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Beckett secondo Maguy Marin: Umwelt. Testo di Salvo Gennuso
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Maguy Marin, francese di origine spagnola, è una danzatrice e coreografa, senza dubbio la maggior esponente della nouvelle danse francese. Dirige la Compagnie Maguy Marin che ha sede a Tolosa. Formatasi al Mudra (Bruxelles) con Maurice Béjart, Alfons Goris et Fernand Schirren, ben presto Maguy ha elaborato un percorso artistico personale che dalla danza l’ha portata a sondare nuovi territori nella creazione contemporanea, fino a divenire l’interprete maggiore della non-danza. Il suo spettacolo simbolo è May B, creazione del 1981, replicato centinaia di volte in tutto il mondo e tutt’ora in tournee. Nel 2012 è stata l’ospite principale del Festival D’Automne a Parigi, dove ha presentato ben sei sue produzione, fra nuove (Nocturnes e Faces) e repertorio (Cap au pire, Ça quand même, Cendrillion, May B). Nelle sue creazioni sono spesso evidenti tracce dell’opera di Samuel Beckett. Umwelt è una creazione del 2004 da cui è nata una nuova produzione nel 2013. Lo spettacolo è stato visto al Théatre Paul Eluard di Bezons, Paris, 7 gennaio 2014.

«Sans ici ni ailleurs où jamais n’approcheront ni n’éloigneront de rien tous les pas de la terre.» ( Samuel Beckett- Pour finir encore)

C’è una situazione di vaghezza che ti prende all’ingresso in sala: una vaghezza derivata dalla strana scenografia che ti si presenta, sul palco aperto, fatta da una serie di lamine verticali, poste sul fondo, sottili, larghe mezzo metro l’una circa, disposte su piĂą file e a una certa distanza l’una dall’altra, come a formare dei separĂ©, delle piccole quinte.  Il colore vagamente – torna la parola “vago”, mi viene da pensare che vague in francese significa “onda”, e vague è una delle parole essenziale del vocabolario beckettiano, “vague” (onda) che assomiglia a “bague” (anello) – vagamente grigio, si intuisce che la superfice, secondo come la luce vi pioverĂ  sopra, potrĂ  diventare uno specchio che rimanderĂ  però una realtĂ  “vaga”.

La scena è in realtà divisa in tre parti: nella prima, verso il fondo, queste lamine di ghiaccio, quinte fissate solo al pavimento; poi la parte centrale, vuota; quindi  la terza parte, verso il proscenio, che presenta tre chitarre, disposte a terra con il corpo a favore del pubblico e il manico rivolto al fondo.

Lo spettacolo inizia con i danzatori – ma possono ancora dirsi danzatori, se in tutto lo spettacolo ci sarà solo una breve figura di danza? – che si presentano al pubblico, lo guardano o si fanno guardare, come più vi piace. Poi scompaiono. In May B, verso oltre la metà dello spettacolo, la Marin fa entrare tutti i suoi personaggi, i personaggi di Beckett, che fermi si fanno guardare o ci guardano. Il discorso mi pare riprenda da lì, con una differenza: qui non ci sono personaggi, non c’è Hamm, non c’è Clov, non c’è Pozzo né Lucky; i danzatori, come potremmo incontrarli per strada, vengono fuori dai corridoi fra le fila delle lamine-quinte, sostano per qualche secondo, più di qualche secondo, e poi scompaiono. Da qui in poi avviene il cataclisma: intanto la negazione alla vista, come se i danzatori rifiutassero di performare il loro copione di fronte al pubblico, e perciò quasi tutto avviene di spalle, laddove non è possibile, di fianco  a guardare verso destra o sinistra del palco, e ciò che succede si può raccontate come l’esplosione di un meccanismo che mette in scena l’uomo, l’essere umano, nelle sue più banali e convenzionali forme, nell’esecuzione di un gesto comune, tutto in una solitudine di atti, solo sporadicamente interrotta, quando si cerca una relazione, più spesso una relazione fra uomo e donna, che porta in sé i segni della disperazione, un uomo che guarda il mondo e la donna che si butta al suo collo nel tentativo di farsi sorreggere, coppie che si baciano ma scompaiono subito, nella subitanea incertezza del tempo, e poi ancora uomini che sorreggono sulle spalle donne nude, come quarti di bue, cosa che in effetti avverrà pure.

I danzatori appaiono e scompaiono da queste quinte, mosse da un vento incessante, sconvolte da una musica materica che interferisce con il suono delle tre chitarre, le cui corde vengono sollecitate da una fune senza fine che si srotola da uno “gliommero” , meglio, da un mulinello posto sull’altro lato del palco.

Gli attori compiono i loro gesti semplici, radersi, alzarsi i pantaloni, si presume dopo aver defecato, fischiare un fallo in una posa da arbitro di calcio, contare soldi, asciugarsi il viso, prima in una soluzione solitaria, poi piĂą attori contemporaneamente, che sortiscono dalle diverse fughe fra le quinte, che intanto vengono sconvolte da questo vento e dalla musica.

