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Chiara Mazzocchi:la fotografia diventa performance
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Sono fotografa, video artista, performer. Mi sono appassionata di arti visive e performative sin da quando ero bambina. Ero affascinata dal mistero del corpo, dall’energia e dagli spazi, dall’umanesimo e dall’arte concettuale e minimale; cosi si presenta nel suo sito web Chiara Mazzocchi, affascinante e intrigante artista imperiese, sguardo orientale, capelli neri, corpo nervoso e magrissimo, trasferitasi per un lungo periodo a Berlino e ora trapiantata a Milano.

Le sue opere visive sono fotografie e performance insieme, nel senso che ogni progetto nasce come  una “storia” che si sviluppa come un récit senza parole, come una performance per la fotocamera. L’autoritratto avviene attraverso un invisibile tocco al telecomando dopo che l’artista ha scelto e calcolato esattamente il campo visivo da inquadrare, la luce, il taglio e la composizione dell’immagine. L’azione performativa deve infatti, tenere conto di alcune variabili spaziali come fosse in un’arena senza possibilità di scavalcamenti di campo. L’infinito mondo interiore della performer viene definito dai limiti del rettangolo fotografico. Cosi nascono Human alienation (600 autoscatti per raccontare l’alienazione) progetto di intensa drammaticità e corporeità selezionato anche da Vogue, e la cui sequenza fotografica passa su Repubblica on line, e poi White room, un interno di casa dove cassetti, libri e piastrelle rappresentano un universo di isolamento interiore. I progetti fotografici si convertono successivamente in video. A lei il magazine Il Fotografo ha dedicato un nutrito dossier d’autore. La sua casa di distribuzione video è la Visual container. Ha esposto a Berlino al Salone d’arte, ha partecipato a importanti collettive di videoarte e ha recentemente esposto e realizzato performance per la galleria 77 Art Gallery di Milano.

Diplomata in fotografia, video e graphic design all’Istituto d’Arte di Imperia sperimentando modalità ancora analogiche, la Mazzocchi si specializza in tecniche video e regia televisiva a Milano. Ha studiato anche tecniche teatrali e danza contemporanea ed etnica (con Jean N’ Diaye “Ballet National du Senegal”). Nel 2008 abbandona il lavoro di fotografa e graphic design in un’agenzia pubblicitaria per trasferirsi a Berlino come artista visiva freelance e performer (body installation, improvvisation).

 Potenti nel loro urlo muto le originali fotografie della serie Human alienation, dove il volto della donna è occultato da una calza che ne nasconde il sembiante, mentre la nudità dialoga con ambienti della quotidianità, dal bagno alle scale di casa. Isolamento, alienazione, spersonalizzazione, solitudine, mancanza di integrazione. Dentro queste fotografie c’è il richiamo a un’utopia affogata, alla voce negata, ai diritti cancellati, è una protesta muta. Abbiamo chiesto all’artista di raccontarci il suo percorso.

Quali sono stati i suoi inizi e come è approdata al video

Il video è una conseguenza della fotografia. Sono partita dall’idea che volevo fare cinema, ho fatto la scuola d’arte per fotografia e video, ho studiato come regista. Da piccola sentivo il desiderio di esprimermi con il corpo perché ero molto timida e rielaborato con la danza quel che sentivo interiormente, non avevo trovato alcun altro modo di esprimermi. Col tempo ho unito la performance alla foto. Avevo vinto un concorso in Fininvest, a Citi C, il centro cinematografico milanese, e ho imparato molte cose. Mi hanno insegnato i tagli, fotografici e cinematografici, ad organizzare l’idea dello spazio, la gestione dello spazio, come muoversi dentro. Ho studiato il cinema in pellicola e il montaggio video in analogico, e poi ho unito la danza, tutti tipi di danza, classica, moderna, contemporanea, danza di espressione africana, per me rappresentava un bagaglio culturale importante.

