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Leggiamo leggiamo, altrimenti siamo perduti. I libri che salvo in un 2021 da buttare (1a parte).
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Danziamo danziamo altrimenti siamo perduti, diceva Pina Bausch. Ma in questo 2021 c’è stato ben poco da danzare, considerata la catastrofe del settore delle performing arts e il tracollo subìto tra aperture, semichiusure, pubblico contingentato, presente con prenotazioni e distanziato, collegato in streaming. Se non posso parlare di teatro, considerati i numerosi biglietti che ho dovuto strappare causa timori di quarantene, contagi della compagnia e lock down imprevisti all’estero (=Austria), parlerò almeno dei libri che sono usciti in questo 2021. Che ho salvato dal rogo di un anno che preferisco dimenticare. Ecco i primi:

Andrea Balzola, Edu-Action. 70 tesi su come e perché cambiare i modelli educativi nell’era digitale, Meltemi.

Come scrive nell’Introduzione l’Autore, lo studioso di media Andrea Balzola, il libro EDU-ACTION, concepito prima della pandemia, si è arricchito delle tematiche e delle problematiche inerenti la mancanza di aggiornamento tecnologico dei formatori e delle assenze strutturali in materia di digitale delle Istituzioni scolastiche e accademiche, evidenziate proprio in epoca di lock down. Andrea Balzola, che non è decisamente nuovo a libri dedicati alle tecnologie (L’arte fuori di sé, Arte e media, Le Arti multimediali digitali, La scena tecnologica), si interroga in questo importante volume che ha anche un bel titolo (Educ’Action, un’educazione che agisce, che è coinvolta) su quelli che sono i punti fondamentali per la nascita di una Nuova Scuola che si avvalga, non solo in tempo di emergenza sanitaria, delle opportunità offerte dalle nuove tecnologie digitali e della rete, e dai nuovi paradigmi informativi e relazionali che l’adozione di queste implicano. Un libro fondamentale che nasce per riflettere su una formazione che deve essere sempre più votata a un uso consapevole, socializzante ed etico dei media e non a un suo adattamento passivo da parte del soggetto. Un uso assolutamente divergente da quello proposto dall’imperante consumismo tecnologico. Per un approfondimento suggeriamo l’interessante talk delll’Autore per Connecting Cultures

Andrea Balzola è autore multimediale, teorico e docente di New Media. Negli anni Ottanta svolge ricerche per il CNR ed è nominato Cultore della materia in Storia del cinema nelle università di Torino e di Roma. Tiene corsi di formazione per insegnanti per le Regioni Piemonte e Toscana e nelle università di Firenze e di Palermo. All’inizio degli anni Novanta ottiene la cattedra di Teoria e metodo dei mass media all’Accademia di Belle Arti, insegnando a Torino, a Carrara e a Brera-Milano, dove progetta e coordina i nuovi corsi sperimentali di Linguaggi multimediali.
Nell’ambito di media, arte e spettacolo, pubblica articoli per molte riviste e importanti testi monografici, tra i quali: Le arti multimediali digitali (con A.M. Monteverdi, 2004); L’arte fuori di sé (con P. Rosa, 2011); La scena tecnologica (2011). Sui temi del rinnovamento educativo, collabora con le riviste universitarie “Mediascapes Journal”, “HiArt”, “Historia Magistra”, “Connessioni remote” e “Alfabeta2”.

Andrea Pinotti, Alla soglia dell’immagine. Da Narciso alla Realtà Virtuale, Einaudi.

Ad Andrea Pinotti dobbiamo non solo l’ingresso in Italia degli studi estetici sull’immagine e sulla cosidetta “visual culture” grazie al libro seminale scritto con Antonio Somaini (2016) che si apriva al territorio dell’esperienza audiovisiva, ma anche la teorizzazione recente delle immagini an-icon (letteralmente: immagini che negano se stesse) relative al campo della Realtà Virtuale. Attraverso l’esperienza di “scorniciamento, immediatezza e presenza” noi ci adentriamo nel territorio del virtuale, un territorio che “satura” il nostro campo visivo, che ci fa perdere le coordinate spaziali e ci cala “dentro l’immagine” senza la possibilità di un fuori campo al punto da rendere l’immagine non più tale ma “ambiente”, distanziandoci paradossalmente proprio dal nostro corpo. L’Anicologia apre nuove riflessioni filosofiche, partendo dalla tendenza allo scorniciamento di certa arte contemporanea (dalla pittura al cinema alla performance) al senso di presentness/immediatezza indotto dai new media: ci appare solo un po’ strano non vedere dedicato all’interattività neanche un paragrafo e non vedere applicata questa teoria a molte delle performance tecnologiche immersive e virtuali contemporanee (per esempio quelle di Konic e del gruppo belga Crew). An-Icon è un progetto internazionale Erc-Advanced che ha visto la luce all’interno del Dipartimento di Filosofia dell’Università Statale di Milano ad opera di Andrea Pinotti ed è ancora in corso; ha prodotto a oggi convegni, simposi, laboratori ed esposizioni. Qua un estratto del libro.

Andrea Pinotti insegna Estetica all’Università Statale di Milano, dove coordina il progetto ERC «An-Icon». Fra le sue pubblicazioni, Estetica della pittura (2007) ed Empatia. Storia di un’idea da Platone al postumano (2011). Per Einaudi ha pubblicato Cultura visuale (con A. Somaini, 2016) e curato Aura e choc di Walter Benjamin (con A. Somaini, 2012), Costellazioni. Le parole di Walter Benjamin (2018), Stile moderno di Georg Simmel (con B. Carnevali, 2020) e Alla soglia dell’immagine. Da Narciso alla realtà virtuale (2021).

L’opera d’arte del futuro. Alle origini della multimedialità. Ristampato il volume di R.Wagner per goWare edizioni
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Torna disponibile al grande pubblico un’opera fondamentale per capire la modernità e gli sviluppi dell’arte e dell’estetica contemporanea. Si tratta di L’OPERA D’ARTE DEL FUTURO che ha influenzato intere generazioni di artisti e pensatori, come mostrano i tre saggi introduttivi di Paolo Bolpagni, Andrea Balzola e Anna Maria Monteverdi. Con questa opera breve, intensa, polemica, e alle volte confusa ma geniale, scritta nell’anno spartiacque del 1849, Wagner si proponeva di rivoluzionare l’intero concetto di arte della tradizione occidentale, riconducendolo all’ideale dei classici. Wagner era categorico: un’opera d’arte moderna non può che essere inclusiva di tutte le forme artistiche: la poesia, la danza, la pittura, la scultura, la musica, l’architettura e la parola. Non è forse questo il moderno concetto di mash-up? Non è forse questo quello che ricercano la produzione artistica contemporanea e la comunicazione più innovativa? Sarà per primo lo stesso Wagner che cercherà di realizzare nelle sue opere questo ideale multimediale. La lettura di questa operetta vi porterà all’origine del tutto.

http://www.goware-apps.com/lopera-darte-del-futuro-alle-origini-della-multimedialita-richard-wagner/

TEATRO MULTIMEDIALE. Dall’opera d’arte totale al cyber teatro. Saggio di AMM (2005)
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(pubblicato su Encyclomedia, 2005)

 Le stesse forme solide, sotto l’occhio dell’attore, un vero e proprio mago, potranno muoversi, cambiare, animarsi, vivere insomma su tutti i piani del teatro ed in tutti i sensi. Ma che mi sia ancora permesso di immaginare adesso lo spettatore futuro in una gabbia di plexiglass con due busti e due volti come i personaggi delle tele cubiste di Picasso. Circondato da suoni, da luci, da colori, da forme, da ombre, sarà sensibile, e con tutti i suoi sensi, a tutte le moltitudini di combinazioni, di armonie, di ritmi, di motivi melodici, sensibile a tutti i punti, rette, curve, angoli conici, linee visive, uditive, statiche, che si svolgono nel magnifico e straordinario caleidoscopio teatrale….. Per il momento, tranquillizziamoci, non abbiamo che uno stomaco ed un cervello. Ma tutto è possibile. Poliéri

 Digitale significa Teatro.

 Le caratteristiche delle tecnologie multimediali digitali stanno delineando nuovi scenari economici, sociali, cognitivi e linguistici: scrittura e lettura sempre più ipermedializzati stanno modificando secondo Thomas Maldonado il processo stesso della memoria umana mentre Lev Manovich afferma che il sistema informatico sta influenzando il sistema culturale nel suo complesso.

