meglio l’ipertesto drammaturgico, il progetto scenico, la partitura sonora-musicale, l’installazione, il video, il software, lo spettacolo, non appartengono più a generi diversi ma divengono fasi di un processo aperto, tassello di un mosaico spaziale e temporale mutante, flessibile e comunicativamente forte (A. Balzola).

    Se Rosalind Krauss proponeva in Art in the age of the post modern condition (2005) di tracciare una riga definitiva per eliminare la parola medium “così da seppellirla come tanti altri rifiuti tossici della critica e procedere nel mondo della libertà lessicale”, Zygmunt Bauman in Modernità e ambivalenza (2010) individua nel concetto di “ambivalenza” che romperebbe la pratica del modello strutturale normativo, dell’ordine classificatorio delle categorie estetiche, uno dei temi chiave del postmoderno:

    La situazione si fa ambivalente se gli strumenti di strutturazione linguistica si rivelano inadeguati: o il caso in questione non appartiene a nessuna delle categorie individuate dalla linguistica, oppure si colloca in più classi contemporaneamente. In una situazione ambivalente nessuno dei modelli appresi è quello giusto ovvero se ne potrebbe applicare più di uno (…) L’ideale che la funzione nominatrice/classificatrice si sforza di raggiungere è una sorta di ampio archivio che contenga tutte le cartelle che contengono tutti gli oggetti che il mondo contiene: ogni cartella e ogni oggetto sono però confinati in un loro posto distinto. E’ l’impossibilità di realizzare un simile archivio che rende inevitabile l’ambivalenza (…) Classificare consiste negli atti di includere e escludere. Ogni volta che diamo un nome a qualcosa, dividiamo il mondo in due: da un lato le entità che rispondono a quel nome; dall’altro tutte quelle che non lo fanno (…) L’ambivalenza è un effetto collaterale del lavoro di classificazione (…) Quella all’ambivalenza è una guerra suicida.5

     Ambivalenza delle tecnologie in atto quale potenzialità di scambio: Dumb Type, Motus, Masbedosono emblematici di questa “tendenza ambivalente” del teatro. Privilegiano infatti, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno-artistico affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo e derivante indistintamente dal videoclip, dalle installazioni, dai concerti, dal vjing, dalla graphic art, fino al cinema di animazione e persino alla videogame art.

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    Nelle performance dei giapponesi Dumb Type la partecipazione dello spettatore è di natura immersiva, ricca cioè, di stimolazioni sensoriali multiple (dalle sub frequenze al noise, dalle immagini distorte, velocizzate ai video multipli), come se fosse un’installazione audiovisiva sperimentale.

    Il video Glima di Masbedo, nato dall’esposizione di una proposizione base, sviluppata dagli attori senza indicazioni registiche dettagliate, come una performance corporea di enorme fisicità e di grande impatto, si è incarnato prima in un’installazione monocanale, poi in uno spettacolo vero e proprio con attori che interagivano in una scena video live con doppia proiezione. Da un formato video di breve durata si genera, stretchandosi, lo spettacolo. Un uomo e una donna lottano legati da vincoli di lacci in pelle come un’appendice organica che rimanda a un rito di possessioni sadomasochistiche e afflizioni autoindotte; intorno a loro una terra vulcanica, un paesaggio video-esistenziale: l’Islanda con la sua particolare orogenesi, con la sua attività vulcanica e la presenza della dorsale media-atlantica il cui processo tettonico sta spezzandola in due tronconi alla velocità di due centimetri l’anno, va a definire coordinate geoestetiche potentissime. Questi paesaggi fisici raccontano simbolicamente la distanza tra uomo e donna, ma anche il desiderio di riscatto, il disperato tentativo di opporsi a una deriva di rapporti umani e sociali basati su banalità e prevaricazione.
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    Il paesaggio non è estraneo, entra nella violenza perpetrata nei corpi dove alternativamente uno diventa carnefice e l’altro vittima; in questo rituale della coercizione sotto cui si può leggere la generale volontà a non integrarsi, a non piegarsi e a non sottomettersi alle regole del mondo e la generale riluttanza ad obbedire all’ordine sociale, i protagonisti hanno abbandonato la civiltà ma non la disponibilità a combattere magari in nome di un’ipotetica causa comune che presuppone l’unirsi degli uomini in una catena umana a difesa del proprio patrimonio di valori. La performance con due schermi e una pedana ad altezza del pubblico proposta al Festival DRO e a ROMAEUROPA (2010), ripropone l’identica performance ma il paesaggio reale dove agivano i personaggi nel video, in teatro viene evocato dall’elettronica7.

