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Lepage sbarca a Genova per Genova Capitale della cultura con la BIBLIOTECA VR THE LIBRARY AT NIGHT
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Genova Capitale Italiana del Libro – A pagine spiegate!

“A pagine spiegate!” – con questo progetto il Comune di Genova è stata designata dal Ministero della Cultura Capitale Italiana del Libro per il 2023, raccogliendo il testimone da Ivrea, Capitale 2022.

Genova Capitale del Libro proporrà un ricco calendario di eventi e iniziative fino a marzo 2024, il programma, in continuo aggiornamento, sarà disponibile nelle sezioni qui sotto.
Sono inoltre previsti importanti progetti di promozione del libro e della lettura e di rafforzamento del Sistema bibliotecario.

Palazzo Ducale è stato individuato come soggetto esecutore del progetto.

Library at Night da ottobre 2023 ad aprile 2024

Per la prima volta in Italia e dopo il grande successo di pubblico riscosso in Canada, Francia, Russia, Brasile e Germania, Genova ospiterà la mostra The Library at Night. Ispirata all’omonimo libro di Alberto Manguel e curata dal regista Robert Lepage, l’installazione immersiva in realtà aumentata porterà i visitatori alla scoperta delle più grandi librerie al mondo, esistenti e mai esistite. Quello di The Library at night è un invito a perdersi in una foresta ed esplorare strutture architettoniche, frugare tra gli scaffali e tra i corridoi di dieci celebri biblioteche, inclusa quella per antonomasia, la leggendaria biblioteca perduta di Alessandria.  

Fernando Mastropasqua parla di Robert Lepage
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Fernando Mastropasqua ha scritto l’introduzione al libro di ANNA MONTEVERDI MEMORIA MASCHERA E MACCHINA NEL TEATRO DI ROBERT LEPAGE

Fernando Mastropasqua è nato nel 1941 a Chiusi in provincia di Siena. Ha insegnato Storia del teatro e dello spettacolo nelle Università di Pisa, Trento e Torino. Tra le sue pubblicazioni: Le feste della rivoluzione francese, Milano, Mursia, 1976; Metamorfosi del teatro, Napoli, ESI, 1998; In cammino verso Amleto (Craig e Shakespeare), Pisa, BFS, 2000; Teatro provincia dell’uomo, Livorno, Frediani, 2004; La scena rituale, Roma, Carocci, 2007. In collaborazione con Ferdinando Falossi ha pubblicato L’incanto della maschera e La poesia della maschera, Torino, Prinp, 2014 e 2015. Collabora alla rivista “Critica d’Arte”.

 

Presentazione del libro “Memoria Maschera e Macchina nel teatro di Robert Lepage” al Festival Inequilibrio di Castiglioncello il 20 giugno. Presenta l’Ing. Massimo Bergamasco del Sant’Anna
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Memoria maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage (Meltemi editore).  di Anna Maria Monteverdi

Il volume appena edito da Meltemi con introduzione di Fernando Mastropasqua, sarà presentato per la prima volta a Castiglioncello il 20 giugno alle ore 16 nell’ambito del  Festival di Teatro “Inequilibrio” diretto da Fabio Masi e Angela Fumarola.

L’incontro vede la partecipazione insieme all’autrice, dell’assessore alle Politiche giovanili del Comune di Rosignano Veronica Moretti  e di Massimo Bergamasco, docente di Ingegneria Meccanica alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

L’ incontro è legato al Contest Giovani Innovatori 2018 promosso dal Comune di Rosignano Marittimo.

Memoria, maschera e macchina sono termini interscambiabili nel teatro di Robert Lepage, regista e interprete teatrale franco-canadese considerato tra i più grandi autori della scena contemporanea che usa i nuovi media; se la sua drammaturgia scava l’io del personaggio portando alla luce un vero e proprio arsenale di memorie personali e collettive, la macchina scenica video diventa il doppio del soggetto, specchio della sua interiorità più profonda. La perfetta corrispondenza tra trasformazione interiore del personaggio e trasformazione della scena determinano la caratteristica della macchina teatrale nel suo complesso che raffigura, come maschera, il limite tra visibile e invisibile. Il volume contiene interviste a Robert Lepage e allo scenografo Carl Fillion e un’antologia critica con saggi di Massimo Bergamasco, Vincenzo Sansone, Erica Magris, Giancarla Carboni, Francesca Pasquinucci, Andrea Lanini, Ilaria Bellini, Sara Russo, Elisa Lombardi, Claudio Longhi.

Anna Maria Monteverdi è ricercatore di Storia del Teatro all’Università Statale di Milano e docente aggregato di Storia della Scenografia. Insegna Cultura digitale alla Alma Artis Academy di Pisa ed è coordinatrice della Scuola di Arti e Nuove tecnologie dell’Accademia. Esperta di Digital Performance ha pubblicato: Nuovi media nuovo teatro (FrancoAngeli 2011), Rimediando il teatro con le ombre, le macchine e i new media (Ed.Giacché 2013), Le arti multimediali digitali (Garzanti 2005 ). Ha realizzato documentari teatrali per Rai5.

Massimo Bergamasco: Ordinario di Meccanica Applicata presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, è Direttore dell’Istituto di Tecnologie per la Comunicazione, Informazione e Percezione della Scuola. Ha fondato nel 1991 il Laboratorio di Robotica Percettiva, dove svolge attività di ricerca su temi di Robotica Indossabile, Interfacce Aptiche e Ambienti Virtuali.

 

Uscita per la Meltemi la monografia su Robert Lepage di Anna Maria Monteverdi. Con antologia critica e interviste a Lepage e Carl Fillion
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A marzo 2018 è uscito per la collana LINEE di Meltemi il volume monografico Memoria Maschera e macchina nel teatro di Lepage di Anna Maria Monteverdi.

La teatrografia di uno dei più importanti registi e interpreti contemporanei è raccolta in un libro di 420 pagine che sottolinea alcuni aspetti determinanti del lavoro scenografico, drammaturgico e interpretativo di Lepage in collaborazione con la sua compagnia Ex Machina e con lo scenografo Carl Fillion.

Qua l’introduzione di Fernando Mastropasqua:

Era il 2005 quando uscì in Italia, scritta da Anna Monteverdi, la prima monografia su Robert Lepage, uno dei maestri della regia contemporanea.

Canadese (Québec City, 1957), formatosi alla scuola di Lecoq, si è fatto conoscere in Europa con spettacoli di alto rigore stilistico e di innovativa ricerca tecnologica, come La trilogie des dragonsPolygrapheLes aiguilles et l’opiumLa face cachée de la lune. Anna Maria Monteverdi, che ha potuto accedere ai materiali d’archivio conservati a Québec nella sede della sua struttura teatrale e multimediale Ex Machina e seguire la produzione di spettacoli a Montréal, gli dedica questo secondo volume che ne tratteggia la complessa personalità e ricostruisce il multiforme itinerario della sua ricerca visiva, mettendone in rilievo sensi ed esiti.

In tale ritratto puntuale della sua attività, nel quale l’autrice non trascura il milieu del teatro contemporaneo del Québec né l’ispirazione sostenuta dalla conoscenza delle tradizioni sceniche europee (mimica, scenotecnica, improvvisazione, ecc.), emerge il ruolo fondamentale che Lepage riveste nella ricerca teatrale dopo la seconda avanguardia novecentesca, che ha avuto per protagonisti il Living Theatre, Grotowski, Brook, Wilson.

Il teatro di Lepage viene così, a buon diritto, inserito nella feconda dialettica del nuovo teatro, per le soluzioni originali e ancor più per le prospettive che inaugura riguardo i molteplici piani della invenzione, dalla scrittura scenica alla recitazione, dalla illuminotecnica alla tecnologia di scena. Particolare attenzione dedica, lo studio, alla macchina scenica per La face cachée de la Lune e alle metamorfosi della scena per Elseneur. Ne risulta indubbiamente un saggio storico sul nostro più recente teatro ma anche una discussione critica riguardo i più incalzanti problemi tecnico-formali della nuova scena.

A ragione rilevava Oliviero Ponte di Pino, nella Prefazione al primo volume di Anna Monteverdi su Robert Lepage (per BFS editore), che “l’argomentazione della Monteverdi fa piazza pulita di alcuni fuorvianti luoghi comuni, riconducendo l’uso della tecnologia alle origini del teatro, alla maschera, e dunque all’essenza profonda del fatto teatrale, alla sua dimensione rituale”. Si leggano i capitoli dedicati all’attore-specchio-macchina, all’arte come veicolo, al teatro-immagine, ai legami con il cinema, alla creazione infinita:

La realizzazione è dunque, sempre provvisoria per definizione. L’opera è sempre un non finito, lo spettacolo è sempre una questione di spazio e di tempo: quando è stata fatta e dove è stata fatta. Questo significa che anche dopo la prima presentazione pubblica la forma dello spettacolo continua a modificarsi, si evolve con le nuove idee, con motivi e con tematiche con cui l’autore viene in contatto. La forma, come affermava Carlo Ludovico Ragghianti in riferimento a ogni manifestazione del linguaggio visivo, si identifica col suo processo costruttivo.

Riguardo l’acceso dibattito intorno alla tecnologia a teatro, di particolare interesse il capitolo: “La tecnologia è la reinvenzione del fuoco”, nel quale, facendo propria una immagine dello stesso Lepage, l’autrice affronta il problema dell’uso delle macchine a teatro secondo una originale prospettiva che ampia l’orizzonte della discussione, il più delle volte confinato nella esaltazione o denigrazione delle attuali sperimentazioni. Lo sguardo si rivolge indietro, alle origini del teatro e invita a riflettere sulle contaminazioni che la poetica della macchina scenica produsse nel Novecento. E, ricordando in particolare Edward Gordon Craig, richiama la funzione che la luce da sempre ha avuto nella storia del teatro, dalla pietra ad arte levigata che proiettava ombre narranti se sapientemente illuminata dal fuoco, agli accecanti bagliori dei moderni generatori. Lepage pone la tecnologia in stretta relazione con una comunità di uomini che si ritrova a teatro: “All’inizio del teatro molti secoli fa, l’attore parlava, davanti a lui c’era il fuoco e dietro l’ombra […]. Il fuoco è stato rimpiazzato dalla tecnologia, ma la gente viene ancora a teatro per sedersi intorno al fuoco […]. Io devo reinventare l’utilizzo del fuoco ogni volta”.

La macchina, a teatro, invece di togliere umanità all’uomo è ciò che gli permette di riconquistare la dimensione perduta, nell’uso inconsulto e maniacale delle macchine del vivere quotidiano, che isolano ma non radunano, che distruggono memoria e narcotizzano.

Di nuovo, come per Antonin Artaud, per Julian Beck, per Gordon Craig, il teatro, anche per mezzo della sua tecnologia, si pone come la casa dell’uomo” dalla quale è stato allontanato e alla quale inevitabilmente, sente di dover tornare.

 

intervista a Robert Lepage di Anna Monteverdi-Anteprima del volume Memoria maschera e macchina nel teatro di Lepage, Meltemi editore,
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In anteprima la mia intervista inedita a Robert Lepage realizzata a Lione che verrà inserita nel volume MEMORIA MASCHERA E MACCHINA NEL TEATRO DI ROBERT LEPAGE per Meltemi editore (pubblicazione prevista per aprile 2018). Si parla di 887, delle scenorafie per il Ring al Metropolitan, dell’importanza della memoria nel teatro, della creazione collettiva, della sua formazione artistica tra Pina Bausch e Peter Gabriel…Buona lettura (e per ogni feedback anna.monteverdi@unimi.it)

Anna Monteverdi: Il 13 novembre 2015 sei andato in scena qua a Lione con 887 ed era il giorno terribile dei fatti di sangue di Parigi. Il tuo spettacolo parla tra le altre cose, del Québec negli anni degli attentati terroristici legati al separatismo. Oltre a una tua considerazione sui fatti come uomo e come artista, volevo chiederti: credi che il teatro debba trovare dopo questi avvenimenti una maggior urgenza, una rinnovata necessità?

Robert Lepage: Prima di tutto ci si pone la domanda se si debba andare in scena oppure no. E io sono dell’idea che si debba recitare, perché in circostanze quali quelle dei fatti di Parigi, recitare diventa un atto di resistenza. E’ come dire: “Non distruggerete mai del tutto la creatività, non distruggere mai del tutto la gioia di vivere, non distruggerete mai del tutto la poesia”. Diventa pertanto, un atto di resistenza accettare di recitare e accettare di assistere allo spettacolo. E penso che proprio oggi più che mai, la gente abbia bisogno di riunirsi, di radunarsi. E il teatro è un luogo d’incontro per eccellenza, più che il cinema o qualsiasi altro spazio di ritrovo, perché è un luogo d’incontro vero dove le persone non comunicano tra di loro ma condividono delle cose. C’è una comunione. E la comunione è molto diversa dalla comunicazione. E questo è molto importante soprattutto in un momento di crisi: le persone hanno bisogno di riunirsi, hanno bisogno di proiettare la situazione o la crisi che stanno attraversando su una storia o su dei personaggi e se è possibile, su qualcuno che sia capace di ricevere tutto questo e che sia in grado di trasformarlo.

Anna Monteverdi: Parliamo di 887. Intanto dopo due spettacoli con molti attori in scena e una scrittura drammaturgica collettiva come Jeux de cartes, cosa ti ha spinto a tornare a recitare per un solo show ?

Robert Lepage:  Mi mancava molto recitare sulla scena. E purtroppo sono unicamente dei progetti di “solo show” quelli che mi danno l’occasione di recitare. Nelle creazioni collettive a cui do’ vita, un tempo potevo anche recitare, ma ora sono talmente impegnato in così tanti progetti che non posso andare in tournée con lo spettacolo; penalizzerei la creazione, e proprio per non penalizzare le creazioni collettive mi sono tirato indietro e non ho partecipato come attore in queste produzioni collettive (Jeux dex cartes, ndr). Era già da un bel po’ di tempo che non recitavo, ma il caso ha fatto sì che quest’anno sia in scena a lungo, non solo con 887, ma anche con un altro spettacolo che si chiama The Quills dove interpreto il Marchese De Sade. Dunque è un anno in cui faccio ritorno a un luogo che trovo confortevole e che amo molto che è la creazione nel cuore stesso della scena. Trovo difficile fare come un pittore che sta all’esterno e che si limita a guardare, preferisco stare al centro. E questo mi mancava molto: non solo di recitare ma di stare al centro del processo creativo

Anna Monteverdi: Lo spettacolo è impostato sulla memoria, la tua memoria autobiografica e quella della comunità a cui appartieni. Tu hai detto a Remi Charest a proposito della memoria e della pratica del ricordare “La nostra società ha perso la sua memoria orale. Noi ci affidiamo sempre di più a documenti scritti per archiviare le cose che ricordiamo, la nostra storia; e come risultato, la nostra memoria non distorce più i fatti filtrandoli”. In questo spettacolo la costruzione “creativa” della memoria quale funzione ha?

Robert Lepage: La forma dello spettacolo o lo stile dello spettacolo è quello che viene definito un’ “auto-finzione”. La parola “auto-finzione” è un po’ ambigua perché vuol dire che raccontiamo la verità, dunque è la vera memoria. Ma poiché nello stesso tempo è anche una finzione, è la memoria trasformata. É la memoria più o meno giusta, è una memoria poetica. Dunque c’è molta libertà nell’auto–finzione, questo mi permette di essere autentico e vero, di essere sincero ma al tempo stesso mi permette anche di conservare un certo pudore, di non dire proprio tutto ma di dire le cose in modo da toccare le persone, da risvegliare la loro intelligenza e la loro sensibilità. Bisogna che ci sia della verità ma come dire, un po’ “aggiustata”, un po’ “modificata”.

Per questo non è necessario che tutto sia vero, ma che tutto si basi su qualcosa di vero. Cito sempre Picasso che diceva ”L’arte è una menzogna per esprimere meglio la verità”. E credo che questa frase sia appropriata per lo spettacolo, perché spesso ho “smussato gli angoli”, ma proprio per questo motivo lo spettacolo è ancora più vero.

https://www.youtube.com/watch?v=QPOpakbsERE

 

Anna Monteverdi: Perno della storia è il poema Speak white che al suo interno contiene le rivendicazioni di una generazione, del Québec e la memoria del clima degli anni Settanta, quindi anche una memoria politica…

Robert Lepage: Non mi sarei mai permesso di raccontare queste cose se le avessi vissute in età matura o adulta; se tutto fosse accaduto quando ero in età per votare non avrei mai raccontato nulla. Mi permetto di raccontare queste storie perché all’epoca ero un adolescente, avevo un’età in cui la politica mi interessava ma non avevo ancora un punto di vista critico, avevo un punto di vista sensibile, impressionista, poetico. Dunque tutte le immagini, gli estratti di giornali, i documentari, tutto ciò prende un’altra sfumatura nello spettacolo, proprio perché viste attraverso la memoria di un bambino, non attraverso la memoria precisa di un giornalista. Una memoria poetica, e dunque mi permetto di farlo.

Anna Monteverdi: Consideri il tuo lavoro come una forma di teatro politico?

Robert Lepage: Mi interessa molto la politica, ma non voglio essere una persona che parla della sua storia in maniera politica. Ho l’impressione che la politica, soprattutto nell’arte, si manifesti attraverso elementi poetici, emozionali; non penso che potrei andare lontano a usare un  approccio alla politica come faceva Brecht, per esempio, un’autore che si interessava veramente alla dialettica e che sentiva il dovere di mettere la poesia teatrale al servizio della politica. Io lascio che la politica emani del mio lavoro, lascio che trovi il suo spazio ma non lo impongo. Mai.

Anna Monteverdi: La funzione del prologo in 887: perché questa esigenza di parlare con lo spettatore, di appellarsi direttamente.

Robert Lepage: Il prologo di 887 è, in effetti, un po’ particolare; ho notato che lo spettatore in generale ha paura del teatro, trova il teatro difficile. È strano andare al teatro… si entra una sala, ci sono persone truccate, con i costumi, che sanno che cosa sta succedendo. Io trovo che lo spettatore è sempre un po’ indisposto verso il teatro e che gli ci vuole molto tempo per entrare nelle convenzioni del teatro. Quindi si perde del tempo prezioso… E allora voglio che il mio contatto col pubblico sia rassicurante: “Non sarà teatro, parleremo…non ci sarà artificio”. Ma c’è anche l’idea che lo spettatore, quando arriva il teatro, è ancora immerso nelle sue cose, è ancora al lavoro; mentre noi al teatro stiamo già parlando di cose molto complesse, ho l’impressione che lui nella sua testa, nei primi 20 minuti, stia ancora pensando a dove ha parcheggiato la macchina, alla prenotazione del ristorante, se la baby-sitter sa che mio figlio allergico a quel prodotto… È ancora nei suoi pensieri ed io cerco di tenere conto di questo fatto. Mi dico che bisogna invitare lo spettatore a sedersi e lasciare la sua vita civilizzata dietro di sé, ma è uno sforzo enorme! Se invece ci prendiamo il tempo di metterci in connessione con lui, di parlare con lui, di dire ad esempio: “Le toilette sono laggiù”.

È un esperimento che sto facendo con questo prologo, non so fino a che punto funziona e se questo approccio ha dei limiti… C’è anche un altro elemento che è il tono da conferenza del prologo: le persone hanno meno paura di una conferenza che del teatro. Questa è una cosa di cui sono sicuro. Anche questo permette delle libertà: “Non ci sarà teatro, sarà una conferenza; non ci saranno personaggi… scenografie… faremo come in una conferenza con PowerPoint, con cifre e magari anche delle immagini”.

E poi lentamente tu vai verso il teatro. Il teatro arriva molto tardi nello spettacolo. Quello che noi chiamiamo drammaturgia, la recitazione, la mise en abîme, arriveranno più tardi ma il pubblico sarà pronto grazie al fatto che abbiamo introdotto tutto come in una conferenza.

Anna Monteverdi: La tecnologia e la memoria, perché hai voluto precisare questa relazione?

Robert Lepage: In 887 lo spettacolo non usa solamente la tecnologia ma la mette in discussione, dice: “La memoria ora è qui. La tecnologia nell’idea della memoria è un tema; il pubblico riconosce la propria tecnologia, perché nello spettacolo usiamo il telefono cellulare, la telecamera… la tecnologia non è unicamente il modo di espressione di 887, è anche uno dei temi importanti, perché si parla di affidare la nostra memoria alla tecnologia.

Anna Monteverdi: Nello spettacolo citi direttamente l’antico sistema mnemotecnico del palazzo della memoria e sembri anche riferirti al famoso teatro della memoria di Furio Camillo e ai sistemi mnemotecnica del 500. Avete fatto uno studio su questo?

Robert Lepage: Ho fatto molte ricerche e avevo delle persone intorno a me che, facendo un lavoro drammaturgico, mi fornivano elementi di ricerca. Non abbiamo studiato approfonditamente questa idea di teatro della memoria, soprattutto l’esempio che tu mi dici di questa esperienza italiana, ma ero al corrente di questi studi e di queste esperienze. Una cosa che mi tocca molto (e che si è manifestata nel XVI secolo in Italia), è la Torre di babele cioè la volontà di mettere tutte le conoscenze umane in uno stesso luogo. E io penso, da vecchio geografo -perché io mi sono sempre interessato alla geografia- che la memoria è intimamente legata ai luoghi.

Affinché io mi possa ricordare di qualcosa, la memoria deve essere associata a un luogo o è necessario che sia messa in uno spazio, come una carta geografica della memoria. Esattamente come per i palazzi della memoria, che erano un sistema di mnemotecnica risalente ai Greci, tutti i tentativi di affinare queste tecniche, usano sempre la collocazione nello spazio, come se associassimo un ricordo, una memoria a una carta geografica. E io in scena pensavo che non sarei stato capace di fare un esercizio sulla memoria se non avessi creato quel palazzo con piccoli appartamenti, esattamente quello di via Murray 887. Avevo bisogno che fosse là, che esistesse davvero. E visto che era incarnato nello spazio, mi permetteva di parlare della memoria; se non lo avessi avuto, sarebbero state tutte delle evocazioni fittizie.

Il fatto di localizzare la memoria è molto importante, nello sforzo talvolta vano, di provare a riunire tutte le conoscenze nello stesso luogo.

Anna Monteverdi: L’utilizzo di stili diversi in 887: la rima poetica, la conferenza, la finzione teatrale. E’funzionale alla drammaturgia o anche questo un sistema mnemotecnica?

Robert Lepage: Un po’ tutte due le cose. Sicuramente il fatto di lavorare con delle parti del testo in rima, mi permetteva di portare una certa forma di teatralità in uno spettacolo dove c’erano due cose che non stavano bene insieme: lo stile da conferenza e il teatro.

Non riuscivo a creare un legame tra le due parti, era troppo scioccante passare dallo stile di conferenza a quello teatrale! Tra i due ci voleva una forma di narrazione che stava in mezzo, tra il racconto e il teatro.

L’idea di usare le rime alessandrine, come passaggio da uno all’altro, mi sembrava buona. Gli spettatori accettavano che la narrazione diventasse all’improvviso in rima, prendendo una forma poetica, ma anche una forma teatrale, visto che erano degli alessandrini. Questo permetteva di scivolare pian piano verso il teatro. Questo è il primo motivo per cui ho scelto di fare così, poi mi sono reso conto anche che era più facile memorizzare un testo che era difficile da imparare, visto che il mio teatro è improvvisato e poi a partire da un certo momento le improvvisazioni vengono cristallizzate e diventano testo. In questo caso bisognava che io calcolassì gli alessandrini, in dodecasillabi, la rima A B A B… molto complesso… ma è stato un esercizio interessante perché mi ha permesso di condensare pagine e pagine di scrittura in poche strofa. Questo è stato molto interessante.

La cosa importante è per me era che il tema della memoria fosse all’interno della forma teatrale, perché il teatro la memoria sono intimamente legati. Spesso dico che il teatro è grande sport della memoria: il primo atto che facciamo è apprendere, memorizzare. Il primo complimento che si fa un attore di solito è “Che memoria che hai!”. Quindi vuol dire che il teatro è necessariamente associato alla memoria. È un atto di memoria. C’è una cosa che mi ha motivato e che non si ritrova nello spettacolo: un giorno sono stato avvicinato dal direttore artistico del teatro di Catalogna che mi ha offerto di fare la regia di un King Lear o una Tempesta. E mi ha detto: “Sai, ora in Catalogna abbiamo degli attori abbastanza vecchi per recitare King Lear o Prospero”;  io gli chiesi perché soltanto ora avevano attori così vecchi, e lui mi spiegò che durante la guerra civile Franco fece uccidere tutti gli attori che recitavano in catalano. E fece anche bruciare tutti i testi di teatro catalano. Vietarono agli attori di recitare in catalano, volevano eliminare il catalano. Gli attori erano gli unici che sapevano a memoria i testi, quindi venivano assassinati: così non si ammazzava soltanto un attore, ma si ammazzava tutto il teatro catalano, questa era la loro idea. Un attore porta in sé la memoria di una cultura. Se su tutta la terra venissero bruciati i libri, i dvd, gli hard disk, le pellicole, la memoria degli attori sarebbe l’unica cosa che resterebbe per ricordarsi dei testi.

Penso che quello che c’è di triste e drammatico nel mestiere del teatro, sia il fatto che bisogna accettare l’idea che quello che facciamo è effimero, che il teatro è l’arte dell’effimero. Pochi si ricorderanno di quello che abbiamo fatto: non è un’arte che va in televisione e non è cinema. Il teatro in quanto tale, è una cosa effimera, è come la memoria. Ci viene ricordato come recitava bene Sarah Bernhardt o Edmund Kean, il grande attore shakespeariano del XIXº secolo. Non ci sono ovviamente registrazioni, quindi noi possiamo solo immaginarci chi erano e come recitavano. Di Sarah Bernhard c’è qualche registrazione perché alla fine della sua carriera sono riusciti a registrare la sua voce; ma restano soprattutto degli scritti sulla loro recitazione e le descrizioni che non sono probabilmente fedeli; quindi abbiamo una memoria del teatro che è essa stessa la memoria erronea degli avvenimenti della vita. Quindi dobbiamo accettare l’effimero del nostro mestiere.

Anna Monteverdi: L’aspetto tecnico e l’aspetto artistico nel tuo teatro comunicano perfettamente, come due lati di una stessa medaglia, come hai spesso ricordato. Puoi spiegarci qual è la filosofia di questo approccio?

Robert Lepage: La questione è: “Come vediamo il mondo?” A teatro, anche nei teatri cosiddetti socialisti o molto orientati a sinistra, c’è una gerarchia decisamente capitalista. C’è l’autore, il regista, gli attori, poi gli scenografi, e infine i tecnici. Alcune persone dicono di vedere il mondo in una certa maniera, ma poi nella pratica della scrittura, nel loro mestiere artistico applicano una gerarchia capitalista molto imperialista. E questo mi stupisce sempre molto; io invece cerco di applicare una pratica più democratica. Democratica perché permetto, anzi invito gli attori a scrivere con me, anche agli scenografi ai collaboratori, ai tecnici. I tecnici sono lì dal primo giorno. E non è certo il mestiere dei tecnici quello di scrivere, non sono artisti ma visto che sono dei tecnici di teatro, hanno una certa sensibilità artistica, dunque possono contribuire alla scrittura. E quello che rimarrà alla fine di questo processo, sono gli elementi più eloquenti, che non vuol dire solo il testo, la recitazione o la scenografia. Tutti gli elementi contribuiscono, sarà l’elemento più eloquente che reggerà un certo argomento. Spesso si parla di scenografia, specialmente con gli americani o nel mondo anglofono in generale, si parla di décor; vuol dire che la partecipazione dell’architettura è di natura decorativa. In francese si dice scenografia e c’è la parola grafia quindi si parla di scrittura, scrittura scenica. È una forma di scrittura. E nel mio teatro questo è presente dal primo giorno: non so come sarà il décor alla fine ma ci sarà sempre un elemento scenografico che permetterà, libererà la scrittura. Quindi la questione è: come vediamo il mondo; non si possono fare discorsi pro-democratici e poi non applicarli nella pratica del nostro mestiere.

Ci sono due avvenimenti che mi hanno confortato nel mio lavoro: quando ho cominciato lavorare in Giappone negli anni Novanta, qualcuno mi aveva presentato a qualche persona del teatro che non sapeva che cosa facessi. Mi chiese: “Tu reciti lato testa o lato croce?”

Gli chiese cosa volesse dire e mi spiegò che in Giappone per “croce” si intende quello che sta dietro e per “testa” quello che sta davanti. E per la prima volta incontravo qualcuno che mi spiegava che uno valeva l’altro, cioè che in teatro, quello che sta davanti è importante come quello che sta dietro. Si tratta dell’equilibrio, lo Ying e lo Yang del teatro. Io ero molto stupito di questo e  dissi che io lavoravo piuttosto “lato testa”, ma che lavoravo anche un po’ “lato croce”.

Sentivo che il mio lavoro cercava di trovare un equilibrio nella scrittura e nella responsabilità di quello che facevo, ma forse perché venivo dall’Occidente, non mi permettevo di pensare in quella maniera espressa dalla persona in Giappone.

Abbiamo fatto diversi spettacoli tra cui il solo show Andersen project dove i tecnici intervenivano con parecchie manipolazioni in diretta, con cavi tirati, oggetti che entravano in scena, c’erano molte cose. Era uno spettacolo molto marionettistico. Siamo stati invitati a recitare a New York in un teatro off Broadway, dove ci dissero che volevano il nostro spettacolo ma che il sindacato diceva che non voleva lavorare con i nostri tecnici. Ci spiegarono che anche i loro tecnici erano molto bravi, ma noi rispondemmo che dovevano essere i nostri perché loro erano più che tecnici, erano manipolatori che davano vita agli oggetti che entravano scena. Questo per dire come noi esigiamo che chi partecipa al nostro lavoro sia un marionettista,  un attore, che abbia una sensibilità artistica.

Quindi in due contesti completamente diversi ho potuto misurare delle differenze di concezione della gerarchia nel teatro: in Oriente questo equilibrio sembra essere raggiunto. Quello che produce delle ombre dietro lo schermo è considerato di pari dignità di chi fa la narrazione nel teatro delle ombre. In Giappone gli attori del kabuki non vengono da soli a salutare il pubblico. La loro è una concezione di teatro molto democratica.

Anna Monteverdi: Negli ultimi spettacoli come Jeux de cartes hai usato una scenografia circolare, che complica l’aspetto narrativo e anche quello tecnologico nel teatro. A cosa è dovuta questa scelta?

Robert Lepage: Per molto tempo ho fatto degli spettacoli all’italiana, in maniera frontale. Mi ritrovavo spesso di spettacolo dove c’era una proiezione video, a volte mi trovavo come in un sandwich tra una proiezione e l’altra e mi rendevo conto che lo spazio era molto limitato: c’era uno schermo un tulle, un altro schermo. E a un certo momento mi sono stufato di questo, mi dicevo che c’era qualcosa nell’integrare queste nuove tecnologie che ci obbligava a diventare noi stessi degli schermi, degli uomini-sandwich. Avevo voglia di liberarmi di tutto questo e mi sono detto: raccogliamo la sfida del cerchio, della teatralità scritturale, dove lo spettatore è cosciente della sua presenza, lui si siede e dall’altra parte dietro l’oggetto teatrale, vede il suo equivalente. Dunque è necessario che quello che sta al centro sia una specie di incantatore, interessante, affinché lo spettatore dimentichi di essere al teatro. È una sfida immensa. Così facendo, non solamente si recupera il teatro di scrittura, ma c’è anche l’obbligo di lavorare in maniera verticale. Per me il teatro, a differenza del cinema, è un’arte verticale: a livello basso, delle tavole del palcoscenico c’è il uomo, sopra di lui ci sono le sue aspirazioni, gli déi, il destino… E ci sono molte trappole che lo possono portare all’inferno. Così era presentato il dramma dell’uomo da secoli e secoli, nel teatro all’italiana o nel greco. Dunque il palco circolare ci obbliga a ritornare a questo. E ravviva il teatro, e ci fa tornare all’essenza del teatro.