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Il teatro non risulta impermeabile a questo divenire multimediale della società sia pur con notevoli resistenze: le nuove tecnologie digitali trasformano radicalmente tutte le fasi produttive dello spettacolo, dalla progettualità alla sua dimensione scenica, coinvolgendo anche il contesto stesso di ricezione (dall’osservazione all’immersione) in relazione al prodursi di nuove modalità ibride di creazione e di comunicazione artistica. L’idea di multimedialità (termine oggetto di un vivace dibattito teorico, cfr. A.M.Monteverdi, A.Balzola, pp.21) e conseguentemente di interattività, è stata variamente sperimentata nel mondo delle arti sceniche (così come nelle arti visive e sonore) sin dalle avanguardie storiche e dalle seconde avanguardie, trovandone una prima definizione (ed una significativa dimensione interdisciplinare), e precede o addirittura prefigura l’innovazione tecnologica che la concretizza ovvero il digitale con la possibilità di trasferimento, elaborazione e interazione di qualsiasi testo, immagine o suono nell’ambito dello stesso metamedium. Nuove frontiere per il teatro si aprono grazie alle possibilità di conversione in un unico intercodice (“la sinestesia obbligata del digitale“, come ricorda Derrick De Kerchove) e al principio di variabilità, interattività, ipermedialità, simulazione (L.Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, ) proprie del sistema integrato digitale, una vera e propria nuova concezione del mondo che obbliga a ripensare l’arte nel suo rapporto con la scienza e con la tecnica. Non più, dunque, operazioni artistiche separate tra loro dalla tecnica: “Il testo, o meglio l’ipertesto drammaturgico il progetto scenico, la partitura sonora-musicale, l’installazione, il video il software, lo spettacolo, non appartengono più a generi diversi ma divengono fasi di un processo aperto, tassello di un mosaico spaziale e temporale mutante, flessibile e comunicativamente forte”.

Similitudine di funzione e di processo: se nella ormai storica formulazione teorica di Brenda Laurel (Computer as Theatre, 1993) il teatro serve da modello per la rappresentazione dell’interazione uomo-computer, la nozione di environment, di performance, di event accomunerebbe proprio spettacolo live e multimediale digitale (A.Pizzo, p.19-24; J. Murray). Così come ogni spettacolo si dà qui e ora, nella “compresenza fisica reale di emittente e destinatario” e nella “simultaneità di produzione e comunicazione” (M.De Marinis,), nella sua immediatezza, nell’attualizzazione di un testo che non esiste se non nell’insieme di relazioni (umane-spaziali-temporali), anche il digitale vive in un tempo percepito come presente e come un continuo generarsi di processi (un tempo fatto cioè “non più di eventi, come il tempo televisivo, ma di infinite virtualità”, ricorda Edmond Couchot), nella interazione tra macchina e agente attraverso interfacce. Secondo tale approccio teorico sarà proprio la presenza del digitale in scena (e non genericamente dell’audiovisivo che appartiene all’era della “riproducibilità”) ad “aumentare” (enhanced theatre è una delle definizioni del teatro digitale) il senso di presenza e di liveness del teatro. I termini della questione posti da Walter Benjamin vanno così ridefiniti a partire non più dalla perdita dell’aura dell’opera in una prospettiva digitale e virtuale dell’arte, ma di un’acquisizione di datità reale, nella “generazione senza referenzialità”seguendo il pensiero di Pierre Lévy e Philippe Quéau, perché il virtuale crea “un nuovo stato di realtà”  (P.Queau, Le frontières du virtuel et du réel in L.Poissant (a cura di) Esthétique des arts médiatiques, (vol.1), Presses de l’Université du Québec).

 Continuità e rottura.

Verso una (nuova?) sintesi scenica dei linguaggi.

Il digitale propone modalità tecniche ed espressive sia di rottura che di continuità. Rottura rappresentata dalla tecnologia di sintesi numerica, in base alla quale non c’è più un rapporto generativo con la realtà materiale, e continuità con alcuni principi cardine del modernismo e dell’avanguardia del Ventesimo secolo, specificamente teatrale: l’unione dei linguaggi -anche quelli della tecnica-, la partecipazione allargata dell’evento spettacolare, la ricercata condizione di azione e interazione (di cui l’interattività appare oggi come la realizzazione concreta), la creazione di un ambiente dalla “totalità percettiva” e sinestetica (“la sinestesia è l’inclinazione naturale dei media contemporanei” affermava l’artista video Bill Viola).  La prospettiva multimediale del teatro – come hanno dimostrato Béatrice Picon-Vallin, Denis Bablet, Nicola Savarese, Andrea Balzola, Fréderic Maurin- perfeziona l’utopia di sintesi delle arti delle avanguardie storiche: la Gesamtkunstwerk di Wagner (l’opera d’arte totale o comune o unitaria secondo le diverse traduzioni) ovvero il dramma unificante di parola e musica (Wor-Ton-Drama) espresso in particolare ne L’opera d’arte dell’avvenire (1849), da inscriversi nell’onda poetica e di pensiero del Romanticismo tedesco (Goethe, Schelling) pur suscitando posizioni e interpretazioni ad esso divergenti e addirittura opposte nei registi fondatori del teatro moderno che trovarono inadeguata la riforma scenica del compositore tedesco, fondamentalmente prefigurava una comune aspirazione a un’ideale di accordo dei diversi linguaggi componenti lo spettacolo, in sostanza una “strategia della convergenza, della corrispondenza e della connessione” (E.Quinz, in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p.109).

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Teatro diventa, pur nella diversità delle proposte teoriche, un campo magnetico per tutte le arti (Kandinski): dalla totalità espressiva del nuovo teatro di Edward Gordon Craig operata dal regista-demiurgo luogo di una “musica visiva”, alla sintesi organica e corporea di arti dello spazio e arti del tempo secondo Adolphe Appia, alla composizione scenica astratta di suono, parola e colore di Wassily Kandinsky sorretta dal principio costitutivo dell’unità interore che non doveva oggettivare la realtà ma costituire un evento spirituale capace di suscitare vibrazioni e risonanze condivise dal pubblico. Ancora, il teatro della totalità del Bauhaus con la rappresentazione “simultanea sinottica e sinacustica” di Moholy-Nagy, la “simbiosi impressionista dei linguaggi” della multiscena tecnologica di Josef Svoboda che negli spettacoli della Lanterna Magika combinava in una composizione sincronica, plastica e sonora, l’azione dell’attore o del danzatore, la scena cinetica, il suono stereofonico, gli schermi di proiezione mobili e il cinema.

Infine il programmatico “No Borderline between Arts” di George Maciunas per il movimento Fluxus, non più scultura, poesia e musica ma evento che inglobi tutte le discipline possibili. Sintesi, totalità e sinestesia: principi che si sono declinati in una rinuncia agli spazi tradizionali del teatro all’italiana per rivitalizzare in senso espressivo e relazionale, nell’ottica di una “drammaturgia dello spazio” (M.De Marinis, 2004) luoghi trovati dell’esperienza quotidiana connotati in questo modo di un carattere di efficacia drammaturgica. Il teatro si apre a condividere altre spazio-temporalità, altre modalità narrative, integrando la tecnica e trasformandola in linguaggio espressivo sin dalle prime esperienze simboliste, all’indomani dell’invenzione della luce elettrica, con Gordon Craig e Adolphe Appia. Si tratta di un cammino verso una narrazione non lineare e cinetico-visiva affine al montaggio cinematografico, verso inedite modalità di avvicinamento fisico allo spettatore fino a una sua inclusione nell’opera attraverso un percorso ambientale e “reattivo” e una sempre più spinta dilatazione tecnologica fatta di dispositivi diversi e strategie scenografiche adeguate a soddisfare un’esigenza di prossimità o una mobilità rispetto all’evento o agli eventi sparsi, mobilità che riguarda anche lo scavalcamento di ruolo e intercambiabilità tra attore e pubblico. Dalle imprevedibili azioni di disturbo delle spettacolazioni composite futuriste fino all’attacco “alla sensibilità dello spettatore” teorizzato da Antonin Artaud che nel Secondo manifesto del teatro della crudeltà, parlava di un teatro che “grazie alla soppressione della scena, si estenderà alla sala intera e, partito dal suolo si arrampicherà sui muri […], avvolgerà fisicamente lo spettatore, lo terrà in un’atmosfera ininterrotta di luce, di immagini, di movimenti e di rumori”.  Anche l’evoluzione dei media di immersione e le tecnologie di realtà virtuale per convogliare esperienze artificiali multisensoriali hanno una lunga storia rintracciabile nella pittura, nel cinema, nel teatro e affondano le radici negli scorci prospettici rinascimentali in cui l’osservatore era illusionisticamente incluso nello spazio dell’immagine e nelle ingegnose macchine barocche per i cambi di scena (N. Savarese, pp.242-249). La ricerca di una partecipazione dell’osservatore nell’opera si inaugura con i panorami pittorici a 360° e con l’esperimento polivisivo o cinema simultaneo di Abel Gance (Napoléon, 1927), per proseguire con il Cinerama presentato all’Esposizione mondiale di Parigi che proponeva dieci film da 70mm proiettati contemporaneamente, pionieristico tentativo di espandere il campo visivo dei film sfruttando le zone periferiche dell’occhio umano, con il Sensorama, con il Cinema espanso e quello in 3 D, ed infine con i visori stereofonici Head Mounted (HMD) progettati da Ivan Sutherland nel 1966 e finanziati dall’Esercito americano. Da una parte il cinema delle avanguardie “chiama al lavoro dello sguardo ma anche al coinvolgimento di tutti i sensi” (S. Lischi, in A. Balzola, A.M.Monteverdi, p.62) con schermi semisferici o rotanti, simultaneità di proiezioni, alterazioni di velocità, generale sovvertimento della passività dello spettatore, dall’altra il teatro con macchinari per muovere le scene, piattaforme girevoli, palcoscenici simultanei e circolari, proiezioni cinematografiche (Mejerchold in Terra capovolta), scenografie dinamiche e tridimensionali innovative (rampe elicoidali per R.U.R. di Kiesler) si apre alla percezione di quella che Maria Bottero con una bella immagine definisce “la curvatura del mondo”, verso cioè una multidimensionalità e un nuovo rapporto tra attore e pubblico raggiunto sia con l’architettura sia con l’uso di immagini cinetiche sincronizzate con l’azione scenica (M. Bottero, Frederick Kiesler, Milano, Electa, 1995). L’architetto Walter Gropius dichiarò che lo scopo del suo Teatro totale progettato per Piscator doveva essere quello di trascinare lo spettatore al “centro degli avvenimenti scenici” ed “entro il raggio di efficacia dell’opera”. Erwin Piscator il regista fondatore del Proletarisches Theater nella Germania della fallita Rivoluzione di Novembre di Karl Liebknech e Rosa Luxemburg e pioniere di una scena multispaziale e multimediale secondo una famosa definizione di Fabrizio Cruciani, in Ad onta di tutto (1925) inserì sia immagini fisse che il film documentario, ovvero pellicole autentiche che mostravano gli orrori della guerra; in Oplà, noi viviamo (1927) insieme con lo scenografo Traugott Müller progettò una costruzione scenica a più piani prevedendo un largo impiego, oltre che dei disegni di George Grosz, di proiezioni cinematografiche per creare “una connessione tra l’azione scenica e le grandi forze che agiscono nella Storia”. L’Endless Theatre di Frederick Kiesler, il Teatro anulare di Oskar Strandt, il teatro ad U di Farksas Molnàr fino ai più recenti dispositivi di Poliéri (la sala giroscopica, la scena tripla, la sala automatica mobile, scena e sala telecomandate, ruotanti e modificabili), sono alcuni esempi di una ricerca volta a determinare un allargamento della cornice scenica, che avvolgesse letteralmente il pubblico in un ideologica spinta alla partecipazione globale.