Di tanto in tanto uno di loro si ferma, poi sono in due, poi in tre e così via, a fermarsi di fronte al pubblico a guardarci o guardare la scena, che in effetti si illumina, e a questo punto si compie come un miracolo: la danza non è sparita, diventa un effetto indotto, vediamo le nostre “vaghe” sagome e poi il resto della scena – scena che man mano si riempie di detriti, di oggetti buttati dopo essere stati consumati, ossa, materiale di scarto, donne, bambini, parrucche – riflessa nelle quinte piĂą prossime alla nostra vista, tutto si muove e danza, fino a che non si ritorna a questo inutile giro, che rimanda nella mia memoria a Quad di Beckett, lo penso immediatamente,   per l’insensatezza del movimento che sembra come il meccanismo di un orologio, nella sua inesausta ripetizione, e la conferma di Quad come elemento strutturato nel pensiero dell’azione mi viene quando dal fondo, fra le quinte, compaiono dei personaggi completamente avvolti in una djallaba, come prescrive Beckett; appaiono in un movimento quasi a pendolo e scompaiono.

Non c’è altro in questo spettacolo, forse non può esserci altro. Non c’è la devastante bellezza di Faces, né il dominio dell’assoluto di May B. C’è il radicalismo incondizionato di un’artista che metta in scena l’uomo, e facendo ciò reinventa costantemente l’idea dello spettacolo dal vivo. Con Umwelt siamo dalle parti del capolavoro. Lo spettacolo parla all’intelligenza dell’anima e della ragione, per questo va visto, fatto sedimentare e rivisto. Ha ancora perle da mostrarci, dopo averci ferito con la sua visione.

Immagine di copertina Timothy A.Clary/ AFP

 Umwelt, con Ulises Alvarez, Charly Aubry, Kaïs Chouibi, Estelle Clément Bealem, Laura Frigato, Daphné Koutsafti, David Mambouch, Mayalen Otondo, Ennio Sammarco
 Musiche di Denis Mariotte

Salvo Gennuso è regista teatrale, drammaturgo. Dirige la compagnia Statale 114 di Catania. Lavora per il teatro, nel sociale, si occupa di letteratura e arte.

 

BECKETT secondo Maguy Marin: Cap au Pire. Testo di Salvo Gennuso
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Nel cuore di Beckett, oltre Beckett, malgrado Beckett. Cap au pire di Maguy Marin

Negli ultimi anni della sua vita, Samuel Beckett ha scritto delle opere molto brevi, spesso oscure, dove la lingua e il significato sono portati a dissoluzione, ivi compresa la parola, che rimane ad essere non giĂ  significante, ma cosa, immagine spuria, in un (dis)ordine senza sintesi nel quale non è prevista nessuna sintassi logica, nĂ© accorporazione di parole a costruire, seppur sfuggevoli, discorsi. La sua prosa procede per impulso, come traducendo sempre un aspetto visuale, una forzata visione dell’occhio o della mente. Tale scomposte prove – prose – mettono a dura prova la pazienza e l’intelligenza del lettore, al quale, seguendo ad un prima lettura, risultano non solo ostiche, ma vieppiĂą incomprensibili. Si percepisce un fondo di bellezza che si rivela solo ai piĂą curiosi, che tornano all’origine del tormento per rifare il percorso di lettura, rivelandosi come lucida e tagliente immagine, come straordinari pezzi che interrogano. Ma cosa? Chi? 

 Foto di © Laurent Philippe / fedephoto.com. 

Fra le piĂą difficili, forse la palma del peggiore, o migliore, pezzo tardivo nell’opera di Beckett, va a Worstward-ho, titolo mutuato dal linguaggio marinaro che significa che l’ovest è in vista (westward-ho nella vulgata ufficiale), la meta giunta, mentre nella mutazione della prima parte della parola, finisce coll’assumere il significato di “peggio tutta” o “peggio in vista”. Nell’unica traduzione ancora in commercio in Italia il titolo è rimasto in originale, mentre in francese fa Cap au pire.
Maguy Marin ha coraggio colossale a mettere in scena questa prosa, in una tenebra assoluta che non lascia scampo a nessuno, nĂ© allo spettatore nĂ© alla danza, cui lo spettacolo viene ascritto come genere: Maguy finisce ciò che Beckett ha iniziato, porta a compimento quel processo di dissoluzione che dalla lingua alla parola con la Marin arriva in scena. Bisognerebbe chiederle per quale motivo, quale urgenza l’ha spinta verso Cap au pire, ma chi frequenta assiduamente, aspramente Beckett, sa che la risposta è contenuta nella domanda, nella frequentazione.
Cap au pire va in scena per il programma del Festival d’Automne a Parigi, nella retrospettiva dedicata all’artista di Toulouse, in una sala al 104. Prima di entrare ci pregano di spegnere “realmente” i cellulari, di non lasciare per nessuno ragione lo schermo attivo, che non si illumini. Ci si immagina cosa ci aspetta: il “tutto buio”, tutto nero. La prima scena è un lampo, squarcia il buio assoluto con la forza di una rasoiata su una pelle glabra, dura un attimo, illumina ma non rivela, c’è il tempo per cogliere solo una larga striscia di luce al proscenio.