Anna Monteverdi: Tu hai fatto collaborazioni con artisti come Peter Gabriel e con il Cirque du Soleil, che portano a un discorso di teatralità e di spettacolarità più vasto. Puoi parlare di queste esperienze e come hai immaginato progetti artistici per loro?

Robert Lepage: Bisogna prima di tutto capire che il mio interesse per il teatro non mi è stato inculcato dal teatro… quando ero bambino e adolescente, il teatro era inaccessibile, era solo per la borghesia e noi non potevamo permettercelo. Quindi il teatro non era presente nella mia vita. Ma la teatralità era molto presente ad esempio nel rock di quell’epoca… suonavano con dei costumi, creavano personaggi, c’erano delle scenografie, raccontavano delle storie con degli atti, era quasi dell’opera. In seguito ci fu il teatro danza di Pina Bausch, che andava aldilà della danza, erano dei personaggi,  era teatro. La danza contemporanea aveva espulso la teatralità, il suo lavoro invece era molto teatrale. E negli Stati Uniti c’era il movimento della performance art, con artisti visuali o musicisti che facevano della performance teatrale.

Io ero molto interessato dalla teatralità ma il teatro che riuscivo a vedere non era teatrale, era cinematografico o come un brutto telefilm. Quindi più tardi, quando ho cominciato a fare teatro, le influenze venivano piuttosto dal rock’n’roll, dalla danza tedesca e dalle performance americane. E ho trovato il senso di questo pensiero quando ho cominciato a fare il circo o l’opera lirica. Ho ritrovato lì quella teatralità, la vera performance, lo sport del teatro. L’opera è molto sportiva, così come il circo. Quando lavoravo per il circo in America, dove si fa una  netta distinzione tra sport e cultura, capivo che il circo era le due cose insieme. Pensavo: “Se il teatro fosse sia sportivo che culturale?” Quindi mi sono permesso di prendere in prestito delle cose da queste altre discipline che io considero più teatrali del teatro stesso; é come se il circo e l’opera dessero delle lezioni al teatro. Bisognava ridare al teatro il ruolo che aveva : la teatralità.

Anna Monteverdi: Quindi anche Peter Gabriel faceva parte degli artisti da cui ti sei lasciato influenzare da giovane?

Robert Lepage: Si, assolutamente, una delle più grandi influenze da quando avevo quattordici anni è stato proprio Peter Gabriel. Era molto teatrale, cambiava costume ad ogni canzone, interpretava personaggi. Se avessi avuto il talento musicale di Peter Gabriel avrei sicuramente provato a fare musica pop, rock teatrale, invece mi sono indirizzato verso il teatro. Non avrei mai pensato che la persona che mi aveva così influenzato in gioventù sarebbe entrata nella mia vita. E’ interessante perché è successo in un momento particolare: quando ho fatto spettacolo a Londra lui si è riconosciuto nel mio lavoro. Un lavoro che a lui sembrava molto nuovo ma io gli ho spiegato che era una derivazione da quello che vedevo quando ero giovane. Il vocabolario tra noi era molto organico ed è stato molto facile, per esempio, c’erano delle cose dette in un’intervista alla BBC dove mi lamentavo del fatto che gli attori recitano troppo ma non giocano abbastanza.

Dicevo che sono degli “acteur” e non dei “player”. Questa è effettivamente l’éra dell’attore e non del giocatore. “Le jeu” si dice in francese e significa giocare: sì, ma dov’è il gioco?

Non vedo molto “ludism” (gioco di parole tra ludico e luddismo ndr) in teatro, questo dicevo alla BBC. Peter Gabriel vide questa intervista, e quando lavoravamo insieme spesso si interrompeva per dirmi “Too much acting, not enough playing” citando quella mia frase.

E ho capito che l’energia di Peter Gabriel è proprio un’energia ludica. Tutto quello che lo anima sul piano creativo è necessariamente il risultato di un gioco, della sua voglia di giocare in scena, ed è stato molto facile lavorare con lui, anche se siamo molto diversi; questa idea del gioco, del “ludism” comporta che tu inviti il pubblico a giocare. Non si può giocare da soli. Non c’è niente di più noioso che vedere delle persone che giocano da sole. Lui invita al gioco e questo rende grandi le sue performance.

Anna Monteverdi: Anche Gabriel ha sperimentato l’idea dell’acrobazia, della verticalità del teatro che tu spesso proponi agli attori e anche ai cantanti lirici mettendo in crisi non solo alcune modalità recitative ma anche la distanza istituzionale tra i generi teatrali: circo, lirica, concerto, teatro. Come nasce questo aspetto acrobatico nel tuo teatro?

Robert Lepage: Nell’opera lirica c’è una cosa molto importante che tutti fanno finta che non esista, ed è il corpo, la fisicità, la fisionomia, perché la lirica è un’arte che è “portata” dalla voce, il centro dell’opera è la voce, una voce fuori dal normale, che ti permette di cantare cose impossibili, straordinarie, questo è il significato della voce. Per produrre questa voce bisogna avere coscienza del proprio corpo e una forma fisica eccezionale. Non importa il proprio peso –ci sono molti cliché sui cantanti lirici sovrappeso, anche se oggi non sono rare le soprano magre-, ci sono vari tipologie di fisico nell’opera ma il corpo è la base, quello che produce la voce e la grande sfida quando lavorammo al Met per il Ring fu dire ai cantanti: “Ognuno dei vostri passi sarà una sfida fisica sia a causa dell’inclinazione della scenografia, sia perché è in movimento e perché sarete sospesi. Ciascuna di queste cose metterà in discussione come vi muoverete, per cui dovrete trovare in un modo diverso, la via per il vostro “appoggio” per la voce o per rinforzare il modo in cui appoggiate la voce”. Questo richiedeva uno sforzo fisico e una comprensione del proprio corpo da parte dei cantanti i quali per la maggior parte davano per scontata la loro voce. C’è un’espressione in inglese: “Park and bark” (E’ un modo di dire inglese assai colorito, quando nella lirica il cantante non fa alcun tentativo di interpretare un ruolo e semplicemente sta in piedi e canta. ndr) ebbene qua è il contrario; il cantante deve entrare, trovare degli appoggi, degli equilibri, deve prendere consapevolezza del proprio corpo, cosa di cui non si preoccupa mai quando canta. Per questo mi sono fatto molti amici e anche molti nemici. Alcuni sono stati molto collaborativi, altri hanno opposto resistenza. Ma questo faceva parte dell’avventura. Tutto lo staff e lo stesso direttore generale Peter Gelb supportavano questa idea. Ci siamo impegnati molto, la macchina scenica talvolta faceva dei rumori che non avrebbe dovuto fare e nel mondo sacro dell’opera questo non era tollerabile.

Anna Monteverdi: Quali sono state le critiche maggiori?

Robert Lepage: Nella sala molte persone venivano con lo spartito sulle ginocchia, non guardavano neanche, prendevano nota su chi aveva interpretato diversamente, o su chi aveva sbagliato; in questo caso c’erano rumori e molti sono rimasti scioccati, e io dico “Avete diritto di essere melomani, perfezionisti dell’opera, ma non venite all’opera se volete la perfezione perché l’opera significa persone che sono in carne ed ossa, che camminano, che si dimenticheranno di qualcosa, che faranno cose non previste dallo spartito”. Ed è stato uno shock per loro.

Ma c’è una cosa che ci interessava sin dall’inizio, ed era creare uno spettacolo che fosse contemporaneamente molto avanguardista e molto tecnologico ma rispettando un’immagine fondatrice, che è molto classica, tradizionale. Abbiamo creato questa piattaforma fatta di 24 assi che è viva, non è a servizio di chi entra ed esce di scena: questa è l’immagine fondatrice della scenografia. C’era l’idea che le 24 assi facessero delle combinazioni tra di loro nello spirito di Wagner che come è noto, ha scritto quasi 15 ore di musica basandosi sui leit motiv (quello del sangue dell’amore, dell’onda..) e sulle loro combinazioni.

Ci siamo detti che l’importante era che la musica fosse l’éco del décor; è importante che il décor agisca, vada a combinarsi con i diversi leit motive dando nomi ai luoghi in modo organico.

E’sicuramente un progetto difficile perché ambizioso; mentre avanzavamo la tecnologia inseguiva  il progetto e sicuramente quando abbiamo fatto la ripresa, lo spettacolo è cambiato. Lo spettacolo stava dietro alla tecnologia. All’inizio del progetto non c’era la tecnologia adatta.

Anna Monteverdi: Il tema del teatro come work in progress è una costante dei tuoi lavori: quanto è produttivo e quanto è difficile lavorare con questa idea di non finito?

Robert Lepage: Il teatro finché non lo femiamo è imprendibile, è come un animale selvaggio: si modifica che lo si voglia o no; c’è un attore che non vuole più continuare a fare lo spettacolo ed è rimpiazzato da qualcun altro che va a portare altra energia, ci sono correzioni, tagli…c’è l’epoca, gli avvenimenti che modificano quanto hai scritto e così continua e dura …”as long as it loose” (dura finché non si allenta, ndr)…cioè fino a quando lo spettacolo va a maturare e invecchia e poi quando lo si cattura, lo si ammazza, allora lì si può scrivere. E in quel momento si può dire: “Ecco che cos’era questo testo!”. E così che concepisco il teatro. Bisogna che lo spettatore abbia l’impressione, che sia cioè, cosciente che quello che vede si sta creando in quel preciso momento e la definizione di “gioco delle parti” del teatro non è altro che dare l’impressione che stiamo inventando il testo in quel momento, e lo stiamo dicendo spontaneamente, anche se è già stato scritto.

Un buon teatro è quello che dà l’impressione di inventarsi davanti a noi. E più lo spettacolo cambia,come un work in progress, nel corso delle prove, con vari tentativi,  più ci sono dei rischi, e più lo spettatore vede qualcosa di vivo perché il teatro è un’arte vivente (viva?) e io difenderò quest’idea del teatro, anche se qualche volta lo spettacolo non è perfetto. Io non trovo conforto a fare qualcosa che uguale tutte le sere, provo sempre a cambiare, per esempio in 887, che è uno spettacolo che ho recitato per 400 volte, ha vissuto molte metamorfosi e trasformazioni. Quando lo abbiamo presentato a Roma ho deciso di fare una parte in italiano, ho dovuto imparare e tradurre il testo francofono e dirlo in italiano è stata l’occasione per riscriverlo. Quando sono tornato alla versione francese non potevo più recitarlo uguale perché era stato modificato dalla versione italiana. Ci sono tanti generi di “incidenti” o “limitazioni” che aiutano il testo a precisarsi e a riscriversi. Ovviamente questo non è un mestiere per chi ha un cuore fragile, ma per chi è pronto a rischiare qualcosa e mettersi in pericolo, come fa l’acrobata di un circo. Ci si mette in pericolo anche se il pubblico vede solo l’illusione del pericolo perché nel nostro caso nessuno si fa male, ma si affronta sempre comunque, un rischio.

 

Robert Lepage at FNT (National Theatre Festival, Bucarest) – 21 October
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Dialogue with Robert Lepage and Evgeny Mironov

21 October| “I.L.Caragiale” National Theatre, Tapiserii Hall (Tapestry Foyer)

The 27th edition of the National Theatre Festival is the host of two great names of international theatre: Canadian director Robert Lepage and actor Evgeny Mironov, the artistic director of the Theatre of Nations, Moscow.

The festival audience will have a chance of a dialogue with the two remarkable guests of the NTF 2017 edition, the evening following the opening performance of the Festival, HAMLET|COLLAGE, described by director Robert Lepage as follows: “Ultimately, it is a play about madness, and a one-man Hamlet certainly asks of the performer to put himself in some kind of mad schizophrenic state in order to convey all characters of the play. Lending one’s flesh to all protagonists also gives them some kind of family resemblance underlying the incestuous nature of a play where a brother’s love for his sister exceeds moral boundaries, where a newly widowed Queen weds her own brother in law and where many scholars wonder how a Lord Chamberlain has such easy access to the royal bedroom. This collage is the result of a long series of reflections and conversations between an avid Russian actor and an eager French Canadian director who both had the desire to learn from each other about contemporary stage acting, modern storytelling and Shakespeare and I have to admit that through all this process I have been bedazzled and humbled by such demonstration of courage, generosity and sheer talent on the part of my main collaborator.”

The event Dialogue with Robert Lepage and Evgeny Mironov is designed and moderated by Marina Constantinescu, Artistic Director of NTF.

Frame by Frame, ballet by The National Ballet of Canada. Based on the work of Norman McLaren By Robert Lepage and Guillaume Côté
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Frame by Frame is a collaboration between Quebec playwright Robert Lepage and National Ballet choreographer Guillaume Côté.

The legendary Canadian filmmaker and animator Norman McLaren set
new standards for his art form throughout his long and illustrious career.
Best-known for his ACADEMY AWARD® winning film Neighbours (1952), McLaren’s experiments in various forms of animation and his innovative use of sound, music and drawn-on-film techniques saw him create works of unparalleled richness, visual brilliance and beauty, influencing subsequent generations of filmmakers the world over.

Now, the renowned playwright, director, actor and filmmaker Robert Lepage comes to The National Ballet of Canada for the first time to collaborate with the company’s Choreographic Associate Guillaume Côté in a multidisciplinary production that explores Norman McLaren’s life and work. Incorporating and interweaving several different media, the ballet is both an evocation of and inquiry into the world and imagination of one of Canada’s most uncategorizable and accomplished, yet elusive, artists.

https://national.ballet.ca/Productions/2017-18-Season/Frame-by-Frame

 

Anticipazione del mio saggio “Les aiguilles et l’opium di Robert Lepage: dall’edizione del 1991 a quella del 2013 (aggiornando il software)”.
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Anticipazione del mio saggio su Les aiguilles et l’opium di Lepage per il volume antologico di Vincenzo Del Gaudio e Alfonso Amendola sul teatro tecnologico. (prima parte)

 

Revival o ripensamento?

Nel 2012 Bob Wilson riproponeva sulle scene, in una nuova versione molto fedele all’originale, il capolavoro senza tempo Einstein on the beach (1976); Marina Abramovich presentava una sorta di “teaser” teatrale delle sue storiche performance con The Biography Remix a Romaeuropa, mentre nel 2016 Wim Vandekeybus rilanciava In Spite of Wishing and Wanting, suo storico spettacolo di danza del 1999 con un nuovo cast di dieci giovani danzatori chiamati a interpretare i temi del desiderio, del sogno e della passione.

Robert Lepage (Quebéc city, 1957) nel corso della sua trentennale carriera di attore e regista, ha riproposto, insieme con la sua compagnia Ex machina[1], a distanza di vent’anni dalle prime edizioni, ben due suoi lavori teatrali. Ci prova dapprima nel 2003 con la riedizione per il Festival des Amériques in Québec, del suo primo spettacolo come regista: il kolossal di sei ore Trilogie des Dragons (1987)[2], rilavorandoci successivamente nel 2008 per dare vita a The Blue Dragon[3], un vero e proprio “sequel” che lo vede impegnato anche come attore.

Il 2013 è invece, l’anno del rilancio di uno dei suoi spettacoli-culto, che lo ha reso famoso al grande pubblico internazionale, Les aiguilles et l’opium[4]; precisamente, dopo il debutto nel 1991 che lo vedeva unico interprete in scena (a Palais Montcalm, Quebéc city; nel 1992 trionferà al Festival d’Automne di Parigi dove otterrà il Gran Premio della Critica come miglior spettacolo straniero), si ebbe una prima ripresa nel 1994 con l’attore canadese Marc Labrèche in versione francese e inglese (Needles and Opium), poi una seconda nel 1997, con l’interpretazione dell’italo-argentino Nestor Sayed dalla traduzione italiana di Franco Quadri [5].

Robert Lepage nel 2015 decide di riprendere questo pluripremiato “solo show”, definito una sorta di “teatro musicale da camera”, con una rinnovata tecnologia in scena e con più attori per esaltare maggiormente la scrittura scenica. Così una delle sue prove attoriali più riuscite, con un testo originale e profondo, basato sulle vite di Jean Cocteau e Miles Davis e sulle reciproche dipendenze da droghe, torna a rivivere sul palcoscenico in una forma tecnologica molto innovativa e al tempo stesso, rispettosa dell’originale.

La biografia di Cocteau, i suoi film, i suoi libri (soprattutto Lettres aux Américains e Opium), l’amicizia con i grandi pittori surrealisti e con Picasso (documentata anche nel film Le testament d’Orphée, 1960), con musicisti e danzatori come Satie e Nijinskij, la partecipazione ai grandi movimenti artistici del primo Novecento e dall’altro lato la biografia di Davis, i fermenti del cool jazz negli anni Cinquanta a New York, diventano l’occasione per parlare di arte, ispirazione e droga. Ne Gli aghi e l’oppio l’attore è appeso a una fune e si muove acrobaticamente in un dispositivo scenico dinamico (con soluzioni sceniche differenti nelle due versioni del 1991 e 2013, ma con eguale, potente effetto visivo).

Sarà proprio questo spettacolo a consacrare Lepage come il grande protagonista del nuovo “teatro immagine” ma con un senso profondamente diverso dalla originaria definizione coniata, come è noto, da Bonnie Marranca[6] per Bob Wilson.

Il suo è un “image-based work” in cui il dispositivo scenografico dove vengono proiettate le immagini è progettato per essere tutt’uno con l’artista-acrobata che appare, così, come immerso nel vortice delle immagini in movimento, avvolto dalle atmosfere sempre diverse che accompagnano il “viaggio” del personaggio, costantemente alla faticosa ricerca di un equilibrio interiore e di una pacificazione con i propri demoni interiori o con il passato. Il dispositivo è lo spazio sempre mutevole, della rappresentazione: le immagini proiettate, manipolate in diretta, interagiscono con il corpo dell’attore che vola sopra una macchina-involucro che contiene i dubbi esistenziali di ognuno di noi.

Uno spettacolo del dolore, senza un’ombra di morale

Les aiguilles et l’opium è la storia di un franco-canadese, Robert, che si trova a Parigi per un lavoro di doppiaggio cinematografico di un documentario sulla presenza d Miles Davis a Parigi, al Festival del Jazz nel 1949; in preda a sofferenze sentimentali e a crisi di solitudine, nella sua camera d’albergo, Robert rivive il proprio intimo dramma di isolamento e dipendenza d’amore proprio nelle figure di due grandi esistenze al bivio: Miles Davis e Jean Cocteau, entrambi dipendenti da droghe (eroina e oppio)[7]. Sia Cocteau che Davis riuscirono a disintossicarsi, il primo inizialmente con l’ipnosi, poi rinchiudendosi per sei settimane in una clinica dove scrisse e illustrò il volume Opium “per lasciare una traccia di questo viaggio che la memoria dimentica”, il secondo con il metodo drastico, noto col nome di cold turkey [8].

Alcuni critici musicali come Arrigo Polillo sostengono che furono proprio le migliorate condizioni di salute la spiegazione dell’improvvisa maturazione della musica di Davis, che lo impose come uno dei protagonisti della scena jazz al Festival di Newport (1955). All’oppio e al dolore per la disintossicazione è dedicata l’opera autobiografica di Jean Cocteau Opium, scritta cinque anni dopo la morte dell’amico Raymond Radiguet: durante questi mesi l’artista surrealista scrive e disegna in un unico atto creativo:

Non aspettatevi che io tradisca. Naturalmente l’oppio rimane unico nel suo genere e l’euforia che procura superiore a quello della salute. Devo all’oppio le mie ore più perfette.Peccato che invece di perfezionare la disintossicazione, la medicina non tenti di rendere l’oppio inoffensivo. Ma qui ricadiamo nel problema del progresso. La sofferenza è una regola o un lirismo?[9]

Uno spettacolo, dunque, sul dolore che accompagna la fine dell’estasi e dell’euforia dovuta alle droghe, ma che può essere anche una nuova fonte di ispirazione:

 Il discorso della dipendenza e della disintossicazione è centrale. Sia Davis che Cocteau cercano di uscire dal dolore della loro dipendenza amorosa e lo fanno usando un balsamo, la droga, che crea un’altra dipendenza. E’ un movimento circolare. Entrambi, però, con la droga arrivano a punti della loro produzione artistica, splendidi. Ed entrambi, smettendo, riescono ugualmente a cambiare musica e scrittura facendolo ancora meglio[10].

Coincidenze geografiche uniscono gli artisti nominati: nel 1949 quando Cocteau rientrava in Francia in aereo dall’America (dove era andato a presentare il lungometraggio, L’Aigle à deux têtes, scrivendo la famosa Lettres aux Américains), Miles Davis ritornava negli Stati Uniti, lasciandosi alle spalle Parigi[11], la vita artistica di Saint-Germain-des-Pres e Juliette Gréco, con la quale aveva avuto una breve ma intensa storia d’amore nella stessa camera d’albergo, l’Hôtel La Louisiane in cui si ritrova il protagonista, Robert, che invece ha lasciato il Québec per Parigi, dopo una rottura con il compagno che si trovava a New York.

Un senso di angoscia esistenziale, di impossibilità di fuga, di solitudine pervade lo spettacolo. Fanno da contrappunto al racconto teatrale, materiali d’archivio tra cui i concerti di Miles Davis, le sue colonne sonore, le immagini in bianco e nero della New York degli anni Cinquanta, la musica di Satie e le suggestioni dai disegni di Cocteau e dal suo cinema. Lo spettacolo è anche un modo originale per parlare delle avanguardie, dell’esistenzialismo, del rapporto tra la cultura americana e quella europea.

Immagini molto realistiche di una camera d’hotel che raccoglie le ossessioni dei protagonisti (Cocteau andò a vivere  in hotel dopo il ricovero alla clinica Saint-Cloud e Davis si rinchiuse in una stanza per 21 giorni per disintossicarsi dalla droga) e dialoghi di una disarmante quotidianità, si alternano a momenti decisamente visionari: lo spettacolo vira continuamente dalla realtà ad una sua riproduzione sghemba, distorta, maniacale, quella avvertita proprio, attraverso l’abuso di droghe.

Annota Lepage:

Le droghe forniscono uno strumento di trasformazione sia scenico che narrativo (…) Il dolore della disintossicazione ha portato gli artisti a un genuino ritorno all’ispirazione. La trasformazione non avviene solo perché i narcotici ti fanno vedere scarafaggi o alterano il tuo stato d’animo, ma perché ti trasformano a un altro livello.[12]

Uno spettacolo, molto personale, quasi intimo, su cui Lepage dice:

E’ il più soggettivo, il più autocoinvolgente dei miei lavori. Malgrado mi interessino soltanto le nuove drammaturgie e le nuove risorse tecniche, qui mi lascio andare a un approccio intimo-poetico alle forme del dolore, anche convinto come sono che il teatro del XXI secolo debba affrontare questi percorsi, più che basarsi su grandi commedie e tragedie (…) L’estasi per problemi di cuore spinge quasi a un piacere del dolore, e col tempo mutano solo i rimedi estremi, che per l’etereo Cocteau erano gli abusi d’oppio, e per Miles Davis uomo nero di Harlem, era l’eroina. Sì, non è sbagliato definirlo uno spettacolo del dolore, senza un’ ombra di morale[13]. 

Come non essere d’accordo con Dominique Hasselman che in una recensione on line allo spettacolo di Lepage su un blog francese, scrive: “A ciascuno la sua spirale, a ciascuno la sua dose, a ciascuno la sua sostanza, a ciascuno i propri sogni, a ciascuno le proprie devianze: il mondo sarebbe triste se non esistesse la possibilità di uscire dai limiti[14].

Non più “one-man-show”: “A volte una folla esprime meglio la solitudine”

Lepage nel 2013 riprende lo spettacolo aggiungendo altri attori (oltre a Marc Lebréche, Wellesley Robertson, danzatore e acrobata con una figurante per Juliette Gréco) e modificando il dispositivo scenografico, arricchito della più attuale tecnologia digitale, il videomapping su superficie in movimento, per farne una versione “più matura”; queste le motivazioni:

Ero terrorizzato dall’idea di confrontarmi con i fantasmi dei miei vecchi ideali; cerco sempre di evitare il più possibile di rivisitare i miei primi spettacoli. E poiché non c’è in me neanche un briciolo di nostalgia, ammetto che ho esitato a lungo quando Marc Labrèche mi suggerì di riprendere in mano Gli aghi e l’oppio per metterlo ancora in scena. Creato nel 1991, dopo una dolorosa rottura sentimentale, Gli aghi e oppio voleva essere una riflessione sugli impulsi e sulle circostanze a volte dolorose che portano alcuni artisti a creare, provando a fare un parallelismo tra la dipendenza d’amore e quella dagli oppiacei. Così mi sono imposto un duro lavoro di revisione delle vecchie registrazioni VHS d’archivio e ho scoperto che, anche se la scrittura scenica era indubbiamente vecchia, il soggetto non sembrava aver perso la sua rilevanza. Scritto molto prima di Internet, dei social media e dei fatti dell’11 settembre, le domande esistenziali del protagonista sono più universali che mai e la Lettera agli americani di Jean Cocteau sembra quasi profetica. Ma non era sufficiente rimontare lo spettacolo. Sentivo che era necessario approfondire, e completare la scrittura. Perché quando si tratta di sentimenti e di un amore conflittuale, ci sono cose che si comprendono solo molto più tardi

Il movimento del dispositivo di scena è la chiave di lettura della nuova versione e va interpretato come un aggiornamento della macchina assai modesta tecnologicamente parlando, quasi arcaica, della prima versione: in questo nuovo macchinario praticabile a forma di cubo con due lati aperti e rotanti, gli attori si muovono come acrobati ed entrano e escono da aperture laterali, restando in bilico legati a una fune, recitando sottoinsù mentre il dispositivo ruota; le proiezioni in videomapping seguono tale movimento ricreando di volta in volta, l’ambientazione richiesta (la camera d’hotel, la sala di doppiaggio, il concert-hall)

La tecnologia precede: inventa, dispone, prepara, ma a guidarla è la mano dell’uomo. Gli oggetti vengono fatti entrare in scena attraverso botole, da tecnici posizionati dietro il cubo e pronti ad allestire e disallestire il dispositivo. Anche in Jeux de cartes i tecnici, collocati su sedie con ruote sotto la scenografia circolare, permettevano la rapida fuoriuscita di elementi scenici, attraverso varchi invisibili, gli stessi da dove entravano e uscivano gli attori.

Questa modalità adottata anche da Les aiguilles et l’opium, crea una vera dissolvenza incrociata, in cui ogni episodio lascia il posto a quello successivo, distante spazialmente e temporalmente, senza soluzione di continuità dando l’impressione di voler giocare non più solo sulla frontalità teatrale, ma sulle mille variazioni delle inquadrature cinematografiche e confidando sulla capacità di raccordo dell’occhio dello spettatore.

Si perde, però, nell’aggiornamento del “software teatro” dell’ultima versione, la potenza delle immagini-ombra create live nel 1991; così Miles Davis offre il suo braccio a una siringa proiettata e gli oggetti disposti stavolta su un tavolino a vista degli spettatori, raccontano una storia di incontri parigini grazie a una webcam.

Perduta l’artigianalità, si acquista tecnicismo: la macchina-teatro diventa un luna park.

 

NOTE:

[1]Abbiamo cominciato a definire il nostro lavoro attraverso tre elementi contenuti nel nome Ex machina. Prima di tutto è stata esclusa la parola teatro, dal momento che non è più la nostra esclusiva preoccupazione. Secondo punto, il nome Ex machina evoca macchineria. Ma per me macchineria non è solo l’imbragatura che fa volare Cocteau in Gli aghi e l’oppio. E’ anche nell’attore, nella sua abilità a recitare il testo, a essere parte di un ingranaggio del testo; ci sono meccanismi anche lì. Terzo punto, noi abbiamo rimosso la parole “deus” dalla frase che in origine annunciava un esito inatteso, sebbene io ritenga che abbiamo mantenuto una dimensione mitica e una senso di ricerca spirituale. Il meccanismo risultante e quello narrativo sono ancora imprevisti, misteriosi e spetta a noi scoprirli”. R. Lepage, Connecting flights, New York, Tcg, 1999, p.23.

[2] Così il giornalista Oliviero Ponte di Pino sintetizzava tra le pagine de “Il Manifesto” lo spettacolo-saga Trilogie des dragons firmato da Lepage con Théâtre Repère e da lui visto allo Spazio Ansaldo per MilanoOltre: “Una spianata coperta di sabbia, un misero gabbiotto di legno, un palo della luce, pochi oggetti scelti con cura, di immediata efficacia: questo è tutto quel che serve a Robert Lepage e ai suoi otto attori per raccontare, in sei ore, una vicenda che dura ottant’anni, dal 1910 ai giorni nostri, attraverso tre città (Québec City, Toronto, Vancouver)”, “Il Manifesto”, 3 maggio 1985. Su questo spettacolo e sulle produzioni di Lepage fino al 2005 vedi A.M.Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage, Pisa, BFS, 2005. Ed inoltre L. Fouquet, Robert Lepage, l’horizon en images, Instant même, 2005

[3] The Blue Dragon è un focus su una delle numerose storie della Trilogia dei Dragoni. Pierre La Montaigne artista del Québec, decide di lasciare il proprio Paese per andare a vivere definitivamente in Cina aprendo una galleria d’arte a Shangai. Pierre lavora a una particolare forma d’arte cinese, la calligrafia. Lasciato a questo punto della sua vicenda, Lepage riapre nel 2008 il capitolo che riguarda Pierre e pone un’attenzione speciale alla sua vicenda personale vent’anni dopo gli eventi già narrati e che il pubblico, fedele alle “puntate” teatrali di Lepage, conosce bene. L’intervista a Lepage su The Blue Dragon è on line (insieme a molti altri saggi sul suo teatro) sul sito www.annamonteverdi.it

[4]Les aiguilles et l’opium: ideazione, scenografia e interprete: Robert Lepage; Musiche: Yves Laferrière, Yvan Ouellet Musica e interpretazione musicale sulla scena: Robert Caux; luci: Jean Hazel e Robert Beauregard: manipolazioni in diretta e regia di palco: Claude Lemay; direttore di scena: Robert Beauregard;creazione della scenografia: Les réalisations N.G.L. inc.

La versione del 2013 con testo e regia di Robert Lepage, ha come interpreti Marc Lebréche (poi Olivier Normand) et Wellesley Robertson III e una figurante femminile sempre diversa. La scenografia è di Carl Fillion. Musiche e concezione sonora: Jean-Sébastien Côté; immagini Lionel Arnould. Il Napoli Teatro Festival lo ha ospitato nel 2016.

[5]Nel triennio 1997/1999 Les aiguilles et l’opium avrà anche una versione spagnola (interpretata sempre da Nestor Sayed) e la tournée toccherà Spagna, Stati Uniti, Messico, Costa Rica, Venezuela, Colombia, Perù, Brasile, Cile, Argentina, Uruguay.