 

Il Teatro dei mezzi misti: il paradigma dell’interdisciplinarietà, dell’ambiente e dell’interazione.

Musica,  danza e film con esclusione drastica del testo o addirittura della parola, il carattere “attimale” dell’opera in base al quale conta principalmente l’accadere dell’evento (lo spazio-tempo reale a volte dilatato per diverse ore) e il contesto ambientale (i luoghi urbani), vengono definite le caratteristiche del nuovo teatro dei mezzi misti, o intermedia, che si inaugura con 18 Happening in 6 Parts  nell’ottobre del 1959 alla Reuben Gallery di New York sotto gli auspici del fondatore, Allan Kaprow: nastri non sincronizzati, diapositive proiettate, suoni e rumori provenienti da un autoparlante, pareti affrescati con collage, oggetti sparsi, azioni eseguite meccanicamente e frasi ripetute da attori si susseguivano in un alternarsi di luci colorate davanti e intorno a un pubblico invitato a spostarsi nelle tre camere separate da pareti di plastica in cui era stato suddiviso lo spazio. Queste le costanti dell’happening individuate dallo storico e artista Michael Kirby: struttura a compartimenti (unità di azioni distinte e autonome, realizzate in sequenze o simultanee e in luoghi diversi); carattere non verbale (prevalenza di suoni puri); assenza di matrice (di tempo, luogo e personaggio); azione indeterminata (ma non improvvisata); uso di materiali concreti, quotidiani; utilizzo di elementi alogici. Kirby rintraccia anche l’eredità nei Merzbau di Kurt Schwitters (1923-1924), nella tecnica e nel principio compositivo del collage e dell’assemblage dada e neodada (da Max Ernst e Jean Arp a Robert Rauschenberg), nello spettacolo futurista (l’integrazione sonora e rumoristica e le declamazioni simultanee del Teatro della Sorpresa di Marinetti e Cangiullo) e dadaista (Relache di Picabia con partitura di Satie, 1924). A questo bisognerebbe aggiungere anche i ready-made di Marcel Duchamp e il concetto di rifunzionalizzazione estetica. Ma l’influenza più diretta sarebbe data da un lato dalla musica indeterminata di John Cage (e dal concerto-evento Untitled event al Black Mountain Collage del 1952) dall’altro dall’action painting, dalla pittura gestuale, dalla teatralità dell’azione artistica, dalla pratica ambientale dell’arte e dall’agire performativamente dentro l’opera. Naturale evoluzione dell’happening è l’enviromental theatre o teatro ambientale: alla fine degli anni Cinquanta Richard Schechner esplorava lo spazio trovato della città -già luogo deputato di manifestazioni e di sit in di protesta- aggiungendo al fatto teatrale una dimensione ambientale, decretando come ricordava il regista americano fondatore del Perfoming group, la fine del “punto di vista unico, sorta di marchio di fabbrica del teatro tradizionale”. Nel testo Six Axioms for Environmental Theatre (1968) Schechner sviluppa la nuova idea di teatro: il fatto teatrale è un insieme di rapporti interagenti (tra gli attori, tra il pubblico, e tra essi e lo spazio e gli elementi della rappresentazione); tutto lo spazio è dedicato alla rappresentazione ed è dedicato al pubblico; l’evento teatrale può avere luogo sia in uno spazio totalmente trasformato sia in uno spazio <<lasciato come si trova>>; il punto focale è duttile e variabile; ogni elemento della rappresentazione parla il suo proprio linguaggio; il testo non è necessariamente il punto di partenza o lo scopo della rappresentazione. E potrebbe addirittura non esserci”.

Dal Teatro-azione agli ambienti inter(e)attivi

Il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina nella sua lunga attività contro il teatro di rappresentazione a favore di un teatro-vita che nella pratica scenica si tradurrà in una ricerca ben salda agli ideali libertari anarco-pacifisti, volta ad attivare un’esperienza comune di consapevolezza sociale e il Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine e la loro messa in scena della creazione collettiva della Storia, hanno posto l’accento sulla tematica politica e sociale del teatro quale luogo di un’azione condivisa. Insieme a Luca Ronconi e al suo lavoro teatrale degli anni Sessanta e Settanta sull’originale messinscena della “spazialità nascosta del testo” (Balzola, p.) e sulla simultaneità delle azione sceniche dai testi-fiume di Holtz, Ariosto, Kraus in luoghi extrateatrali drammaturgicamente significanti come il Lingotto e l’ex Orfanotrofio Magnolfi di Prato, questi gruppi della neoavanguardia sperimentale hanno ridefinito i contorni di un nuovo luogo teatrale  (che poneva anche l’accento sulla rifunzionalizzazione artistica degli spazi della collettività: il Teatro-Territorio, secondo una definizione dell’architetto Gae Aulenti). Luogo teatrale espanso e dilatato che viola lo spazio prossemico dello spettatore, spezzando le tradizionali “barriere architettoniche” e il principio stesso della frontalità, liberando una soggettiva selezione di visione, e ponendo le condizioni per una partecipazione – in senso fisico ed ideologico – all’azione scenica, prefigurando le possibilità immersive delle tecnologie multimediali e delle installazioni interattive e di realtà virtuali.

Se il pubblico diventava co-protagonista nell’Antigone del Living Theatre attraverso un allargamento dello spazio della scena a tutta l’architettura teatrale e ne Gli ultimi giorni dell’Umanità era libero di muoversi nello spazio operando un proprio montaggio di visione, nelle installazioni di Myron Kruger definite dall’artista significativamente Responsive Environments (come Videoplace), in quelle di David Rokeby (a partire da Very Nervous System, 1986) e soprattutto negli ambienti sensibili di Studio Azzurro (come Coro e Tavoli) l’obiettivo dichiarato è quello di creare un’esperienza sensoriale e relazionale, creativa e soggettiva di dialogo tra osservatore-performer e ambiente, attraverso un dispositivo elettronico sonoro, visivo e grafico: “Uno spazio socializzato è il senso primo della nostra definizione di ambienti sensibili. Si tratta di pensare a contesti dove l’atto interattivo non sia confinato ad una dimensione individuale, come capita nella maggior parte dei casi con questi sistemi (una persona determina il dialogo e altre eventualmente stanno a osservare). Contesti in cui al dialogo con la macchina si associ e si mantenga anche il confronto, anche complice, con le altre persone(…)E’ una garanzia per partecipare alle scelte, che saranno sempre più frequenti nella nostra società proprio per il diffondersi dei sistemi interattivi di consultazione, meno soli e isolati da un confronto umano ancora indispensabile” (Paolo Rosa, Rapporto confidenziale su un’esperienza interattiva, in S.Vassallo, A. Di Brino Arte tra azione e contemplazione).