Poi ripiomba il buio, assieme ad una voce che dice il testo, con un ritmo franto, spezzato, dove ogni frase vive per se stessa, senza legami, una dizione paratattica del copione, mentre a tratti una luce flebile illumina lo spazio, porzioni di spazio, seguendo, rivelando, in questa notte senza interruzione, luoghi limitati. La luce è flebile, quando non opaca, appare da nessun luogo, scompare in nessun luogo, lotta con il buio, ancora torna ad allargare lo spazio, poi un personaggio, forse un vecchio, l’occhio fa fatica ad abituarsi, si percepisce lo sforzo delle pupille che si allargano per meglio fissare, mentre il testo ripete parole come “meglio peggio”, “verso il peggio”, “fallire”, “ancora”, l’uomo è in ginocchio o piegato, non si capisce se di spalle o no, ha una capigliatura bianca, quella si intravede, poi si scoprono un vecchio e un bambino, teste bianche opache e mani bianchissime che si tengono, si muovono come se dondolassero, destra sinistra, destra sinistra, camminano, rimangono fermi, si allontanano, ma lo si percepisce appena, in questa oscuritĂ  appena sfiorata da questa luce grigia, lattiginosa, opalescente, che non rivela, disegna contorni sfocati. Così, in questo vuoto che ci assale, è lo spazio a danzare, la luce, che diventa onda, che illumina solo dove vede, che lotta ancora con un altro spazio che sfugge, che si fa tenebra. 

Lo spettacolo si dipana come una sequenza seriale di luce e buio, ma luce e buio non sono correlati nĂ© antinomici, hanno realtĂ  e ontologia a prescindere l’uno dell’altro, esistono separatamente e in sequenza, la luce diventa la musica, l’unica, grazie alla quale lo spazio danza, perchĂ© rimbalzando su di essa, lo spazio su la luce, non viceversa, i diversi luoghi prendono corpo, esistono, si direbbe, come proiettati fuori dalla testa che li pensa, ecco che appare un legame, fra luce e buio, perchĂ© è la testa che pensa lo spazio e pensandolo lo illumina, ed è la stessa testa che pensa prima l’uomo in ginocchio, poi le ossa, poi il dolore dell’uomo in ginocchio, che si alza in piedi, come se questa verticalitĂ , il tentativo di recuperare la verticalitĂ  con la posizione eretta, fosse garanzia della sparizione del dolore, ma il dolore rimane, ce lo dice la voce che diventa sempre piĂą un martello, dentro i nostri occhi, perchè si comincia a sentire con gli occhi, e la luce, sempre piĂą flebile, evanescente, a tratti diventa quasi chiara, ci restituisce il corpo, i corpi, i due, l’uomo e il bambino, l’uno, l’uomo con la testa fra le mani, la donna, una vecchia donna, perchè improvvisamente appare una donna, vecchia donna, evocata dal testo, protesa sul corpo dell’altro, forse del vecchio, forse dell’uomo con la testa china, danza quasi come un’aquilone, perchè tutte queste “ombre” sembrano non avere peso, ed è questo il capolavoro della Marin, restituire il senso della presenza, in una dimensione senza gravitĂ  nella quale questi corpi perdono peso, diventano forme pure, sospese, come se chi guarda fosse dentro la testa della voce, o fosse nella voce, come se tutto diventasse spazio e pensiero materiale, ma senza massa, e la sofferenza delle ombre in scena diventa la nostra stessa sofferenza, diretti al peggio, per fallire, meglio fallire, meglio peggio fallire, ancora, ancora, litania di parole che diventano tortura, e difatti parte del pubblico non regge, fugge, sfidando la raccomandazione iniziale di tenere spenti gli schermi dei cellulari che invece si mostrano ben accesi, per farsi largo, per non cadere scendendo dalle scale, luce che illumina una personale via di fuga, mentre chi rimane accetta con la Marin di fare questo viaggio, dentro un vertigine verticale, orizzontale, dove tutto è vuoto, tutto è oscuro, tutto è Beckett, tutto è teatro o danza o come piĂą vi piace chiamarlo, “un’esperienza”, come mi dirĂ  lei alla fine, quando incontrandola le comunico il mio godimento e le mie uniche parole: “tutto è oscuro, tutto è vuoto, tutto è Beckett”. 
Tutto questo è una lingua nuova che traduce ciò che dovrebbe forse essere, in questo scorcio di tempo, lo spettacolo dal vivo, o almeno uno delle sue forme.
Il pubblico, alla fine, applaude. Liberato. Alla fine si applaude. Alcuni con convinzione altri per educazione: poi la sorpresa finale quando si accendono le luci sul palco: non c’erano attori sulla scena, tranne uno. Tutto il resto, pupazzi, marionette, abbandonate lì, a terra, sulla sinistra della scena, a formare un cumulo, “l’impossibile cumulo” direbbe Clov, cumulo di ombre che si pensavano umane, e invece sono marionette, ed è in questo tragico che si rivela il grottesco, ma il grottesco cos’è, non lo puoi spiegare, lo fa nei testi Beckett. Questa immagine grottesca, partendo da Beckett, l’ha creata Maguy Marin.

Foto in copertina di © Laurent Philippe / fedephoto.com. 

CAP AU PIRE créé le 8 novembre 2006 à PANTIN
Centre National de la Danse de Pantin
Solo pour Françoise Leik
Texte de Samuel Beckett

I switch on. Play di Beckett in Virtual Reality, di Lance Gharavi
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Nel 1996, pochi mesi dopo il successo dell’allestimento della nostra prima produzione di realtĂ  virtuale, The Adding Machine da Elmer Rice, Mark Reaney e io cominciammo a far progetti per possibili esperimenti futuri. La nostra produzione di The Adding Machine fu il primo frutto della nuova struttura creata con Ronald Willis: l’Institute for the Exploration of Virtual Realites (abbreviato: VR), un’organizzazione dedita alla sperimentazione delle applicazioni dei nuovi media tecnologici a teatro. Sebbene non avessimo nĂ© il tempo nĂ© le risorse per produrre un progetto ambizioso come The Adding Machine, volevamo comunque cercare cose nuove, testare nuove tecnologie e interfacce, scoprire nuove modalitĂ  di applicazione della nostre attuali abilitĂ . Nello specifico volevamo fare una sperimentazione integrando video stereoscopico nei mondi virtuali 3D e permettere al pubblico di interagire con essi attraverso gli occhialetti polarizzati da poco acquistati (Head Mounted Device). Questi HMD, creati da Virtual I-O, sono dotati di un paio di piccoli schermi video che aderiscono all’occhio di chi li indossa, oltre che di un paio di cuffie che permettono, oltre a una visione stereoscopica, anche un suono stereo. 