Les aiguilles et l’opium è stato definito dalla critica “un lavoro supervisionario e magico” (“The New York Times”), “brillante, tecnicamente molto sofisticato, che miscela emozione e multimedialità” (“The Observer”), “geniale e sorprendente” (“The New Yorker”); la rassegna stampa italiana della tournée del 1997 (che ha toccato, tra gli altri, il Fabbricone di Prato, L’Arena del Sole di Bologna e il Vascello per RomaEuropa) incorona Lepage come “il Peter Brook del Québec”, “l’astro indiscusso del teatro di ricerca”, “il regista che si muove tra poesia e hight tech”, esaltando dello spettacolo, il riuscito l’impianto scenico multimediale con lo schermo mobile ed estensibile dove venivano proiettate immagini d’archivio con l’interprete sospeso in aria. Renato Palazzi la definisce una “raffinatissima pièce introspettiva” e ne elogia la “perfetta realizzazione di una compiuta ipotesi di espressione multimediale” (Mal d’amore multimediale, “Il sole 24 ore”). Per un errore di traduzione “Il Giornale d’Italia” intitola curiosamente la recensione “Le anguille e l’oppio di Lepage al Vascello”. La rassegna stampa internazionale è stata visionata personalmente presso gli archivi di Ex machina, Québec city.

[6] Dobbiamo a Bonnie Marranca la definizione di Theatre of the Images all’interno della cui categoria il critico americano fondatore del “Performance Arts Journal” ha raggruppato Breuer, Foreman e Wilson e per la seconda generazione, i Mabou Mines e il Wooster group di Elizabeth LeCompte. Il lavoro sull’immagine, il rapporto con le arte visuali e con la new dance diventa infatti, un segno distintivo del teatro sperimentale americano, da Robert Wilson a Richard Foreman a Meredith Monk. Fotografia e cinema costituiscono momenti determinanti, tra gli altri, dello Structuralist Workshop di Kirby (Photoanalysis, Double Gothic). In Italia il teatro-immagine ha visto tra i protagonisti negli anni Settanta, Memé Perlini, Giuliano Vasilicò e Mario Ricci. Cfr.: S.Sinisi, Neoavanguardia e postavanguardia in Italia, in R. Alonge, G.D.Bonino, Storia del teatro moderno e contemporaneo, Torino, Einaudi, 2001.

[7]Jean Cocteau scrive Opium nella clinica di Saint-Cloud nel 1929 proprio nei giorni di degenza per la disintossicazione. La creatività in forma di scrittura e di segno grafico diventano il modo per sopportare il dolore e per dargli forma artistica: “Scrivo queste righe dopo dodici giorni e dodici notti senza sonno. Lascio al disegno il compito di esprimere le torture che l’impotenza medica infligge a coloro che eliminano un rimedio che sta per diventare un desposta”.

[8]Sul periodo della disintossicazione, Davis racconta: “Stavo male e mi ero stancato di quella roba. Sapete ci si può stancare di tutto, ci si può anche stancare di aver paura. Mi sdraiai sul letto della mia camera e mi misi a guardare il soffitto per dodici giorni di fila durante i quali imprecai contro tutti quelli che non mi piacevano…Era come avere una grave forma di influenza, però un po’ peggio. Vomitavo tutto quello che cercavo di mandar giù. I miei pori si erano dilatati e puzzavo come se fossi immerso nel brodo di pollo. Poi finiì”. M.Crawford, Miles Davis: evil genious of jazz “Ebony”, gennaio 1961. Cit. da A. Polillo, Jazz. La vicenda e i protagonisti della musica afro-americana, Milano, Mondadori, 1975, pag.717.

[9] J. Cocteau, Oppio, 2001, Sel, Milano (tit. orig. Opium, 1930).

[10] C. Piccino, “Il Manifesto”, 15/10/1997 , Intervista a Lepage.

[11] Nel maggio 1949 Miles Davis attraversò per la prima volta l’Atlantico per partecipare col quintetto di Tadd Dameron al grande Festival del Jazz a Parigi. Non fece una gran figura, in verità: sull’enorme palcoscenico della Salle Pleyel, quel ragazzo dai capelli impomatati, che non sorrideva mai, che suonava in punta di piedi, dava proprio l’impressione di essere impaurito. Non era solo impaurito: era anche annoiato, scoraggiato. Lo confessò lui stesso dopo quando raccontò che proprio al ritorno dal suo viaggio d’oltreoceano cominciò a iniettarsi eroina nelle vene. A.Polillo, Jazz. La vicenda e i protagonisti della musica afro-americana, Milano, Mondadori, 1975, pag.716.

[12] R. Lepage, Connecting flights cit. pag.72.

[13] Intervista a Lepage di R. Di Giammarco, L’amore e l’oppio i turbamenti di Lepage, “la Repubblica”, 15 ottobre 1997.

D.Lafon, Des coulisses de l’histoire aux coulisses du théatre: la drammaturgie québecoise et la Crise d’Octobre, in “Theatre Research International”, n. 1, 1998.

[14] http://desormiere.blog.lemonde.fr/

Intervista al M°FABIO LUISI sulla Tetralogia di Wagner con la regia di Robert Lepage produzione MET
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L’Orchestra e il Coro del Maggio Musicale Fiorentino, diretti dal Maestro Fabio Luisi, eseguiranno 5 luglio alle 21.15. a Pistoia  la Sinfonia n. 2 di Gustav Mahler proprio dal palco di Piazza Duomo. Arts. Noi lo avevamo incontrato nello splendido foyer del Carlo Felice e gli avevamo fatto alcune domande relative alla sua collaborazione con uno dei massimi registi teatrali contemporanei, Robert Lepage per la produzione del RING di Wagner del Metropolitan di New York. L’intervista sarà parte del documentario in corso di realizzazione sul teatro di Robert Lepage.

Fabio LUISI è nato a Genova ed è Direttore principale al Metropolitan di New York. Attualmente è Direttore musicale  anche dell’Opera di Zurigo

Fabio Luisi ha vinto un Grammy Award per la sua interpretazione delle ultime due giornate del Ring des Nibelungen: l’intero ciclo prodotto in DVD da Deutsche Grammophon, considerato la migliore registrazione operistica del 2012. La sua vasta discografia comprende opere di Verdi, Salieri e Bellini; brani sinfonici di Honegger, Respighi e Liszt; musiche di Franz Schmidt e Richard Strauss e una premiata esecuzione della Nona sinfonia di Bruckner. Nel 2015 ha inaugurato la collana discografica della Philharmonia Zurich incidendo musiche di Berlioz e Wagner, nonché Rigoletto di Verdi, cui recentemente si è aggiunta la versione originale dell’Ottava sinfonia di Bruckner, raramente registrata in disco.  La sua biografia è straordinariamente ricca di successi e di riconoscimenti e rimandiamo al suo sito per approfondimenti. Ci piace ricordare che oltre a dirigere grandi teatri e orchestre internazionali, Luisi è anche direttore musicale del Festival della Valle d’Itria e dell’Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti” a Martina Franca promossa e organizzata dalla Fondazione Paolo Grassi di cui è presidente il prof. Franco Punzi e direttore Rino Carrieri.

 Oltre alla musica, coltiva anche un’altra passione: quella di creare profumi artigianali, da lui stesso personalmente realizzati, le cui vendite, attraverso flparfums.com, servono a finanziare la Luisi Academy for Music and Visual

Anna Monteverdi: Lepage e Wagner, teatro, musica e tecnologia: quanto a suo avviso l’innovazione tecnologica può contribuire a far conoscere non solo l’opera musicale ma anche il messaggio di opera d’arte totale di Wagner?

Fabio Luisi: L’opera lirica come del resto qualunque rappresentazione teatrale, è per definizione destinata a mutare nel tempo; questo cambiamento avviene normalmente durante la storia di questa opera d’arte che non è come un’opera d’arte figurativa a sé stante, chiusa nell’epoca in cui è stata concepita. Lepage è il testimone più congeniale di opera d’arte che muta nel tempo; in questo senso il suo approccio molto tecnologico alla tetralogia di Wagner è stato stimolante e interessante, e Wagner ne sarebbe stato piuttosto contento. 

Anna Monteverdi: Quale è stato il rapporto tra direzione musicale e direzione registica e quali sono stati i passaggi chiave di questa drammaturgia musicale?

Fabio Luisi: Lepage è una personalità straordinaria, sa esattamente come realizzare ciò che desidera e per me è stato molto educativo, lui è un uomo di teatro visionario con un accento su ciò che si deve vedere,  per noi musicisti l’aspetto visivo è secondario rispetto a quello musicale. Il suo modo di lavorare è estremamente rispettoso dei cantanti e della musica; non essendo musicista si è dovuto instaurare un dialogo tra noi e gli ho dato qualche suggerimento per quei momenti in cui bisognava sottolineare visivamente certi accenti come li abbiamo in musica e lui è stato comprensivo e ha accettato; tutto è stato condotto con una calma davvero inusuale nel nostro campo. I passaggi chiave sono stati quelli che richiedevano un colore e un carattere speciale reso visibile, in questo Lepage è stato straordinario, i cambiamenti di scena, i grandi “coup de théâtre” che ci sono anche in questa opera monumentale, sono stati risolti in maniera eccezionale e hanno provocato “pelle d’oca” a spettatori e anche agli esecutori. Lo sforzo tecnico è stato enorme, ed è stato una sfida per tutto il team della produzione perché non si erano mai trovati a mettere in pratica un’idea così tecnologica quale quella concepita da Lepage.

Anna Monteverdi:Qual è la Specificità musicale del Siegfried e come ha impostatola direzione musicale?

Fabio Luisi: Sigfried, se si considera la Tetralogia come una grande sinfonia  è lo scherzo; è estremamente vivace, è tra le quattro, a parte Das Reinhgold, che è un prologo complesso, quella che maggiormente si presta a soluzioni sceniche originali, ed è anche l’opera che presenta la maggior linearità di narrazione. In un cerro senso è quella più facile, ma date le proporzioni anche più difficile, che può presentare soluzioni sceniche più eclatanti: abbiamo questo clima da favola del bosco, con l’uccello che parla a Sigfried, dell’uccisione del drago, del risveglio della Valchiria, del bacio di Sigfried alla Valchiria. E questa idea di storia è quella che è probabilmente più facile da realizzare di tutta la tetralogia.

Anna Monteverdi: Considerato il lavoro di Lepage nell’ambito del teatro tecnologico non ha avuto paura che la macchina predominasse sulla musica?

Fabio Luisi: La macchina era l’elemento predominante di tutta la visione di Lepage durante le 15 ore di musica del Ring. Sarebbe sciocco dire che abbiamo cercato di nascondere la macchina perché c’era ed era ben visibile.Era un elemento portante della sua regia, può essere considerato in modo positivo o meno, ma c’era. Considerando le proporzioni di quest’opera direi che l’approccio tecnologico è stato assolutamente giustificabile, e personalmente lo ritengo più che valido nella rappresentazione visiva, scenica e anche nel fatto che spiega scenicamente cosa succede nella musica. Il bravo regista è colui che riesce a comunicare quello che succede nel testo, benché lo spettatore non ne conosca la lingua e in questo Lepage c’è riuscito benissimo; ma sinceramente la macchina era visibile ed è rimasta visibile per tutte le quattro opere.

Anna Monteverdi: Lepage in questa regia è stato definito “Tradizionalista e modernista”. lei come la definirebbe?

Fabio Luisi: La regia è stata più che leggibile, su questo non ci sono dubbi, per questo si è attirato critiche di tradizionalismo, perché è stata estremamente leggibile, non ci sono state interpretazioni a meta livelli. Dal punto di vista della spiegazione e della narrazione non ci sono stati affatto dei problemi.

Lepage & Wagner: the “machine” by Scène Ethique
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A platform of movable planks

The Machine is a 45-ton platform made of two towers that support the 60-foot central shaft. Using cylinder hydraulics, the towers allow the translation and rotation of the shaft. The platform also has 24 movable planks attached to it that are designed to transform into a staircase and wall in which computer-generated images are projected. In addition, thanks to hydraulics, automation and technicians, The Machine can transform into different configurations.

An additional stage

A proscenium completes the set. It is raked and serves as a continuum of the planks and main stage.

http://sefabrication.com/wp-content/uploads/2016/07/Cycle_du_Ring.pdf

Ring_une

The Machine

Robert Lepage and the New York MET Opera 2011-2013 (Ring Cycle)
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Lepage’s Ring Cycle proved to be the most technically advanced production the Met has embarked upon. Lepage and Met director Peter Gelb are on the record as having tried to imagine the Ring the way Wagner would have staged it if he had access to twenty-first century technology.Video projection and the use of a very unique set required true theatrical innovation and were anything but traditional.

Das Rheingold introduced a high-tech set that rotates, bends and transforms into different shapes — such as a river or a spiral staircase. “It is also a projection screen”, says Lepage. “Whatever configuration it takes, no matter how complicated, it can receive projection and transform itself into all sorts of things. And, of course, the story of the Ring is all about transformation.”

Solutions

The set of 24 swivelling beams formed a myriad of different shapes which, with the aid of complex large scale video projections, created stunning scenic images. The set and Realisations’ projections were used for the entire cycle transforming from walls, into a ceiling, a forest, cliffs and mountain ranges, and even the surface or the bottom of a river through the use of our digital animation and visual effects that generated the simulated 3D imagery.

Though unusual for a Wagner opera, the audience was so enthusiastic about the use of the set and projections during the ride of the Valkyries that it could not restrain itself and started applauding at every performance.

Credits: video: Réalisations, Joël Proulx Bouffard / music: Tab and Anitek (source: freemusicarchive.org, CC License)

Tools Used

Director Robert Lepage chose Realisations to create and integrate 3D interactive effects with the scenography of his production for the Wagner tetralogy.

Realisations combined our video projections and our partner’s Maginaire’s virtual cameras to allow us to project computer-generated images on the stage and décor, creating the illusion of 3D holograms.

The lack of precision in the human eye for seeing real volumetric images created these illusions triggered by the artists’ movement and voices. Opera patrons did not have to wear special glasses since we were able to develop a new technology that allowed projected 3D images on stage to be seen without special eyewear.

 

Robert Lepage alla ricerca della Lanterna magica
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Robert Lepage ci riprova con la scrittura collettiva. Dopo l’esperienza folgorante di Théâtre Répere degli anni Ottanta (La trilogie des dragons) e dei primi spettacoli anni Novanta firmati Ex machina (Le sept branches de la riviére Ota) in cui la drammaturgia era creata da un laboratorio di giovani attori-creatori di cui faceva parte anche la talentuosa Marie Brassard, Lepage oggi ritenta il lavoro di gruppo con Jeux de Cartes. Si tratta di una quadrilogia ispirata ai semi delle carte –e relative simbologie- e ai tarocchi, al cui studio Lepage si è dedicato con tanto di consulenza di Jodorowsky; il secondo episodio legato al seme di Cuori ha avuto il debutto mondiale in Europa, a Essen precisamente nelle aree ex industriali del distretto carbonifero di Zollverein in Renania all’interno del Festival diretto da Heiner Goebbels.

E’ uno degli spazi artistici non teatrali che avevano aderito al progetto 360° creato intorno a Jeux de cartes che, prevedendo una scenografia molto speciale e anomala, a pianta centrale, intende privilegiare spazi non tradizionali. Il primo episodio della quadrilogia, Pique era stato ospitato in un circo a Chalons en Champagne e a Londra in un ex gasometro. Ma se in Pique la scrittura a più mani aveva lasciato insoddisfatta la critica, non sempre generosa con Lepage, qua l’operazione trova una sua convincente ed efficace soluzione drammaturgica. Nell’incontro al Museo di Essen in occasione del debutto, Lepage ha parlato del difficile processo creativo che porta, dopo lunghe sedute di idee esposte collettivamente, da un canovaccio improvvisato alla formazione di un’idea teatrale convincente. La metafora del regista-vigile è quella preferita da Lepage, il quale rinuncia a ogni ruolo centrale e imperativo rispetto alla materia per preferire la strada più accidentata della creazione a più voci in cui lui cerca di “dirigere il traffico delle idee che passano”. In questo lavoro –che più del precedente rivela il suo debito con l’altro capolavoro assoluto a firma collettiva (Le sept branches de la riviére Ota)– gli elementi di base e probabilmente alcuni dei personaggi, erano stati già forniti da Lepage; la soluzione, come si vedrà, dell’intrusione di figure storiche note, legate alla tecnica, collegate a vicende attuali, ricorda il procedimento usato per Vinci (uno dei primissimi lavori) e per il “solo show” Andersen project.

L’ingranaggio della scrittura, con i destini dei suoi personaggi che si incrociano al momento opportuno, come i meccanismi di un vecchio orologio –che non a caso, è perfettamente riprodotto col suo quadrante nella verticale della scena- funziona straordinariamente bene. In questo nuovo lavoro ritroviamo il Lepage degli anni d’oro, come avrebbe detto Franco Quadri. Rintracciamo la forza dirompente delle sue storie nella trama ben ricamata e ricca di annodamenti imprevisti, punteggiata da molti personaggi tra passato e presente e che si estende in un cinquantennio abbracciando America, Europa e Africa; una fabula che lascia sempre più il posto a un intreccio libero di viaggiare avanti e indietro nel tempo, senza coerenza, seguendo piuttosto una logica cinematografica. Così si passa dal Québec di oggi, dove convivono vecchie lacerazioni e nuovi separatismi, all’Algeria di ieri, quella della guerra di indipendenza dove un Fronte di Liberazione Nazionale combatte contro la Francia e gli ultimi retaggi del colonialismo.

In mezzo alla grande Storia le memorie di resistenti, quei partigiani che hanno combattuto valorosamente o coloro che hanno vissuto clandestinamente o attraversato illegalmente i confini e sono arrivati sino in Québec, nascondendo la loro vera identità persino a figli e nipoti. Memorie di torture, quelle stesse raccontate nel terribile libro di Henri Alleg, direttore della rivista d’opposizione “Alger républicain”, perseguitato e imprigionato dai francesi. La storia nella finzione teatrale va all’indietro, come un flashback filmico, ma senza regole, in una continua persistenza della memoria che sembra segnare profondamente le vite degli uomini di oggi. In questo sguardo à rebours si incontrano sulla scena: il pioniere della fotografia Nadar nel suo viaggio ad Algeri mentre immortala il giovinetto seduto sulla banchina del porto e mentre vola con palloni aerostatici, l’illusionista e prestigiatore francese Robert-Houdin, e il “cinematografista” George Meliès anche lui specialista di illusioni magiche e di visioni ineffabili.

L’elettricità che darà vita alla modernità è la stessa usata dagli aguzzini contro i corpi dei prigionieri algerini. Incroci e destini di uomini, incroci e destini di macchine. La scatola dove spariscono per poi ricomparire subito, le giovani fanciulle in un pezzo di teatro leggero a Parigi, diventa un attimo dopo il pozzo dove gli uomini scompaiono, ma per sempre, per colpa della guerra e della vendetta. Tutto parte da un algerino di oggi in Québec, che al momento della morte del padre, vuole conoscere la sua storia, ripercorrendo le tracce del nonno, partigiano del FLN; un percorso che non sarà felice ma portatore di sventura poiché la memoria degli antichi odi è ancora viva. Le passioni e le fedeltà, come per i tarocchi rovesciati, possono rivoltarsi nel loro segno opposto e cambiare destini. La fidanzata, ricercatrice all’Università specializzata nel cinema delle origini, lo aspetterà invano, confortata dall’anziana madre di lui ma rifiutata dalla famiglia dopo aver sposato la religione musulmana. In questa storia, continuamente spezzata nella sua linearità di récit, si incastrano sia le vicende e le esibizioni di Robert-Houdin e il suo curioso approdo in Algeria, invitato da Napoleone III per mostrare le superiori abilità magiche alla popolazione locale ribelle, sia i famosi film di Méliès con le sparizioni “meccaniche” fatte con la tecnica della sospensione della ripresa, come la famosa “Escamotage d’une dame”. Méliès acquistò dalla vedova il Teatro di Robert-Houdin che ancor oggi esiste a Parigi di fronte al Castello di Blois e si specializzò in trucchi teatrali e cominciò a usare la lanterna magica e altri congegni di “ottica fantastica”.

Il teatro di Lepage trabocca di congegni antichi, ed è una scatola di invenzioni e attrazioni a disposizione di una storia. Così riviviamo dal vero il trucco della scatola magica di Houdin, con l’attrice che si colloca con bravura contorsionistica, dentro un angusto doppiofondo suscitando ancor oggi, vivo stupore nel pubblico che applaude sia il pezzo di magia che l’abilità dell’interprete teatrale. Come tipico della poetica del regista canadese, lo spettacolo si struttura sulla base di prestiti linguistici diversi, primo fra tutti il cinema. Se non facciamo fatica a individuare una vera e propria tecnica di montaggio nella strutturazione delle storie come vengono presentate ovvero, in una discontinuità di racconto, diventa quasi un’operazione filologica capire che il cambiamento di scena è assimilabile a una vera dissolvenza incrociata. Infatti talvolta i personaggi scompaiono ma gradualmente, rimanendo in scena anche in alcuni momenti delle azioni successive. La storia del cinema ci ricorda che questa tecnica di pre-montaggio fu usata per la prima volta proprio da Mèliés in Cendrillon (1899), una delle due versioni di Cenerentola. Si chiamavano vues fondantes, letteralmente vedute fuse.

Tutto avviene senza soluzione di continuità nello spazio di un palcoscenico girevole a pianta centrale con un sottopalco che contiene i meccanismi, gli elevatori, i trucchi del teatro e i manovratori della macchina, e la scena apparentemente spoglia che si trasforma continuamente grazie a botole che si aprono, tavoli che appaiono, veli che si alzano per proiettare paesaggi o dettagli di interni. Quello che Lepage crea per Jeux de cartes è un vero “teatro di magia”, tanto amato da Méliès e incarnato nella figura di Robert-Houdin e soprattutto dalla carta del “Mago” dei tarocchi, raffigurato tradizionalmente mentre solleva la sua bacchetta magica davanti al suo tavolo di lavoro. A questa carta degli Arcani maggiori è consacrato lo spettacolo.

Una straordinaria macchina-congegno mossa a mano che come sempre negli spettacoli di Lepage, è l’altro attore in scena. Un attore-automa. Gli interpreti nella loro doppia incarnazione di autori-attori ( Reda Guerinik, Ben Grant, Catherine Hughes, Marcello Magni, Olivier Normand, Louis Fortier, Nuria Garcia) e nelle loro molteplici maschere di personaggi, hanno dato vita a uno spettacolo che riesce a raccontare vicende drammatiche e appassionate insieme, lontane e vicine allo stesso tempo, come in un’unione degli opposti. Se, come ha ammesso lo stesso Lepage nell’incontro al Museo di Essen coordinato dal critico tedesco Renate Klett, la macchina al momento del debutto non era ancora perfettamente oliata, tutto fa pensare che la soluzione sia sul punto di essere trovata. Lepage ha sottolineato il piacere di aver ritrovato in questa modalità di scrittura collettiva, la forza e il valore di una ricerca che gli appartiene da sempre.

(crediti fotografici di Erick Labbé)

Visto al festival di Essen il 6 ottobre 2013

New solo show by Robert Lepage a Nantes
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PHOTO E. LABBE’

887 is a journey into the realm of memory. The idea for this project originated from the childhood memories of Robert Lepage; years later, he plunges into the depths of his memory and questions the relevance of certain recollections.
How does memory work?

What are its underlying mechanisms? How does a personal memory resonate within the collective memory?
All of these questions are distilled into a story where Lepage reveals the suffering of an actor who – by definition, or to survive – must remember.

• 24 – 28 February 2015: preview, le lieu unique, Nantes (France)
• 9 et 10 March 2015: preview, La Comète – Scène nationale de Châlons en Champagne (France)
• 14 – 19 July 2015: world premiere, Toronto 2015 Pan Am and Parapan Am Games (Canada)

Essay on line about Lepage by Melissa Poll
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on “Body/Space/Technology” Online Journal,

Robert Lepage’s Scenographic Dramaturgy: The Aesthetic Signature at Work
Melissa Poll

Abstract
Heir to the écriture scénique introduced by theatre’s modern movement, director Robert Lepage’s scenography is his entry point when re-envisioning an extant text. Due to widespread interest in the Québécois auteur’s devised offerings, however, Lepage’s highly visual interpretations of canonical works remain largely neglected in current scholarship. My paper seeks to address this gap, theorizing Lepage’s approach as a three-pronged ‘scenographic dramaturgy’, composed of historical-spatial mapping, metamorphous space and kinetic bodies. By referencing a range of Lepage’s extant text productions and aligning elements of his work to historical and contemporary models of scenography-driven performance, this project will detail how the three components of Lepage’s scenographic dramaturgy ‘write’ meaning-making performance texts.

Convegno Le Théatre dans la sphére du Numèrique, Paris, Centre Pompidou (in francese)
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Le premier Rendez-vous du programme de rencontres
« Création numérique, les nouvelles écritures scéniques » s’est déroulé le Vendredi 24 octobre 2003 au Centre Georges Pompidou dans le cadre du Festival Résonances de l’Ircam.

Il programma del convegno 

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Un grand merci à Anna-Maria Monteverdi qui a fait un compte-rendu de la journée

Ce premier Rendez-vous intitulé « Le théâtre dans la sphère du numérique » s’est déroulé face à un important public d’artistes, de chercheurs, de professionnels des arts de la scène et d’étudiants français et étrangers. Après une présentation du programme et de la journée par Anomos et Dédale puis Franck Bauchard, conseiller Théâtre au Ministère de la Culture et de la Communication, Bernard Stiegler, Directeur de l’Ircam, a proposé une introduction générale de la question « arts de la scène et technologies ».

Le programme a ensuite abordé les trois étapes suivantes :

Arts de la scène et technologies, la création contemporaine en perspective historique.
Cette première partie était organisée autour de deux axes :
– Les précurseurs : les avant-gardes de 1900 à 1960.
– Le choc du numérique : quelques expériences significatives de la question « arts de la scène et nouvelles technologies » de 1960 à nos jours.

Les nouvelles formes scéniques, panorama européen.

Il s’agissait ici de dresser un état des lieux européen des acteurs et des projets artistiques, de dégager, par pays ou zone géographique, les grandes tendances actuelles et de montrer comment les caractéristiques culturelles propres à chaque pays influent sur cette question des rapports arts de la scène et technologies. Les questions professionnelles (lieux de production, de diffusion, festivals) ont également été abordées. Les trois zones géographiques qui ont fait l’objet d’une attention particulière sont : l’Europe du Sud (Italie), l’Europe du Nord (Allemagne, Pays-bas) et l’Europe de l’Est (Pologne).

Arts de la scène et technologies, la création contemporaine en perspective historique.

Les précurseurs

Dans le cadre de la section dédiée aux précurseurs, la directrice du Laboratoire de Recherches sur les Arts du Spectacle du CNRS Béatrice Picon-Vallin (qui était absente, mais dont le texte a été lu par Clarisse Bardiot, collaboratrice du programme « Création numérique, les nouvelles écritures scéniques ») a proposé une interprétation de la scène technologique contemporaine qui s’inspire des avant-gardes du 20ème siècle : la scène actuelle serait une dernière contribution au thème de la conquête d’un théâtre de l’expression totale et d’un nouvel espace scénique généré non pas à partir de la peinture ou de la littérature, mais de la lumière et du mouvement :
« La scène architectonique » de Craig, la scène constructiviste ou celle du Bauhaus, génèrent des machines à jouer, échos des recherches de l’avant-garde plastique, capables entre autres innovations radicales, de découper l’espace tridimensionnel en une série de cadres précis dans lesquels et entre lesquels le comédien devra maîtriser le mouvement scénique, le jeu se voyant défini comme maîtrise des formes plastiques dans l’espace. La lumière tend également à éliminer la peinture pour distribuer elle-même dans l’espace qu’elle fluidifie couleurs et mouvements (…) Aujourd’hui, la machine à jouer se fera machine à projeter des images, et le jeu des comédiens devra tenir compte de celles-ci, fixes ou animées, qui peuvent habiter l’espace dans son ensemble, apparaître sur toute surface constituant le dispositif, et non plus seulement sur les écrans suspendus au dessus de la scène ou placés au fond du plateau (comme dans les années 20) – images qui peuvent même capter l’acteur en direct et être retraitées, toujours en direct, images surgies, fantomatiques, toujours au bord de l’évanouissement, de la disparition, par lesquelles l’acteur de chair est redoublé, agrandi, magnifié ou sous surveillance.
(B. Picon-Vallin, Un stock d’images pour le théâtre. Photo, cinéma, vidéo, in B. Picon-Vallin, sous la direction de, La scène et les images, Paris, CNRS Editions, 2001, p.21-22).

Béatrice Picon-Vallin propose une subdivision temporelle en cinq actes de cette histoire du théâtre technologique à laquelle tous les facteurs ont contribué de manière directe, qu’ils soient de nature sociale, politique, idéologique ou économique.

1. Les années 20 en Russie
2. Les années 20-30 en Allemagne
3. Les années 50-60 à Prague
4. Les années 60 aux Etats-Unis
5. Les dernières vingt années du 20ème siècle en Europe et aux Etats-Unis

Béatrice Picon-Vallin a porté une attention particulière au « théâtre de la totalité » de Moholy-Nagy, à l’acteur-marionette d’Oskar Schlemmer et à son célèbre ballet triadique et à Josef Svoboda, le scénographe tchèque, inventeur de la « Lanterne magique » et du système de poly-projections Polyécran présenté à l’exposition universelle de Bruxelles (1958). Des extraits du documentaire  biographique de Denis Bablet Jospef Svoboda scénographe (1983) ont été présentés. Un des extraits montrait le spectacle Intolérance 1960, sorte de manifeste pour une idée d’un théâtre multimédia (ayant de nombreuses implications politiques), qui a été créé en 1960 avec le musicien Luigi Nono sur le livret d’Angelo Maria Ripellino pour la Fenice de Venise dans un premier temps (mais les images furent censurées) et pour Boston dans un second temps. Cette dernière version prévoyait la substitution des images cinématographiques avec un système de reprise télévisuelle à circuit fermé : c’était en somme, comme le rappelle Bablet, « une nouvelle forme d’opéra, un nouveau type de théâtre total ».
Lire le texte de l’intervention de B. Picon-Vallin

Sylvie Lacerte, ex-directrice générale du Find lab (laboratoire international de recherche et de développement de la danse) de Montréal et doctorante à l’UQAM, a proposé l’exemple pionnier des EAT – Experiments in Arts and Technologies — l’organisation fondée conjointement en 1966 par les ingénieurs Billy Klüver et Fred Waldhauer de la téléphonie Bell et les artistes Robert Raushenberg et Robert Whitman. Cette organisation a été lancée lors de la manifestation 9 evenings : theatre and engineering qui s’est déroulée en 1966 à New-York. Il s’agissait de performances qui mêlaient ensemble danse, théâtre, musique et vidéo. Parmi les artistes présents, il y avait : J. Cage, S. Paxton, D. Tudor, R. Rauschenberg, L. Childs. Sylvie Lacerte a travaillé à la reconstruction détaillée de ces œuvres artistiques qui intégraient de façon inhabituelle les technologies. Comme le rappelle la chercheuse dans son texte sur l’histoire de l’EAT, en ligne sur http://www.olats.org :
Pour la mise sur pied de cet événement, un système électronique environnemental et théâtral fut inventé par l’équipe des ingénieurs. Le THEME – Theater Environmental Module – fut mis sur pied pour répondre aux besoins de dix artistes, en fonction de situations théâtrales bien spécifiques. Le THEME, qui n’était pas visible de la salle, permettait entre autres, le contrôle à distance d’objets et la possibilité d’entendre des sons et de voir des faisceaux lumineux provenant de sources multiples et simultanées.