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Immersione partecipativa, ricerca di uno spazio sensoriale e sollecitazione ad una visione e un ascolto “sinestetico”sono alcuni degli obiettivi di molti artisti multimediali che approdano così, quasi naturalmente in un territorio prettamente teatrale verso una “dramaturgia dell’interazione opera-pubblico che trasferita in teatro diventa interazione opera-attori-pubblico e segna un decisivo passaggio dal video in scena alla scena-video interattiva e sinestetica” (A.Balzola, 2004): “Videoambientazioni, con questo termine cercavamo di evidenziare non solo la relazione con lo spazio, ma il dialogo tra uno spazio e gli elementi messi in gioco, superando la dimensione puramente scenografica. Il teatro era già presente in embrione come ambito nel quale sconfinare, del quale interessarci per lo sviluppo naturale della ricerca nella videoinstallazione. Era inevitabile pensare al teatro anche come luogo dove continuare a sviluppare la pratica della narrazione, da svolgere attraverso i monitor, il rapporto tra lo spazio e chi lo fruisce, lo spettatore o l’attore (Studio azzurro, Camera astratta, Ubu, 1988) Nello spettacolo Studio azzurro Giacomo mio salviamoci! (1998, versi, lettere di Leopardi) l’intera scena è un ambiente virtuale parzialmente interattivo dove i personaggi con le loro azioni possono provocare eventi visivi e sonori. L’evento spettacolare per Giardini Pensili è invece uno spazio dinamico, un’opera-ambiente fatta di suoni e immagini rigorosamente live e in metamorfosi digitale continua. L’immersione è resa possibile da una “iperstimolazione sensoriale” visiva e acustica (R.Paci Dalò, Pneuma, 2005): suoni dalle frequenze anomale, gravi e sovracute, inseguono e avvolgono lo spettatore attraverso sistemi di spazializzazione multicanale (come in Metamorfosi con Anna Buonaiuto e Italia anno zero) associati a strati di immagini-sinopie trattati digitalmente che affiorano a tratti con ritardi, effetti e rallentamenti (Metrodora, Stelle della Sera).  Esperienze sensoriali quasi destabilizzanti per lo spettatore sono inoltre, quelle provocate dalle performance del gruppo austriaco Granular Synthesis  e quelle del collettivo giapponese di danzatori Dumb Type che lavorano sulle astrazioni video, sulla scomposizione granulare del suono e sulle subfrequenze che sconvolgendo i canoni tradizionali dell’ascolto e della visione alla ricerca di una corrispondenza tra segnale elettromagnetico e recettori visivi, tra attività neuronale e processo digitale, trovando nel tecnologico una grande metafora del contemporaneo.

Dal teatro-immagine alla Postavanguardia

Il Teatro-immagine è legato alla figura di Robert Wilson, punto di riferimento di quella ricerca teatrale degli anni Settanta volta sempre più ad uno “spazio definito nella sfera del visivo” (S. Sinisi, Dalla parte dell’occhio. Esperienze teatrali in Italia, 1972-1982), verso una raffinata visionarietà antinarrativa sempre più affine alla processualità e allo spazio-tempo tecnologico (cinematografico e video). Da A Letter for Queen Victoria (1974), Einstein on the Beach (1976), Edison (1979)  realizzati con effetti luministici colorati a forte vocazione pittorica e improntati a un’estetica minimalista (anche nel suono, grazie al contributo fondamentale della musica ripetitiva di Philip Glass) fino a Monsters of Grace (1999) quest’ultimo contenente animazioni computerizzate in 3D, Wilson ha da sempre modellato i suoi spettacoli-quadro in un’ottica di totalità e sintesi architettonica tra le parti: scritture di luci e suoni, ritmi visivi e sonori calcolati al secondo con azioni rarefatte e rallentate, aderenti sistematicamente al principio dello slow motion e del loop.

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In Hamlet: a Monologue (1995) la luce diventa un tema, con una propria autonomia espressiva ed emotiva, quasi fosse luce-stato d’animo mentre l’effetto visivo generale rimanda alle tecnologie audiovisive, quasi fosse un video ad alta definizione: l’intenso sfondo luminescente rispetto al corpo dell’attore simula infatti un particolare effetto mixer, l’effetto intarsio o chromakey. Il teatro-immagine segna una stagione particolarmente fertile che vede tra i protagonisti Mario Ricci, Giuliano Vasilicò, Simone Carella e Memé Perlini il cui spettacolo Pirandello: chi? (1973), tra “frammenti-immagine”, corpi-manichini che emergono dal buio grazie alle luci di taglio e citazioni dal cinema surrealista viene considerato il Manifesto della nuova tendenza. Ma il passaggio a un’estetica teatrale legata ai nuovi media si ha con la Postavanguardia,  ufficializzata nel 1976 a Salerno alla rassegna diretta da Giuseppe Bartolucci. Invaso da altri linguaggi (cinema, fotografia, fumetti, musica rock, mass media, fantascienza) e attirato dalla fascinazione urbana, il teatro della postavanguardia “accentua ulteriormente gli aspetti visionari dello spettacolo e agisce sulle facoltà percettive del pubblico per attirarlo in un cerchio di suggestioni di carattere ipnotico” (A.M.Sapienza). Sono protagonisti: Simone Carella (regista di Autodiffamazione, spettacolo astratto senza attori), la Gaia scienza di Giorgio Barberio Corsetti (La rivolta degli oggetti), il Carrozzone (primo nucleo dei Magazzini criminali, con I presagi del vampiro, manifesto programmatico del loro teatro analitico-esistenziale). Successivamente spettacoli come Punto di rottura (1979) dove quattro monitor sezionano lo spettacolo e Crollo nervoso (1980) degli ex Magazzini Criminali diventano un fondamentale punto di riferimento per la successiva generazione teatrale sempre più spinta verso le suggestioni dei mass media (A.Balzola, in A.Balzola, A.M.Monteverdi, pp.306-311; ed inoltre A.Balzola, 1995)

Videoteatro anni Ottanta

La rassegna Paesaggio metropolitano/Teatro-Nuova Performance/Nuova Spettacolarità (1981), inaugura un nuovo teatro che si esprime attraverso l’esplorazione dei media e si ispira al panorama della metropoli e dell’immaginario cinematografico e videografico. Krypton, Falso movimento di Mario Martone, la compagnia di  Giorgio Barberio Corsetti con Studio Azzurro esploreranno radicalmente, sia pur con modalità profondamente diverse, il territorio della multimedialità definendo con alcuni spettacoli-manifesto, i contorni tipologici di una stagione teatrale innovativa significativamente definita “video teatrale”: “L’esperienza videoteatrale in Italia nella prima metà degli anni Ottanta (…) sperimentava le nuove possibilità tecniche offerte dal video attingendo alle invenzioni , ma anche imboccando itinerari propri: dialettica straniante tra corpo reale sulla scena e corpo virtuale sullo schermo; sperimentazione di modalità di ripresa che interagissero fisicamente con i corpi degli attori/danzatori; ossessione dei primi piani e dei particolari dei volti e dei corpi che a teatro sfuggono in un quadro percepito sempre, inevitabilmente, come totale e lontano; suggestione dei colori freddi e brillanti dell’elettronica; uso in funzione espressiva della bassa definizione, della sgranatura materica e delle scie luminose dell’immagine video; elaborazione dell’immagine in post-produzione, con l’ausilio del mixer e del computer, soprattutto lavorando sulle chiavi cromatiche, sugli effetti di scomposizione dell’inquadratura e di montaggio” (A.Balzola, 1995).

Prologo a diario segreto contraffatto e Camera astratta (1987) di Giorgio Barberio Corsetti e Studio Azzurro rimangono gli spettacoli più emblematici di quest’epoca in cui si introduce una struttura complessa di dialogo tra corpo e ambiente, tra luce e spazio, tra immagine video e presenza attoriale. In Prologo vien allestita una doppia scena, una materiale e una immateriale, una visibile e una invisibile, ovvero il palco agito di fronte al pubblico e un retroset dove gli attori vengono ripresi mentre la loro figura intera è riproposta al pubblico in diretta, ricomposta su quattro file di tre monitor impilati. In Camera astratta invece un’architettura geometrica mobile attraversava il palco in varie parti, con monitor posti su binari o montati su assi oscillanti e sospesi come un pendolo: in una perfetta sincronia di movimenti, incorporavano e scomponevano il corpo dell’attore con un passaggio continuo e fluido della narrazione dal video al teatro. Nell’idea degli autori la Camera astratta è la mente stessa del personaggio e gli eventi dello spettacolo sono come le emanazioni-manifestazioni degli istanti-pensiero che attraversano questa scena interiore.

 

Dispositivi di visione

La Duguet nel celebre saggio Dispositif (1988) ricorda come sia stato proprio il teatro degli anni Sessanta a offrire i paradigmi e le premesse per una spazializzazione e temporalizzazione delle opere video intese non solo come immagine ma come dispositivi multipli che innescano un processo di durata e letteralmente di “esplosione” verso l’esterno, verso il contesto spaziale: la messa al bando del punto di vista unico, l’apertura ad una temporalità plurima, la partecipazione dello spettatore ad un evento reale, fisico e immediato, il suo coinvolgimento in un percorso narrativo, percettivo ed emotivo. La presenza di schermi  e monitor in scena comporta necessariamente una diversa partecipazione e una diversa disposizione percettiva poiché le immagini sono decontestualizzate, frammentate, velocizzate, simultanee su più schermi e lo spettacolo diventa “polivisuale e sembra che siano convocati tutti gli stadi della storia del nostro sguardo” (B-Picon-Vallin). L’effetto prodotto richiama secondo molti critici, alla molteplicità di  prospettive e alla scomposizione della figura umana delle avanguardie pittoriche primonovecentiste, quella cubista principalmente. In Marat Sade (1984) di Carbone 14, compagnia di Québec creata da Gilles Maheu nel 1980, La Dispute da Marivaux di D. Pitoiset (1995) e in The Merchant of Venice (1994) di Peter Sellars, il video sottolinea il volto, ferma il tempo e isola il gesto; volti che sembrano imprigionati nella scatola televisiva, come le teste “ritagliate” su cuscini nelle videoinstallazioni di Tony Ousler. Il video in scena introduce il cosiddetto “effetto specchio” diventando dispositivo psicologico introspettivo (come in Hajj, dei Mabou Mines, 1981). Il corpo dell’attore viene replicato e il suo doppio elettronico rimette allo sguardo dello spettatore l’immagine di un’interiorità invisibile e indicibile: è il passato o l’altrove, il nascosto e il perturbante, la memoria e il vissuto.