Inoltre questi occhiali hanno capacitĂ  immersive e parzialmente immersive: rimuovendo lo speciale schermo dall’esterno del minuscolo monitor video, hanno l’insolito vantaggio di permettere a chi li indossava di vedere un’immagine “stereoscopica mediata” – come un mondo virtuale o un video – e simultaneamente di osservare attraverso quell’immagine e vedere un attore sul palco. Tutto ciò che è richiesto a un oggetto o a un attore per essere visibile attraverso i visori HMD è che l’oggetto e l’attore siano sufficientemente illuminati.
Quando ho cominciato a cercare testi per un esperimento su piccola scala con questa tecnologia, Beckett mi è sembrato un autore particolarmente adatto. In primo luogo perchĂ© lo stile non realistico dei suoi drammi non avrebbe sofferto un trattamento con i nuovi media, e questo non tanto perchĂ© la brevitĂ  dei suoi lavori tardi fosse decisamente appropriata per questo progetto, ma soprattutto per il modo in cui il suo lavoro spesso giocava con l’idea di presenza, di assenza e di presenza apparente. Il dualismo presenza/assenza era stato – come notammo Reaney, Willis e io – un elemento chiave nel nostro lavoro con la realtĂ  virtuale, e un aspetto significativo in quasi tutte le forme di cyberteatro -come noi lo chiamavamo un tempo – piĂą innovative. Collegare Beckett alla realtĂ  virtuale e giustapporre la problematica originale della “presenza” che essa genera sembrava una direzione appropriata e avvincente per le nostre sperimentazioni.
Dopo aver passato in rassegna diversi drammi brevi di Beckett, alla fine decisi per Play, un lavoro prodotto in Germania nel 1963. E’ un testo a tre personaggi: un uomo e due donne. Ciascuno di questi personaggi è intrappolato in una delle tre urne, da cui fuoriesce solo la testa. Per tutto il dramma, i personaggi parlano come rispondendo a un riflettore abbagliante che li illumina uno alla volta, o talvolta tutti insieme. Nella produzione questa luce divenne una specie di quarto “agente”, che interrogava i personaggi come fossero dei prigionieri, comandando loro di parlare, di confessare. Billie Whitelaw, commentando la sua esperienza nel rappresentare una di queste donne, ha detto: “Penso che Play sia un quartetto, non un trio. La luce è una parte molto attiva, una parte molto spaventosa, addirittura uno strumento di tortura” (James Knowlson, An Interview with Billie Whitelaw, “Journal of Beckett Studies”, no. 3 summer (1978) 86).

Nelle produzioni tradizionali di questo testo, gli attori nelle urne sono vivi e il personaggio della luce è, ovviamente, rappresentato da una vera luce. Se anche ci fosse un “agente” umano dietro i movimenti del riflettore – come un operatore che segue la luce — questi non sarebbe affatto visibile al pubblico e non giocherebbe alcun ruolo nel mondo della finzione drammatica. Nel mio adattamento diPlay ho invertito le funzioni. Il riflettore era l’unico “agente vivo” nella produzione. L’uomo e le due donne erano personaggi “tecnologicamente mediati“. Questo approccio metteva in risalto il ruolo attivo della luce e rimodellava il dramma, ponendo al centro della produzione la tecnologia e il suo potere potenzialmente minaccioso. Attraverso gli schermi dei visori HMD il pubblico vedeva i personaggi nelle urne come immagini video stereoscopiche dentro un ambiente virtuale. Gli spettatori potevano guardare anche attraverso le immagini e scorgere le mie azioni, poichĂ© io stesso assunsi il ruolo della Luce. Le immagini negli occhiali HMD apparivano sovrapposte al mio corpo; l’agente che manipolava l’ambiente virtuale e che comandava ai personaggi di parlare, divenne così una figura fantasmatica ma viva che prendeva posto in una porzione di luce fioca al centro del palco. L’operatore che normalmente manipola e guida il punto di vista del pubblico attraverso i mondi virtuali nelle produzioni di Virtual Reality – un ruolo che noi denominammo VED (Virtual Environment Driver) – occupava la posizione di “agente” un questa drammaturgia. Dal momento che il movimento attraverso gli ambienti virtuali non era preregistrato, ma manipolato in modo estemporaneo da un operatore che fa sì che l’ambiente interagisca liberamente con i performer in scena, l’ambiente stesso divenne in questo modo un “agente aggiunto”.
In The Adding Machine come nella successiva produzione in realtà virtuale, il VED e il suo computer erano dietro la scena, nascosti alla vista del pubblico. Gli spettatori potevano vedere lo spettacolo della scena generata al computer direttamente sullo schermo, ma non avevano la possibilità di sapere che i mondi virtuali non erano semplicemente delle animazioni preregistrate.
Per il mio lavoro con Play mi sembrava giusto evitare di nascondere il VED e i meccanismi con cui operava. Facendo così, il VED e l’ambiente sarebbero stati un agente attivo in maniera piĂą evidente, così come sarebbe stata chiara anche la natura real time dei media utilizzati. Inoltre, portando la persona (VED) sulla scena, questi diventava una parte concreta e visibile della drammaturgia, sebbene non necessariamente una parte del mondo fittizio del dramma. Come il direttore nella buca dell’orchestra o il koken nel teatro Kabuki, la presenza visibile del VED e la sua influenza sulla drammaturgia sarebbe stata evidente anche se non gli veniva necessariamente conferito lo status di agente fittizio.