Sylvie Lacerte a montré un extrait d’une des neuf performances, Open score de R. Raushenberg et J. MC Gee (ingénieurs ) avec Franck Stella et Mimi Kanarek, qui jouaient une partie de tennis avec des raquettes dont les manches étaient équipés de micros sans fil qui amplifiaient le bruit de la balle.


Le choc du numérique 

Dans la seconde section du panorama historique, Christopher Balme, professeur de théâtre et directeur du Département Arts du spectacle de Mayence (Allemagne) a proposé une intervention sous le nom de « Contamination et déploiement ; théâtre & technologies 1960-2003 ».
Dans cette intervention, Balme traçait trois trajectoires du rapport entre théâtre et technologies :
– l’art vidéo
– le théâtre multimédia
– la performance numérique et la performance à travers Internet
Après avoir anticipé les positions anti-technologiques du théâtre des années 60, en particulier celles de Jerzy Grotowski et Peter Brook, Balme a souligné très justement à quel point cette querelle du théâtre et des technologies est un sujet encore largement débattu. Pour la partie relative à la première vague de l’innovation technologique, les expériences artistiques de Nam June Paik, mais aussi celles de Jacques Polieri dans les années soixante ont été évoquées ainsi que les œuvres vidéos de Bill Viola et les spectacles de Giorgio Barberio Corsetti pour la période relative aux années soixante-dix et quatre-vingts. Balme soutient que ces artistes, pourtant éloignés dans leur pratique artistique, ont tous en commun une même attitude esthétique qui cherche à dépasser la dichotomie traditionnelle entre l’art et la technologie. En référence au passage de l’art vidéo à la scène, certains artistes de la soi-disant « scène multimédia » états-uniennes dont le Wooster Group d’Elizabeth Lecompte, pionnier dans l’utilisation sur scène de la vidéo, live et préenregistrée, ont été cités.

Rappelons-nous le spectacle Brace-up ! :


Brace up!
, mise en scène de Elizabeth LeCompte: Scott Renderer, Jeff Webster (sur le grand moniteur), Paul Schmidt (sur le petit moniteur), Kate Valk. (photo © Mary Gearhart)

Leur travail est poursuivi de façon parfaite par John Jesurun et The Builders Association (on se souvient en particulier du spectacle Everything that rises must converge, 1990). L’interaction entre l’action de l’acteur et de la vidéo est un postulat important selon Balme pour le développement de la performance numérique et à travers Internet.

Balme a présenté certains extraits du spectacle de Robert Lepage Les sept branches de la rivière Ota, premier projet théâtral réalisé avec la compagnie pluridisciplinaire Ex Machina dans lequel le metteur en scène canadien développe une trame visuelle faite de silhouettes, corps, images vidéos littéralement mêlés ensemble de façon à former un théâtre d’ombre muet, métaphore visuelle de la persistance de la mémoire d’Hiroshima dans le monde occidental et oriental. Dans la seconde partie, relative au numérique, Balme a parlé de la première performance sur Internet, Hamnet (1993) des Hamnet Players de Stuart Harris.

Il s’agit d’une performance réalisée via un système de chat à travers le canal Internet Relay Chat (IRC) #hamnet. L’essai en ligne de Brenda Danet offre une lecture précise de cette expérience :http://jcmc.huji.ac.il/vol1/issue2/contents.html.

Lire le résumé de l’intervention de Christopher Balme (en anglais)

Les nouvelles formes scéniques, panorama européen.

L’Europe de l’Est : l’exemple de la Pologne
Pour le panorama européen, Izabella Pluta-Kiziak, doctorante à l’Université de Silésie (Pologne), a proposé une intervention intitulée « Entre l’Internet et la réalité post-communiste » avec des fragments vidéos des spectacles de Komuna Otwock : Bez tytulu et Trzeba zabic pierwszego boga.


Desing: Gropius / Dlaczego nie bedzie rewolucji – Komuna Otwock.

La chercheuse a rappelé que le phénomène du théâtre et des nouvelles technologies est totalement différent en Europe de l’Est par rapport à l’Europe de l’Ouest ou aux Etats-Unis. L’actuel changement politique est d’ailleurs un facteur déterminant de ce phénomène. Il existe cependant des implications économiques et de forts liens avec la tradition théâtrale qui freinent une réelle expérimentation dans cette direction.
La chercheuse a proposé :
– un cadre historique de ce que l’on appelle le théâtre alternatif après 1989 et la direction du théâtre de recherche polonais à partir de la question « Peut-on vraiment introduire les nouvelles technologies dans le théâtre polonais après Grotowski et Kantor ? »
– un panorama des manifestations, festivals, centre de ressources. Entre autres, ont été présentés : le Festival international de théâtre alternatif Réminiscences théâtrales à Cracovie, Malta-Festival de Théâtre à Poznan (http://www.malta-festival.pl/) et WRO Centre (http://www.wrocenter.pl/), Centre des arts des médias à Wroclaw (qui organise la biennale des arts des médias).
– La génération des metteurs en scène « plus jeunes, plus talentueux », qui utilisent la vidéo sur scène : Grzegorz Jarzyna avec Psychosis 4.48 ; Anna Augustynowicz, Mloda smiercBalladyna.

Lire le texte de l’intervention d’Izabella Pluta-Kiziak

L’Europe du Nord : l’exemple de l’Allemagne et des Pays-Bas 
Meike Wagner, professeur en arts du spectacle à l’Université de Mayence a présenté deux projets :
– Alientje (2002) du groupe holandais Wiersma & Smeets qui travaille avec des projections, des personnages en papier, des objets filmés avec un simple système audiovisuel. Il s’agit d’un projet pour enfants.

– Cyberpunch (2003) du groupe théâtral de Thomas Vogel à Berlin. Il s’agit d’un projet de « cyberstage » avec des personnages virtuels en interaction avec des marionnettes et des acteurs réels sur scène. Le « cyberstage » de Thomas Vogel est un work in progress.

Lire le texte de Meike Wagner

L’Europe du Sud : l’exemple de l’Italie
Pour le panorama italien, Anna-Maria Monteverdi a proposé une digression sur trois aspects historiques :
– l’héritage du théâtre-images : panorama du théâtre de recherche italien enrichi par la présence des médias sur la scène et l’héritage du théâtre-images des années soixante-dix.
– Le videoteatro italien : de la post avant-garde à la « nouvelle spectacularité » : Giorgio Barberio Corsetti, Studio Azzuro.
– Teatri 90 et la « Troisième vague » : la nouvelle génération du théâtre italien.
Et, comme cas d’étude, Giacomo Verde de Teleracconto et Storie Mandaliche 2.0 ; et la compagnie Motus : « de l’installation au théâtre » (Twin rooms).

Motus est une compagnie de théâtre basée à Rimini (Italie) et dirigée par Daniela Nicolò et Enrico Casagrande. Ex Generazione Novanta, Motus est une jeune compagnie qui s’inscrit d’ores et déjà parmi les compagnies historiques. Leur théâtre traverse depuis toujours les territoires les plus variés de la vision : cinéma, vidéo, architecture, photographie…, une visio éclectique et multiforme, irrespectueuse des spécificités de genre qui transpose sur scène les techniques du cut up, du découpage, du mixer et du montage. Dans le projet Rooms qui atteint son point culminant avec Twin Rooms, ils mettent en scène De Lillo et le cauchemar de la vidéosurveillance. La ville comme une mosaïque de micro-visions – énorme « digital room » contiguë à la scène-dispositif représentant une chambre d’hôtel – accueille un amas incontrôlable d’images et une tentation psychotique à leur consommation.

Giacomo Verde est « médiactiviste », computer artist et technoperformer. Il a construit son esthétique sur l’idéologie dulow tech pour socialiser les savoirs technologiques. Par le biais du théâtre, il soutient la cause de la démocratie et de l’accès aux technologies et pose la question politique des images télévisuelles. Le teleracconto — ou le fait de filmer en direct des objets en gros plans, conjointement à leur vision sur moniteur (critique ironique de l’univers médiatique) selon une modalité théâtrale (techno) narrative pour enfants — est devenu un procédé clé de son théâtre : les images sont créées en live et les effets numériques constituent la toile de fond vidéo qui se modifie suivant le cours de la narration en OVMM inspiré des Métamorphoses d’Ovide. C’est une manière d’affirmer de façon provocatrice que « la télévision n’existe pas » et que « toutes les images sont abstraites ». Storie Mandaliche 2.0 (2003) créé avec Zonegemma et Xear.org est l’un des premiers exemples de spectacle interactif appliqué à une dramaturgie hypertextuelle (textes d’Andrea Balzola).

Omaggio a Frida Kalho. Ricordando lo spettacolo di Lepage tinto di azzurro
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Approfittando dell’evento inaugurato il 20 marzo alle Scuderie del Quirinale, ovvero la mostra della pittrice messicana Frida Kalho, ricordiamo l’omaggio teatrale colorato che ne fece Robert Lepage nel 2002.

Su una drammaturgia costruita quasi esclusivamente sulle lettere e sul diario della Kalho dalla stessa attrice protagonista, Sophie Faucher, già drammaturga e interprete di The geometry of miracle, Robert Lepage ha firmato la regia di Apasionada (divenuto poi La casa Azul) in collaborazione con la ben consolidata équipe tecnica di Ex machina, il centro di produzione teatrale e multimediale da lui fondato e diretto.
La produzione è ispano-canadese-austriaca. Qua una gallery:

Così la Faucher spiega il vero tema dello spettacolo:

Apasionada n’est pas une biographie de Frida. C’est notre Frida, vue de l’intérieur. C’est vraiment inspiré de son journal. C’est elle qu’on va entendre parler… J’ai eu envie d’un spectacle où on mettrait de l’avant sa parole et pas seulement sa peinture.” 

All’epoca dell’ideazione dello spettacolo venne inaugurata proprio a Montréal il 4 novembre 1999 una mostra interamente dedicata all’arte moderna messicana (1900-1950) – la prima realizzata in Canada dal 1943 – con sezioni speciali dedicate alla fotografa italiana Tina Modotti, ai muralisti Orozco, Siqueiros e Rivera, e naturalmente alla pittrice Frida Kahlo.
modotti
Lo spettacolo
Un enorme schermo rettangolare “a vista” dall’intelaiatura metallica grigia illuminato da una fluorescente luce blue domina in posizione centrale la scena. lu come la casa di Frida (la Casa Azul) a Cayoacan a Città del Messico, tra Calle Allende e Calle Londres. Lo schermo, una volta attenuata la luce blu, si mostra nella sua vera natura: è un velo che permette sia la proiezione delle immagini sia la visione di quello che vi accade dietro, nella zona “agita” dagli attori, restituendo percettivamente talvolta l’effetto flou, talvolta quell’effetto definibile come “dissolvenza fissa”, in questo caso una sovrimpressione di immagini (bidimensionali) con corpi (tridimensionali), mentre il passaggio da una zona all’altra della visione (lo schermo e l’azione dietro lo schermo) diventa una vera dissolvenza incrociata.  Luci blu dominano per la maggior parte dello spettacolo: 

 Gli episodi sono narrati in prima persona dalla protagonista ma senza coerenza cronologica; sembrano flash isolati, a partire dal momento della morte di Frida, andando a ritroso nel tempo, dalla famosa mostra-evento a Città del Messico nel 1953, a cui presenziò distesa in un letto decorato con mille oggetti, fotografie e specchi, ripercorrendo le tappe del suo rapporto con Rivera rivissute sulla scena come fossero flashback, tra desiderio d’amore, senso d’angoscia e sofferenza. I coloratissimi e drammatici quadri di Frida, i murales “politici” di Diego i filmati in bianco e nero dell’America degli anni Trenta e Quaranta e le pagine del diario della Kahlo in proiezione, infatti, fanno da contrappunto visivo agli episodi della tormentata vita della pittrice messicana.

L’attrice Sophie Faucher è la protagonista, affiancata da Patric Saucier (Diego Rivera) e da Lise Roy (nella parte della Morte). La scenografia è ridotta a pochi elementi di arredo: l’appendiabiti, il cavalletto, i ponteggi ed infine il baldacchino, che una volta privato delle quattro aste diventa, nel corso dello spettacolo, tavolo o letto d’ospedale, oppure sollevato in verticale, finestra o telaio che inquadra un dipinto. Ancora una volta caratteristica della scena di Lepage è, dunque, la trasformabilità. .

Attraverso lo schermo, nella prima scena, si intravede una struttura di legno, un casottino da dove spicca in proiezione uno degli autoritratti di Frida; da una piccola apertura si affaccia fino al busto Frida, sovrapponendo all’immagine il suo corpo.
La struttura di legno si rovescia all’indietro lentamente e diventa un letto a baldacchino dove Frida è sdraiata come sul punto di morte, in mezzo ai suoi coloratissimi vestiti da tehuana. Nella stanza si intravedono alla sinistra del palco il cavalletto e i colori. Le fa compagnia una figura femminile senza capelli, vestita come un monaco buddista, che la ricopre completamente con lenzuola.
E’ la morte, sua compagna in vita, che Frida nei suoi diari chiama familiarmente la pelona, la pelata.
Iniziano le proiezioni di scritte sullo schermo. Sono le lettere e le pagine del colorato diario di Frida (meraviglioso memoriale ricco non solo di parole e inchiostro ma di pittura, colori e macchie) scritto tra il 1944 e il 1954. Le parole scorrono letteralmente, come un fiume in piena, raccontando dettagli della vita, impressioni momentanee, descrivendo minuziosamente la terribile verità del dolore che l’ha accompagnata per tutta la vita. L’episodio dell’incidente. Lentamente, lentissimamente il tram di legno va a scontrarsi contro un robusto autobus. La ringhiera di metallo la trapassa letteralmente all’altezza del bacino, sventrandola. Era il 17 settembre 1925. Frida aveva diciotto anni ed era con il fidanzato, Alejandro Gomez Arias. L’episodio è raccontato attraverso le parole di Frida e dello stesso Alejandro che scorrono e a voce alta contemporaneamente.

“Il tram si muoveva lentamente, ma l’autista del nostro mezzo era giovane e molto nervoso. Quando l’autobus ebbe girato l’angolo, l’autobus finì schiacciato contro un muro… La prima cosa a cui pensai fu il balero (giocattolo) dai bei colori che avevo appena comprato e che stavo trasportando….L’urto ci catapultò in avanti e un corrimano mi trafisse nello stesso modo in cui una spada trafigge il toro. Un uomo vide che avevo una tremenda emorragia”. “Perduta la verginità per un tranvai.”

Il fondale si colora di rosso.
L’episodio del primo fugace incontro con Diego è raccontato da un breve dialogo tra l’artista in cima ai ponteggi mentre dipinge il murale La creazione nell’Anfiteatro della Scuola Nazionale Preparatoria e la moglie Lupe Marin come modella.
“Dipingi la creazione del mondo?”, chiede Lupe a Diego davanti all’enorme affresco…
“No, la creazione della propaganda”. E dall’alto della scala in tutta la sua robusta presenza Rivera declama a voce alta con quattro slogan che l’arte deve essere a disposizione del popolo, per la liberazione del popolo.
Il Rivera artista della rivoluzione, la rivoluzione marxista, il Diego membro del partito comunista messicano, poi espulso e mai riammessovi, che aveva conosciuto in Russia Stalin, aderito alla Lega internazionale comunista, ospitato Trotzky, da cui poi si dissociò, dipinto la fatica dei contadini e la forza sovvertitrice della rivoluzione, il sangue dei rivoluzionari che concima la terra, Zapata e il motto “Tierra y libertad”, è così liquidato.
Ora è Frida con i lunghi abiti, avvolta nel suo rebozo a dipingere, in un angolo davanti ad un cavalletto che si colora delle tonalità che lei stessa nomina, associandole a elementi naturali, affetti, o pure fantasie:

VERDE: luce calda e buona
MARRONE: colore del mole (salsa al cioccolato), della foglia che cade. Terra.
GIALLO: follia, malattia, paura. Parte del sole e dell’allegria.
BLU COBALTO: elettricità e purezza. Amore.
NERO: nulla è nero, veramente nulla.
VERDE FOGLIA: foglie, tristezza, scienza. L’intera Germania è di questo colore.
VERDE SCURO: colore delle brutte notizie e dei buoni affari.
BLU MARINO: distanza. Anche la tenerezza può essere di questo blu.
MAGENTA: Sangue? Chissà!

Il primo vero incontro con l’artista Diego Rivera è raccontato in scena da un breve frammento di dialogo: Frida giovanissima decide di mostrare al grande muralista dellamexicanidad i suoi lavori; sono tre piccoli quadri. Lei è titubante, timida, così minuta che a stento arriva ad allungare i suoi quadri al maestoso maestro in cima ai ponteggi ma esorta Diego a dirle la verità: “Se non vi piacciono ditemelo, devo lavorare per guadagnare”. “Hai talento”. Lei lo invita a casa sua. Poi scene dal matrimonio, colori, musiche, danze e spari. La vestizione: le sue gonne lunghe, il rebozo, i gioielli:

“Diego mio padre, figlio, fidanzato. Diego: io Appartengo a te e alla tua arte.”

Ancora una volta – come costante del teatro di Lepage – i personaggi si scoprono l’uno “specchio dell’altro”. Se in La face cachée de la lune i personaggi-specchio sono i due fratelli, uniti nel liquido amniotico e dal cordone ombelicale della madre, ma separati nella vita, in Les aguilles et l’opium è il protagonista che rivive il proprio dramma d’amore (sofferto come crisi di astinenza) sulla falsariga di ben note storie di dipendenze (Cocteau) e di passioni e separazioni (Miles Davis e Juliette Greco). InVinci il protagonista, fotografo canadese, arrivato in Europa dopo la morte di un amico, percorre un viaggio verso i luoghi di Leonardo specchiandosi con il genio dell’Umanesimo su interrogativi relativi alla propria “integrità artistica e morale”.
Cambio di scenario: arrivano in America nel novembre del 1931 a Detroit, lasciandosi alle spalle un Messico in condizioni catastrofiche: recessione, guerra civile, miseria. Diego deve dipingere le pareti dell’Institute of Arts: 163 metri quadrati di affreschi “per celebrare”, come disse Rivera, “la grande saga della macchina e dell’acciaio” con i soldi della Ford Motor Company, ma soprattutto per lavorare ad una retrospettiva dedicata ai suoi lavori per il Museo d’Arte moderna. Nel cuore dell’America capitalista. Rivera sogna una rivoluzione anche per il suolo nordamericano. Tempo prima aveva scritto nel suo “Manifesto per un’arte rivoluzionaria e indipendente” (redatto insieme con Trotzky e Breton) nel 1929:

“Ho sempre sostenuto che l’arte in America se arriverà un giorno a esistere, sarà il prodotto della fusione della meravigliosa arte indigena, venuta dalle profondità immemorabili del tempo, nel centro e nel Sud del Continente, e dell’arte del lavoratore industriale del Nord.”

Lo schermo teatrale diventa il grande schermo del cinema: Mae West, chiamata da Frida la più straordinaria “machine a vivre” è ripresa da una pellicola che la ritrae in posa da statua della libertà (in uno dei dipinti di Frida, Il mio vestito è appeso là, il volto della star del cinema domina un enorme cartellone pubblicitario).
L’America rappresentata è quella delle macchine e del cinema, di cui. Frida non è affatto entusiasta. È il paese dei “gringos”, come si legge nella sua lettera datata “3 maggio 1931” e proiettata in scena:

“I gringos non mi piacciono proprio per niente….Non mi piace il loro modo di essere, la loro ipocrisia e il loro disgustoso puritanesimo, i loro sermoni protestanti, la loro boria; questo loro essere “very decent” e “very proper”.”

Il grave incidente non le permetteva di avere figli, e nonostante questo, con ostinazione non volle rinunciare a provarci.
Dopo un taglio cesareo, un secondo aborto spontaneo quando era in America, a Detroit, il 4 luglio 1932, finì in un lago di sangue. Dallo schermo si intravede dentro una vasca da bagno inclinata, Frida, immersa nel suo stesso sangue. Nel buio della scena fuoriescono solo i contorni della vasca intinti di un rosso denso, le braccia intorno alla testa in una posa da farfalla e un’abbagliante luce bianca. La scena ricalca chiaramente, per quanto riguarda la scelta dell’insolito punto di vista, il quadro della Kahlo Ciò che l’acqua mi ha dato in cui l’acqua e il contenuto della vasca da bagno sembra quasi rovesciarsi addosso all’osservatore. Viene portata all’ospedale. Terribile ricordo dipinto in Ospedale Henry Ford.

In America Rivera stava intanto dipingendo il grande murale per il Rockfeller Center di New York: Men at the crossroads. Ecco Diego in cima alla scala mentre il murale si mostra davanti al pubblico in sala in tutta la sua forza espressiva e comunicativa.
L’incontro con la capitalista America è segnato dalla lettera, proiettata in scena, di Rockfeller di “sostituire quell’uomo tra la folla somigliante a Lenin perché è una vera offesa””. Il murale, nonostante la protesta popolare, viene coperto ancora incompiuto con carta catramata e pannelli e successivamente staccato e distrutto. Piccolo particolare: nello spettacolo è Diego che lo fa in mille pezzi, non la committenza: l’immagine sullo schermo del murale si trasforma in tanti piccoli pezzi di un puzzle. In scena proiezioni di fotografie dell’epoca e filmati in bianco e nero: la produzione industriale, la grande Depressione, ma anche l’America del jazz, delle orchestre.
Lettera del 1933: Cristina la sorella di Frida, viene abbandonata dal marito e Frida la invita ad andare a vivere con loro, insieme con la figlia. In seguito Cristina diventa l’amante di Diego, episodio raccontato nello spettacolo come un “passaggio d’abito” durante una danza. Ogni situazione significativa viene sottolineata da una frase di Frida tratta dal diario e da un quadro.
Divorzio. Viene proiettato il Doppio ritratto. È il quadro più famoso, anche quello più importante quanto a dimensioni (i quadri della Kahlo, come i retablos votivi, hanno piccole dimensioni). È la Frida addolorata per i continui tradimenti. Con un bisturi recide la vena da cui scorre il suo stesso sangue. Il cuore è esposto. Herrera definisce quella dualità una “immagine di autonutrimento: Frida conforta, protegge o fortifica se stessa”. E’ la separazione a seguito del quale si taglierà i lunghi capelli. Ancora una volta, dolore.
All’episodio dell’incontro e del legame amoroso con Trotzky, esiliato politico in Messico e loro ospite, è dedicato pochissimo spazio. Lei è vestita con i suoi vestiti con grandi balze e lo scialle. E’ Diego a presentarli, loro si abbracciano nascosti dietro un cavalletto.
Ritorna il baldacchino questa volta in verticale: dalla piccola apertura la protagonista racconta del sogno, minuziosamente descritto nel diario, di quando da piccola aveva disegnato con un dito nel vetro appannato una porta e aveva immaginato di attraversarla e incontrare un’amica:

“Dovevo avere all’incirca sei anni, quando sperimentai con intensità l’amicizia immaginaria con una bambina più o meno della mia età. Avevo alitato sul vetro della finestra della mia camera di allora e con un dito avevo disegnato una porta. Piena di gioia e di urgenza, varcai quella “soglia” con l’immaginazione… Scesi in fretta nel cuore della terra dove la mia amica immaginaria stava aspettando

Non ricordo né la sua faccia né il suo colore. Ma so che era allegra, che rideva molto. Senza emettere suono. Era agile e danzava come se il suo corpo non avesse peso. La seguivo in tutti i suoi movimenti e mentre danzava le raccontavo i miei problemi segreti. Quali? Non ricordo. Ma dalla mia voce sapeva tutto di me…Ritornando alla finestra rientrai dalla stessa porta disegnata sul vetro. Quando? Quanto tempo avevo passato con lei? Non so. Forse un secondo, forse migliaia di anni… ero felice. Annebbiai la porta con la mano ed essa scomparve”. 

E’ con lei l’altro personaggio femminile, il doppio del sogno, colei che non l’abbandona mai, la morte e che ora assume la posizione sdraiata sopra il suo baldacchino come lo scheletro del suo dipinto Il sogno (1940).
Frida è ora nel letto d’ospedale: il cavalletto da verticale si inclina in orizzontale mentre lei è letteralmente avvinghiata sopra, e diventa tavola operatoria.

I medici le pongono una placca di metallo come una seconda colonna vertebrale. Frida, sollevata in alto e sospesa, avvolta da costringenti cinghie bianche, diventa un quadro: è La colonna spezzata dipinto nel 1944 dopo l’ennesimo intervento chirurgico alla colonna vertebrale che l’aveva costretta e imprigionata in un busto rigido. Alla separazione seguì una seconda unione in America, l’8 dicembre 1940, il giorno del cinquattaquattresimo compleanno di Diego. La struttura a baldacchino, levate le appendici verticali, diventa un tavolo di ufficio: davanti a una ufficiale del Governo americano si risposano per la seconda volta. Lui è malato: ha un tumore al pene e accetta la cobaltoterapia che lo guarirà, mentre non guarirà mai dall’infedeltà.. 

1954: davanti al tavolo sono sedute ora una di fronte all’altra Frida e la morte. Tra loro quello che sembra lo specchio che Frida usava per i suoi autoritratti (“La mia vita un’ossessione: io”) in realtà è solo una cornice di legno vuota. La figura femminile l’attraversa, le due donne si uniscono e si allontanano su una sola sedia a rotelle (a Frida era stata amputata una gamba pochi mesi prima di morire).

“La morte non è niente. Ho passato la mia vita a morire”.
“Uniremo le ceneri io e Diego e saremo come due soli nell’eternità”.

Alcune considerazioni

Come si deduce dalla trama dello spettacolo, mancano all’appello moltissimi episodi chiave della vita di Frida Kahlo: la formazione artistica e intellettuale presso la Scuola Nazionale Preparatoria, quella della “generazione illuminata dagli ultimi fulgori della rivoluzione armata”. Niente della Frida dipinta da Diego nella Ballata della rivoluzione proletaria mentre distribuisce fucili ai rivoluzionari, né della finale svolta “sociale” e del suo interesse per i testi marxisti a partire dal 1948 (quando fu riammessa nel Partito comunista). Niente della straordinaria cerimonia funebre in cui la Kahlo viene acclamata nel suo ultimo viaggio come vera eroina comunista, mentre la cassa veniva coperta da una bandiera rossa con falce e martello. Manca anche Tina Modotti. Nessun accenno, inoltre, alla lunga serie di amanti (uomini e donne). Trattata marginalmente la sua storia con Trotzky. Niente sul suo controverso rapporto con i Surrealisti (“Pensavano che fossi surrealista ma non lo ero. Non ho dipinto sogni. Ho dipinto la mia realtà”).
Si è piuttosto privilegiato, più che la tematica politica, la relazione intima tra Frida e Diego, ricca di folgorante passione, ma anche di tradimenti, di dolore, di separazioni e di ricongiungimenti; di coraggio e di stoica sopportazione del male fisico; dell’arte che racconta la Storia e di quella che svela la verità indicibile della sofferenza.
Lepage ha strutturato l’intero spettacolo sul piano della “visualità”, riducendo al minimo l’apparato tecnologico: le pitture di Frida e di Diego sono restituite in proiezione nella loro vivacità di forme e colori che riempiono la scena con una vera esplosione di immagini di straordinario impatto e di grande suggestione, mentre le parole del diario vengono mostrate nella loro calligrafia originaria, diventano così una vera e propria “scrittura di luce”

Robert Lepage e la pittura
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Pubblicato su HYSTRIO: numero speciale su Teatro e Pittura.

Robert Lepage premio Europa 2007 è giustamente ricordato per alcuni spettacoli che rimarranno delle pietre miliari della Storia del Teatro contemporaneo, primo fra tutti Les sept branches de la riviére Ota (1995) memorabile esempio di epopea teatrale dedicata alla tragedia di Hiroshima in cui le proiezioni video e i relativi supporti che componevano le sette porte di una casa giapponese, risultavano perfettamente integrati all’epico racconto teatrale di 50 anni di storia dell’umanità. In tutti i suoi spettacoli i riferimenti alle “arti della visione” (considerando cioè sia pittura che cinema, citando Ragghianti) sono molteplici, talvolta espliciti, talvolta sotterranei, altre volte si tratta solamente di citazioni che impreziosiscono la materia teatrale (e forse per questo motivo Longhi, proprio a proposito dei mille riferimenti de I Sette rami del fiume Ota –da Madame Butterfly a Hiroshima mon amour- parla di un emblematico caso di “teatro postmoderno”).

In Vinci (1986) il protagonista, un artista quebecchese in visita a Firenze alla ricerca del senso della vita e della sua arte, incontra Mona Lisa che sorseggia una Coca in un Burger King e Leonardo stesso in un bagno pubblico. Vengono poi proiettati in scena i disegni di Leonardo, simbolo del superamento di quella mentalità che contrapponeva le arti liberali alle arti meccaniche e riprodotti la sua scrittura “al contrario”, i suoi quadri, i disegni preparatori e i progetti per la costruzione di macchine da guerra (che diventano il motivo del dilemma morale dell’artista). Tra le opere, anche il Canone delle proporzioni, il cartone per l’affresco de La Madonna col bambino e Sant’Anna, La Gioconda proiettati in negativo fotografico.

In Polygraphe (1987) i riferimenti sono evidentemente più cinematografici, legati all’ambito delle spy stories. Nello spettacolo è più volte evocato lo spettro della morte: nella scena iniziale al corpo della protagonista Lucie si sovrappone in proiezione l’immagine spettrale di uno scheletro che ha il suo corrispettivo nella scena finale: il corpo nudo di François sospettato di omicidio e sottoposto alla macchina della verità (polygraphe, in francese) diventa uno scheletro. Lo scheletro come presenza funesta anticipatrice di eventi tragici (come nella scena della Danse macabre di Saint-Saens presente ne La règle du jeu di Jean Renoir, 1939) non può che richiamare sia le iconografie delle medioevali danze macabri o i Trionfi della Morte che raccontano l’umana Commedia o la moralité, che le pitture surrealiste di Dalì e gli inquientanti manichini dei quadri metafisici di De Chirico. Come nel surrealismo e nella metafisica lo scheletro funziona quale dépaysage, oggetto insolito ed estraneo alla generale collocazione della storia inserito per associazione illogica e psichica, a metà strada tra visionarietà onirica e proiezione inconscia dei personaggi.

In Les Aguilles et l’Opium (1991) la spirale in movimento ciclico, simbolo della dipendenza che angoscia il protagonista altro non è che un frammento della scena dell’ermafrodito tratta dal film Le sang d’un poète di Cocteau, 1930 con una citazione anche dai Rotorelief di Duchamp. Ne The geometry of miracle (1996) protagonista è l’architetto americano Lloyd of Right e la sua amicizia con il filosofo russo Georges Gurdjeff.  Coreografie sincronizzate, visualità, movimenti e scene simultanee sono le caratteristiche dello spettacolo mentre un unico tavolo da disegno, molta elettronica e luci colorate formano la scenografia e l’atmosfera visiva. L’architetto è circondato dagli allievi-seguaci della scuola-comunità di Taliesin (concepita all’opposto da quella della Bauhaus, con una familiarità di vita e di lavoro dei giovani con il maestro). Proprio la personalità dell’architetto modernista, creatore di Casa Kauffmann e del Museo d’arte moderna Gugghenheim, il suo richiamo all’Oriente, all’arte giapponese – arte dell’essenzialità -, la formulazione teorica e pratica di un’architettura come composizione organica, l’edificio come organismo, elemento naturale che armonizza l’interno con l’esterno, si rivela determinante per definire la scena di Lepage in quei termini di “semplicità” e di integrazione di cui parla lo stesso Wright.  La parte tecnologica prevedeva un uso di giganteschi video fondali che illustravano i progetti architettonici di Wright per la Chicago degli anni Trenta. In Andersen Project (2006) vengono rievocate in proiezione attraverso la struttura scenografica cava dotata di un originale sistema pneumatico, i “panorami” e i costumi di fine Ottocento attraverso le viste fotografiche dell’Expo di Parigi che Andersen, uomo moderno e attratto dalle tecniche del suo tempo, visitò.