In Elsinore di Lepage (1995) Amleto si “guarda dentro”, e nella solitudine di Elsinore -luogo mentale- incontra tutti i personaggi generati da lui stesso, ombre e gigantesche proiezioni (su grande  schermo) delle proprie angosce che evidenziano la scomposizione della sua personalità psichica. Uno dei migliori esempi di integrazione di dispositivi multischermo con la scena è rappresentato da The Seven Streams of the River Ota (1994) di Robert Lepage. La scena è strutturata come la facciata di una tradizionale casa giapponese, con sette schermi-pannelli trasparenti fatti di spandex su cui vengono proiettate immagini video e ombre: l’effetto di “intarsio”permanente tra l’immagine videoproiettata e corpo dell’attore e tra la figura e sfondo monocromo luminescente genera un surreale dialogo tra corpi e luce, e rende quasi letteralmente il senso più profondo dello spettacolo: l’impossibilità di cancellare dalla memoria l’Hiroshima della bomba atomica. La scena fatta di schermi diventa una lastra fotosensibile e l’intero spettacolo una scrittura di luce, metafora di un percorso insieme di ricordo, di illuminazione e di conoscenza.

Il gruppo italiano Motus, tra i protagonisti della cosidetta Generazione Novanta, con il progetto Rooms  confluito nella versione definitiva dal titolo Twin Rooms (2000-2003) ispirato al romanzo Rumore bianco di De Lillo, palesa attraverso un particolare dispositivo visivo e sonoro, un procedimento cinematografico. L’azione teatrale, che procede per riquadri e close up e ricostruisce un set, simula il cinema; la regia teatrale diventa regia di montaggio:  la struttura (una camera d’albergo) si raddoppia dando vita a una “digital room” con due retroproiezioni affiancate di immagini preregistrate o provenienti da telecamere a circuito chiuso e mixate live con quelle girate in diretta dagli stessi attori in scena. La cornice scenografica di questo expanded live cinema invade tutto lo spazio del palco e le immagini riempiono ogni interstizio possibile, generando un sovraccarico di visibile. Il video incombe quale inquietante presenza dentro questo claustrofobico contenitore di corpi ridotti a immagine su schermo procedimento visivo che drammatizza efficacemente il nuovo totalitarismo consumistico narrato cinicamente da De Lillo, forse il più grande romanziere postmoderno. Domina nello spettacolo un eccesso di visibilità e anche un incrudelimento e una morbosità dell’occhio della telecamera che sorveglia e si sofferma sui corpi. Il video in scena  inglobato nell’architettura integra il procedimento del romanzo: lo shock dell’immediatezza, il senso di alienazione e di perdita di identità nel flusso della rappresentazione del sé.

 

Un’estetica del processo?

Dall’autore all’attiv-attore

La multimedialità digitale definisce una nuova estetica non più dell’oggetto ma del processo e del  flusso (C.Buci-Glucksmann) in cui per la prima volta nella storia delle tecniche figurative la morfogenesi dell’immagine e la sua distribuzione (diffusione, conservazione, riproduzione e socializzazione più estesa) dipendono dalla stessa tecnologia (dall’immagine-matrice all’immagine-rete secondo E.Couchot). Le opere interattive hanno la capacità di modificarsi grazie alla presenza e all’azione degli spettatori, intermediari tra strumento, artista e spettatore, diventati veri coautori dell’opera. Navigazione ipertestuale, ambienti virtuali 3 D, immagini di sintesi, installazioni interattive: da un’opera chiusa e strutturata a un’opera-sorgente che contiene nella sua attualizzazione ed esecuzione una possibilità di continua variazione. Se l’artista è l’autore della proposizione, della concezione dell’opera, del suo dispositivo, del suo contesto, della sua manifestazione, il visitatore attraversandola la interpreta, ne è il performer (A.M.Duguet Installazioni video e interattive. Definizioni e condizioni di esistenza). Edmond Couchot preferisce invece parlare di due autori: un autore a monte all’origine del processo, ovvero colui che definisce programmaticamente le condizioni della partecipazione e un autore a valle che si inserisce nello sviluppo dell’opera e ne attualizza in maniera non preordinata, le potenzialità.

In Storie mandaliche 3.0 : il collettivo artistico Zonegemma ha messo in atto una complessa drammaturgia ipertestuale (ipertesti di Andrea Balzola) confluita in uno spettacolo di narrazione interattivo (con uso prima del Mandala System poi del programma di animazione Flash MX). Poiché il mandala viene costruito secondo un percorso labirintico e una logica di corrispondenze, anche  le storie hanno delle inter-connessioni: il pubblico può decidere di passare da un personaggio ad un altro ad ogni bivio ipertestuale, viaggiando all’interno di un labirinto di migliaia di possibili narrativi. La novità della tecnica affabulatoria del cyber-contastorie Giacomo Verde  che recupera un’oralità antica aggiornandola ai media digitali, l’immagine in animazione per permettere una navigazione anche in Internet, la ricercata atmosfera generale di sinestesia attraverso le sonorità spettromorfologiche create da Mauro Lupone, ma soprattutto il particolare reticolo ipertestuale percorso dal pubblico fanno di Storie mandaliche 3.0 il primo e pionieristico esempio italiano di teatro interattivo, con un’interattività non di interfaccia ma di progetto e di relazione. In CCC (2003) di Davide Venturini-TPO l’opera, definita dagli autori “un’azione teatrale a metà tra un atelier multimediale e uno spettacolo”  non è altro che un tappeto interattivo: un video proiettore invia dall’alto immagini animate e un sistema di trentadue sensori nascosti sotto il tappeto: il movimento di una o più persone all’interno di esso genera suoni e immagini che sono l’armamentario di un racconto di viaggio in Giappone tra i colori e le forme di un giardino Zen. L’artista innesca le condizioni più adatte per  sviluppare un’esperienza riflessiva e socializzante al tempo stesso, che sia da un lato di gioco ma anche di codici, di segni, di spazi, di nuove e immateriali architetture; è un’esperienza spontanea collettiva e condivisa, di emozione sensoriale, di contemplazione estetica, di concentrazione interiore.

Verso un teatro virtuale

Il teatro affronta la questione del virtuale aprendosi anche ad un nuovo un versante interattivo, attraverso la creazione di una scena delle interfacce (E.Quinz, in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p.403). Secondo Quinz due sono le possibili classificazioni di questa nuova scena: la prima è rappresentata da un puro sistema di interfacce in cui il dispositivo e il software servono sostanzialmente da intermediari fra il computer e le unità periferiche (videocamere, strumentazione virtuale). Si tratta in pratica di una vera e propria regia digitale che combina fonti diverse visive e sonore: immagini video ed eventuale elaborazione digitale in tempo reale, immagine da Internet, o d’archivio, sonorità elettroniche realizzate e trasformate in diretta.

Il secondo tipo, definito da Quinz “ambiente-mondo”, è quello degli ambienti virtuali veri e propri, incentrato sull’interazione fra corpi reali e corpi virtuali, sulla creazione computerizzata di oggetti interattivi a partire dalla captazione di movimenti degli interpreti in combinazione con l’utilizzo di periferiche di interazione uomo-macchina tramite sensori (elettromagnetici, elettromeccanici e fotoelettrici) come i data glove per la manipolazione della Realtà Virtuale e i sistemi di Motion Capture o la piattaforma EyesWeb elaborata dal Laboratorio di Informatica Musicale di Genova di Antonio Camurri che catturano gesti e movimenti umani (ma anche pulsazioni cardiache, variazioni di temperature), generando uno spazio reattivo, un ambiente multimodale interattivo (A.Camurri in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p. 414); l’attore indossando queste interfacce può gestire autonomamente in tempo reale e con il solo movimento, input da diverse periferiche e animare oggetti, ambienti, grafica, immagini, suoni, personaggi 3D e comporre l’azione scenica vera e propria. L’interfaccia si pone allora fra due sistemi di natura diversa, fra i quali il computer svolge delle operazioni di traduzione.