Nel mio adattamento di Play feci un passo avanti, dando al VED il ruolo di agente fittizio, creando un manipolatore tecnologico come personaggio che il pubblico poteva vedere attraverso le lenti del mondo mediato tecnologicamente, dei personaggi di Beckett nelle loro urne.
Nella nostra produzione il pubblico in una piccola stanza di fronte a un lungo tavolo illuminato da riflettori. Un groviglio di computer e dispositivi video copriva quasi tutto lo spazio a disposizione sulla superficie del tavolo. Prima dell’inizio dello spettacolo, Reaney aveva l’insolito compito di aiutare il pubblico a indossare gli HMD. Dopo un lungo silenzio beckettiano, durante il quale gli spettatori ridevano nervosamente a causa dell’aspetto che avevano assunto indossando questi visori dall’apparenza futuristica, entravo nella stanza incarnando il personaggio della Luce. I miei capelli erano arruffati e grigi. Indossavo un abito inadatto alla taglia e di colore scuro, camminavo con passo strascicato e stanco; in alcuni momenti mi affaccendavo comicamente sulle attrezzature prima di sedermi e di cominciare a manipolare il video e i mondi virtuali.
Sovrapposto al tavolo, all’attrezzatura e al personaggio della Luce, il pubblico vedeva l’ambiente virtuale stereoscopico. Davanti a loro una enorme pianura deserta. Distante, si ergeva un’urna grigia gigantesca con i bordi superiori nascosti alla vista. All’orizzonte di questa scena surreale e apocalittica, un sole che tramontava suggeriva l’arrivo imminente della notte. Muovendo il mouse del computer il punto di vista del pubblico cominciò a cambiare, spostandosi lentamente verso la base dell’urna gigantesca. Prima di arrivare alla base, gli spettatori sembravano diventare leggeri, fluttuare lentamente nell’atmosfera fino a quando non rimanevano sospesi da terra, proprio sopra il bordo superiore dell’urna. Cominciavano a scendere dentro la cavitĂ  di quell’urna grande come un grattacielo, finchĂ© non si posavano sopra un piccolo ripiano quadrato, sempre fluttuando nel buio interno del recipiente. Tutto intorno centinaia di identici ripiani quadrati sospesi in una grata sembravano svanire in lontananza. Di fronte, su tre ripiani separati, stavano tre urne grigie, simili al contenitore in cui erano immerse ma piĂą piccole.
Dopo pochi momenti di assoluto silenzio, non appena alzai la leva di un mixer video le teste dell’uomo e delle due donne apparvero all’imboccatura delle tre urne. Come il mondo virtuale tutto intorno, il video era stereoscopico, così che le teste apparivano tridimensionali, ed emergevano da urne ugualmente tridimensionali. Dopo un ulteriore momento di silenzio, i tre cominciarono a parlare. Come uno di loro iniziava a parlare. però, l’altro scompariva, per riapparire subito dopo e ricominciare un monologo opprimente e sforzato.

A ogni cambio di oratore, la Luce schiacciava un bottone sul mixer video, quasi a scacciare il personaggio dalla scena e a comandare a un altro di apparire e parlare. A un certo punto, nel corso di questo crudele rituale, le teste scomparivano, sebbene le loro voci continuassero a essere udibili, e il pubblico in quel momento veniva trascinato in alto, fuori dall’urna, e fatto fermare in un punto sopraelevato di fronte a una piramide a quattro lati. Poi giravano intorno alla piramide lentamente; su ciascun lato della piramide veniva proiettato un film in bianco e nero dei personaggi.
Ciascuno di questi video a loop mostrava i personaggi che distoglievano lo sguardo nervosamente e occasionalmente guardavano in camera. Inframmezzati a questi video c’erano alcune sequenze che mostravano i personaggi con i volti distorti elettronicamente e colti mentre scrivevano in una apparente sofferenza. Nel lato retrostante la piramide era proiettato un breve video del personaggio LUCE, inframmezzato da un breve segmento distorto e colorizzato elettronicamente, della sua faccia contorta dalle risate. Dopo questo breve “viaggio”, il pubblico ritornava nella posizione di partenza di fronte alle tre urne.
Le teste comparivano alla vista senza mai cessare la loro litania triste e dolorosa. Non appena i personaggi cominciavano a ripetere ancora una volta l’intera sequenza, le loro teste e le loro voci piano scomparivano fino a sparire del tutto. La Luce sedeva scomposta nella sedia, come fosse esausta della prova e fissava lo schermo del computer in silenzio. Dopo una pausa prolungata, si alzava e usciva lentamente dalla stanza.