Lo spettacolo con una maggiore presenza “pittorica” è senz’altro quello dedicato alla tormentata biografia di Frida Khalo e scritto con Sophie Faucher, La casa Azul; Lepage ha strutturato l’intero spettacolo sul piano della “visualità”, riducendo al minimo l’apparato tecnologico. La scena rievoca episodi della vita della pittrice messicana traducendo in scena i suoi quadri molto amati dai surrealisti e struttura il palco come fosse un gigantesco schermo (o se si preferisce, come fosse un enorme parete di murales) incorniciato dentro la boite teatrale davanti (e dietro) al quale gli attori agiscono. La scenografia è ridotta a pochi elementi di arredo: l’appendiabiti, il cavalletto, i ponteggi ed infine il baldacchino, che una volta privato delle quattro aste diventa, nel corso dello spettacolo, tavolo o letto d’ospedale, oppure sollevato in verticale, finestra o telaio che inquadra un dipinto. Ancora una volta caratteristica della scena di Lepage è, dunque, la trasformabilità. Il baldacchino/letto di morte evoca molti soggetti dei quadri della Khalo e il cavalletto è l’oggetto davanti al quale l’attrice Sophie Faucher con i lunghi abiti da tehuana, avvolta nel rebozo dipinge. Le pitture di Frida e del muralista Diego Rivera sono restituite in proiezione nella loro vivacità di forme e colori che riempiono la scena con una vera esplosione di immagini, mentre le parole del famoso diario multicolore della Khalo vengono mostrate nella loro calligrafia originaria, diventano così una vera e propria “scrittura di luce. Particolarmente intenso il momento della separazione in cui Lepage sceglie di proiettare il Doppio ritratto: è il quadro più famoso, anche quello più importante quanto a dimensioni (i quadri della Kahlo, come i retablos votivi, hanno piccole dimensioni). È la Frida addolorata per i continui tradimenti di Rivera. Con un bisturi recide la vena da cui scorre il suo stesso sangue. Il cuore è esposto. Herrera la definisce una “immagine di autonutrimento: Frida conforta, protegge o fortifica se stessa”. O ancora la rievocazione del grave incidente avuto in gioventù che non le permise di avere figli, e nonostante questo, con ostinazione non volle rinunciare a provarci.  Dopo un taglio cesareo, un secondo aborto spontaneo quando era in America, a Detroit, il 4 luglio 1932, la Khalo finì in un lago di sangue.  Dallo schermo del palco si intravede dentro una vasca da bagno inclinata, Frida  immersa nel suo stesso sangue. Nel buio della scena fuoriescono solo i contorni della vasca intinti di un rosso denso, le braccia intorno alla testa in una posa da farfalla e un’abbagliante luce bianca. La scena ricalca nella scelta dell’insolito punto di vista sottinsù, il quadro della Kahlo Ciò che l’acqua mi ha dato in cui l’acqua e il contenuto della vasca  sembra quasi rovesciarsi addosso all’osservatore.

Le macchine della visione nel teatro di Robert Lepage. Andersen Project
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Pubblicato su "The scenographer" .
Il canadese Robert Lepage (Québec city, 1957) è uno dei più acclamati registi e intepreti del teatro contemporaneo. Insieme con lo stage designer Carl Fillon e con lo staff tecnico della sua equipe multimediale Ex machina, con sede a Québec city presso un’antica caserma dei pompieri, ha progettato e dato vita ad alcuni tra i più emblematici esempi di uso drammaturgico della tecnica e di integrazione del video in scena. Da Les aiguilles et l’opium a The sevens streams of the river Ota a La face cachée de la lune al recente Andersen project, spettacolo “solo” commissionato dalla Fondazione Andersen per il bicentenario della nascita dello scrittore danese presentato con lo stesso Lepage unico interprete a RomaEuropa Festival.

 

ANDERSEN PROJECT

La trama.

 Il protagonista è FREDERIC LAPOINT, paroliere di cantanti rock di successo, un albino di Montréal in crisi sentimentale e temporaneamente separato dalla moglie, a cui viene commissionato da parte dell’Opéra Garnier di Parigi la riscrittura della favola La driade di Andersen. E’ la storia di una ninfa abitante dentro la cavità di un albero che rinuncia all’immortalità per visitare per un giorno Parigi. Chi lo ha chiamato intende produrre, infatti un’opera in musica per ragazzi. L’altro protagonista è il manager francese che deve organizzare l’evento; impegnatissimo e sempre intento in lunghe telefonate, ha un’ossessione per il sesso che soddisfa frequentando un locale a luci rosse gestito da un graffitista marocchino, Rashid. Entra in scena anche Hans Christian Andersen in persona, con la sua passione per i viaggi e il suo amore non consumato per Jenny Lind. Lo spettacolo ricorda, oltre alla Driade, anche un’altra favola di Andersen, L’ombra. Tutti i personaggi, interpretati dall’eclettico Lepage, convivono con un’ombra che ne rivela la personalità interiore, le aspirazioni ideali ma anche gli obiettivi materiali e le deviazioni sessuali. Un’ombra che se lasciata libera, come nel racconto di Andersen, può portare alla rovina. Frederic arriva a Parigi pieno di speranze ma rimarrà deluso, il manager è abbandonato dalla moglie, mentre Rashid gira libero per i metro a disegnare con lo spray.

 

La scena come un bulbo oculare.

Per Andersen Project Lepage e il giovane  Le Bourdier alla prima prova di stage design teatrale, ma già collaboratore di Ex machina per lo scenario cinematografico di La face cachée de la lune, inventano una struttura scenica molto originale, guardando alla scenotecnica barocca e mostrando come si possa arrivare alla stessa illusione percettiva della realtà virtuale usando mezzi artigianali ed effetti ottici. Per lo spettacolo Lepage crea una scena avente diversi livelli di profondità e di azione (come già aveva sperimentato in The seven streams of the river Ota) e soprattutto per evocare un’epoca come quella di fine Ottocento, ricca di scoperte tecniche e scientifiche, cerca di ricreare teatralmente l’effetto di stupore e meraviglia prodotto nel pubblico dai nuovi dispositivi ottici. La scena è organizzata in profondità, con diverse aree di azione corrispondenti ad altrettanti meccanismi scenici all’interno di una cornice che permette di nascondere i “trucchi” (le macchine e i binari) nel sottopalco e a lato palco. Più arretrato è più imponente, uno spazio cubico prospettico praticabile, un  “panorama” (chiamato dai tecnici appunto, “the landscape”) rivestito di una speciale stoffa che grazie a un sistema pneumatico, può aderire all’interno della parete o gonfiarsi verso l’esterno deformando l’immagine proiettata frontalmente sulla sua superficie che sembra così un guscio o un bulbo oculare. La magia di questa tecnica permette un’artigianale ed efficace integrazione di corpo e immagine (grazie a un leggero rialzamento centrale della struttura), restituendo l’illusione di profondità, ovvero un falso 3D, con un’invisibile e repentina transizione da uno stato all’altro (concavità-convessità); il movimento di arretramento e avanzamento dell’intero panorama su binari, inoltre, fornisce  alla scena un’ulteriore aggiunta di profondità di campo. Il concetto di tridimensionalità come è noto, ha a che fare con la stereoscopia: abbiamo due occhi e percepiamo la tridimensionalità delle cose. Vediamo un’immagine unica ma un occhio vede diversamente dall’altro. In fondo la realtà virtuale si basa su questa percezione tridimensionale., riuscendo a far vedere ai due occhi due immagini diverse. La prospettiva qui, come già intuiva la trattativa e la pratica scenica del Seicento “perde il suo carattere illusionistico e si avvia a diventare lo strumento di identificazione tra spazio reale e spazio scenico” (F.Marotti).

La genesi dell’opera: Hans Christian= Robert?

Su stessa ammissione di Robert Lepage, Andersen Project rappresenta una “summa” di tutti i sui lavori, non solo dei cosiddetti one-man show. Vi ritroviamo infatti, i temi della solitudine, dell’abbandono, dell’incomunicabilità, della sessualità inappagata e della tensione romantica verso un amore o una fama che non si realizza, già presenti in Les aiguilles et l’opium, Vinci, La face cachée de la lune, Elsinore; ma riconosciamo anche la figura dell’artista indipendente, libero dagli imperativi del mercato dell’arte, già presente in Vinci e Busker’s opera; e le soluzioni visive e tecnosceniche già usate in The seven streams of the river Ota. Ritorna la biografia dell’artista illustre come in Vinci (Leonardo), La casa azul (Frida Kalho/Diego Rivera) e Les aiguilles et l’opium (Jean Cocteau e Miles Davis) di fronte alla cui storia il personaggio contemporaneo si rispecchia. L’artista danese, principe della letteratura per bambini, è così visibile in controluce attraverso la vita di personaggi d’oggi che si trovano di fronte a scelte personali in parte simili, ma cento anni dopo. La figura centrale diventa una specie di modello davanti al quale i personaggi (per lo più artisti visivi) amano confrontarsi e interrogarsi: Leonardo da Vinci (incarnazione dell’unione di arte e tecnica) e Jean Cocteau (sublime esempio di ecclettismo artistico) sono tra le presenze topiche della scena di Lepage, anche in forma di citazioni iconografiche o testuali dalle loro opere[1].

Il tema scenografico dello specchio (o dei personaggi-specchio) è una costante quasi ossessiva degli spettacoli di Lepage e secondo il critico James Bunzli introdurrebbe un inequivocabile elemento autobiografico: il personaggio e i suoi molteplici doppi, non sarebbero altro che lo stesso Lepage, il quale parlerebbe di sé specchiandosi letteralmente nelle loro angosce morali, nelle loro crisi d’amore, di solitudine, nei loro dubbi sull’arte e sulla vita[2].

In Andersen project Lepage scopre in effetti, un’affinità inimmaginabile con lo scrittore danese Andersen, riferita soprattutto all’identico amore per i viaggi e al tema dell’ossessione sessuale. The Life of a Storyteller di Jackie Wullschlager e i diari si rivelarono al momento della commissione da parte della Fondazione Andersen davvero illuminanti. Svelarono infatti lati inediti della vita dell’artista ottocentesco; ed è proprio intorno a questi aspetti che lo spettacolo fa perno: la doppia vita che si nasconderebbe dietro il romanticismo di Hans Christian Andersen che non si volle mai sposare con la sua amata Jenny Lind:

 “In the Romantic era men would write passionate letters to each other, yet it didn’t mean they wanted to sleep together; Andersen’s romanticism, though, went over the top and he wrote open love letters to a lot of young men. He also had great passions for a few women, although they were women he was pretty sure it would be impossible to love – Jenny Lind, for example, one of the great Swedish sopranos, whose touring schedule made a relationship out of the question. It was discovering that this man best known for writing children’s stories had a double life, a strange, troubled personal history, that made me agree to do a show about him”.

 Come ricorda lo stesso Lepage, sono molti i  punti in comune tra la sua personalità e Andersen, oltre l’ossessione sessuale: alcune inquietudini della propria infanzia, la questione della lingua – da sempre tema sotterraneo dei suoi spettacoli, fortemente connesso con le aspre vicende politiche del separatismo franco-canadese- e la ricerca di un riconoscimento internazionale dei propri lavori:

 “It’s hard to talk about what Andersen and I have in common without sounding pretentious, but there’s a lot about him that I identify with – not least his insatiable sexual desire and constant mood of sensuousness. The difference between us is that I have a very intense sexual life and he never did. There is a connection between sexuality and creativity, and one of the themes in The Andersen Project is to do with the imaginative and sexual development of children. Reading fairytales to children expands their imaginations. As they grow older, they replace their bedtime stories with masturbation and sexual fantasy. I always worried that I was a sex maniac because I thought about sex all the time, but actually it’s part of the imaginative process. If you’re a storyteller and spend your time imagining things, your sexual imagination is likely to be just as vivid. Perhaps Andersen’s sexual uncertainty reflects his difficult childhood.

It’s no coincidence that it was Andersen who wrote The Ugly Duckling, a metaphor for the awkwardness of childhood and the blossoming of adulthood. I can identify with this, too: where Andersen was tall and ungainly, I had alopecia. Both of us experienced how cruel children can be. That can be tough, but being put through the mill very young can also be an advantage because you don’t see the world in the same way. Another thing that connects us is the need to travel. A lot of artists in the 19th century felt that they had to travel outside their own country to be recognised. But Andersen felt he had more reason than most. First, he wrote in Danish, a language that, for a lot of people in Europe, was like speaking backwards. Second, he wrote for children, so he wasn’t taken     seriously. To be recognised, he had to go Germany and France to mingle among the great writers of the day. He’d come back to Denmark with all of that recognition. If you are a Quebecois artist, as I am, you feel the same impulse. Even an English-Canadian feels he has to be approved by London, Paris or New York. But Andersen sometimes did things for the wrong reasons – just like the   heroes in his stories”.

Il motivo della sessualità repressa volontariamente o vissuta conflittualmente sarebbe il nucleo dello spettacolo:

 “My first idea for The Andersen  Project was to do with masturbation. The theme came about not in a sleazy, crass way, but as a way of trying to understand Andersen. I don’t want to shock – I just want to show Andersen’s lucid vision of the human condition. And the theme makes extra sense because a solo show is the most solitary form of performance and masturbation is the most solitary form of sex!”.

 Ogni spettacolo “solo” di Lepage ha a che fare con la solitudine del personaggio. Solitudine che si mostra nel dolore e nella ricerca di una via di uscita attraverso l’altro o l’autoanalisi. Da Vinci a Les Plaques tectoniques il personaggio subisce nel corso della pièce una vera trasformazione, esteriore e interiore, grazie a un salvifico rispecchiamento con l’altro-da sé. Il tema comune a tutti gli spettacoli è proprio quello del vedersi dentro, del guardarsi come non ci siamo mai visti, del capire le angosce che ci assillano e le contraddizioni della nostra vita per superarle. Il motivo di partenza è sempre una rottura, di natura affettiva, psicologica o morale; il dramma sociale – ricordava Victor Turner – inizia da una perdita[3]: il dramma, letto in senso rituale e antropologico, è infatti secondo Turner, “un’unità di processo anarmonico o disarmonico che nasce in situazioni di conflitto” . In Dal rito al teatro e in Antropologia della performance, Turner espone il tema del dramma sociale, che ha luogo quando nell’ambito della vita quotidiana di una comunità si crea una frattura nelle tradizionali norme del vivere che genera un’opposizione, la quale a sua volta si trasforma in conflitto. Questo, per essere risolto, necessita di una rivisitazione critica dei particolari aspetti dell’assetto socio-culturale fino ad allora legittimato. Una rottura inaugura, quindi, il “social drama”, la crisi apre il momento della “fase drammaturgica”.

Tutti gli spettacoli “solo” di Lepage iniziano da una mancanza, uno squilibrio, (l’hamartia greca), da un lutto (in Vinci Philippe è spinto all’idea del viaggio dalla morte per suicidio dell’amico Marc; in La face cachée de la lune i due protagonisti si incontrano in occasione della morte della loro madre; in Les aiguilles et l’opium il protagonista vive l’angoscia dell’abbandono da parte del suo amore), da un delitto (Polygraphe), da una crisi matrimoniale (Andersen’s project); in alcuni casi tale dramma sarebbe rivelatore di episodi autobiografici estremi e dolorosi. La face cachée de la lune è stato ideato all’indomani della morte della stessa madre del regista associata, scenicamente, all’immagine della luna, simbolo del femminile in tutte le tradizioni. Elseneur è stato ispirato, prima ancora che dall’Amleto di Shakespeare, dalla morte del padre.

Tra Romanticismo e Modernità: il trionfo della tecnica

La Driade  fu scritta in occasione della visita di Andersen all’Expo di Parigi del 1867, anno della morte di Baudelaire il quale aveva dedicato proprio alla modernità il saggio Il pittore della vita moderna. All’Expo del 1867 furono presentate importanti novità tecniche e perfezionamenti di strumentazioni ottiche e meccaniche già brevettate, tra cui un gran numero di viste fotografiche stereoscopiche.

Il contrasto tra i personaggi dello spettacolo è esattamente quello tra il Romaticismo e il Modernismo. Come ricorda Lepage:

“L’Esposizione Universale del 1867 è la fine del Romanticismo parigino e l’inizio del Modernismo. E nel modernismo Andersen vede racconti di fate, macchine incredibili, un mondo maschile, un universo realista, matematico, fondato su cose molto concrete…Mi rimproverano il Romanticismo sia nella mia vita privata sia in quella professionale. Ma questi sono temi che tornano spesso nei miei spettacoli, il fatto che individui romantici si trovino in un mondo molto concreto dove c’è poco spazio per la poesia, per l’eccesso, per le passioni”. Se volessimo trovare un’ulteriore affinità tra Andersen e Lepage in nome dell’identica fascinazione per la tecnica, dovremmo ricordare che anche Montréal, regione natale di Lepage, ospitò nel 1969 un’Expo internazionale dove tra gli altri, lo scenografo cecoslovacco Josef Svoboda propose il polyécran, la multiproiezione per il Padigione della Cecoslovacchia.

Le costanti del suo Teatro: la macchina della visione

Andersen Project ha tutte le caratteristiche di un’opera teatrale che sembra compiacersi ad autocitarsi; questo ci permette di verificare le varianti del teatro di Lepage, contenute però sempre all’interno di poche costanti poetiche e stilistiche. Il tema che meglio identifica in generale il lavoro di Lepage è proprio la macchina, nella duplice accezione di apparato scenografico e attore: all’interno di questa macchina, produttrice di immagini video e filmiche e di una metamorfosi continua della scena, l’attore è un fondamentale ingranaggio. La scena integra  immagini e meccanismi di movimento in un unico dispositivo teatrale in cui l’uomo è ancora al centro della ricerca; il teatro in una prospettiva multimediale può così tornare ad essere laboratorio di sperimentazione antropologica e di cultura integrale, dove arte e tecnica ritrovano la loro comune etimologia. Un esempio di macchina drammaturgica è The Seven Streams of the River Ota: nell’arco di 50 anni si intersecano storie diverse che partono dall’epoca della bomba su Hiroschima per arrivare al 1995 e ritornare ancora indietro al 1945, in uno svolgimento non lineare del racconto. Durante questo mezzo secolo si intrecciano a più riprese storie di persone che hanno vissuto direttamente o indirettamente la tragedia di Hiroshima. Questa drammaturgia “a incastri” trova corrispondenza in una struttura a schermi multistrati dove si vanno ad incrostare le immagini della memoria, letteralmente rappresentata dalla luce del flash della fotocamera usata del protagonista, un fotografo americano incaricato di documentare i danni alla popolazione e alle architetture. Il legame tra le azioni e le immagini retroproiettate o moltiplicate all’infinto da specchi e l’integrazione del dispositivo video in scena è evidentemente la caratteristica dello spettacolo, in una felice soluzione visiva che trasporta idealmente in uno spazio-tempo dove i confini tra spirituale e materiale, naturale e artificiale sono scomparsi a vantaggio di una nuova umanità che partecipa della Storia e la cui memoria è affidata al bagaglio di immagini tragiche e violente ma sui cui si ha sempre la possibilità di “riscriverci” sopra, di dar loro un senso attuale, qui e ora. Ricorda a questo proposito Béatrice Picon-Vallin che il vero tema è appunto, il “trattamento della memoria” di cui le macchine stesse usate in scena, che modificano l’immagine di partenza, sono emblema.[4]

La macchina scenica e attoriale è straordinariamente visualizzata in Elsinore dove l’unico attore impersona tutti gli altri personaggi della tragedia grazie unicamente a una scena metamorfica, mobile e dinamica, e alla luce (soluzione scenica che ricorda gli screen di Gordon Craig).

La macchina scenica è presente come protagonista anche in La face cachèe de la lune: con musiche originali di Laurie Anderson, lo spettacolo di Lepage, miglior produzione canadese del 2001,  prende spunto dall’invio nello spazio delle navicelle sovietiche e americane. L’esplorazione della luna (fino a Galileo “specchio della terra”, come si racconta nel Prologo) è la metafora di cui si serve Lepage per parlare di un’altra ricerca, quella dello spazio interiore, intimo e privato: è la storia di due fratelli, uno  metereologo, l’altro venditore di abbonamenti da sempre attratto dal tema delle esplorazioni extraterrestri. Separati da diversi stili di vita e caratteri (anglofoni e francofoni?), si incontrano nuovamente dopo che viene loro a mancare la madre. La luna e la madre, con il relativo armamentario mitico e simbolico, sono i due temi centrali dello spettacolo che si intersecano continuamente. Lepage inventa un fondale metallico di color grigio scuro che occupa tutta la larghezza del palco e che nasconde al suo interno ambienti tra loro separati da pannelli che scorrono silenziosi su binari; sulla sua parete vengono proiettate immagini tratte dai documentari sull’esplorazione della Luna e filmini in Super8 della vita del personaggio. Le ante scorrevoli fanno intravedere oggetti e ambienti sempre diversi: armadio, ascensore, stanze. Questo fondale ha anche una corrispondente quarta parete “fisica”: un enorme specchio che si sviluppa per tutta la lunghezza del palco, dotato di un movimento rotatorio che lo trasforma sia in oggetto di scena sia in soffitto riflettente, restituendo agli spettatori, nel finale dello spettacolo, l’impressione di un corpo duplicato impegnato in una danza quasi in assenza di gravità.

Dunque la tecnologia a teatro, quale appare in tutta la sua evidenza proprio in La face cachée de la lune, introduce un oxymoron davvero inatteso: è “arcaica”, imperfetta e pericolosa. Il montaggio dello spettacolo richiede tre giorni e una squadra di quattordici persone. I congegni impiegati, più che sofisticate soluzioni hi-tech, ricordano i meccanismi (i cosiddetti ingegni) del teatro rinascimentale, epoca dell’invenzione della mobilità della scena, i cui apparati erano un vero connubio di meraviglia e ars mechanica .Nello spettacolo di Lepage, vero trionfo del concetto antico di techne[5], è come se ci fosse un altro spettacolo dietro lo spettacolo: tecnici e ingegneri del suono e della luce, ma anche numerosi “manovratori”, danno vita, dietro alla scena e in diretta, a questa artigianale e funzionale macchina teatrale, maneggiandola con destrezza; in un attimo  invisibili servi di scena spostano a mano i pannelli piazzando l’armamentario scenografico e tirando i proiettori con funi. La macchina scenica lepagiana mutua i suoi movimenti dall’uomo, da cui spesso prende in prestito il sembiante e il carattere mutevole; è come una creatura vivente, in movimento dinamico, e il soggetto che la abita ne è fondamentale articolazione. In fondo, seguendo la metafora cara a Leonardo, l’uomo stesso è una macchina, l’uccello è una macchina, l’edificio è una macchina, l’intero universo è una macchina.

Telefono-Casa

I personaggi delle storie di Lepage comunicano la propria solitudine, o si autoanalizzano, o ancora cercano un conforto al telefono, dentro una cabina, per trattenere il proprio amore che li ha lasciati oppure vengono a scoprire verità drammatiche. Il riferimento è indubbiamente alla piece telefonica di Jean Cocteau, La voce umana.

In Les aiguilles et l’opium il protagonista cerca di mettersi in contatto da Parigi con il proprio amante che sta in America ma tutto quello che ottiene è un dialogo a tre con la centralinista  anglofona e quella francofona e un’incomprensione linguistica generale. Nella scena finale dello spettacolo l’attore volteggia appeso con un cavo posto sopra l’arcoscenico risucchiato dentro le immagini proiettate delle opere di Duchamp e di Cocteau con un telefono sempre in mano mentre ascoltiamo lo squillare a vuoto inframmezzarsi alle note della Gymnopedia di Satie. In La face cachée de la lune uno dei due fratelli vende abbonamenti di un giornale per telefono; la sua voce viene riconosciuta casualmente da un’amica che gli rivela che la madre non ha avuto un’embolia ma si è lasciata morire.

Questi dialoghi implicano talvolta, la presenza di una cabina del telefono: in Busker’opera appaiono due cabine ravvicinatissime ma i personaggi sono geograficamente lontani nella finzione drammaturgica. I dettagli del volto della protagonista vengono ripresi da una telecamera e proiettati su un grande schermo, che in questo modo televisivizza la vicenda personale facendole assumere i contorni, falsi e ripetitivi, di una  soap opera.

Per il Secret world tour, il tour musical di Peter Gabriel, Lepage crea delle scenografie straordinarie grazie all’uso del video live. Ancora una volta si impone la presenza di una cabina telefonica (la tipica cabina rossa all’inglese) per il brano Come close to me. La situazione scenica immaginata da Lepage è significativa: Gabriel e la vocalist sono posti agli estremi di una lunga e stretta pedana uniti da un cavo telefonico/cordone ombelicale e tengono in mano una cornetta. Per tutto il brano i due cercano di uscire dalla cabina, di avvicinarsi o di allontanarsi tirando il filo del telefono. In Andersen Project il dialogo telefonico ritorna in numerose occasioni: Frederic chiama a casa perché ha nostalgia e lo coglie un presentimento di abbandono. Il manager mentre attende la figlia nell’atrio della scuola, chiama lo psicoanalista per parlargli della sua attuale situazione familiare. La moglie infatti, l’ha lasciato (per telefono…).

Teatro come composizione di immagini-corpo

La solitudine del personaggio è spezzata da dialoghi con se stesso o con altri personaggi attraverso il video, oppure il gioco di scambi è con la propria ombra.

In tutti i casi il problema è quello di creare una integrazione scenica tra immagine e corpo. Per ogni spettacolo Lepage elabora una diversa forma per questo dialogo che privilegi sempre però, l’artigianalità del supporto scenografico di proiezione e offra una magica illusione grazie alla capacità dell’attore di creare un ponte tra tridimensionalità fisica e bidimensionalità elettronica. Le tecnologie dell’immagine si coniugano perfettamente con il concetto di “macchineria” del suo teatro. In Elsinore Amleto posto dentro il varco del dispositivo rotante, ha due webcam ai due lati opposti: girandosi da una parte e dall’altra offre alternativamente il proprio profilo, destro o sinistro, alla camera che lo ritrasmette in diretta sulle due pareti laterali; è il momento dell’incontro con Rosencratz e Guilderstein che non possono comparire essendo uno spettacolo per un solo attore. L’uso delle immagini in diretta da una webcam in alcuni momenti richiama una possibile interpretazione del video come specchio: pensiamo alla confessione privata/pubblica dell’artista Frederic/Robert nel prologo di Andersen project attraverso la web cam, o al toccante dialogo via video, del principe di Danimarca con Orazio, che si rivela così il suo alter ego, il suo specchio, l’altra faccia dello stesso Amleto.

Ne Les aiguilles et l’opium il gioco è tra oggetti proiettati da una lavagna luminosa, il corpo e l’ombra. Lo spazio dell’azione si moltiplica, considerando anche il luogo retrostante lo schermo e quello che si va a creare in diretta dentro lo schermo stesso attraverso le proiezioni e le incrostazioni di immagini e ombra. Ne The seven streams of the river Ota la macchineria diventa un sistema di schermi su cui vanno a proiettarsi e retroproiettarsi immagini video e ombre, creando un’artigianale e performativa composizione di immagine in stretta relazione con i personaggi reali.

Ne La face cachée de la lune i pannelli grigi disposti su binari che attraversano la lunghezza del palco permettono una proiezione di immagini preregistrate ma anche live provenienti sia dalla parte frontale che dalla parte retrostante la scena grazie a webcam. In questo spettacolo, infatti il luogo dell’azione è nella zona frontale visibile e contemporaneamente nella parte nascosta attraversata dal protagonista dal foro della lavatrice-oblò-luna-utero. Il movimento rallentato delle immagini serve a  ricordare quello degli astronauti a gravità zero. L’esplorazione lunare diventa metafora di una scoperta interiore.

In Andersen project  Rashid disegna con lo spray sui muri. Il grafittista aggiunge alcuni elementi osceni al ritratto in posa dello scrittore danese Andersen che emerge dal bianco del panorama. In realtà tutta la situazione grafica è composta in diretta dal tecnico attraverso un sistema di fotoritocco o di scopertura di immagine preesistente, sistema che Lepage aveva già utilizzato in The seven streams of the river Ota, quando il soldato americano a Hiroschima si dedicava a pitturare pin up sulle carlinghe degli aerei. L’immagine era un fermo fotogramma su cui venivano a sovrapporsi tracce di colori e disegni. E un attimo dopo gli aerei spiccavano il volo.

Ancora in Andersen project: il personaggio è posizionato dentro il panorama, letteralmente risucchiato dentro un’immagine di un imponente scalone in marmo realizzato in grafica 3D. Lepage attore compie un paio di movimenti che simulano una salita per le scale, e mentre sembra salire, cambia anche la visuale generale sull’ambiente. L’interazione è però finta: è l’attore a stare dietro ai movimenti dell’immagine generata al computer, poiché egli non può averne alcun controllo reale e diretto (come accadrebbe invece se gli fossero applicati sensori di captazione del movimento). Il panorama progettato da Lepage in questo caso, ricorda da vicino le Perspective di Andrea Pozzo (1693), quelle del Bibbiena, e per rimanere nel Novecento, le imponenti fotografie a “panorami” di spiagge e di giardini dai colori cangianti di Massimo Vitali dalla centralissima e geometrica prospettiva.

 

 


[1] In Elsinore ricorre l’immagine dell’uomo vitruviano di Leonardo; in Polygraphe oltre che in Les aiguilles et l’opium, compaiono citazioni da film di Cocteau. Vedi A.M.Monteverdi, Il teatro di R. Lepage, Pisa, BFS, 2004.

[2] J. Bunzli, Autobiography in the house of mirrors: the paradox of identity reflected in the solo shows of Robert Lepage, in J. Donohoe, J. Koustas (a cura di), Théâtre sans frontiers, The Michigan State University Press, Lansing Michigan, 2001

[3] V. Turner, Antropologia della performance, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 149.

[4] B. Picon-Vallin, Hybridation spatiale, registres de présence in Id (a cura di) Les écrans sur la scène, Lausanne, l’Age d’Homme, 1998, p. 26.

[5] Techne era il nome con cui nell’antichità si designava, come è noto, sia l’attività dell’artigiano che gli artisti (che erano appunto, technites).