Il data glove o guanto interattivo è stato usato in Italia da Giacomo Verde e Stefano Roveda per dare vita al burattino virtuale Euclide nel 1992 mentre Jean Lambert Wild con Orgia (2002) ha sperimentato efficacemente il rapporto tra corpo dell’attore e immagine mediato da un’interfaccia (Sistema Daedalus): questa generava esseri artificiali, organismi del fondo marino, il cui “comportamento” e il cui movimento era influenzato dai livelli di emotività, respiro, temperatura e battito cardiaco degli attori muniti di particolari sensori.

https://www.youtube.com/watch?v=6zzrSi_irIw

Come ricorda Emanuele Quinz che ha elaborato la più originale proposta teorica in materia di digitale applicato alla scena (soprattutto in riferimento alla coreografia) “grazie alle interfacce il linguaggio scenico si arricchisce di un nuovo strato, basato sulla fluidità dei codici, sulla circolazione di input e output e sul trasferimento e la trasformazione dei dati. L’obiettivo di questi cantieri di ricerca e processi di sperimentazione è di esplorare una nuova sintassi capace non solo di tenere conto dei nuovi flussi delle informazioni sulla scena, ma di integrarli al servizio della composizione drammaturgica e coreografica” (E.Quinz in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p. 405)

Marce.lì Antunez Roca, fondatore della compagnia catalana Fura dels Baus propone un nuovo cyber teatro o teatro tecno-biologico in cui l’ibridazione (ovvero l’interpenetrazione, come precisava Mac Luhan) e lo scambio non sia solo più solo tra macchine e dispositivi ma tra corpo e tecnica, tra organico e inorganico, tra robotica e biologia, operando al confine tra “corpi in -macchinati e macchine in-corporate” (M. Antunez); il performer incarna l’utopia post-umana della tecno-mutazione, dell’ampliamento della struttura biologica verso nuove sensibilità extratattili diventando, attraverso innesti temporanei di dispositivi elettronici ed elettromagnetici, cybermarionetta e robot cibernetico, potente metafora della liberazione del corpo verso nuovi e inesporati spazi di sensorialità (dai robot pneumatici che reagiscono alla presenza del pubblico- Requiem, 2000-, al corpo-macchina del performer, appendice del computer sottoposto alla invadente molestia telematica da parte dello spettatore attraverso un touch screenEpizoo, 1994-).

Mutazione come seconda natura, come una sorta di felice alienazione dell’uomo nella sfera biotecnologica, passaggio indolore ad una nuova realtà, a una nuova “artificialità naturale”, tematica e che ha molto in comune con la nuova carne del cinema mutageno di David Cronemberg, col cyborg di Donna Haraway, e con i post umani di Bruce Sterling ne La matrice spezzata. In Transpermia. Panspermia inversa (2003) Antùnez, come già in Afasia, sostituisce il keyboard con il dressskeletron o esoscheletro, una protesi elettromeccanica, vero prolungamento protesico della sua corporeità recuperando grazie al programma Midi Reactor, funzioni organiche non più limitate alla vista e al tatto, potendo suonare con il suo corpo e modulare la voce, animare immagini  e disegni che mostrano ironiche ipotesi di interfacce e robot da usare nel quotidiano per identità sempre mutanti. Il performer (“uomo-orchestra” come lo ha definito incisivamente Carlo Infante che ha seguito sin dagli esordi i lavori dell’artista catalano) controlla così suono, immagine multimedia, videocamera in tempo reale, sequencer MIDI poiché il suo esoscheletro è in realtà una piattaforma che gli permette di connettere insieme e gestire una molteplicità di programmi, facendo di se stesso, un’interfaccia delle interfacce. Questi esempi affermano la centralità dell’attore quale fulcro vitale dell’esperienza scenica e mostrano una nuova ricerca teatrale  che prende come punto di partenza l’interprete, il cui corpo-interfacciato permette di far funzionare l’intero spettacolo; il nuovo cyber-attore torna ad assumere i connotati della Supermarionetta profetizzata da Craig,  dell’”uomo-architettura ambulante” ovvero adeguata alle leggi dello spazio cubico ambientale di Oskar Schlemmer ed infine dell’attore biomeccanico mejercholdiano per il quale “il corpo è la macchina e l’attore il meccanico”(A.Pizzo, p.132;  N. Savarese, 248-262).

Frontiere futuribili si intravedono per un nuovo teatro on line già esplorato dai navigatori della grande rete mondiale in occasione di alcuni eventi globali di hyperdrama e virtual drama (L.Gemini, p.136-137):#hamnet,1993 degli Hamnet Players, la prima performance realizzata via Internet attraverso il canale Internet Relay Chat; Clicking for Godot del DeskTop Theatre; Connessione remota , 2001 realizzata contemporaneamente on stage e on line con l’attivazione di una webcam e dialoghi in chat e Webcam teatro (2005) che utilizza le cosiddette webcommunity, entrambi progetti di Giacomo Verde. L’idea di una performatività deterritorializzata, estesa a vari canali per sperimentare diversi luoghi anche immateriali della comunicazione (senza fondamenta e smisurati, come nel caso delle opere nelle architetture del cyberspazio) e diverse modalità di partecipazione, ha alcuni precedenti significativi: Telenoia di Roy Ascott del 1992, performance mondiale durata 24 ore che connetteva attraverso tutte le tecnologie della comunicazione dell’epoca, bbs, fax, videofono, teletext, artisti che si scambiavano poesia, musica e immagini a cui fece seguito un anno dopo La lunga notte, concerto radiofonico in simultanea interattiva ideato da Roberto Paci Dalò-Giardini Pensili. E soprattutto The CIVIL warS: a tree is best measured when it is down di Robert Wilson, spettacolo kolossal ideato per le Olimpiadi di Los Angeles del 1984 in cui l’utopia di opera totale si trasfigurò in una composizione seriale di lirica, danza, cinema, pittura da dilatare (anche attraverso l’universo della diretta televisiva via satelite) in cinque paesi diversi del globo in sintonia temporale, progetto -realizzato solo parzialmente-che sfuggiva decisamente alla scena tradizionale e ai suoi tempi.

La rete intesa anche come potenziale teatro della protesta e della nuova disobbedienza civile, come luogo di un nuovo rekombinant e tactical theatre: si tratta del pensiero del collettivo statunitense Critical Art Ensemble e dell’Electronic Disturbance Theatre di Ricardo Dominguez, punti di riferimento della comunità artistica digitale mondiale e che si ispirano per le loro oper’azioni performative attraverso la rete, al Living theatre e al movimento situazionista. Le loro azioni (sit in virtuali, scioperi della rete) rientrano nell’ambito del cosiddetto hacktivism, etichetta usata per definire pratiche di attivismo, sabotaggio e controinformazione attraverso le nuove tecnologie. Il vero interrogativo, al di là dei generi e dei canali usato è: può il teatro -anche quello che usa le tecnologie più nuove – mettere in discussione modelli, sistemi, poteri? Brecht è ancora attuale? E’ proprio Brecht nei testi relativi alla Radio (1927-1936) ad aver intuito che il problema stava nell’appropriazione e nell’epicizzazione del mezzo, nel totale controllo espressivo da parte dell’artista -e della voce collettiva  che si nasconde dietro di lui- dello strumento tecnico e della nuova concezione dell’arte che supera la separazione tra “produttore” e “consumatore”.

Remedi-Action, il videoteatro torna alla ribalta nel volume di Jennifer Malvezzi
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Mi rendo conto che una mia recensione di un libro in cui io compaio come citazione nella prima pagina dell’editore Postmedia rischia di non essere credibile. Ma non ci sono dubbi sul fatto che questo libro Remedi-Action. Dieci anni di videoteatro italiano scritto dalla giovane e ben documentata Jennifer Malvezzi, borsista di ricerca all’Università di Parma, sia un ottimo strumento di studio e di ricerca per chiunque voglia ancora addentrarsi in quel “paesaggio elettronico” che componeva la gloriosa arte teatrale degli anni Ottanta. Insomma un libro da consigliare a studenti e docenti e a tutti coloro che vogliono conoscere quel teatro italiano che ha avuto una brillante stagione di sperimentazione e in cui la tecnologia era uno dei linguaggi chiave da sperimentare in una generale e generazionale euforia di contaminazione.

Il mio ragionamento sulla “bontà” di questo libro si basa sul fatto che chiunque abbia scritto su questo argomento ovvero il videoteatro, a meno di non averlo vissuto personalmente come spettatore, ha sempre fatto riferimento sostanzialmente, al libro di Andrea Balzola (La nuova ricerca elettronica), a quelli di Valentina Valentini (Teatro in immagine, Camera astratta), a Bruno di Marino (il catalogo Elettroshock) e (of course) agli scritti sparsi di Carlo Infante. Sembrava non ci fosse più nulla da dire sul fenomeno, visto anche che quegli anni erano stati letti nelle recensioni straordinarie (e analiticissime) di critici come Beppe Bartolucci e Franco Quadri.

Quello che ha forse confuso la critica (me compresa) e molti di coloro che hanno tentato di fare una storiografia di  questo fenomeno già tramontato alla fine del decennio Ottanta e consegnato alla memoria e alla fortuna (nel senso latino del termine…), sono proprio questi validissimi scritti di studiosi e teorici tra il 1990 e il 1995 che hanno avuto  sicuramente il merito di portare alla ribalta un fenomeno artistico italiano degno attenzione ma che limitavano (per ragioni editoriali o di scelte personali) la ricerca a un ambito circoscritto di autori e opere.

Evidentemente molto rimaneva ancora da raccontare, e non certo tra i minori: il lavoro pionieristico di Michele Sambin, per esempio, performer video solitario e in seguito col Tam Teatromusica, è stato ingiustamente emarginato o solo parzialmente studiato, per poi essere riscoperto successivamente grazie al Festival Invideo che digitalizzò nel 2004 l’intero archivio di Sambin.pm143dpi300

Non a caso la copertina del libro della Malvezzi è una foto di scena del Tam Teatromusica che anticipa al lettore in qualche modo che il contenuto va nella direzione di una “riscoperta” di un sommerso di qualità.