All’inizio del processo che mi ha condotto a creare queste immagini, mi sembrava vitale mantenere le urne come immagine centrale, un’immagine che suggeriva sia morte (le urne che contengono le ceneri dei morti) sia nascita (l’urna come utero che contiene la vita). Nel testo di Beckett era implicito che i personaggi di Play occupassero una specie di infernale post mortem.
Nel mio progetto volevo suggerire esattamente questo, il che implicava anche che le tre urne e i loro occupanti non fossero altro che una singola manifestazione di una formula ripetuta all’infinito. Si alludeva a questo attraverso la natura di matrioske delle urne. Il progetto richiedeva che ci fossero urne dentro urne dentro urne e una progressione infinita dello stesso rituale di domande. La griglia di ripiani quadrati e vuoti dentro l’urna gigantesca rinforzava questa idea. Questa serie infinita di ripiani che si estendeva per un lungo tratto non solo doveva suggerire l’idea di infinitĂ  ma anche l’esistenza di un numero infinito di posti vacanti in attesa di essere occupati da urne identiche, contenenti prigionieri riluttanti e timorosi.
Il processo di creazione delle immagini video delle due donne e dell’uomo fu piuttosto lungo e coinvolgente quanto quello di costruzione del mondo virtuale. Per registrare le loro azioni sedevo in una zona di fronte a un set in green screen. Di fronte a loro un grande piano verde mascherava i loro corpi dalle spalle in giĂą. Li ho ripresi con un paio di telecamere vicine, per ciascun lato. Il segnale da ciascuna di queste videocamere passava a un mixer che combinava i due segnali per registrare. Ciascun segnale sarebbe stato poi mandato al monitor appropriato così che le immagini sarebbero apparse tridimensionali.
Durante la proiezione usai un mixer video per bucare lo sfondo verde e piazzare le immagini degli attori sulle immagini del mondo virtuale in modo che le teste degli attori apparissero come emergere dall’imboccattura delle urne. Usando una leva sul mixer potevo farli apparire e scomparire a mio piacimento mentre le loro voci continuavano a recitare (e a essere udibili, ndc) attraverso le cuffie degli HMD. Al termine di questo esperimento ebbi l’opportunitĂ  di discutere con il pubblico.
Essendo solo la nostra seconda produzione teatrale che mescolava realtà virtuale e teatro e il primo sforzo di utilizzare i visori HMD come dispositivi di interfaccia, non eravamo sicuri se il pubblico sarebbe stato in grado di capire il senso di questa operazione che mescolava media elettronici e performance live. Dalle loro risposte fu chiaro che avevano estratto il significato dello spettacolo dall’interazione tra diversi linguaggi dal vivo e mediati.
Molti dei commenti puntavano ad alcune delle caratteristiche di questi nuovi dispositivi di interfaccia che per noi in precedenza non erano affatto chiari. Per esempio, gli spettatori potevano scegliere di rivolgere la loro attenzione dai personaggi nelle urne guardando attraverso le immagini elettroniche all’attore in scena di fronte a loro e viceversa. La facilitĂ  con cui potevano farlo dipendeva per lo piĂą dalla quantitĂ  di luce sull’attore e dalla luminositĂ  delle immagini dentro i display HMD. Inoltre scoprirono che, muovendo la testa, potevano controllare la relazione spaziale tra l’attore in scena e gli oggetti dentro al mondo virtuale. Infine discussero animatamente sulle possibilitĂ  di questa tecnologia e sulle sue applicazioni nel teatro. Reaney e io accogliemmo con piacere il successo di questa produzione e usammo la conoscenza acquisita per dare forma alla successiva produzione: Arthur Kopit’s Wings. www.ku.edu/~mreaney/

(Traduzione e cura di Anna Monteverdi, su ateatro)

Lance Gharavi: Associate Professor, Assistant Director of Theatre, and Chair of the MA in Theatre program, he is an artist and scholar whose work has appeared in books and journals, on stages and screens throughout the US and abroad. An early pioneer in the field of digital performance, he was one of the co-founders of the Institute for the Exploration of Virtual Realities (i.e. VR). He is the author of Western Esotericism in Russian Silver Age Drama: Aleksandr Blok’s The Rose and the Cross. Gharavi’s work focuses on the many intersections of performance, technology, science and religion. His scholarship in these areas been published in seven countries, on four continents and translated into three foreign languages. His work has appeared in journals including Theatre Topics, Modern Drama, Text and Performance Quarterly, The Journal of Dramatic Theory and Criticism, PAJ and Esoterica. Recent works include a series of performances in Matei Visniec's two-man show, Pockets Full of Bread, at the Romanian National Theatre in Cluj-Napoca and at the Sibiu International Festival in Sibiu, Romania. His most recent book is an anthology of essays entitled "Religion, Theatre, and Performance: Acts of Faith" (Routledge 2012).

PlayBeckett: folgorazione del linguaggio multimediale, testo di Massimo Puliani
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Pubblicato in Massimo Puliani-Alessandro Forlani, Play Beckett. Visioni multimediali nell'opera di Samuel Beckett, Halley, Matelica 2006.