     Motus sperimenta da sempre la contemporaneità di teatro-cinema in scena (da Twin rooms a X-racconti crudeli della giovinezza) e introduce anche la grafica animata (Rumore rosa); gli statunitensi Big Art Groupcon il ciclo di spettacoli definito “real time film”(Flicker, House of no more) ricreano un vero set cinematografico (usando un green screen) con la messa in mostra degli effetti da truquage. Approda a teatro una “composizione digitale” che unisce in una continuità senza cesura, televisione, cinema e teatro secondo una nuova estetica – seguendo Lev Manovich – “anti-montaggio” ovvero, “una creazione di spazi contigui in cui interagiscono diversi elementi (…)Nella composizione digitale gli elementi non sono più contrapposti ma miscelati; i loro confini vengono cancellati più che enfatizzati”.

    Come Amleti irrequieti, vaganti nel vuoto pneumatico di una condizione tragica, evocata nella sua abissalità da una camera iperbarica o da interminabili silenzi, i protagonisti vivono distillandosi l’ossigeno per una rinascita, o almeno, per una via di fuga.

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    La loro è un’arte intermediale in cui la musica il cinema, il video e la performance sono sempre strettamente collegati. Il riferimento principe per Masbedo è il territorio multidisciplinare dell’arte video della metà degli anni Sessanta, fecondo terreno per sperimentazioni di incroci, attraversamenti e transizioni. In quel contesto di effervescenza creativa e sperimentale, il medium video ha vissuto in perfetta promiscuità con le altre arti con le quali si è intrecciato, mescolato, confrontato. Citando le pionieristiche esperienze video performative di Nam June Paik, ma anche quelle successive di Laurie Anderson, Peter Gabriel e Metamkine, Masbedo allestiscono le loro performance a partire da originarie videocreazioni per poi arricchirle ed espanderle –alterandole radicalmente- con una componente musicale live (Schegge d’incanto in fondo al dubbio, Glima). Schegge d’incanto in fondo al dubbio di MASBEDO è nata come videoinstallazione per due schermi sincronizzati per la Biennale di Venezia (2009) ed è diventata una performance di live video con musica suonata sul palco da Lagash dei Marlene Kuntz.

    La donna, novella Antigone, opponendosi all’omologazione del mondo, alla vita umiliata, compie un gesto impetuoso e solenne di ribellione: trascina nell’acqua a fatica, oggetti che rappresentano la vita vissuta e il quotidiano; infine, si immobilizza come statua, su un piedistallo in mezzo al mare, con gesti ricchi di pathos evocando miti tragici e archetipi del femminile che raccontano come la vita umana, pur nelle difficoltà e nel dolore, lasci dietro di sé schegge di bellezza. La donna mostra una maschera tragica del dolore, un urlo muto che porta con sé tutto il lamento dell’esistere. Il video trasmette proprio quel senso profondo e necessario di purificazione e metamorfosi dell’essere e quel bisogno di rivelazione da cui nasce la tragedia attica antica e che ci è stato trasmesso dalle pitture vascolari greche e dai frammenti orfici: “desistere dal ciclo prendere fiato dalle miserie”(frammento da Proclo cit. da G. Colli, La sapienza greca).