In sostanza, la visione del videoteatro italiano anche nel percorso di studio di generazioni di studenti, si è sempre limitata ad alcuni esempi-faro (Camera astratta di Studio azzurro e Giorgio Barberio Corsetti/Gaia scienza; Crollo nervoso dei Magazzini; Tango Glaciale di Falso Movimento, Eneide di Krypton). Questo libro ha il pregio di raccontare un videoteatro diverso, certo anche con quegli esempi famosi e con quei protagonisti indiscussi della scena su cui forse era stato già detto quasi tutto, ma attingendo a un universo più ampio, che si apre al videoclip per esempio e alla cultura pop a cui molti autori si richiamavano. E così ecco spuntare le coppie Taroni/Cividin, Dal Bosco/Varesco ecco riemergere Antonio Syxty e le esperienze pionieristiche di distribuzione come Tape connection dell’attivissima Maia Borelli o Soft video (vedi ampia sezione di interviste ai protagonisti).

Il capitolo dedicato ai Magazzini di Tiezzi riporta alla luce, come da archeologia del postmodern, lavori sperimentali del gruppo e materiali inediti frutto di un’accurata ricerca d’archivio come si faceva una volta. Così la distanza cronologica dal fenomeno (per ragioni diciamo generazionali) in realtà, permette all’autrice di inquadrare il fenomeno nella giusta prospettiva critica attuale. La Malvezzi rielabora sulla base di molti testi pubblicati in questi anni sulla videoarte e sul teatro digitale, il videoteatro storico rintracciandone il valore non solo nella memoria ma nella “remediation” come occhieggia il titolo, ovvero ciò che un linguaggio esercita e elabora per riadattarsi a un nuovo ambiente (nel caso specifico al digitale). Quale sarà il volto del videoteatro attuale trasformato? Un discorso che apre scenari importanti considerata l’ampia produzione di performance tecnologiche contemporanee, ormai dimentiche di pionieri e affini.

Ma come non riconsiderare, per esempio, le scene prospettiche fatte di luce e diapositive di Ritorno ad Alphaville e in generale i lavori di Martone come le fondamenta dell’ampia (e spesso poco creativa) produzione di scenografia in videomapping?

Ritorno ad Alphaville, Martone. Foto di Cesare Accetta.
Ritorno ad Alphaville, Martone. Foto di Cesare Accetta.

Ci limitiamo a sottolineare che ben pochi lavori teatrali allo stato attuale delle tecnologie hanno avuto l’impatto e la forza eversiva di Camera astratta che a dirla tutta, fu presentato a Kassel (chissà che ne avrebbe detto Vila-Matas); ed oggi mostrare le testimonianze video a studenti d’accademia e persino a convegni internazionali (come quest’anno alla Sorbonne Nouvelle dove Vincenzo Sansone in un commosso omaggio a Paolo Rosa, ha presentato attività videteatrale di Studio azzurro) ha ancora un impatto tale che sembra giustificare l’affermazione di Rosalind Krauss: Reinventare un medium.

Ottime le schede finali (tratte da video opere ispirate agli spettacoli) che sintetizzano anche a vantaggio della nuova didattica, artisti e tendenze e dove forse, una scheda sul lavoro di Giacomo Verde ci stava bene. Un libro veloce dove come nella valigetta di Duchamp, ci sta dentro tutto. Anche le nostre memorie.

Convegno Le Théatre dans la sphére du Numèrique, Paris, Centre Pompidou (in francese)
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Le premier Rendez-vous du programme de rencontres
« Création numérique, les nouvelles écritures scéniques » s’est déroulé le Vendredi 24 octobre 2003 au Centre Georges Pompidou dans le cadre du Festival Résonances de l’Ircam.

Il programma del convegno 

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Un grand merci à Anna-Maria Monteverdi qui a fait un compte-rendu de la journée

Ce premier Rendez-vous intitulé « Le théâtre dans la sphère du numérique » s’est déroulé face à un important public d’artistes, de chercheurs, de professionnels des arts de la scène et d’étudiants français et étrangers. Après une présentation du programme et de la journée par Anomos et Dédale puis Franck Bauchard, conseiller Théâtre au Ministère de la Culture et de la Communication, Bernard Stiegler, Directeur de l’Ircam, a proposé une introduction générale de la question « arts de la scène et technologies ».

Le programme a ensuite abordé les trois étapes suivantes :

Arts de la scène et technologies, la création contemporaine en perspective historique.
Cette première partie était organisée autour de deux axes :
– Les précurseurs : les avant-gardes de 1900 à 1960.
– Le choc du numérique : quelques expériences significatives de la question « arts de la scène et nouvelles technologies » de 1960 à nos jours.

Les nouvelles formes scéniques, panorama européen.

Il s’agissait ici de dresser un état des lieux européen des acteurs et des projets artistiques, de dégager, par pays ou zone géographique, les grandes tendances actuelles et de montrer comment les caractéristiques culturelles propres à chaque pays influent sur cette question des rapports arts de la scène et technologies. Les questions professionnelles (lieux de production, de diffusion, festivals) ont également été abordées. Les trois zones géographiques qui ont fait l’objet d’une attention particulière sont : l’Europe du Sud (Italie), l’Europe du Nord (Allemagne, Pays-bas) et l’Europe de l’Est (Pologne).

Arts de la scène et technologies, la création contemporaine en perspective historique.

Les précurseurs

Dans le cadre de la section dédiée aux précurseurs, la directrice du Laboratoire de Recherches sur les Arts du Spectacle du CNRS Béatrice Picon-Vallin (qui était absente, mais dont le texte a été lu par Clarisse Bardiot, collaboratrice du programme « Création numérique, les nouvelles écritures scéniques ») a proposé une interprétation de la scène technologique contemporaine qui s’inspire des avant-gardes du 20ème siècle : la scène actuelle serait une dernière contribution au thème de la conquête d’un théâtre de l’expression totale et d’un nouvel espace scénique généré non pas à partir de la peinture ou de la littérature, mais de la lumière et du mouvement :
« La scène architectonique » de Craig, la scène constructiviste ou celle du Bauhaus, génèrent des machines à jouer, échos des recherches de l’avant-garde plastique, capables entre autres innovations radicales, de découper l’espace tridimensionnel en une série de cadres précis dans lesquels et entre lesquels le comédien devra maîtriser le mouvement scénique, le jeu se voyant défini comme maîtrise des formes plastiques dans l’espace. La lumière tend également à éliminer la peinture pour distribuer elle-même dans l’espace qu’elle fluidifie couleurs et mouvements (…) Aujourd’hui, la machine à jouer se fera machine à projeter des images, et le jeu des comédiens devra tenir compte de celles-ci, fixes ou animées, qui peuvent habiter l’espace dans son ensemble, apparaître sur toute surface constituant le dispositif, et non plus seulement sur les écrans suspendus au dessus de la scène ou placés au fond du plateau (comme dans les années 20) – images qui peuvent même capter l’acteur en direct et être retraitées, toujours en direct, images surgies, fantomatiques, toujours au bord de l’évanouissement, de la disparition, par lesquelles l’acteur de chair est redoublé, agrandi, magnifié ou sous surveillance.
(B. Picon-Vallin, Un stock d’images pour le théâtre. Photo, cinéma, vidéo, in B. Picon-Vallin, sous la direction de, La scène et les images, Paris, CNRS Editions, 2001, p.21-22).

Béatrice Picon-Vallin propose une subdivision temporelle en cinq actes de cette histoire du théâtre technologique à laquelle tous les facteurs ont contribué de manière directe, qu’ils soient de nature sociale, politique, idéologique ou économique.

1. Les années 20 en Russie
2. Les années 20-30 en Allemagne
3. Les années 50-60 à Prague
4. Les années 60 aux Etats-Unis
5. Les dernières vingt années du 20ème siècle en Europe et aux Etats-Unis

Béatrice Picon-Vallin a porté une attention particulière au « théâtre de la totalité » de Moholy-Nagy, à l’acteur-marionette d’Oskar Schlemmer et à son célèbre ballet triadique et à Josef Svoboda, le scénographe tchèque, inventeur de la « Lanterne magique » et du système de poly-projections Polyécran présenté à l’exposition universelle de Bruxelles (1958). Des extraits du documentaire  biographique de Denis Bablet Jospef Svoboda scénographe (1983) ont été présentés. Un des extraits montrait le spectacle Intolérance 1960, sorte de manifeste pour une idée d’un théâtre multimédia (ayant de nombreuses implications politiques), qui a été créé en 1960 avec le musicien Luigi Nono sur le livret d’Angelo Maria Ripellino pour la Fenice de Venise dans un premier temps (mais les images furent censurées) et pour Boston dans un second temps. Cette dernière version prévoyait la substitution des images cinématographiques avec un système de reprise télévisuelle à circuit fermé : c’était en somme, comme le rappelle Bablet, « une nouvelle forme d’opéra, un nouveau type de théâtre total ».
Lire le texte de l’intervention de B. Picon-Vallin

Sylvie Lacerte, ex-directrice générale du Find lab (laboratoire international de recherche et de développement de la danse) de Montréal et doctorante à l’UQAM, a proposé l’exemple pionnier des EAT – Experiments in Arts and Technologies — l’organisation fondée conjointement en 1966 par les ingénieurs Billy Klüver et Fred Waldhauer de la téléphonie Bell et les artistes Robert Raushenberg et Robert Whitman. Cette organisation a été lancée lors de la manifestation 9 evenings : theatre and engineering qui s’est déroulée en 1966 à New-York. Il s’agissait de performances qui mêlaient ensemble danse, théâtre, musique et vidéo. Parmi les artistes présents, il y avait : J. Cage, S. Paxton, D. Tudor, R. Rauschenberg, L. Childs. Sylvie Lacerte a travaillé à la reconstruction détaillée de ces œuvres artistiques qui intégraient de façon inhabituelle les technologies. Comme le rappelle la chercheuse dans son texte sur l’histoire de l’EAT, en ligne sur http://www.olats.org :
Pour la mise sur pied de cet événement, un système électronique environnemental et théâtral fut inventé par l’équipe des ingénieurs. Le THEME – Theater Environmental Module – fut mis sur pied pour répondre aux besoins de dix artistes, en fonction de situations théâtrales bien spécifiques. Le THEME, qui n’était pas visible de la salle, permettait entre autres, le contrôle à distance d’objets et la possibilité d’entendre des sons et de voir des faisceaux lumineux provenant de sources multiples et simultanées.