L’iniziazione di Beckett alla grammatica radiofonica, filmica, video-televisiva avviene … per caso (per caso? Con Beckett la parola assume un valore filosofico). Come all’origine del suo percorso drammaturgico avvolto da un’enigmatica illuminazione. GiĂ  dalla stesura di Aspettando Godot Beckett annuncia il limite della sua prosa e la necessitĂ  di superarla con la drammaturgia: “Ho cominciato a scrivere Godot per distendermi, per sfuggire all’orribile prosa che scrivevo a quel tempo. Non ho scelto di scrivere una pièce. Si è trovata così.” .
Ora, se volessimo trovare la parola giusta per indicare quest’iniziazione di Beckett alla grammatica radiofonica, filmica, video-televisiva potremmo considerare questo percorso come una … folgorazione. Certa inquietudine e curiositĂ  intellettuale – la stessa che in gioventĂą lo interessò per esempio al severo studio di Dante, Vico, Joyce ma, anche, alle comiche di Charlie Chaplin e Buster Keaton, Stanlio e Ollio, dei Fratelli Marx – spinge Beckett, quand’anche in principio diffidente o poco interessato alla radio, al cinema e la televisione se non da spettatore fruitore, ad accettare per “provare a produrre qualcosa, oppure no: non ho mai pensato prima alla tecnica del dramma radiofonico” , la commissione “senza condizioni” della BBC per Tutti quelli che cadono (1956); la richiesta di una sceneggiatura cinematografica che diverrà Film della Grove Press di New York (1963); la proposta di videodramma (tele-play o video-teatro), ancora da parte della BBC, di Dì Joe (1965).
Se questo può apparire in contraddizione con la spavalda affermazione di Beckett del rifiuto di lavorare su commissione, o di “insegnare ad altri ciò che io stesso non so”, è d’altra parte interessante e fattiva conferma di un’intelligenza poetica pronta a superarsi ed a mettersi in discussione.
Folgorazione che, dopo la storica “prima” di Aspettando Godot nel 1953 al Théatre de Babylon e dopo il corpus drammaturgico composto dai più noti, rappresentati, re-interpretati e discussi capolavori del Teatro del Novecento (da Finale di partita a Giorni felici a L’ultimo nastro di Krapp, eccetera) giunge nel 1965 con Film a un punto di non ritorno. Oppure, per dirla con Franco Quadri, “all’inevitabile termine” della pièce multimediale.
Con i Dramaticules l’opera di Beckett approda ad un’idea dell’arte che attraversa e si nutre dei linguaggi più svariati, fino a costituirsi “genere a sé”. I Dramaticules sono sceneggiature in-finite, découpage o story-boards, pensieri letterari e microromanzi; materiali poetici per progetti sonori, visivi, materiali/immateriali come i sogni e gli incubi.
Perché questo sperimentare di Beckett coi linguaggi multimediali? Perché, nella ricerca che gli è propria di perfezione, egli “dismette” a un tratto il linguaggio teatrale (nel momento, si potrebbe affermare, in cui coi Dramaticules ne comprende e addirittura supera, per sempre, lo statuto) e si arrischia ad apprenderne di più (della radio, del cinema, del video: che sono fra loro ben differenti), e nuovi? Ove il rischio avrebbe potuto essere l’incapacità di comprenderli (o comprenderli solo in parte, e male) e di padroneggiarli; con conseguente banalizzazione, appiattimento o perdita di incisività di contenuti e principi. Forse, è la risposta, per lo stesso motivo per cui egli, di lingua e cultura anglosassone, decide di abbandonare la prosa in inglese e di scrivere un dramma in francese. Ovvero per un avvertimento di insufficienza al proprio sentire strutturale e linguistico; l’anelito a un superiore grado di esattezza, definizione, necessità.