Anna Maria Monteverdi – Algeria e Québec nel teatro multiculturale di Robert Lepage
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pubblicato su Histosycast

Il regista e attore canadese Robert Lepage (nato a Québec City nel 1957) è uno dei più acclamati artisti scenici contemporanei. Consensi unanimi e riconoscimenti per il suo teatro senza frontiere, caratterizzato da una narrazione prossima a quella cinematografica, sono arrivati dai maggiori teatri e festival mondiali. Il suo è un teatro multiculturale, ricco anche di riferimenti (critici) alla tematica del separatismo québecois. Gli esordi sono caratterizzati dalla famosa Trilogie des Dragons (1985) che ripercorre 75 anni di storia (1910-1985), vissuti da tre generazioni di immigrati cinesi nelle Chinatown di Québec city, Toronto e Vancouver. Il messaggio implicito nell’adozione non solo delle modalità tipiche del teatro orientale ma persino della lingua cinese, era quello di un’apertura verso nuove culture, oltre il nazionalismo imperante e lontano da ogni rivendicazione restauratrice. Nella Trilogie Lepage adotta una vera e propria “strategia di non traduzione” mantenendo in scena alcune parti interamente dialogate in cinese, testimoniando il particolare clima politico e sociale canadese e la trasformazione in atto all’interno della regione del Québec, con le successive ondate di immigrazione dall’Estremo Oriente e la contrastata relazione con la lingua e la cultura inglese. La Trilogie è stata recentementre riallestita mentre la prima parte (Le Dragon blue) è diventato spettacolo a sé, inaugurato nel 2008.

Queste le tappe più significative della storia del Québec: la nascita della Nuova Francia (1534), la fondazione del Québec (1608) e quella della Confederazione canadese (1867), la Guerra tra Francia e Inghilterra (la “Conquista”: 1812-1814), la Rivoluzione Tranquilla (1960-1966), la Loi sur les langues officielles (1969-1974: l‘Assemblea legislativa del Québec adotta il progetto di legge 22 e il francese diventa lingua ufficiale della provincia del Québec, nella pubblica amministrazione, nelle professioni, nel commercio, nell’insegnamento:), l’Ottobre (1970) e i referendum sull’indipendenza (1980 e 1995). Nel referendum popolare del 1980, che seguì di qualche anno la nascita del partito indipendentista, il Parti Québecois (1976), una minoranza sia pur consistente della popolazione del Québec (il 40%) si pronunciò a favore del separatismo, condizionando tutta la politica della Regione fino ad oggi, anche se di fatto, il referendum non diede vita ad alcuna svolta nazionalista o secessionista. Il secondo referendum sull’indipendentismo del 1995 portò i fautori del separatismo a un scarto di voti inferiore all’1% e a un riconoscimento da parte del governo federale del Québec come “società distinta”.

Il Canada ha fatto del multiculturalismo –sia a livello delle province sia a livello federale- la sua politica ufficiale: ha promulgato sin dal 1971 il Multiculturalism Act mentre la legge 101 del 1977 del Québec che rendeva obbligatoria per gli immigrati la frequenza a scuole di lingua francese, favoriva una maggior assimilazione degli stranieri all’interno della comunità francofona, disperdendone però, le peculiarità, le tradizioni, la lingua. Con la legge 101 –la Charte de la langue française- il francese diventa anche lingua di Stato e delle Leggi. Lo scopo era di franciser l’economia e rendere questa lingua il vettore privilegiato per l’inserimento nel mondo del lavoro. Come ricorda Antonella Crudo (Identità fluttuanti. Italiani a Montréal e politiche del pluralismo culturale in Québec e Canada, Luigi Pellegrini 2005) questa politica però, è “attraversata da tensioni e contraddizioni, tra il centro e le periferie, tra le nozioni di due popoli fondatori, i francofoni e gli anglofoni, le rivendicazioni dei popoli autoctoni, e degli altri gruppi che reclamano sempre di più un proprio spazio e un maggior riconoscimento politico del loro fondamentale apporto alla costruzione del Paese”.

Il Front de Libération du Québec (FLQ), l’organizzazione separatista che aveva come manifesto il volume di Pierre Vallières Negri bianchi d’America (scritto in carcere a New York nel 1966 col significativo sottotitoloAutobiografia precoce di un “terrorista” del Québec), nasce nel 1963 e sarà responsabile del sequestro e uccisione del ministro Pierre Laporte (1970);  la successiva Crisi di Ottobre segnò una durissima repressione contro i simpatizzanti dei gruppi separatisti culminata nell’imposizione da parte del governo federale guidato da Trudeau, della Loi de mésures de guerre. La vittoria del Parti Québecois e di Lévesque con lo slogan Maitres chez nous (Padroni a casa nostra) sembrava riproporre l’utopia di un Québec nazione-stato.

Nel teatro si hanno poche tracce di questi eventi. Dominique Lafon ricorda che, tranne poche eccezioni, i drammaturghi e i registi del Québec di questo periodo preferiscono sviluppare tematiche più psicologiche che ideologiche, e non intraprendere la strada di un teatro politico engagé: è una “congiura del silenzio che ha escluso dalla scena teatrale come da quella politica, non solo i protagonisti degli avvenimenti degli anni Settanta ma il discorso insurrezionale di cui erano i porta voce”. (D.Lafon, Des coulisses de l’histoire aux coulisses du théatre: la drammaturgie québecoise et la Crise d’Octobre, in “Theatre Research International”, n. 1, 1998).

Si discosta da questo quadro il cosiddetto Cycle Shakespeare dalla tradaptation (traduzione-adattamento) di Michel Garneau in québecois di Coriolano, La tempesta e Macbeth scritta agli inizia degli anni Settanta in piena ondata nazionalista. Sul piano letterario l’esperimento di Garneau, ricco di tracce, prestiti linguistici, arcaismi del francese del Québec, e presenza del joual, la parlata popolare dei canadesi francofoni, anticipa le prime iniziative del governo Lévesque, tra cui appunto, la Loi 101 che faceva del Québec una provincia interamente francofona. Molti letterati hanno voluto dare dignità e legittimità alla lingua “québecoise“: una lingua che ha le sue radici proprio nella valorizzazione della specificità del Québec, come veicolo di contestazione della propria indipendenza. Il joual è stato anche adottato da un’importante corrente letteraria come strumento di espressione privilegiato: così il drammaturgo Michel Tremblay che ha scritto opere interamente in joual: “Non c’è più bisogno di difendere il joual, si difende da solo. Il joual fino a che resterà così è straordinario; è più vivace che mai……Qualcuno che si vergogna del joual, è qualcuno che si vergogna delle sue origini, della sua razza, che ha vergogna di essere del Québec”.

Le scelte registiche di quegli anni, quindi, inseriscono Lepage all’interno del dibattito politico in corso sull’indipendentismo di cui Garneau fu portavoce. Lepage però, prende le distanze dal separatismo; in un articolo per “Time magazine” (9 agosto 1999) auspica un giusto equilibrio tra nazionalismo e patriottismo, tra il preservare la propria cultura e condividerla in un’ottica mondiale, oltre l’anglofonia e la francofonia. A Rémy Charest confida la propria idea di una necessità di allargare i propri orizzonti geografici: in Québec, dice Lepage, il protezionismo culturale e linguistico ha creato una mentalità xenofoba e razzista. A Josette Fèral racconta l’importanza e il ruolo degli artisti per far conoscere il proprio paese; in relazione al problema linguistico del Québec si scaglia contro l’immobilismo e il radicamento anacronistico alla propria terra (J. Fèral, L’attore deve avere sete di sapere. Conversazione con Robert Lepage, “Teatro e Storia”, n.17, 1995, p. 303).

Inevitabilmente, anche laddove non ne fa esplicito riferimento, il teatro di Lepage ricorda proprio la difficile posizione del Québec, in eterno conflitto culturale, linguistico e politico tra l’anglofonia e la francofonia e costantemente alla ricerca delle proprie radici storiche e di una non facile affermazione della propria identità.

In Les aiguilles et l’opium (1989) il protagonista Robert, artista québécois a Parigi per un lavoro di doppiaggio, al proprio psicoanalista che gli domanda come mai si occupava di teatro, risponde con una lunga metafora sulla storia del Canada, letta ironicamente come “una tragedia shakesperiana in 5 atti”, concludendo con uno scetticismo di fondo sulle strade intraprese sia dalla parte più rivoluzionaria che da quella più moderata:

Non so cosa lei sappia del Canada e del Québec ma sono società molto “teatrali”. Quello che deve fare è guardare gli ultimi cinquanta anni della sua storia politica e vedrà che è scritta come un brutto dramma. No, non una commedia, direi che è più simile a una tragedia shakesperiana in 5 atti, una della più antiche, come Tito Andronico. Il primo atto è ambientato nel 1950, e accadde quello che è chiamato il “rifiuto globale”. Era il manifesto firmato da artisti e intellettuali che decisero di fare le cose a modo loro. E’ l’equivalente di quello che accadeva a Parigi nello stesso periodo con l’esistenzialismo, con Sarte, Albert Camus, Simone de Beauvoir. Nel 1960 c’era un movimento chiamato “la Rivoluzione tranquilla”. Non so perché si chiamasse così, forse perché c’era una rivoluzione in corso ma nessuno l’aveva notato. Poi nel 1970 abbiamo avuto l’Ottobre. C’era un gruppo di separatisti, terroristi che rapirono un diplomatico inglese (…) Nel 1980 ci fu un referendum sull’indipendenza con la risposta che tutti conoscono…La risposta fu No, conosci la domanda, era molto lunga e confusa sulla sovranità, l’associazione…E’ come divorziare ma vivere nella stessa casa, quel tipo di situazioni lì, io tengo i bimbi tu i mobili, non mi è permesso di parlare ai bimbi ma posso parlare ai mobili. Penso che la risposta sia confusa come la domanda. L’anno seguente era il 1990 e tutti in Canada speravano che sarebbe stato il quinto e ultimo atto e che ci sarebbero state le riforme costituzionali per comprendere meglio la parte inglese del Paese, quella, francese, in nativi. Come vede, molte cose accaddero in Québec negli anni con uno zero, ma niente in mezzo.

Molte delle regie di Lepage che prevedono una situazione conflittuale tra personaggi (anche quando sono interpretati da un solo attore) vengono rese scenicamente con l’uso contemporaneo del francese e dell’inglese. E anche laddove questo escamotage non viene restituito nella sua evidenza, sembra sempre che il riferimento sotterraneo sia alla questione québécoise mai irrisolta, talvolta suggerita con i caratteri della vecchia commedia, con gli stereotipi assegnati dalla tradizione ai due diversi gruppi linguistico-culturali dominanti del Québec.

In La face cachée de la lune (2001) due fratelli del Québec non riescono a comunicare da molto tempo a causa della diversità di vita e di scelte, ma la morte della madre li farà avvicinare; Romeo and Juliet rappresentato a Saskatoon (1989) venne reso con le due famiglie dei Capuleti e Montecchi che si contrastavano parlando rispettivamente gli uni l’inglese e gli altri il francese.

L’ultimo in ordine di tempo è lo spettacolo Jeux de cartes (2013). Nel secondo episodio, Cuori, della quadrilogia dedicata al gioco delle carte (e relative simbologie), il conflitto da cui si generano le storie – che spaziano, grazie a una straordinaria tecnica drammaturgica, dalla contemporaneità all’Algeria coloniale alla Francia di fino Ottocento- è ambientata proprio in Québec: una giovane ricercatrice di Storia del cinema delle origini, conosce casualmente, nella multietnica Montréal, un taxista marocchino e se ne innamorerà. Lo scontro di natura religiosa e culturale tra la famiglia musulmana di lui e la tipica famiglia del Québec di lei, con il padre inglese e la madre francese, dà vita a una serie di sequenze esilaranti in cui possiamo identificare ben definiti gruppi sociali e mentalità tipiche: perbenismo, concretezza pratica, riservatezza, autocontrollo e puro aplomb inglese del padre, e frivolezza e protezionismo per la madre francese. Entrambi condividono una visione un po’ razzista della società –nonostante il pluralismo culturale sia considerato una conquista precoce della società canadese- e non accettano la nuova religione della figlia. Infatti la ragazza deciderà di sposare l’Islam e indossare il velo, lo hijab.

Da questo quadro familiare non confortante e non edificante, ambientato in Québec, dietro cui possiamo riconoscere altri e ben più belligeranti scontri, si torna all’indietro –senza soluzione di continuità e mantenendo una struttura narrativa “parallela”- in Algeria, dove il giovane marocchino sbarca a seguito della morte del padre, per rintracciare le proprie origini familiari e trovare le memorie del nonno; qui scopre che le sue radici non sono affatto marocchine, ma algerine da alcune fotografie dalle quali constata anche che il nonno era uno dei capi partigiani della guerra per la decolonizzazione e l’indipendenza dell’Algeria, un membro del Fronte di Liberazione Nazionale. Uscito dalla clandestinità il FLN darà inizio alla rivolta, diventata poi guerra di massa dopo le rappresaglie delle truppe francesi contro la popolazione civile (battaglia di Algeri, 1957). E’ un omaggio di Lepage all’Algeria proprio nell’anno delle celebrazioni dei 50 anni di indipendenza: infatti proprio il 15 settembre del 1963 nasceva la Repubblica democratica e popolare d’Algeria con una Costituzione che apriva le porte a un regime presidenzialista e monopartitico con a capo Ben Bella. La trama, ben ricamata e ricca di annodamenti imprevisti, è punteggiata da molti personaggi tra passato e presente e si estende in un cinquantennio abbracciando America e Africa sotto il minimo comune denominatore del viaggio verso la libertà; una fabula che lascia sempre più il posto a un intreccio libero di muoversi avanti e indietro nel tempo, senza coerenza, seguendo piuttosto una logica cinematografica. Così si passa dal Québec di oggi, dove convivono vecchie lacerazioni e nuovi separatismi, all’Algeria di ieri, quella del colonialismo e della guerra di indipendenza. In mezzo alla grande Storia le memorie di resistenti, quei partigiani che hanno combattuto valorosamente o coloro che hanno vissuto clandestinamente o attraversato illegalmente i confini e sono arrivati sino in Québec, nascondendo la loro vera identità persino a figli e nipoti. Memorie di torture, quelle stesse raccontate nel terribile libro di Henri Alleg, direttore della rivista d’opposizione “Alger républicain”, perseguitato e imprigionato dai francesi. L’elettricità che darà vita alla modernità (rappresentata in scena dalla nascita del cinema) è la stessa usata dagli aguzzini contro i corpi dei prigionieri algerini. Incroci e destini di uomini, incroci e destini di macchine. L’Algeria colonizzata dalla Francia è oggetto poi, di un curioso excursus drammaturgico in cui alcuni artisti legati alle sperimentazioni tecniche (il fotografo Félix Nadar, il regista Georges Méliès) si intrecciano con le loro storie come in un ingranaggio di orologio, auspice la figura dell’illusionista Jean Eugène Robert- Houdin (che ispirò il grande Houdini), primo ad usare per le sue magie l’elettricità. In un possibile universo parallelo incontriamo, nello spazio del palcoscenico girevole, molti personaggi che, sotto il segno della Storia, vanno alla ricerca di una propria identità, di una memoria, in un cammino non facile verso la verità, per dare concretezza e solidità alle proprie vite.

LA WALHALLA MACHINE: LEPAGE e WAGNER
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Lepage l’inarrestabile: dal Cirque du soleil a Wagner.

Pubblicato su Interactive Performance e su Carte Sensibili e in A.M. Monteverdi, Rimediando il teatro con le ombre, con le macchine, con i new media, La Spezia, Ed. Giacché, 2012.

Un successo senza fine

Chi visita il sito ufficiale di Ex Machina, la struttura di Robert Lepage con quartier generale a Québec City, fa fatica a crederci. Il numero di allestimenti e produzioni (concerti, spettacoli di prosa e d’opera, installazioni luminose, proiezioni videoarchitettoniche, pubblicazioni fotografiche d’arte) che la R. L. inc. firma annualmente è impressionante, come impressionante è il numero di spettacoli in tournée contemporaneamente in tutto il mondo da anni, cosa assolutamente impensabile per qualunque produzione italiana.
La Face Cachée de la Lune (che ha debuttato nel 2001) è di ritorno da un tour in Grecia, Andersen Project (realizzato nel 2005) è stato negli States nel 2012, Le Dragon Bleu è ora in Canada, Eonnagata in Giappone, The Nightingale and Other Short Fables in Olanda, Lypsinch in Australia, mentre New York ha chiuso l’anno 2011 con Il crepuscolo degli dei a firma di Lepage al Metropolitan.

Nel giro di pochi anni Lepage ha firmato uno spettacolo di ispirazione shakesperiana (The Tempest), interpretato da nativi in esclusiva per una regione del Canada, il Wendake; una gigantesca proiezione videoarchitettonica sui silos del porto di Québec City per i 400 anni della fondazione della città (The Image Mill) e due scenografie per il Cirque du Soleil (compagnia internazionale di nuovo circo con base a Montréal, fondata nel 1984 da Guy Lalibertè e Daniel Gauthier). Si tratta di Totem (2010, set designer Carl Fillion) Ka (2005, spettacolo stabile al MGM Theatre di Las Vegas; set designer Mark Fischer, l’architetto che ha firmato anche i concerti dei Pink Floyd e degli U2; una scheda completa suWikipedia).

Ma la vera fatica titanica lo ha visto impegnato, a partire dal 2008, nella regia dell’intera tetralogia wagneriana per il Metropolitan di New York diretto dal maestro James Levine. Il ciclo dell’Anello dei Nibelunghi è stato inaugurato la scorsa stagione con Das Rheingold e Die Walküre, è proseguito con Siegfried  nell’ottobre 2011 e si è concluderà nel gennaio 2012 con Die Götterdämmerung; l’intero ciclo verrà riproposto al MET nella sua interezza tra il 25 aprile e il 2 maggio 2012. Ogni produzione di Lepage è un evento accolto con enorme entusiasmo dal pubblico (ma non sempre con eguale entusiasmo dalla critica), a cui seguono girandole di premi, riconoscimenti prestigiosi che a loro volta attirano nuove commissioni milionarie. Anche il MIT di Boston lo ha recentemente insignito di un premio, l’Eugene McDermott Award in the Arts.
E’ passato molto tempo dall’epoca in cui, per finanziare i suoi primi film negli anni Novanta, come ricordava in un’intervista, era irritato alla sola idea di andare a chiedere finanziamenti per i suoi progetti artistici, a un “civil servant“. Oggi sono le grandi Fondazioni, i teatri internazionali a contenderselo a suon di milioni di dollari.

L’opera: a great meaning place
Nonostante il notevole cambio di scala rispetto ai palcoscenici e al pubblico degli inizi, la coerenza artistica di Lepage è degna di nota. Il regista e interprete quebecchese trasporta temi, motivi e idee del teatro di ricerca in territori a esso insoliti: negli stadi per i megaconcerti pop o nelle opera houseper i classici della musica lirica, veicolando in spettacoli per il grande pubblico la profondità narrativa, la visionarietà immaginifica e l’ingegno tecnico che caratterizza i suoi spettacoli teatrali. Le sue scene impongono anche un certo impegno acrobatico agli attori/ballerini/cantanti: la struttura metallica ideata per il Growing Up Tour, che si staccava da terra per salire verso l’alto, obbligava Peter Gabriel a cantare a testa in giù; in Ka gli artisti precipitano dall’alto di una piattaforma; nel ciclo wagneriano i cantanti cavalcano imponenti quanto virtuali cavalli, in bilico su una struttura alta otto metri.Nella piattaforma ideata per la tetralogia di Wagner è il movimento stesso della macchina scenica (insieme con le luci e le proiezioni) a creare una drammaturgia e un interessante dialogo con l’attore: alzandosi verticalmente, disponendosi perpendicolarmente essa evoca molteplici “luoghi”: montagne altissime, profondità marine, campi di battaglia. Quando si attraversano altri territori dell’arte la qualità della ricerca teatrale non si disperde, ma si estende ai diversi luoghi dello spettacolo, modificandone le convenzioni:

I’ve worked a lot with Peter Gabriel; his music isn’t operatic, but he creates big, popular gatherings to which architecture, dance and music are all invited. Opera needs a major makeover; the large opera houses are too in thrall to their conservative patrons. Opera should be a place for art forms to meet. It includes music, litterature, architecture, set designing, fine arts, choreography. Opera is a great meaning place.”

E’ proprio nell’ambito dell’opera che Lepage si è cimentato per la prima volta con la sua sperimentazione scenica più ardita, un’architettura in grado di accogliere immagini 3D ed effettistica cinematografica: l’ha utilizzata nella regia de La Damnation de Faust da Berlioz nel 1998 (rimasto in repertorio all’Opera di Parigi dal 2000 al 2005).

 

Per la regia del ciclo wagneriano, Lepage ha chiamato a collaborare, oltre al solito Fillion, anche i collaboratori tecnici, artisti, videomaker, i creatori di effetti visivi, persino i produttori esecutivi del Cirque du Soleil, forse gli unici in grado di garantire un allestimento all’altezza di un teatro dalla fama colossale come il Metropolitan di New York.
Anche Josef Svoboda disegnò le scene della tetralogia di Wagner Der Ring des Nibelungen, e addirittura per tre volte: al Covent Garden a Londra (1974-76), al Grand Théâtre di Ginevra (1975-77) e al Théâtre Antique d’Orange, in Francia (1988). La versione londinese, in cui lo scenografo cecoslovacco utilizzò il laser, è quella più vicina alla ipertecnologica versione di Lepage. E tra Svoboda e Lepage non bisogna dimenticare la versione “techno” dell’Anello dei Nibelunghi a firma della Fura dels Baus. 

Nella versione del 2008 de L’anello dei Nibelunghi per il Metropolitan di New York diretto dal maestro James Levine, Lepage vi aggiungerà anche un sistema di motion capture che cattura i movimenti dei cantanti e integra attori e immagini in una scena dall’aspetto di un enorme videowall. Un modo, come lui stesso racconta, per “tentare di illustrare l’energia della musica di Berlioz, estenderla non decorarla“. La tecnologia amplifica l’energia della musica perché:

“The survival of the art of theatre depends on its capacity to reinvent itself by embracing new tools and new languages. In a way, innovators in both arts and sciences walk on parallel paths: they have to keep their minds constantly open to new possibilities as their imagination is the best instrument to expand the limits of their fields.”

 E’ impossibile dissociare Lepage dal suo giovane e altrettanto geniale stage designer Carl Fillion, con il quale crea da sempre quelle macchine sceniche per le quali è universalmente acclamato. Con lui ha dato vita al mondo d’ombre viventi e video di The seven streams of the river Ota, al dispositivo roteante di Elsinore, il marchingegno per il suo più folle progetto di one-man-show; ai pannelli scorrevoli, specchianti e proiettabili di La face cachée de la lune. E’ Carl Fillion a spiegare il segreto con cui egli trasforma un’unica scena, da un’idea iniziale discussa insieme con Lepage, in un vortice infinito di luoghi:
I like to transform the scenic environment by creating elements that move and turn, on stage, in full view of the audience. My main visual signature as a designer can be found in the way I sculpt the space and keep it in motion.
 
 Per la regia del ciclo wagneriano, Lepage chiamerà ancora Fillion e si trascinerà dietro proprio i collaboratori tecnici, artisti, videomaker, i creatori di effetti visivi, persino i produttori esecutivi del Cirque du soleil, forse gli unici in grado di garantire un allestimento all’altezza di un teatro dalla fama colossale come il Metropolitan Square Garden di New York.
Per l’atmosfera del Crepuscolo degli dei la scena si libera di ingombranti oggetti per ospitare un unico monstrum leonardesco che sembra uscito dalle mani di un alchimista d’altri tempi, un erede naturale della fantasia avanguardista di Svoboda. La flessibilità e la trasformabilità, come in tutte le scenografie di Lepage, sono le caratteristiche primarie di questaWalhalla Machine e respirano insieme con l’attore che le sovrasta. Nel corso dell’intervista contentuta in Wagner’s Dream, lo stesso Lepage rivela che l’idea della macchina che contiene tutti gli ambienti gli è venuta in mente pensando all’Islanda, alla sua formazione vulcanica e tettonica, alle sue crepe e solchi dovuti alla lava, agli avallamenti e insieme alle enormi montagne, concentrati tutte in uno stesso paesaggio, tra ghiaccio e fuoco. Ancora una volta, come già accadeva in Elsinore, anche se in scala decisamente più ridotta, e poi anche con Ka, il gigantesco dispositivo progettato per il Cirque du Soleil in cui l’attore recita mentre tutto è in movimento, la macchina ha una conduzione “manuale”. La tecnologia precede: inventa, dispone, prepara, ma a guidarla è la mano dell’uomo. Ecco allora il protagonista incontrastato della scena, l’enorme macchina progettata da Fillion per l’intera tetralogia, vera opera di ingegneria meccanica, fatta di 45 assi di 9 metri di fibra di vetro ricoperta di alluminio, mobili autonomamente l’uno dall’altro e che si sollevano e ruotano a 360° grazie a un complesso sistema idraulico che permette un gran numero di forme differenti, diventando la spina di un dragone, una montagna o il cavallo delle Valchirie
Gli attori-cantanti, spesso meno agili e longilinei degli atleti del Cirque du Soleil, sono collocati sopra la struttura in posizioni davvero difficili: in alto, in bilico, scivolando sulle assi, arrampicandosi. I cantanti hanno anche dei “doppi” in veste di acrobati, che li doppiano nei movimenti troppo complessi.
La prima scena del Rheingold, con la famosissima ouverture con l’arpeggio in miB (che introduce il leitmotiv dello scorrere del fiume, delle onde, in un crescendo di strumenti), è il preludio alla scena delle Ondine, le figlie del Reno custodi dell’oro del loro padre. Questa scena ha sempre destato molte preoccupazioni per i registi, a causa della difficoltà di immaginare una scena che si svolge sott’acqua. In alcuni casi l’acqua è realmente presente in teche trasparenti in cui le Ondine sono sommerse (come nella versione della Fura dels Baus), ma di solito per simulare le onde vengono utilizzate stoffe azzurre, facilmente eliminabili dalla scena (come nella regia di Marininski per il Covent).
Lepage immagina tre sirene che scivolano in questo azzurro elettronico, con leggerezza, calandosi dalla macchina, nuotando o lasciandosi andare a corpo libero con il solo aiuto di una fune; intorno a loro una proiezione piccole pietre di mare e bollicine. Lepage spiega che:
“What happens in Das Rheingold is that we’re in a world of mists and lightning, and fire and water, an elemental realm. That’s why the set is morphing into these elements that remind us of rocks and spines. As we move on, and the Ring tells the story of demigods and human being and eventually of society, and social classes and ranks, the set slowly moves toward architectural propositions.”
 L’inclinazione dei piani si presta a un gioco di voli di scale che fa ricordare i disegni di Adolphe Appia per Wagner.
I movimenti dell’architettura di scena (costruita da Scène Éthique di Montréal) avvengono con intervalli da 5 o 10 minuti e sono controllati in parte a mano in parte da un computer. Un’uso – pare – strabiliante e fortemente realistico del 3D senza visori da parte del pubblico, è stato creato per le scene della foresta in Siegfried. Qua l’animazione con i movimenti possibili della macchina.
 Così Lepage:
It was important that we create a theatre machine that would be similarly versatile—a set that had its own life and could actually go through different metamorphoses but, at the same time feel very organic. Very early on, we decided to create a spine to the set that allows us to move things and articulate things. So the set is actually not only illustrating some of the ideas in the Ring, but it’s also literally supporting the characters and the ideas…it was important for us that the set be very nimble, very flexible, very adaptable, and alive, so that it not only moves, but it also breathes”.
 La chiameranno la Walhalla machine, qua in azione per la Cavalcata delle Walkirie. E, da vera diva, strappa applausi a scena aperta. Ecco il trailer ufficiale del MET di New York:
 Sulla superficie di questi assi che somigliano a tasti di un gigantesco pianoforte e che nei movimenti ricordano un po’ i mostri fantasy di Dune, vengono proiettate immagini in videomapping, a mostrare alberi della foresta, caverne, le acque del Reno. Sono state usate sia immagini statiche che immagini interattive, quest’ultime ottenute grazie a un sistema di motion tracking da telecamere.Réalisations con Maginaire inc., hanno realizzato gli effetti video 3D e interattivi gestiti dal software Sensei.
La macchina scenica complessiva è di tali proporzioni e di tale pesantezza (45 tonnellate) che il Metropolitan ha fatto sapere di aver rinforzato il palcoscenico. I giornali hanno parlato di “un’affascinante combinazione di complessa tecnologia e semplicità estetica”, “traditionale e rivoluzionario” ma anche di una produzione “troppo simile a un musical di Broadway” mentre il N.Y. T. va giù ancora più pesante e titola la recensione: Ring V/s Spider man.
Produzione dunque, che rimarrà negli annali anche per l’impiego di una tecnologia avanzatissima e per il numero straordinariamente alto di tecnici e progettisti, e di conseguenza, per essere forse uno dei più costosi allestimenti teatrali di tutti i tempi (si parla di sedici milioni di dollari). Cosa che non sembra aver preoccupato molto Peter Gelb, general manager del Metropolitan dal momento che ha venduto l’esclusiva della diretta HD ai teatri e ai cinema di quaranta Paesi. Per Lepage, dunque, un sold out esteso a tutti i media del pianeta.
Per chi non ha potuto vederlo dal vivo al MET può comunque vedere lo spettacolo in video grazie al cofanetto di 5 dvd appena messi in distribuzione per la Deutsche Grammaphone. Il costo non è per tutti, ma è sempre minore del biglietto per lo spettacolo teatrale (che arrivava fino ad alcune migliaia di euro). Nel cofanetto i 4 dvd corrispondono alle quattro opere (pur legate in un unicum come voleva Wagner, dalla storia, la saga germanica dei Nibelunghi) ovvero Das RheingoldDie WalküreSigfried,Gotterdämmerung. Il quinto dvd è il documentario Wagner’s Dream”: più che raccontare il processo creativo, mostra il dietro le quinte (o meglio, in questo caso, il “sotto le quinte”) della mostruosa macchina tecnologica progettata dal mago delle scene di Lepage, Robert Fillion.

Jeux de cartes: intervista a Robert Lepage
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Pubblicato su Interactive-performance.it

Traduzione di Giancarla Carboni

Alla presentazione del progetto Reseau 360°, in occasione del debutto francese di Jeux de Cartes, fa gli onori di casa Philippe Bachman, direttore del teatro La Comete a Chalons en Champagne e anche progettista e ideatore della Rete. Bachman ricorda che sin dalla sua prima stagione nel 2005, aveva programmato Le Projet Andersen: in quell’occasione propose a Lepage di visitare il vicino circo costruito all’inizio dell’Ottocento, che oggi ospita la scuola nazionale delle arti circensi. Si tratta di uno spazio dove negli anni, sono stati programmati anche concerti e spettacoli tradizionali. Proprio durante una conversazione sugli spazi a pianta centrale, Lepage gli suggerisce alcuni spazi simili in Inghilterra (come la Roundhouse, che ospita concerti) e così inizia da parte di Bachman, una ricerca di altri luoghi aventi palcoscenici circolari nell’Europa dell’Ovest e dell’Est, spazi con origini diverse dal circo. 

Si arriva a una interessante mappa di edifici che si originavano dal patrimonio industriale o storico (come gasometri e cisterne d’acqua) riconvertiti in tempi recenti, a spazi per eventi. Questi luoghi molto particolari condividevano – a detta di Bachman – due caratteristiche: il fatto di essere isolati e a pianta centrale.

A questo punto Lepage prende la parola per raccontare, con umiltà e semplicità, la genesi del progetto teatrale vero e proprio. Sono diversi i “temi” affrontati dal regista canadese: la ricerca della forma, la scrittura drammaturgica come un continuo “non finito”, il “racconto in cerchio”, il richiamo al circo e allo show musicale ma anche ai match di improvvisazione e al teatro medioevale… E racconta cosa significa sentirsi “attore bidimensionale” like an Egyptian”.