Sylvie Lacerte a montré un extrait d’une des neuf performances, Open score de R. Raushenberg et J. MC Gee (ingénieurs ) avec Franck Stella et Mimi Kanarek, qui jouaient une partie de tennis avec des raquettes dont les manches étaient équipés de micros sans fil qui amplifiaient le bruit de la balle.


Le choc du numérique 

Dans la seconde section du panorama historique, Christopher Balme, professeur de théâtre et directeur du Département Arts du spectacle de Mayence (Allemagne) a proposé une intervention sous le nom de « Contamination et déploiement ; théâtre & technologies 1960-2003 ».
Dans cette intervention, Balme traçait trois trajectoires du rapport entre théâtre et technologies :
– l’art vidéo
– le théâtre multimédia
– la performance numérique et la performance à travers Internet
Après avoir anticipé les positions anti-technologiques du théâtre des années 60, en particulier celles de Jerzy Grotowski et Peter Brook, Balme a souligné très justement à quel point cette querelle du théâtre et des technologies est un sujet encore largement débattu. Pour la partie relative à la première vague de l’innovation technologique, les expériences artistiques de Nam June Paik, mais aussi celles de Jacques Polieri dans les années soixante ont été évoquées ainsi que les œuvres vidéos de Bill Viola et les spectacles de Giorgio Barberio Corsetti pour la période relative aux années soixante-dix et quatre-vingts. Balme soutient que ces artistes, pourtant éloignés dans leur pratique artistique, ont tous en commun une même attitude esthétique qui cherche à dépasser la dichotomie traditionnelle entre l’art et la technologie. En référence au passage de l’art vidéo à la scène, certains artistes de la soi-disant « scène multimédia » états-uniennes dont le Wooster Group d’Elizabeth Lecompte, pionnier dans l’utilisation sur scène de la vidéo, live et préenregistrée, ont été cités.

Rappelons-nous le spectacle Brace-up ! :


Brace up!
, mise en scène de Elizabeth LeCompte: Scott Renderer, Jeff Webster (sur le grand moniteur), Paul Schmidt (sur le petit moniteur), Kate Valk. (photo © Mary Gearhart)

Leur travail est poursuivi de façon parfaite par John Jesurun et The Builders Association (on se souvient en particulier du spectacle Everything that rises must converge, 1990). L’interaction entre l’action de l’acteur et de la vidéo est un postulat important selon Balme pour le développement de la performance numérique et à travers Internet.

Balme a présenté certains extraits du spectacle de Robert Lepage Les sept branches de la rivière Ota, premier projet théâtral réalisé avec la compagnie pluridisciplinaire Ex Machina dans lequel le metteur en scène canadien développe une trame visuelle faite de silhouettes, corps, images vidéos littéralement mêlés ensemble de façon à former un théâtre d’ombre muet, métaphore visuelle de la persistance de la mémoire d’Hiroshima dans le monde occidental et oriental. Dans la seconde partie, relative au numérique, Balme a parlé de la première performance sur Internet, Hamnet (1993) des Hamnet Players de Stuart Harris.

Il s’agit d’une performance réalisée via un système de chat à travers le canal Internet Relay Chat (IRC) #hamnet. L’essai en ligne de Brenda Danet offre une lecture précise de cette expérience :http://jcmc.huji.ac.il/vol1/issue2/contents.html.

Lire le résumé de l’intervention de Christopher Balme (en anglais)

Les nouvelles formes scéniques, panorama européen.

L’Europe de l’Est : l’exemple de la Pologne
Pour le panorama européen, Izabella Pluta-Kiziak, doctorante à l’Université de Silésie (Pologne), a proposé une intervention intitulée « Entre l’Internet et la réalité post-communiste » avec des fragments vidéos des spectacles de Komuna Otwock : Bez tytulu et Trzeba zabic pierwszego boga.


Desing: Gropius / Dlaczego nie bedzie rewolucji – Komuna Otwock.

La chercheuse a rappelé que le phénomène du théâtre et des nouvelles technologies est totalement différent en Europe de l’Est par rapport à l’Europe de l’Ouest ou aux Etats-Unis. L’actuel changement politique est d’ailleurs un facteur déterminant de ce phénomène. Il existe cependant des implications économiques et de forts liens avec la tradition théâtrale qui freinent une réelle expérimentation dans cette direction.
La chercheuse a proposé :
– un cadre historique de ce que l’on appelle le théâtre alternatif après 1989 et la direction du théâtre de recherche polonais à partir de la question « Peut-on vraiment introduire les nouvelles technologies dans le théâtre polonais après Grotowski et Kantor ? »
– un panorama des manifestations, festivals, centre de ressources. Entre autres, ont été présentés : le Festival international de théâtre alternatif Réminiscences théâtrales à Cracovie, Malta-Festival de Théâtre à Poznan (http://www.malta-festival.pl/) et WRO Centre (http://www.wrocenter.pl/), Centre des arts des médias à Wroclaw (qui organise la biennale des arts des médias).
– La génération des metteurs en scène « plus jeunes, plus talentueux », qui utilisent la vidéo sur scène : Grzegorz Jarzyna avec Psychosis 4.48 ; Anna Augustynowicz, Mloda smiercBalladyna.

Lire le texte de l’intervention d’Izabella Pluta-Kiziak

L’Europe du Nord : l’exemple de l’Allemagne et des Pays-Bas 
Meike Wagner, professeur en arts du spectacle à l’Université de Mayence a présenté deux projets :
– Alientje (2002) du groupe holandais Wiersma & Smeets qui travaille avec des projections, des personnages en papier, des objets filmés avec un simple système audiovisuel. Il s’agit d’un projet pour enfants.

– Cyberpunch (2003) du groupe théâtral de Thomas Vogel à Berlin. Il s’agit d’un projet de « cyberstage » avec des personnages virtuels en interaction avec des marionnettes et des acteurs réels sur scène. Le « cyberstage » de Thomas Vogel est un work in progress.

Lire le texte de Meike Wagner

L’Europe du Sud : l’exemple de l’Italie
Pour le panorama italien, Anna-Maria Monteverdi a proposé une digression sur trois aspects historiques :
– l’héritage du théâtre-images : panorama du théâtre de recherche italien enrichi par la présence des médias sur la scène et l’héritage du théâtre-images des années soixante-dix.
– Le videoteatro italien : de la post avant-garde à la « nouvelle spectacularité » : Giorgio Barberio Corsetti, Studio Azzuro.
– Teatri 90 et la « Troisième vague » : la nouvelle génération du théâtre italien.
Et, comme cas d’étude, Giacomo Verde de Teleracconto et Storie Mandaliche 2.0 ; et la compagnie Motus : « de l’installation au théâtre » (Twin rooms).

Motus est une compagnie de théâtre basée à Rimini (Italie) et dirigée par Daniela Nicolò et Enrico Casagrande. Ex Generazione Novanta, Motus est une jeune compagnie qui s’inscrit d’ores et déjà parmi les compagnies historiques. Leur théâtre traverse depuis toujours les territoires les plus variés de la vision : cinéma, vidéo, architecture, photographie…, une visio éclectique et multiforme, irrespectueuse des spécificités de genre qui transpose sur scène les techniques du cut up, du découpage, du mixer et du montage. Dans le projet Rooms qui atteint son point culminant avec Twin Rooms, ils mettent en scène De Lillo et le cauchemar de la vidéosurveillance. La ville comme une mosaïque de micro-visions – énorme « digital room » contiguë à la scène-dispositif représentant une chambre d’hôtel – accueille un amas incontrôlable d’images et une tentation psychotique à leur consommation.

Giacomo Verde est « médiactiviste », computer artist et technoperformer. Il a construit son esthétique sur l’idéologie dulow tech pour socialiser les savoirs technologiques. Par le biais du théâtre, il soutient la cause de la démocratie et de l’accès aux technologies et pose la question politique des images télévisuelles. Le teleracconto — ou le fait de filmer en direct des objets en gros plans, conjointement à leur vision sur moniteur (critique ironique de l’univers médiatique) selon une modalité théâtrale (techno) narrative pour enfants — est devenu un procédé clé de son théâtre : les images sont créées en live et les effets numériques constituent la toile de fond vidéo qui se modifie suivant le cours de la narration en OVMM inspiré des Métamorphoses d’Ovide. C’est une manière d’affirmer de façon provocatrice que « la télévision n’existe pas » et que « toutes les images sont abstraites ». Storie Mandaliche 2.0 (2003) créé avec Zonegemma et Xear.org est l’un des premiers exemples de spectacle interactif appliqué à une dramaturgie hypertextuelle (textes d’Andrea Balzola).