Quando ha deciso di andare a Berlino
Nel 2007 decisi di abbandonare tutto ciò che riguardava il fare cose per altri e mi licenziai. Ho fatto un salto nel vuoto per cominciare la mia ricerca basata sulla consapevolezza umana ed è il motivo per cui faccio autoritratti, perchè la mia ricerca parte da me stessa e si evolve nella gestione di spazi e cose.

Ci sono artisti o opere che l’ hanno influenzata in questa ricerca?
Balcan Epic della Abramovic. Il tema della fissità nella performance, concetto molto legato alla Abramovic. Ma non ho approfondito molto. Ho alcuni modelli d’artista come Bill Viola, Yoko Ono. Il prima progetto fotografico riguardava la fragilità umana ed ero ancora in Italia, poi ho fatto molte performance a Berlino; lì vendevo fotografie nei mercatini, nei kunstmarket e mi mantenevo così.

Come nasce Human alienation?

Human alienation nasce a Berlino e testimonia un profondo, totale mio squilibrio. Quando ero arrivata in Germania avevo una base di inglese, ma non sapevo il tedesco, avevo difficoltà a comunicare; poi una relazione che col tempo mi aveva portato a una situazione di soffocamento, mi ha condotto naturalmente a esprimermi con una performance fotografica. Ho trovato in casa le mie calze di danza, ho preparato la location e questo lavoro è stato per me come una terapia; questa sessione fotografica mi ha aiutato a uscire da questa dimensione negativa che stavo vivendo. In due giorni ho iniziato a farmi moltissime foto, 2000 scatti con il cavalletto e telecomando, mi fotografavo per non pensare alla morte, e il risultato mi ha fatto tornare me stessa. Il video viene dopo la foto,  il montaggio è stato quasi casuale

Cos’è per lei l’alienazione umana?

L’Alienazione è data dal sistema, i soldi, il dover essere…C’è un senso di costrizione a un qualcosa che non mi rappresenta,  che non mi appartiene. Gli ambienti sono lasciati vuoti per far passare il tema dell’indifferenza. Alcuni scatti li ho fatti sotto la doccia, con l’acqua: allo stesso tempo c’è una cascata di energia e insieme una privazione…Il progetto mi ha fatto tornare me stessa. Erano scatti senza guardare nell’obiettivo, porgevo le mani alla luce che passava dalla finestra, avevo il telecomando vicino a me. Poi ho scattato foto mentre ero al bar che bevevo caffè, mentre salivo le scale. Nella foto fatta nella soffitta di casa ci sono calze appese come fossero gambe, direi che c’è l’idea forse, di ricominciare a camminare…

C’è improvvisazione o preparazione?
La preparazione c’è,  ma la fotografia prevede un minimo di disattenzione e di casualità della macchina nell’attimo in cui scatta e non si è perfettamente consapevoli di ciò che si è ripreso. Ho scattato talvolta, senza scopo e senza immaginarmi il risultato. Poi la serie fotografica è diventata video. Alcune foto della dimensione di 40×40 le ho “inscatolate” nel legno, con l’aggiunta delle calze corrispondenti al mascheramento usato.

Per il video ha creato una installazione? Dove lo ha esposto?

Al salone d’arte di Berlino, il Kunstsalon nel 2011. Sono stata scelta personalmente dal curatore della mostra. E alla fiera, OpenAir Gallery tramite una selezione. A Berlino c’è molta creatività, motivazione da parte di artisti, e anche molta meritocrazia.

Il progetto White room?

E’ un dialogo con me stessa, c’è un vuoto che non è negativo, è uno stato della mente. L’ho realizzato che non stavo più a Berlino e trasmette il senso di una sconfitta, mi porto il peso addosso del fatto di essere tornata in Italia. Il video l‘ho montato al contrario come fosse un’idea di ripensamento, di un pensiero che ritorna. I miei movimenti, le azioni sono impulsi della testa che tengo collegati, come una calamita, al cosmo. Sono movimenti autonomi dalla tua volontà. Qua il canale video di Chiara Mazzocchi.