 

La rottura della frontalità: il teatro degli anni Sessanta

L’idea di lavorare in uno spazio circolare mi interessava. Ho ripensato al teatro gli anni Sessanta, Settanta sino agli anni Ottanta. In quel periodo il teatro provava a rompere la quarta parete e la scena tradizionale lavorando anche in spazi circolari oppure faccia a faccia col pubblico. Si recitava spesso in luoghi industriali, insomma il teatro voleva liberarsi. Si era consolidato un vocabolario legato al vecchio teatro tradizionale all’italiana dal quale ci si voleva liberare: stile di recitazione, messa in scena, tutto era messo in discussione. Era in atto una rivoluzione che avrebbe cambiato le cose. Incastrato dentro una scena video-frontale, mi sono ritrovato come un’immagine “all’egiziana”. 

Negli anni Novanta il teatro comincia ad integrare sempre più spesso le immagini. La tecnologia era più disponibile, più malleabile, più accessibile. Si usava il video, si lavorava col bidimensionale e gli spettacoli erano diventati col tempo, prigionieri di questa forma. Anche io sono tornato a quello schema frontale di scena e mi sono ritrovato “come un’immagine all’egiziana”. Tutto questo era molto interessante e divertente, certamente si stava creando un nuovo vocabolario ma io mi sono sentito imprigionato in questa nuova dimensione. L’idea iniziale infatti, era quella di liberare la scena grazie al video, ma la cosa poi, è ricaduta in una sorta di immobilismo. Nei primi spettacoli, come  che era bi-frontale (le azioni si svolgevano di fronte e dietro uno schermo ndr), non ci si preoccupava necessariamente di quello che la gente vedeva o non vedeva, sentiva o non sentiva ma si cercava di trovare una chiave di recitazione che facesse arrivare la storia agli spettatori. Così mi sono ritrovato invece, nei miei spettacoli alla fine degli anni Novanta schiacciato come in una sorta di sandwich.

La scena a cerchio con Peter Gabriel: il ritorno alla teatralità 
Nel 2001 ho collaborato, per la seconda volta, con Peter Gabriel per il suo tour Growing up Live. Il palco era circolare e molto simile a quello di questo spettacolo. Nonostante non fosse uno show perfetto, mi aveva fatto ripensare all’idea di liberarmi del quadrato. Il solo modo di superare il problema di lavorare in un’area circolare, è quello di reinventarne il vocabolario. Quando c’è un gruppo che suona, si pongono dei problemi legati alla gestione dello spazio: per esempio, il chitarrista per chi deve suonare? Deve guardare il pubblico o altrove? Non era certo la prima volta che un gruppo rock suonava in uno spazio del genere, ma per me era la prima volta. Mi ponevo anche il problema del video: se non c’è uno sfondo o uno schermo, come si fa?
Mi piaceva molto l’idea del cerchio, il fatto che lo spettatore vedesse lo spettacolo e allo stesso tempo vedesse se stesso. Il pubblico guarda lo spettacolo, cerca di capire quello che succede ma allo stesso tempo vede l’eco della sua stessa reazione, si è consapevoli di far parte di una sorta di comunità. Mi sembrava che tutto ciò avesse una teatralità che io avevo perso nei miei spettacoli e avevo voglia di tornare a questo. 
Ho iniziato Jeux des cartes consapevole che sarebbe stato molto problematico lavorare in uno spazio circolare: trovare il livello di recitazione, decidere di recitare di fronte a solo una parte del pubblico ma necessariamente di spalle a qualcun altro, fare attenzione che il dettaglio sia visibile, che arrivi un’immagine molto precisa perché tutti la vedano e capiscano. Ma allo stesso tempo è questa la bellezza delle cose. E’ necessario mettersi in pericolo soprattutto a teatro, bisogna rischiare.

C’è una cosa che ho riscoperto dopo lo show di Gabriel e ancor più col Cirque du Soleil, (parlo dello spettacolo nel tendone dove non c’è uno spazio esattamente a 360° ma semicircolare, un po’ elisabettiano): l’idea che mi ha subito affascinato è che il pubblico vede la performance ma allo stesso tempo gli spettatori. Questo fa sì che il pubblico sia consapevole che si racconta una storia ma allo stesso tempo si crea anche una distanza.

Circolarità e verticalità: il circo, il teatro medioevale 
L’elemento che hanno in comune tutte queste esperienze è l’idea della verticalità. Quando il direttore del Cirque du Soleil mi chiese di collaborare con loro, mi disse che potevo fare ciò che volevo ma dovevo necessariamente sviluppare l’azione coprendo tutti i livelli dal suolo al soffitto. Mi disse che questa linea immaginaria verticale doveva essere il mio riferimento costante. Mi ha fatto capire una cosa importante e cioè che il circo è verticale, che quando si lavora su uno spazio circolare c’è necessariamente l’esigenza anche della verticalità.

 

Nel XX secolo siamo ossessionati dal cinema, dove l’immagine è orizzontale ed è la telecamera che si muove e ritrae l’uomo e il suo ambiente. Il teatro, al contrario lavora da sempre sulla verticalità. L’uomo è sulla terra, verso l’alto sono le sue aspirazioni, il suo dio, la sua morale.
Anche le storie da sempre erano scritte in quel senso: c’è l’uomo e in alto la sua volontà di crescere, le sue aspirazioni e la sua morale, più in basso il diavolo, l’inferno. Mi sono accorto che anche noi di Ex Machina, nel modo di raccontare le storie, avevamo eliminato il diavolo e dio (non ci chiamiamo infatti Deus ex machina ma solo Ex Machina dunque dall’inizio abbiamo eliminato la parola dio); volevo tornare a questo modo di raccontare le storie dove la verticalità ci forzava a ricongiungerci un po’ di più alla poesia, alla mitologia. Il cerchio insomma, ci ha messo di fronte a cose che non avevamo mai fatto, che non conoscevamo.
Per me è un’esperienza davvero molto ricca. Con l’organizzazione Reseau 360° e con Philippe è interessante discutere su cosa vuol dire lavorare in uno spazio circolare e che cosa vuol dire raccontare una storia in cerchio, quali sono i punti forti e quelli deboli, quali sono i vantaggi e quali i pericoli. Trovo che questo sia molto sano. In questo momento, non dico che le persone amino la facilità, ma c’è una sorta di accettazione degli standard industriali che dicono che tu devi raccontare una storia frontalmente, seguendo degli schemi fissi. Certo, ci sono quelli che lo fanno bene e quindi tanto meglio per loro, ma io amo complicare le cose!

Tecnici e attori dentro e sotto la scena 
Ci sono dodici persone che lavorano nello spettacolo tra attori e tecnici. Noi parliamo di tecnici ma si tratta di manipolatori che come con le marionette, muovono la struttura partecipando attivamente al racconto della storia. Si cerca con loro di capire come fare le entrate e le uscite in una struttura circolare. A partire dal momento in cui abbiamo cominciato a improvvisare, a esplorare le storie, gli attori suggerivano dei personaggi o delle situazioni e ci siamo ritrovati che erano dentro delle camere d’hotel. Allora ci siamo posti il problema di come rendere le quattro pareti delle camere; io amo molto gli ostacoli, amo molto i problemi e così proviamo varie soluzioni direttamente in scena. Prima dello spettacolo gli attori stanno almeno una ventina di minuti sotto il palco ad aspettare perché non possono entrare dopo gli spettatori, non possiamo vederli entrare. Gli attori hanno una sorta di volontà elastica per fare il vuoto nella mente e aspettare! Questa dimensione circolare è un’altra cosa rispetto a quello a cui siamo abituati, e sono queste le cose che mi attraggono..

Processo di scrittura: le carte in mano 
Io non ho tutte le soluzioni in tasca, le regole o le chiavi di ingresso: ci si imbarca in un’avventura in cui ogni tanto si trovano delle soluzioni che funzionano. C’è anche il pubblico che ci dice quello che funziona, quello che ha capito o meno e questo fa parte del processo creativo. Ci siamo riuniti attorno ad un tavolo, attori e non attori. Nei miei spettacoli ci sono sempre artisti che arrivano da diversi ambienti (cantanti lirici, imitatori, non attori etc.), che arrivano con un bagaglio di esperienza diversa. In questo caso ho dato loro le carte da gioco, che non sono esattamente un tema ma una risorsa, e insieme abbiamo giocato e parlato, abbiamo fatto delle improvvisazioni e anche delle ricerche.
Lo spettacolo è un po’ l’immagine di qualcosa che funziona bene ma prima di prendere la sua forma finale passa attraverso molti stadi e prove. Concentrando le prove in brevi blocchi di tempo (qui a La Comete 5 giorni, a Québec 10 giorni in cui abbiamo messo in piedi la struttura dello spettacolo e lo abbiamo presentato, abbiamo fatto 3 prove pubbliche) c’è sempre molto poco tempo per sviluppare il lavoro.
Tra questi blocchi ci sono 4, 5, 6 mesi. Ciò significa che non si fanno molte prove, tutto succede durante la tournèe. Arriviamo in una città dove ci prendiamo qualche giorno per discutere cosa cambiare, valutando ogni volta quello che ha funzionato o meno e si cambiano delle cose. Gli attori decidono a volte, anche di scambiarsi le battute.
Tra Madrid (dove è avvenuto il debutto assoluto, ndr) e qua a Chalons sono cambiate molte cose, a Madrid lo spettacolo infatti durava 3 ore, qui 2 ore e mezzo. I personaggi prima di trovare la linea interpretativa improvvisano, tentano degli esperimenti. All’inizio si cambiano molte cose perché ci si accorge di volta in volta di quello che non funziona e a forza di recitare, lo spettacolo inizia a prendere forma, a scolpirsi, il testo si affina e i personaggi trovano il loro percorso e la loro collocazione. Non c’è una visione di partenza di un grande autore che dice “si scrive così, si fa così”, la scrittura fa parte della dinamica del gruppo. Questo è uno spettacolo che ha bisogno di un grosso montaggio, sono necessari 2 o 3 giorni di lavoro e noi ne approfittiamo per far arrivare gli attori un po’ prima e discutere con loro. Alla fine di queste riunioni si prova e si fa una generale tecnica per capire se tutto funziona. Durante la generale tecnica si provano anche varie soluzioni drammaturgiche.

Cambiamenti dell’ultimo momento. Il teatro è uno sport 
Da quando è iniziato questo spettacolo abbiamo fatto 15 repliche. Ci sono dei punti che rimangono stabili perché funzionano. Ci sono molte cose che cambiano e altre che si solidificano, si fissano. In questa scelta, in questo modo di lavorare (ed è ciò che ci piace) c’è la scelta di mettersi in una condizione di pericolo. Le persone si affezionano ai punti più forti dello spettacolo, quelli che funzionano, quelli emozionalmente solidi. Sappiamo ad esempio, che la fine dello spettacolo sarà con il personaggio che soffre di gioco compulsivo e il suo sciamano, ma quello che dice e quello che succede cambia ogni volta, ancora non abbiamo trovato la chiave. Anche stasera cambieremo qualcosa, riscriviamo. Ma questo è il nostro sport! E’ molto sportivo quello che facciamo.  Ci sono delle cose che il pubblico non capisce ma ce ne sono altre che lo incollano alla storia. Noi ascoltiamo, arricchendo il nostro lavoro di nuovi elementi. Questo è un modo particolare di lavorare, fuori dal sistema nel quale ci si aspetta lavori subito pronti all’uso.

La narrazione non è all’altezza di un autore come me? Ma la storia non è ancora finita… 
La storia non è ancora cresciuta, i miei spettacoli sono così, può darsi che qualcuno abbia visto miei spettacoli più completi; è vero, ciò non scusa certe lacune drammaturgiche dello spettacolo. Ma è così che procediamo. Ancor prima che lo spettacolo venga scritto o messo in scena ci diciamo cosa vogliamo dire e fare e mettiamo in piedi il progetto scenografico che ci offre un terreno di gioco. Da qui partiamo per raccontare le storie e in questo terreno di gioco le cose nascono e crescono. Non sappiamo sempre dove siamo rispetto al percorso evolutivo dello spettacolo. Per esempio, quando abbiamo fatto Lipsynch a Londra c’era un ottimo impianto scenografico a supporto di idee che avevamo in testa ma che ancora non avevano trovato una forma. E la storia non reggeva ancora. Dopo tante repliche, lo spettacolo ha preso una forma precisa, esatta. E’ il mio modo di lavorare, non posso fare diversamente. Non ci sono certezze. E’ così che ho sempre sviluppato i miei spettacoli e a parte questo, c’è anche un fattore culturale. Cioè a dire che ci sono degli spettacoli che evolvono meglio all’interno di un contesto, in una certa cultura e che per diversi motivi rendono possibile la crescita dello spettacolo. Anche solo il fatto che all’inizio non ci si accorge che è mal scritto perché magari va in scena in un paese di lingua diversa. Anche questo fa parte dell’evoluzione dello spettacolo. L’itinerario dello spettacolo partecipa al suo sviluppo. Penso che dopo le date in altre città francesi (Lyon, Amiens) e inglesi (Londra), alla data di marzo a Parigi il pubblico vedrà uno spettacolo più completo. E’ sempre una nuova esperienza per chi si interessa al processo creativo, a me interessa soprattutto a quello. Ci sono persone infatti che vengono più di una volta agli spettacoli (indica Anna Monteverdi ndr) La delusione fa parte del processo ma a me questo piace.

Una questione di perfezione: il regista è un vigile urbano 

Ho una preoccupazione di perfezione per la scrittura e anche per la drammaturgia. Ma questa cresce lentamente perché si lavora con materiale umano. La tecnologia la si programma e si fa ciò che si vuole. Gli umani invece sono complessi! Per me questo è un lavoro necessario da fare, per gradi, una scoperta: non so dove andiamo ma so che c’è sempre un continente. Non sono un autore e un regista che dice “Seguitemi so dove andiamo”. Gli attori sono molto coraggiosi: nel momento in cui mi chiedono cosa devono fare nello spettacolo io rispondo che non lo so. Ed è vero, so solo che parla del gioco delle carte. Non ho subito la storia, io scavo e scolpisco il materiale che ho a disposizione. Le persone portano le loro esperienze, le loro idee e io divento un vigile urbano e a un certo punto, quando le cose circolano bene, sono in grado di vedere davanti a me le storie e di scolpire il personaggio, ma all’inizio non ci sono che idee e bisogna avere pazienza. Non sono quel tipo di artista che arriva con la visione di quello che vuole fare. Di sicuro sono come il capitano della nave che dice che non sa dove si va e quando si arriverà ma solo che c’è un continente, e che quindi si toccherà sicuramente terra. Si continua a lavorare sino a quel momento.

Il segreto: lavorare con l’agilità del rettile 
Lo spettacolo dipende anche dal tipo di tensione che si dà agli artisti. Noi pensiamo di presentare al pubblico delle cose interessanti, delle idee davanti alle quali può, più o meno, rimanere colpito, ma creiamo comunque un interesse. Anche se il pubblico non ha capito tutta la storia per intero, lo si ascolta cercando di capire se ci sono dei punti forti da valorizzare. E’ il nostro modo di aprire i giochi, mettere in campo anche la nostra ignoranza, ma c’è sempre grande fiducia. Anche se non c’è una garanzia assoluta in questo metodo di lavoro collettivo di Ex Machina, è necessario passare dagli spettatori e anche dalla critica. Raccogliamo i punti di vista e li mettiamo dentro unmulinello e ci lavoriamo.
E’ molto difficile il momento della ghigliottina della prima, il debutto: io sono riuscito a evitarla. Noi lavoriamo con l’agilità del rettile (sposta la mano da una parte all’altra mimando il serpente, ndr), cioè cerchiamo continuamente nuove vie. Ogni pubblico vuole cose diverse. Anche questo fa parte del mio lavoro. Ho detto prima della questione culturale, mi viene in mente La face cachée de la lune. Non avevo idea che trattasse temi universali e non sapevo in che modo li trattasse. Ho portato lo spettacolo in Europa ed è andato bene sino a quando non sono arrivato in Corea e il pubblico fece delle riflessioni importanti sui due fratelli della storia e su cosa significava per loro, e così mi sono reso conto che c’era una dimensione universale, ma questo non l’avevo messo in conto nel mio spettacolo, è una cosa che è nata li. Così mi sono rimesso a scrivere e ad arricchire la storia sulla base di questa riflessione. Io non so quale spettacolo lo spettatore vedrà ma cerco di confrontare sempre la storia con diverse culture e diverse persone, e questo è una vero lusso.

L’attore? E’ un cantore, uno che fa, uno che mostra 
Un buon attore normalmente è quello che partendo da un testo fa un’ ottima interpretazione e il regista può lavorare faccia a faccia con lui perché tutto è dentro il testo. Noi non abbiamo testo e allora il gioco è davvero un gioco e al momento giusto si finisce per ricreare e rifare da zero. Si cambia in continuazione e alla fine è come se avessimo avuto un buon testo sin dall’inizio. Ma il testo in realtà all’inizio non c’è, quindi io non posso dirigere l’attore, si può parlare delle idee. L’attore diventa più un cantore, uno che fa, uno che mostra.

Never ending stories 
Noi non abbiamo modo di prenderci due anni di lavoro su un solo spettacolo in Canada. Bisogna lavorare su più spettacoli e non si può provare concentrando il numero di ore a disposizione. Noi preferiamo prendere questo numero d’ore e allungarlo sui due anni di lavoro. In questo spazio di tempo le persone pensano allo spettacolo e fanno delle ricerche, tornando con delle buone idee. Utilizziamo il numero d’ore a nostra disposizione allungandole su un periodo più lungo. Si comunica con tutti i mezzi quando non ci si vede (mail, telefono etc) perché, non essendo una compagnia, lavoriamo con persone che fanno anche altre cose e vivono in città e stati diversi. Ma il lavoro di messa in pratica si fa quando siamo riuniti in gruppo prima dello spettacolo. Ad esempio, ogni volta vediamo il video dell’ultimo spettacolo per capire ciò che si è cambiato e va bene, e quello che si deve cambiare. Gli attori allo stesso tempo hanno una visione della scena nel suo complesso, a volte addirittura rimangono sorpresi vedendo quello che succede in scena e in relazione anche a questo cambiano delle cose dei loro personaggi. Quando ci incontriamo la volta successiva tutti hanno molte nuove idee. Questa è una dinamica che io trovo molto eccitante, c’è un’effervescenza… ed è sempre il rifiuto della ghigliottina della prima: si prova uno spettacolo per un anno, si fa qualche anteprima e poi il debutto e da quel momento non si muove più nulla, se alle persone piace, bene, se non piace.. è tutto finito. La ghigliottina. Io non ho voglia di stare dentro un sistema così, io penso che si debba lavorare su un progetto sino a farlo funzionare. E’ difficile farlo nel sistema attuale ma noi crediamo fermamente in questo processo creativo.
Gli attori hanno sempre voglia di recitare come quando si fanno i match di improvvisazione: non si sa se funzionerà o meno. Bisogna essere un po’ dipendenti dall’adrenalina per lavorare così.
Questo non giustifica nulla, se ci sono dei problemi drammaturgici ne siamo coscienti e cerchiamo di fare meglio. Ma è lo sport che pratichiamo, è uno sport diverso.

La creazione collettiva? Un’idea fricchettona a cui io credo ancora 
Siamo partiti da un gioco di carte, se giochiamo insieme e io chiedo ad esempio “A cosa vi fa pensare il colore rosso o il nero nel gioco delle carte?” Mi direte qualcosa e io non potrò mai essere in disaccordo con un’impressione di un altro, quindi non ci sono mai dei conflitti da questo punto di vista. Ma se si facesse così col tema della guerra nascerebbero subito dei conflitti perché tutti arrivano da una classe sociale differente e da un posto diverso e sul tema abbiamo opinioni diverse.
Si inizia con delle cose più poetiche e chiedo ad esempio ciò che le carte evocano e le persone raccontano fatti personali. Io prendo tutto questo materiale cerco di analizzarlo e intrecciarlo, cosicché il lavoro prende il colore di chi partecipa e questo spettacolo è davvero il risultato di queste sei persone più me.
Può capitare che per ragioni professionali qualcuno non possa continuare la tournèe e venga sostituito da un altro attore che cambierà ancora il colore dello spettacolo, e farà delle cose migliori o anche peggiori. Io so che in tutte le creazioni non c’è niente che si perde e niente che si crea. Molto spesso ci si riunisce intorno al tavolo portando delle idee che poi vengono abbandonate, addirittura buttate via ma che poi in qualche modo finiscono per riaffiorare facendosi strada in diversi modi e risalendo a galla per trovare la loro collocazione.
E’ così: una vecchia idea fricchettona degli anni Sessanta di creazione collettiva ma io ci credo ancora, ci sono persone che sono più al loro agio con questo modo di lavorare piuttosto che in una dittatura di regia.

L’attore deve essere in pericolo: la regola del teatro dai match di improvvisazione 
Noi non ci aspettiamo che lo spettatore si interessi al lungo processo di creazione. Noi cerchiamo di fare il meglio nel momento in cui lo stiamo facendo, per lo spettatore che c’è in quel momento, in quel luogo, senza giustificare nulla di quello che accade in scena facendo riferimento agli spettacoli precedenti o a quelli futuri. Tutte le sere cerchiamo di fare il meglio. C’è un motivo per il quale procediamo così, ed è per il fatto che il teatro abituale, convenzionale non suscita in noi lo stesso interesse. Non è una critica, non dico che quello non è un buon teatro, dico solo che quel tipo di teatro non ci mette in pericolo ogni volta che lo mettiamo in scena. Più regole ci sono, meno interessante sarà per un attore o per un regista.

Io arrivo dai match di improvvisazione e ho lavorato per il circo dove gli artisti provano i numeri di giocoleria ma non sono mai veramente sicuri di essere pronti. Credo però che lo spettatore riceva comunque qualcosa di importante ed è per questo che io difendo questo modo di fare e tutti i rischi che questo comporta. Cerchiamo di fare il meglio che si può la sera che si fa lo spettacolo; poco importa se a volte la drammaturgia è un po’ in bilico; il pubblico vede delle persone che sono in “pericolo”, che hanno questa energia e a volte questo fa scattare il miracolo, a volte è davvero miracoloso! A volte per niente.. Succede sempre che c’è qualcosa che fa scattare la molla della soluzione giusta, ci prendiamo il rischio di offrire questo.

Una drammaturgia a incastri 
Siamo sicuri che faremo come spettacolo: picche, cuori, danari e fiori ma queste carte prima eranospade, coppe, danari e bastoni. Questo perché le carte arrivano dal mondo arabo. Picche, ovvero spade è legato al mondo militare; il cuore/coppe è legato all’idea dell’amore ma è anche il sacro Graal, quindi è una carta legata alla religione, alla magia, alla superstizione, (si svolgerà un po’ nel mondo della magia a Parigi nel diciannovesimo secolo e non ha nulla a che vedere con lo spettacolo in corso).
L’altro è denari, che in inglese è diamonds, cioè legato a qualcosa che ha valore. Prima questa carta era rappresentata dalla moneta, quindi è legata al mondo del commercio; l’ultimo è fiori/bastoni che rappresenta l’agricoltore, l’operaio, ma rappresenta allo stesso modo la rivolta.
Adesso abbiamo toccato il tema militare nel prossimo ci sarà il tema della magia poi mondo degli affari e così via. Sono tutti temi collegati ed è importante per noi che nel primo spettacolo siano rappresentati tutti i semi.
E’ la prima volta che cerchiamo di seguire quattro storie contemporaneamente, normalmente negli spettacoli seguiamo le storie una dopo l’altra, qui cerchiamo di farlo contemporaneamente.

 C’è in queste quattro storie un rappresentante per ogni seme:
♠ spade/picche (la storia militare);
♥ cuori/coppe (la coppia che si sposa a Las Vegas;ci sono anche dei riferimenti alla fede e al sistema religioso);
♦ danari/ori (il mondo degli affari, col personaggio che soffre di gioco compulsivo che viene a Las Vegas per affari);
♣ bastoni/fiori (il mondo proletario, gli impiegati del casinò e della caffetteria che sono tutti immigrati e parlano in spagnolo).
Per noi è importante che le quattro carte siano rappresentate nella prima uscita in una sorta di microcosmo che inizi l’intreccio. Non sappiamo ancora se queste quattro storie avranno un legame ma sappiamo ci saranno dei temi che si intrecciano e si faranno eco lungo tutto il progetto. Il grande desiderio è quello di presentare in futuro i quattro spettacoli.

13 carte, 7 attori 
Non abbiamo ancora ingaggiato tutti gli attori ma ci saranno 7 attori per cuori. Abbiamo 13 carte, 6 attori per picche e 7 per cuori. Ci sono delle regole anche per questo: mescoleremo le carte per poi dividerle in due mazzi e decidere chi farà la terza parte e chi la quarta.
Anche per chi fa il montaggio dello spettacolo è chiara questa situazione in cui delle immagini trovano lentamente la loro collocazione, ma non si può mai forzare questo processo in modo definitivo.

Film e teatro: “Il teatro è NOW!” 
Una differenza tra far dire una cosa a un film e farla dire a uno spettacolo è che nel film si ha il materiale relativo alle riprese e si può solo cercare di incastrarlo col montaggio, cercando di far parlare le immagini ma resta tutto nelle immagini. Io invece posso benissimo dire ai miei attori, in qualsiasi momento di fare una cosa con un’intenzione completamente diversa e loro rimetteranno tutti gli orologi a zero. Nel cinema questo ovviamente, non si può fare perché è già tutto registrato. Per questo che trovo interessante recitare con questa particolarità del teatro: ogni giorno è un nuovo giorno e non si sa mai cosa accadrà.
Io non faccio molto cinema ma le prime volte che l’ho fatto, scrivevo la sceneggiatura, si girava si faceva il montaggio, poi il film veniva distribuito e durante il tempo di distribuzione magari ad un festival, parlavo con la gente del mio film e avevo l’impressione di vedere il fantasma delle mie idee passate. Quello che vedevo era quello che ero, magari due anni prima! Questo a teatro non succede mai. A teatro si parla di ciò che abbiamo fatto ieri, che faremo oggi e domani, anche se la tournèe è iniziata da cinque anni. E’ sempre now! Per questo io mi sento molto più vicino al teatro.

Di Anna Monteverdi e Giancarla Carboni.

Heiner Goebbels e il Festival di Ruhr
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Pubblicato su Juliet Art Magazine

La Triennale di Ruhr (2012-2014) in Germania conclusasi a ottobre, è stata una delle manifestazioni artistiche più complete e ricche dell’anno. Merito del direttore, al suo secondo e penultimo anno di incarico: il compositore e regista teatrale tedesco Heiner Goebbels, una delle personalità di rilievo nel panorama della sperimentazione musicale e multimediale contemporaneo.

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                                                                           Heiner Goebbels
 

Il fittissimo calendario di un mese e una settimana di programmazione prevedeva concerti, installazioni audiovisive, spettacoli teatrali, eventi di music theatre con supporto di visual, molti dei quali debutti assoluti, co-produzioni o proposte site specific. L’opening era dedicato al musicista americano, famoso per le sue composizioni in microtonalità, Harry Partch (1901-1074) con l’allestimento dell’opera Delusion of the Fury in formato multimediale a firma dello stesso Goebbels, che è stata salutata unanimemente dalla critica come l’evento musicale dell’estate. Sulle scelte artistiche di Goebbels –che ha voluto proporre opere di videoarte, musica, danza, digital performance– i nomi dicono già tutto: Robert Wilson, Douglas Gordon, Robert Lepage, Anna Teresa De Keersmaeker, Ryoji Ikeda, Quai Brothers, Rimini Protokoll, oltre allo stesso Goebbels che ha riallestito per l’occasione Stifter dinge sia in versione teatrale che installattiva.

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                              Silence, Exile,Deceit, installazione audiovisiva di Douglas Gordon 
 

Esperienze percettive, opere che interagiscono con lo spettatore, installazioni immersive in spazi densi di significato, di memoria, di storia. Il Festival era dislocato in varie aree geografiche intorno a Essen, seguendo un’idea cara alla ricerca, di drammatizzazione di luoghi industriali o non convenzionali; il più spettacolare di questi era il distretto carbonifero di Zollverein dove, grazie a un programma europeo di finanziamento, è stata rifunzionalizzata per una fruizione culturale, una ex area produttiva industriale per l’estrazione e lavorazione del carbone, molto vasta e affascinante per la presenza di macchinari, ciminiere e strutture adattate al nuovo uso. Così il videomaker Douglas Gordon ha lavorato dentro l’area del Kokerei per una installazione (o meglio, pantomina industriale, come viene definita dall’autore) molto suggestiva dal titolo SIlence, Exile, Deceit. Qua immagini video da incubo proiettate su pareti, tra luci spettrali e sonorità liriche, apparivano all’improvviso in mezzo a fiammate, fumi e voli di scale, in una struttura che calava in verticale nelle viscere della terra a raccontare storie enigmatiche alla Edgar Allan Poe.

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                                        Jeux de cartes-Coeurs, spettacolo di Robert Lepage
 

Il giapponese Ikeda nella stazione di Duisburg invece, ha tradotto in installazione audiovisiva di tipo immersivo, i dati digitali che ci circondano nella vita quotidiana. Il canadese Robert Lepage, ovvero il nome più autorevole nel teatro visuale contemporaneo, è sbarcato qua per il debutto del secondo atto dello spettacolo multimedia Jeux de cartes avente una originale scenografia a pianta centrale mobile con personaggi che spaziavano dal Québec contemporaneo all’Algeria della guerra d’indipendenza, in una successione di quadri e di eventi dal chiaro gusto cinematografico. Stifter dinge di Goebbels invece, è una raffinata e insieme stravagante proposta di spettacolo senza attori, con pianoforti assemblati insieme a oggetti, che scorrono su binari suonando senza musicista, avanzando verso il pubblico, sopra vasche con acqua e con intorno proiezioni video e suggestioni sonore e letterarie, in un’utopia di “macchina celibe” di duchampiana memoria che ha richiamato alla mente anche operazioni avanguardistiche storiche (dal Dadaismo a Fluxus). Un Festival che “non istruisce e non intimorisce ma offre un’esperienza per tutti i nostri sensi” secondo la volontà del suo direttore, frase che suona per molte ragioni, come un vero e proprio manifesto programmatico d’arte contemporanea. Polifonica.

Integrazione cinematografica nel teatro di Robert Lepage: Le Polygraphe
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Atti del convegno dell'Università di Roma su Cinema e intermedialità a cura di M.M.Gazzano

 

La scena di Robert Lepage, attore, regista teatrale cinematografico e d’opera, creatore di scenografie multimediali per concerti rock (1), è costellata da una vera polifonia di linguaggi e di immagini (fotografiche, video e in grafica 3D). L’effetto di ombre nel suo teatro è combinato variamente con le proiezioni video in diretta, tecniche che insieme creano un gioco e uno scambio ininterrotto tra la parte frontale e quella retrostante la scena, entrambe spazio d’azione live sia dell’attore che della macchina. Per questo motivo Iréne Perelli-Contos e Chantal Hébert affermano che il “medium di Robert Lepage è l’immagine” (2), mentre Ludovic Fouquet sostiene che nei suoi spettacoli Lepage fa della scena “una piazza forte dell’immagine” (3).