Se la parola è ormai superflua, svuotata, “menzogna” (secondo una conversazione di Beckett con il cameraman Jim Lewis) e tale è il tessuto, il ritmo, il luogo privilegiato, la forma e il modo di trasmissione della parola, la via che Beckett percorre è quella dell’immediatezza dello sguardo, dell’immagine rivelata o dato visivo, del suono in sé non mediato né altrimenti tradotto.
Beckett notò, assistendo in televisione a riprese delle proprie opere teatrali, che lo strumento televisivo non era semplicemente un tramite, bensì un nuovo mezzo espressivo, che poteva raggiungere livelli diversi rispetto a letteratura e teatro e generare suoi propri significati. Si trattava di uno spazio “altro”, specifico; differente dalla pagina e dal palcoscenico per il quale elaborare appropriati testi da redigere in una lingua appropriata. Pièces, opera artistica tuttavia, non adattamento teatrale televisivo, non fiction. Uno strumento che offriva soprattutto il totale controllo della forma drammatica: non solo la possibilità di definire, con assoluta precisione, i movimenti della telecamera e degli interpreti (consapevolezza già evidente in Eh Joe); l’intensità e la durata di un suono, di un’immagine (ovvero il potersi esprimere in un linguaggio ritmico, numerico, quasi sensoriale); ma che anche determinava i modi dello sguardo. Proprio dello sguardo e allo sguardo certo, per esempio, attraverso la telecamera, era ormai l’avvertire di quel senso di tragico, di disperata ineluttabilità della fine e di impotenza delle grigie ombre dai lunghi capelli: che troppo, nell’evocare “vecchi sfatti” lasciati all’immaginazione, all’interpretazione di registi e costumisti, aveva forse già detto (scritto) senza mai comunicarlo abbastanza.
Beckett intuì la spietatezza della telecamera: che – per ferocia, brutalitĂ , voracitĂ  ferina che proprie le sono (abitudine oggi del linguaggio mediale) – appropriatamente definì “Occhio Selvaggio”. Così come intuì il senso del replay all’apice che è Quad della produzione televisiva. Realizzato per la Scuola di Danza di Stoccarda nell’81, a pochi anni dalla fine, il videodramma è in un certo senso un testamento multimediale, una profezia di Beckett sul destino del nostro rapporto con i molti media(come, ancora nel 1958, predizione è il magnetofono personale di Krapp acceso “una tarda sera, nel futuro”), e un’entropia. Il tempo non è piĂą ritorno eterno, forse Salvezza, come in Godot; il ripetere non è piĂą parodia, destrutturazione – come in Commedia – in funzione di nuove, diverse possibilitĂ ; bensì replica, modulare e algoritmica. E seriale diviene ciò che si ripete; riproduzione, consumo. Il gioco (appunto play) è reiterato e ripreso all’indietro (play-back), da capo (re-play); ma non ha nĂ© protagonisti nĂ© soluzione. Quad può solo avere spettatori e, in definitiva, neppure questi sono necessari. Si chiede a chi gioca, e a chi guarda, di conformarsi e di rispondere ad uno schema, di entrarvi, accettarne le regole e assecondarne il ritmo. E inesorabilmente di divenire, infine, parte integrante di quello schema. La poetica, romantica condanna a “trovare il modo di passare il tempo, darsi l’impressione di esistere” di Vladimiro ed Estragone, nel passaggio attraverso le nuove tecnologie è svuotata di ogni lirica consapevolezza: diviene piuttosto un avvertire contemporaneo, reale, di una condizione che sa di meccanica e robotica ma pur sempre di natura antropologica.
Interessante è l’analisi – e questo è in parte l’intento del presente volume – dell’evoluzione di questaalfabetizzazione multimediale, da parte di Beckett e dei suoi più immediati e costanti interlocutori (quali per esempio Alan Schneider), nel trentennio dal ’57 (l’esordio in radio con Tutti quelli che cadono) alla morte; che lo sorprende – pare – a metà di un progetto di remake di Film il cui protagonista avrebbe dovuto essere Vittorio Gassman.
Si pretende nella ricerca linguistica beckettiana “una coerenza e padronanza rigorosa, sempre ed immediatamente tesa a cogliere l’essenza del mezzo che usa, a basare l’espressione soprattutto, se non esclusivamente, su ciò che lo definisce e lo caratterizza; una scrittura che privilegia il suono nelle pièces radiofoniche e l’immagine in quelle per la televisione” . Ma questo è vero in parte; nei lavori più maturi: mentre – come per esempio si può ancora scoprire nel testo scritto di Tutti quelli che cadono, o nello script di Film – a principio di ogni tentativo con l’inusuale, altro medium rispetto al teatro, alla prosa, incertezze impedimenti e ripensamenti (di natura tecnica, soprattutto) se ne trovano. Che però non sminuiscono o mettono in dubbio il valore dell’opera; anzi – come le gag dei tre cappelli o i “passaggi di palla” di Vladimiro ed Estragone – dichiarano le intenzioni di Beckett circa lo specifico linguaggio adottato. Definiscono di passaggio in passaggio cosa è superfluo e cosa no; cosa è necessario.
Il numero e il movimento delle camere, la diffidenza nei confronti dell’effetto speciale, l’intensità (il buio) delle luci, la combinatoria delle entrate ed uscite di macchina, i passi, le percussioni: ognuno di questi elementi è portatore di significati e contenuti; ognuno, nella produzione multimediale di Beckett, ha assunto eloquenza “geroglifica” o, se vogliamo, geometrico-ontologica.

Copertina: Joseph Kosuth

Il sito www.samuelbeckett.it di Federico Platania
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Il sito italiano dedicato a Samuel Beckett

Nel Mumonkan (una raccolta di quarantotto koan scritta dal monaco Mumon, 1183-1260) si trova una frase che mi ha sempre incuriosito: “Se incontri il Buddha sulla tua strada uccidilo”. Io non sono un esperto di zen, anzi. Però so che tutto ciò che è zen si presta a molteplici interpretazioni. La mia interpretazione di questa frase è la seguente: “Se incontri un maestro nella tua vita sbarazzatene appena puoi, altrimenti ti impedirà di proseguire”.

Quando ho iniziato ad appassionarmi ai lavori di Beckett mi sono reso conto di trovarmi di fronte ad un autore che stava occupando tutto il mio immaginario artistico. Non riuscivo più a leggere un libro o ad andare a teatro senza valutare – spesso inconsciamente – le affinità e le divergenze con l’opera del maestro. Bisognava sbarazzarsi di questo ingombrante Buddha-Beckett…
Come si può uccidere qualcuno che è già morto? Se è un artista – mi sono detto – forse è possibile: esaurendo la conoscenza della sua opera. Allora anziché limitarmi a “leggere” Beckett ho iniziato a “studiarlo”: leggendo saggi, biografie, cercando notizie su Internet, scrivendo piccole schede critiche di ogni suo lavoro, cercando ogni volta fonti, collegamenti e interpretazioni.
www.samuelbeckett.it, in rete dall’agosto del 2003, è il frutto di tutto questo. Non so a che punto del lavoro mi trovo, ma questo sito può considerarsi davvero il risultato del lento omicidio che sto compiendo.

Federico Platania

In copertina Federico Platania e Samuel Beckett mentre osservano due scimmie che giocano a scacchi (nel caso ve lo stiate chiedendo: sì, è un fotomontaggio).