La sua originale drammaturgia gioca su più livelli narrativi: in un’architettura stratificata fatta di trame visionarie si intrecciano storie di esplorazioni simboliche, di perdite e di riconciliazioni; vicende lontane nel tempo e nello spazio si incastrano come scatole cinesi offrendo sguardi speculari, percorsi obliqui di memoria, investigazioni introspettive che relazionano la Storia al quotidiano. La scena – un vero trionfo di mechané e techne antica, commista a tematiche e tecniche postmoderne di appropriazione e citazione dai linguaggi della comunicazione mass mediatica – in costante divenire per mezzo del movimento e della luce come nell’utopia craighiana, diventa “maschera” per l’attore, ovvero corpo espanso e insieme luogo metamorfico dell’essere che si rivela, in ultima analisi, multiforme e illuminante macchina della verità.

Nel lavoro artistico di Lepage dove “non è il teatro che si meccanizza ma è la macchina che si teatralizza” (4), la tecnica è metafora di una condizione esistenziale di mutabilità perenne, di un processo di memoria e di conoscenza (dell’Io, della Storia), di un nuovo sguardo inteso come illuminante esperienza interiore; la scena è concepita come materia viva e palpabile, suscettibile di innumerevoli trasformazioni, pulsante all’unisono con il corpo dell’attore del quale è suo naturale riflesso, articolazione, appendice. Le tecnologie dell’immagine diventano metaforiche lenti addizionali per vedere il piccolissimo o ingigantire, oppure costituiscono uno specchio interiore. Producono una sorta di occhio supplementare, una protesi che ci protegge, ci fortifica e contemporaneamente ci permette di “vedere oltre“, oltre la visione binoculare umana. Producono una visione stereoscopica o addirittura a raggi X (come in Elseneur, spettacolo definito dallo stesso Lepage un encefalogramma del protagonista Amleto, ovvero “una timida esplorazione dei meandri dei suoi pensieri” 5).

Il procedimento di racconto per immagini è evidente soprattutto in Les aiguilles et l’opium (1990). Un senso di angoscia esistenziale, di impossibilità di fuga pervade lo spettacolo che parla attraverso le figure di Jean Cocteau e Miles Davis, di dipendenze (dalla droga e dall’amore). Su un pannello-lavagna rivestito di spandex sopra il quale l’attore si muove e danza appeso con un cavo all’alto del proscenio, vengono proiettate immagini che creano lo “sfondo” drammaturgicamente adeguato: il vortice dei Rotorelief di Marcel Duchamp (o la spirale nella scena dell’Ermafrodita in Le sang d’un poète di Cocteau, 1930) (6), che crea l’illusione di un uomo risucchiato dentro le sue spirali. Di particolare intensità le immagini proiettate sullo schermo di piccoli oggetti posti su una lavagna luminosa (due tazzine di caffé a tradurre sinteticamente un incontro al bar; una piantina di Parigi, delle chiavi) o l’ombra dell’uomo che offre il suo minuscolo braccio alla gigantesca siringa (azione composta da oggetti collocati in realtà a distanza: la siringa posta su una lavagna luminosa e l’uomo posto dietro lo schermo-lavagna). L’effetto di composizione dell’immagine e di “incrostazione” (ovvero “intarsio” tra ombre di oggetti di dimensioni diverse ma senza un vero lumakey) tra corpo reale e immagine in proiezione è senz’altro la caratteristica di questo spettacolo. L’uso della tecnologia delle immagini come metafora della memoria è esemplificato in Les sept branches de la rivière Ota, spettacolo, commissionato dal governo giapponese tra le attività di commemorazione del cinquantesimo anniversario della bomba atomica su Hiroshima. La tecnologia video – che nello spettacolo racconta attraverso immagini in movimento le storie orientali e occidentali che cominciano o finiscono a Hiroshima – associata all’antica tradizione del teatro d’ombre, diventa metafora stessa del processo di memorazione.  La scena, strutturata come una tradizionale casa giapponese, bassa e lunga, opaca e trasparente, diventa una lastra “fotosensibile”, o piuttosto un muto teatro d’ombre.

Il cinema è un riferimento fondamentale per Robert Lepage, il quale spesso ha dichiarato che la cultura audiovisiva, cinematografica e televisiva ha da sempre influenzato il suo teatro portandolo a “réinventer le vocabulaire narratif“. In quanto canadese, anzi in quanto québecois:

In Québec non c’è tradizione letteraria. Il nostro Molière è ancora in vita, ha cinquant’anni e si chiama Michel Tremblay. La tradizione letteraria non è presente come in Europa. La nostra tecnica di scrittura deriva effettivamente dalla televisione o dal cinema. Il teatro non è ufficializzato dalla scrittura: non si parla di scrittura teatrale ma piuttosto di uno spazio di scrittura cinematografica affiliata al teatro. Per quanto mi riguarda trovo la scrittura cinematografica più teatrale del teatro, risponde veramente alle regole della tragedia greca: le sceneggiature sono strutturate, sono dei sistemi shakespeariani. Mi stupisco dunque molto che la gente di teatro rifiuti questa scrittura. Con lo zapping, ciascuno può seguire una storia senza che venga raccontata in maniera lineare. Davanti al suo televisore uno spettatore può guardare contemporaneamente il calcio e un dibattito. E finisce per trovare il filo di ciò che guarda. E’ come a teatro, è in grado di trovare il filo tutto da solo, sa che questo è un flashback (…) Troppa gente considera il teatro qualcosa di superato.

Più che usare immagini cinematografiche, Lepage struttura la scena stessa come un grande schermo (i sette pannelli che compongono la casa giapponese in Les sept branches de la rivière Ota, il muro in Le polygraphe, la parete scorrevole in La face cachée de la lune, l’enorme cornice televisiva in Apasionada). La trama è spesso suddivisa in sequenze e “quadri” che ritagliano e isolano la scena letteralmente “incorniciandola”, ricreando vere e proprie inquadrature e movimenti della macchina da presa, mentre la storia procede attraverso originali raccordi imitando le modalità e le tecniche del film secondo un procedimento narrativo non lineare, con distorsioni temporali in forma di analessi (flashback) e prolessi (flashforward), che mettono in crisi la cronologia stessa del racconto.

La citazione al cinema è presente anche nella finzione teatrale: in Les sept branches de la rivière Ota un’équipe di cineasti americani sta filmando un documentario su Hiroshima; in Les aiguilles et l’opium il protagonista è a Parigi per un lavoro di postproduzione di un film; in Le polygraphe la protagonista è un’attrice che dopo molti provini, è stata scelta per girare un film. L’universo teatrale di Lepage è inoltre costellato di scritte proiettate in scena che segnalano la separazione da una sequenza all’altra oppure servono a dare indicazioni di luogo e di tempo, o a indicare i “credits” come i titoli di coda dei film.

LE POLYGRAPHE O LA RICERCA DELLA VERITA’

Le polygraphe, spettacolo creato con un lungo work-in-progress nel 1987-88 (ma con una prima ufficiale a Londra nel febbraio 1989) ed interpretato inizialmente dallo stesso Lepage insieme con l’attrice Marie Brassard (che fu anche co-autrice del testo) e con Pierre-Philippe Guay, ha avuto nel 1996 una versione giapponese e nel 2000 una versione italiana. Da una tragica vicenda autobiografica (l’omicidio di un’ amica nel 1980 all’epoca in cui Lepage frequentava il Conservatoire d’Art Dramatique di Québec) il regista trae gli elementi per un allestimento che gioca a confondere teatro e cinema, il racconto teatrale con la suspense del thriller e del film poliziesco (con echi da certa filmografia hitchcockiana) e con le tecniche cinematografiche. Il tema dello spettacolo, ambientato in parte a Québec e Montréal e in parte a Berlino il cui Muro è una simbolica presenza (soprattutto a partire dal 1989, anno della sua caduta) ma anche pratica parete di proiezione, è la verità. O meglio, la ricerca di una verità che, simile a una Matrioska, come si racconta nello spettacolo, sembra contenerne molte altre. Una donna è stata uccisa in circostanze misteriose e alcune persone a lei vicine vengono sospettate; tra di esse il suo ragazzo, François, uno studente di scienze politiche di venticinque anni che sta svolgendo una ricerca sul muro di Berlino. Dopo sei anni un regista decide di farne un film e per il ruolo della vittima sceglie una giovane attrice, Lucie, che abita porta a porta con François, il maggior sospettato dell’omicidio e sottoposto alla macchina della verità (poligraphe in francese). Questi, poiché non era mai stato informato dal medico Christof circa il risultato del test in quanto omicidio non risolto, cade in uno stato di angoscia e di ossessione che lo porta ad atti estremi di autodistruzione. Lucie (attrice teatrale dilettante alle prese con l’emblematico monologo amletico) conosce anche il criminologo incaricato delle indagini nel Metro di Montréal casualmente perché entrambi assistono al suicidio di un ragazzo, e in seguito hanno una relazione. Christof le rivela l’esito della macchina della verità; Lucie, a conoscenza dell’innocenza di François non potrà però rivelargliela. La vicenda termina con il suicidio di François sotto un metro. Sesso, sangue e morte sono strettamente collegati nello spettacolo, in un contrasto che ricorda le vicende e l’atmosfera che animeranno, sette anni dopo Les sept branches de la riviére Ota: la morte e la devastazione della bomba atomica si mescolano alla sensualità e all’invito alla “rigenerazione”. Come afferma lo stesso Lepage:

In Le Polygraphe la morte è un importante tema costantemente legato alla sessualità. Uno dei personaggi è un medico legale. Mentre seziona un cadavere, spiega come è fatta la carne, come circola il sangue, come funzionano o non funzionano più i vari organi. I dettagli sono insignificanti. Ciò che è importante è che egli ha entrambe le mani immerse fisicamente in un corpo. Quando vuoi far risaltare il giallo in un quadro usi il nero. Quando vuoi esaltare un tema musicale usi il contrappunto. Lo stesso vale per i temi di un dramma. Se vuoi rivelare la vita e vuoi che gli istinti sopravvivano e si riproducano, spesso devi avvicinarti ad essi attraverso la morte“.

 I rapporti, con risvolti sessuali espliciti, tra Christof, Lucie e François il principale indiziato, sono alla base dello spettacolo suddiviso in ventidue brevi sequenze frammentate con soluzioni di vera “cineficazione”: dissolvenze, flashback, primi piani, proiezioni, slow motion, accelerazioni, alternate scenes, con richiami espliciti al linguaggio cinematografico e alle convenzioni che regolano la comunicazione audiovisiva. La narrazione, costituita da una successione di quadri (alcuni dei quali esclusivamente visivi) solo apparentemente slegati tra loro e aventi continui spostamenti di tempi e di luoghi, mette il pubblico teatrale nella condizione di dover indagarne il senso, ricostruendo l’enigmatica vicenda: la macchina da presa – come ricordava André Bazin a proposito dei film di Cocteau – è lo spettatore.

Con Le Polygraphe si preannuncia l’interesse di Lepage verso una scena “integrata”, che attinga con grande disinvoltura al linguaggio e alla cultura dei vari media, dal cinema alla televisione. Questo libero e spregiudicato uso dei linguaggi in scena non significa però confusione tra le diverse arti, come precisa Lepage:

Il cinema, anche quello visto su grande schermo e in Dolby stereo, non potrà mai dare quello che dà il teatro. Non lo dico perché sono un purista. Lo dico perché il cinema è un’esperienza individuale mentre il teatro è un’esperienza collettiva” .

Gli oggetti e lo spazio

Pochi oggetti concreti “a funzionamento simbolico”, richiamano immediatamente – tra tensione verso il realismo e gusto metafisico – una storia drammatica di incomunicabilità, di solitudini, di drammatiche esplorazioni interiori, di silenzi, violenze, separazioni e morti: il muro, lo scheletro, lo specchio.

 Le proiezioni di diapositive e l’aggiunta di pochi altri oggetti di arredo (un rubinetto, un tavolo) permettono di trasformare il muro in stazione del metro, interno di discoteca, ristorante e appartamento; l’immagine fotografica è anche usata per evocare lo spettro della morte: nella scena iniziale al corpo di Lucie si sovrappone in proiezione l’immagine spettrale di uno scheletro che ha il suo corrispettivo nella scena finale: il corpo nudo di François diventa uno scheletro con un eguale gioco di specchi e di proiezioni. Lo scheletro come presenza funesta anticipatrice di eventi tragici (come nella scena della Danse macabre di Saint-Saens presente ne La règle du jeu di Jean Renoir, 1939) non può che richiamare sia le iconografie delle medioevali danze macabri o i Trionfi della Morte che raccontano – come ricorda M. L. Testi Cristiani – “l’umana Commedia o la moralité”, che le pitture surrealiste di Dalì e gli inquientanti manichini dei quadri metafisici di De Chirico. Come nel surrealismo e nella metafisica lo scheletro funziona quale dépaysage, oggetto insolito ed estraneo alla generale collocazione della storia inserito per associazione illogica e psichica, a metà strada tra visionarietà onirica e proiezione inconscia dei personaggi. Proprio il quadro metafisico Piazza d’Italia (1913) di De Chirico presenta un lungo portico lungo l’asse prospettico centrale e soprattutto, in posizione avanzata rispetto ad esso e completamente frontale a tagliare la metà del quadro, un lungo muro di mattoni che può vagamente ricordare l’ambientazione scelta per Le polygraphe. Il muro permette lo svolgimento di azioni davanti e dietro di esso, stabilendo così, anche una distanza fisica tra gli eventi spazialmente distanti, narrati. Tale procedimento verrà perfezionato proprio ne Les sept branches de la rivière Ota in cui è usata dagli attori tutta la profondità del palco grazie all’espediente della presenza di una parete orizzontale divisoria fatta di schermi trasparenti – a ricordare la facciata di una casa giapponese. Questi attraverso l’uso particolare di luci e proiezioni di video e di ombre permettono una narrazione che disloca eventi temporalmente e spazialmente lontanissimi tra loro (dal 1945 al 1985 e dall’Oriente all’Occidente) in luoghi diversi della scena ma tutti raccolti, esattamente come in Le Polygraphe, intorno a un unico ambiente avente una forte pregnanza simbolica. Scheletro e muro, inoltre sono strettamente collegati insieme nel racconto teatrale: così come l’innalzamento del muro di Berlino nel 1961 che delimitava il confine tra Est e Ovest ha significato la morte per centinaia di persone che dalla Repubblica democratica volevano entrare nella Repubblica federale, così il cadavere sezionato prelude a quel suicidio finale la cui motivazione sarà proprio la consapevolezza da parte di François di una prigionia all’interno di un muro di silenzio, associato all’impossibilità di comunicare la propria innocenza. Lo specchio è, inoltre, una costante presenza negli spettacoli di Lepage: solitamente simbolo nel suo teatro, di un necessario percorso di indagine autoanalitica dei protagonisti generato da una frattura o una perdita, in questo caso diventa porta verso un altro mondo (come nel film di Jean Cocteau Le sang du poète, 1930) e oggetto di scambio fra la realtà e il mondo interiore. Lo specchio – oggetto orfico per eccellenza – registra, secondo una famosa frase di Cocteau che è anche presente nella conversazione tra Lucie e Christof al ristorante, “la mort au travail”:

 “Les miroirs sont le portes par lesquelles la mort vient et va. Du rest, regardez-vous toute votre vie dans une glace et vous verrez la mort travailler comme les abeilles dans une ruche de verre.

Cinema o teatro?

Nella prima scena denominata Il filtro (Québec, 1983) abbiamo una simultaneità di situazioni: sulla destra il criminologo Christof Haussmann legge un rapporto di autopsia di un cadavere servendosi per indicare le ferite sulla vittima, di uno scheletro in posizione fetale. Sulla sinistra François Tremblay illustra ai suoi compagni universitari una relazione sul muro di Berlino. La connessione tra i due discorsi è evidente: il taglio sul corpo ha inferto un blocco al passaggio del sangue ossigenato, il muro di Berlino ha impedito la libera circolazione di persone e di idee. Si parla di un omicidio e contemporaneamente della Storia. La metafora anatomica e il procedimento di montaggio parallelo (alla Griffith) o anche l’effetto a “doppia finestra” video contigua e comunicante, che prevede un passaggio di parole e intrecci di frasi tra i due personaggi, fanno slittare continuamente il discorso dal teatro al cinema alla denuncia politica e sociale. Il muro di Berlino (che nella scena 7 arriverà letteralmente a sanguinare perché “...la Storia è scritta con il sangue“) ha inciso profondamente sul corpo della collettività abitante la zona Ovest così come profonda è la ferita da arma di taglio del cadavere sottoposto all’autopsia del criminologo tedesco:

 François: ….I sovietici, da parte loro, hanno costruito un muro di più di quaranta chilometri che l’ha tagliata in due.

Christof: L’avevano tagliata alla mano sinistra, al braccio destro, colpita alla cassa toracica con un proiettile perforandole il polmone e si può supporre che il colpo fatale sia stato inferto qui

François e Christof: …In pieno cuore

François….della città

Christof.…tra la quinta e la sesta costola

François: Il muro della vergogna, come lo chiamano i tedeschi dell’Ovest, venne eretto allo scopo di bloccare….

François e Christof.…l’emorragia….

François…di berlinesi…

Christof….che è seguita

François..passando da Est a Ovest…

Christof: …è stata occasionata dal sezionamento del setto.

L’incipit che simula il montaggio parallelo con conseguente ritmo sostenuto, risponde anche alla classica funzione di tale procedimento nei film, ovvero di presentazione sintetica al pubblico dei personaggi e delle vicende della storia. In questo caso il montaggio parallelo prelude anche all’intreccio drammaturgicamente significante tra muro e cadavere, le cui immagini diventano un vero leit motiv visivo, facendo precipitare il racconto continuamente dal piano realistico a quello simbolico e viceversa.

Lo stesso espediente della contemporanea doppia colonna narrativa (il cui corrispondente filmico è appunto, il montaggio parallelo) viene riproposta nella scena 19: durante il trasloco Lucie trova una cintura borchiata: François dice di usarla per alcune pratiche omosessuali sadiche. Dietro il muro grazie a uno specchio appare Christof che sta parlando a una conferenza sugli effetti devastanti provocati dalla macchina della verità: mentre spiega i danni permanenti che può causare psicologicamente a una persona che si dichiara innocente, François descrive a Lucie come si stringono con forza i lacci e come si benda la persona per renderla maggiormente vulnerabile, racconto che lo riporta con la memoria all’episodio della macchina della verità, in un vortice di ricordi in soggettiva, violenti e drammatici, in bilico tra innocenza e colpevolezza, tra verità e menzogna:

Christof: In primo luogo, la macchina della verità registra la minima variazione della velocità e del palpito del cuore, indicando anche, con un disegno nel grafico, se c’è un aumento, oppure nel caso di certe persone, una diminuzione della pressione arteriosa.

François: Stringo un poco

Christof: La respirazione del soggetto interrogato offre un’altra lettura delle modificazioni fisiche provocate dai nervi. L’apparecchio poi controlla il livello di sudore della persona interrogata. La macchina della verità può rivelare la minima variazione dello stato fisico e psichico prodotta durante l’interrogatorio

François: (Benda gli occhi di Lucie) Così hai realmente la sensazione di essere vulnerabile…

 Nella scena 4 (François; interno, notte) François, cameriere in un ristorante di Montréal, apparecchia, sparecchia e dialoga con clienti immaginari a velocità sostenuta in una specie di accelerazione mediatica e recita con la stessa accelerazione il testo della scena successiva. Con una frequenza ossessiva fanno poi la loro comparsa nella mente di François, come un incubo incancellabile, l’immagine del lie-detector e la voce del criminologo che gli rivolge la solita domanda:

 “François mi sente?…Ma non può vedermi vero? François stiamo per procedere a un test… Siamo o no in Canada? Siamo o no in estate? Lei ha assassinato o no Marie-Claude Légarè?”.

 In questo caso si unisce anche il motivo del flashback diegetico che, più che far tornare indietro il racconto, crea una pausa sostenuta la cui funzione è quella di focalizzare l’attenzione sulla psicologia del personaggio.

Nella Scena 5 (Audizione, interno, giorno) Lucie fa il provino per un film; le viene chiesto di improvvisare una scena drammatica. Nella scena successiva (Metrò, Interno notte) Lucie assiste al suicidio di un ragazzo e in stato di choc, viene soccorsa dal crominologo Christof. Alla fine della scena Lucie è ancora dentro la sala cinematografica per il provino. La scena del metro non è altro dunque, che un flashback che Lucie ha richiamato alla sua mente volontariamente (quasi stanislawskianamente) per ritrovarsi in una condizione emotiva drammatica come richiestole per il provino ed essere così più realistica nella sua interpretazione. Nella scena 13 (La ferita; interno, notte) Lucie e Christof sono a tavola al ristorante serviti da François quando in un’azione esasperatamente rallentata quasi come un fermo fotogramma, viene accidentalmente rovesciato sulla tovaglia il vino rosso che sembra ricoprirsi di sangue e richiama l’omicidio in cui a vario titolo tutti e tre sono coinvolti e introduce con un climax estremamente significativo, la tensione tipica del thriller cinematografico. Lo slow motion che produce un effetto di estensione temporale, enfatizza infatti un evento diegetico di breve durata per creare un crescente effetto di suspense.

Se Le Polygraphe è costruito interamente attraverso una sequenza a episodi con “effetto cinema”, appropriandosi dello “spazio-tempo filmico” ed in base ad un ordine del racconto non lineare, ricco di passaggi al passato, il finale addirittura arriva a “mostrare” al pubblico teatrale i personaggi non solo frontalmente ma da punti di vista insoliti, con una visione dall’alto, per esempio, come se si trattasse di un movimento della macchina da presa rispetto al soggetto, giocando sullo spostamento radicale verso il linguaggio cinematografico (e che ancora una volta ricorda Le sang d’une poète di Cocteau, scena “La leçon de vol, la petit fille au mur”).

 Gli attori, per mostrare questo insolito punto di vista, sono atleticamente posizionati in maniera da stare in bilico sul muro in posizione antigravitazionale, mentre nella scena 16 si ripropone una sorta di coreografia come riassunto visivo in forma di corti flash, ovvero in avanzamento veloce (il line up). In questo scorrere finale della vicenda, i personaggi si muovono velocemente con gesti essenziali e sono completamente nudi (è la resa davvero letterale della ricerca della “nuda verità”).

Le polygraphe, thriller metafisico, corre sul filo di un doppio cammino di verità: mentre si cerca il vero assassino attraverso vari indizi, ricostruendo ciò che accadde grazie alla macchina della verità, si rivela che il cinema è illusione (Lucie usa un liquido irritante per piangere sul set). Se la verità passa per una menzogna (l’innocente François sottoposto al lie-detector alla fine non è più sicuro di essere tale), la finzione cinematografica gioca ad apparire terribilmente reale (“A volte bisogna soffrire quando vuoi far sembrare che stai davvero soffrendo”). Come il bisturi seziona il corpo dell’assassinata per scoprirne la causa della morte, così l’occhio della cinepresa incombe minaccioso sull’attrice, rovesciando inaspettatamente la vicenda tragica e la rappresentazione del dolore (è cinéma-verité o la realtà?) e giocando un macabro gioco la cui posta è la vita stessa: “Il regista mi pare un po’ insistente, voglio dire, con l’occhio della sua camera… Oggi abbiamo girato una scena in soggettiva, sa, come se si vedesse l’azione attraverso gli occhi di un assassino che guarda la sua vittima attraverso un lampo di luce. Ma durante la ripresa (…) avevo l’impressione di essere guardata (…) Mi è sembrato di essere fatta a pezzi (…). Sì… sai com’è… un piano della bocca che urla, primo piano del coltello nella schiena, la mano che gratta il pavimento”. Se la reazione spontanea dell’indiziato è secondo la polizia, la prova dell’innocenza e la macchina l’unico strumento in grado di registrare le alterazioni di emozioni e di afferrare quindi, la verità al di là e oltre ogni simulazione, lo spettacolo afferma con decisione il contrario: l’impossibilità di approdare ad una verità unica e definitiva che appare al contrario sempre più inafferrabile. La presenza di Amleto interpretato da Lucie sul palcoscenico, contribuisce a fornire la visione di una gravosa e sofferta ricerca interiore: le storie di tutti i personaggi, dal criminologo Christof a Lucie Champagne a François nello spettacolo non sono altro che le storie degli Amleti che hanno gettato uno sguardo sulle cose del mondo, ne hanno visto l’orrore e sono stati colpiti da un dolore insopportabile. In questo senso è esemplare la scena 2 completamente muta e ambientata all’istituto medico-legale: di fronte alla macchina della verità Christof, tormentato da apocalittici dubbi di innocenza e colpevolezza, sta maneggiando un teschio. Queste le indicazioni del copione:

“Christof sta terminando la redazione di un rapporto sopra un test del poligrafo. Chiude il detector, sistema le sue carte, tira fuori di tasca una sigaretta e l’accende, poi sempre dalla tasca cava una lettera che rilegge con emozione, si direbbe per la centesima volta. Prima di uscire, dopo aver indossato il cappotto incrocia lo scheletro che ora è in piedi e ne prende con dolcezza la testa in mano, imitando inconsapevolmente la posizione tipo di Amleto”.

 Le Polygraphe (di cui Lepage firma anche una regia cinematografica nel 1996 tiepidamente accolta dalla critica) condivide con Le Confessionnal (suo successivo film ispirato esplicitamente a I Confess di Hitchcock) il tema della ricerca di una verità che attraversa labirinticamente meandri nascosti della vita dei personaggi mettendone in luce drammi interiori inespressi o rimossi e relazioni irrisolte.

NOTE

 (1) Vedi A.M.Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage, Pisa, Bfs, 2004, La tecnologia è la reinvenzione del fuoco in E.Quinz (a cura di) Digital performance, Paris, Anomos, 2002; Attore-specchio-macchina, in A. M. Monteverdi, O.Ponte di Pino, Il meglio di ateatro, Milano, Il principe costante, 2004; A.M.Monteverdi, La scena trasformista di Lepage in “Teatro e storia” n.25, 2005.

(2) “E’ chiaro che la pertinenza dell’immagine come medium risiede meno nella sua capacità di rappresentazione che nei suoi effetti metaforici sullo sguardo, incitando lo spettatore a vedere ‘altrimenti’ e più lontano di quanto l’occhio non veda. Se in generale ‘i media sono cambiati e hanno cambiato la nostra maniera di pensare, sia sul piano della forma che del contenuto’ quello che l’immagine teatrale sta cambiando in quanto medium, è in modo particolare, la nostra maniera secolare di vedere, interrogando e esplorando in scena quello sguardo nuovo che la nostra epoca posa sul mondo“. I. Perelli-Contos, C. Hébert, L’oeuvre de R. Lepage, cit., p. 277. La frase tra virgolette è di Robert Lepage ed è tratta da I. Perelli-Contos, C. Hébert, La tempête Robert Lepage, cit., p. 64.

(3) L. Fouquet, Clins d’oeil cinématographiques dans le théâtre de R. Lepage, “Jeu”, n. 88, 1998.

(4) Irène Perelli-Contos e Chantal Hébert si sono soffermate a lungo sull’uso metaforico delle tecnologie nel nuovo “teatro immagine” secondo Lepage. Rimandiamo senz’altro all’importante saggio (riferito in particolare agli spettacoli Circulation e Les sept branches de la rivière Ota) L’écran de la pensée ou les écrans dans le théatre de Robert Lepage, in B. Picon-Vallin (a cura di), Les écrans sur la scène, Lausanne, L’Age d’Homme, 1998.

(5) Nota di Robert Lepage allo spettacolo Elseneur, datata settembre 1995 e consultabile al sito http://www.cicv.fr/reseau/epidemic/geo/art/lepage/prj/els.html

(6) Il riferimento visivo immediato è alle semisfere rotanti di Anemic cinema (1925-1926, 7′, 35mm), film muto realizzato da Marcel Duchamp in collaborazione con Man Ray.

Robert Lepage, The Buskers Opera
4

Un (video)teatro in fuga dalla cornice…
Pubblicato su Exibart
The Busker’s opera liberamente tratto da L’opera da tre soldi di Brecht, mette in campo l’abilità di “gioco” del geniale e poliedrico Robert Lepage che usa Brecht per ironizzare (e accusare) i mass media e immaginario collegato, usando con grande disinvoltura le tecnologie video della diretta e permettendosi anche un formidabile corto circuito tra musica e spettacolo teatrale vero e proprio.
Brecht aveva concepito L’opera da tre soldi con “ballate da leggere e da cantare” e Lepage celebra a suo modo l’attualità del drammaturgo regista tedesco e del suo dramma di un mondo votato alla perdizione, in cui ladri e sfruttatori sono vittime dello stesso sistema e dove si dimostra il fondamentale assunto politico secondo cui i metodi della malavita e quelli dei gentiluomini si equivalgono.
Lepage usa un grande schermo al plasma telecomandato in grado di muoversi su guide per tutta la profondità e in tutta l’altezza del palco, libero da supporti a terra. Lo schermo nasconde al suo interno una telecamera, e il dispositivo complessivo (occhio che riprende, schermo che diffonde) diventa ironico correlativo oggettivo di stati d’animo; il dispositivo video sorveglia e insegue i personaggi che all’istante vengono televisivizzati, incorniciati, diventando personaggi di una reality tv, ospiti di un talk show, attori di una soap, protagonisti luccicanti di un video clip.
Dà l’avvio alla storia il giovane artista di strada, percussionista di piatti, legnetti, bicchieri e latte di benzina, impegnato in un concerto povero quanto straordinario per raccogliere i soldi per la sopravvivenza quotidiana. La storia tra la giovane e virtuosa Polly (che si esercita allo scratching disco) e il bandito Macheath (un cantante alla Beach Boys) nel mascheramento spettacolare, diventa una fiction dalle tinte forti, mentre il signore e la signora Peachum sono l’uno il cantante easy listening e l’altra una specie di Ivana Trump che si esprime con vocalizzi alla Callas.
Tutta la trama dell’opera è spostata sui nuovi luoghi di potere a cui l’arte si svende (l’industria musicale e i media, e tra tutti il tubo catodico) per necessità o per sete di successo. Un solo elemento scenografico caratterizza lo spettacolo, una cabina telefonica che aprendosi, srotolandosi, può diventare qualunque luogo, da un interno domestico, a locale a luci rosse, alla galera. L’orchestra è ben visibile e ampio spazio è lasciato ai “solo” dei musicisti-attori che incarnano le diverse personalità dell’opera brechtiana rivisitati e interpretati alla luce dei “generi” musicali che incarnano al meglio la loro personalità: jazz, rock, ska, disco, melodico, rap, classica.
Il messaggio è chiaro: quando l’arte viene inglobata cannibalicamente dentro la cornice, insomma nel triturarifiuti dello show business, non c’è più scampo, tutto diventa commestibile. Unica salvezza per la libertà creativa dell’artista, l’uscita dalla finzione spettacolar-televisiva che fa ritornare i protagonisti sulla strada. Come buskers.
Gallery:  Trailervideo
bio
Robert Lepage (Quebec City, 1957) è attore e regista teatrale, cinematografico e d’opera. La sua biografia è costellata di una serie di successi internazionali Vinci, Geometry of miracle, The seven streams of the river Ota, The Needle and the Opium, La face cachée de la lune con musiche originali di Laurie Anderson e Apasionada. Strabilianti le macchine sceniche dei suoi spettacoli che prevedono l’uso del video, ideate dallo stage designer Carl Fillion. Ha fondato Ex machina, struttura teatrale e multimediale che ha sede a Québec e In extremis images, società di produzione cinematografica.

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