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Per Paolo Rosa in memoriam
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Pubblicato su Culture teatrali

La notte tra il 19 e il 20 agosto di quest’anno è mancato Paolo Rosa. L’ultimo sguardo lo ha rivolto all’azzurro del Mediterraneo, in Grecia, a Corfù dove stava trascorrendo le vacanze con gli amici di sempre e con la moglie Osvalda. Aveva 64 anni. Ha ragione Giacomo Verde: un brutto anno questo per le arti elettroniche. La morte di Paolo Rosa rinnova il dolore per la perdita di Antonio Caronia, entrambi compilatori (tra gli altri) del Manifesto per una cartografia del reale (1992).

 Rosa era uno degli artisti visivi più talentuosi della sua generazione, fondatore insieme a Leonardo Sangiorgi e Fabio Cirifino dello Studio Azzurro, ambito di studio e di sperimentazione audiovisiva e interattiva che ha creato un nuovo modo di pensare l’arte in rapporto con la tecnologia, rendendo quest’ultima, un fondamentale strumento linguistico ed espressivo. Paolo Rosa ci teneva a ricordare sempre nei suoi incontri, la fondativa esperienza nell’ambito del Laboratorio di Comunicazione militante negli anni Settanta a Brera, dove ha mosso i primi passi esplorando fotografia e cinema, ma propendendo per quest’ultima. Disegnatore, pensatore, progettista multimediale e docente d’Accademia, Paolo lascia fiumi di riflessioni e pensieri sull’etica dell’arte nel suo faccia a faccia con la complessità contemporanea, con i “media-mondo”, e sulla sua fondamentale funzione collettivizzante e socializzante. Lascia in eredità a tutti noi il patrimonio inesauribile delle sue straordinarie pratiche artistiche visionarie che affondano le radici in una volontà d’arte totale che lambisce architettura, teatro, danza, cinema, grafica, pittura, video. Come dissociare i lavori di Studio azzurro dagli splendidi disegni preparatori da lui realizzati, che dell’opera formata (sia essa installazione, video o spettacolo tecnologico) diventano la sinopia, il bozzetto preparatorio, le fondamenta dell’intero edificio artistico ma con un forte valore estetico a sé.

Lo Studio Azzurro con Paolo Rosa ha abituato il pubblico a immergersi nella bellezza e talvolta nello stupore della tecnica, conducendolo nei territori dell’io attraverso monitor, schermi e dispositivi interattivi. Ma Paolo era ben consapevole che la potenzialità della tecnologia nelle mani di un artista non dovesse limitarsi a un puro uso funzionale o a un solo ambito estetico o poetico, ma applicarsi ad una vera mutazione sociale e antropologica della società: “Sperimentare questi linguaggi – scriveva nel 1994 – induce a confrontarsi continuamente sull’impatto che essi hanno nella società. Davvero in questo ambito di ricerca si ha la sensazione di sperimentare anche nello spazio sociale, inciampando spesso in qualche nervo scoperto della contemporaneità”. L’artista si appropria dei media per dar loro un senso diverso dalla finalità tecnica per cui sono stati progettati: con questo approccio legato all’idea di “reinventare il medium”, le tecnologie non sono più “semplici attrezzi del mestiere, docili e inerti, ma diventano portatori di senso, di una nuova visione del mondo”.

Studio azzurro ci ha abituato a operazioni di ribaltamento straneante della funzione originaria delle tecnologie, una volta approdate nell’arte: i raggi infrarossi – triste ricordo di una guerra del Golfo vissuta attraverso la sua versione spettacolare televisiva – ne Il giardino delle cose, bucavano e rendevano concreto il buio; i raggi X ad uso della polizia aereoportuale in Il viaggio, esploravano storie intime e private. In Kepler’s Traum, opera musicale ispirata alla teoria di Keplero sul movimento dei pianeti, Studio Azzurro porta in scena su uno schermo semicircolare i diversi segnali e le immagini del nostro pianeta provenienti in diretta dal satellite Meteosat, in una potente metafora della necessità di osservare la sfera che ci ospita da un insolito punto di vista, tecnologicamente “aumentato”.

Parafrasando una frase dal libro scritto a quattro mani con Andrea Balzola, L’arte fuori di sé, diventato il suo testamento teorico, la sua arte era “plurale” non solo nella condivisione della progettualità ma anche nel linguaggio e nella tecnica. Non più il solo video monocanale, non solo la semplice videoinstallazione ma videoambienti, narrazioni complesse, plurali appunto, perché si relazionano contemporaneamente con lo spazio, con la luce e con lo spettatore; sono quadri in movimento, architetture visuali e sonore che strabordano dai confini e dagli steccati a senso unico dell’arte. Il visitatore scopre dentro il cerchio iniziatico dell’opera, un nuovo mondo, talvolta un mondo interiore e può decidere con quale senso appropriarsene, o semplicemente abbandonarsi al flusso mai interrotto di stimoli, percezioni, sensazioni. “Installazioni come luogo in cui stare dentro una narrazione”. Così per CoroTavoliSensitive CityIl soffio sull’angelo e l’ultimo lavoro In Principio (e poi), ideato per il padiglione della Santa Sede della Biennale di Venezia. Se i nuovi media promuovono la creazione di uno spazio sensoriale dinamico e sollecitano a una visione e un ascolto sinestetico, nelle installazioni interattive di Studio Azzurro cosmografie di corpi giocano con il soffio, con il battito delle mani, con il suono, con luci impalpabili che danno forma a un volto. Nell’estetica liquida “sottrattiva” e relativa poetica della trasparenza di Studio Azzurro, prende campo un’interattività che si libera dall’evidenza delle corazze tecnologiche per operare in uno spazio sgombro ma sensibile, ricco di sollecitazioni emotive dove il vuoto è forma da riempire di “vibrazioni, sovrapposizioni, oscillazioni, contrasti, che sono la spina dorsale della nuova narrazione”. Per la serie di installazioni che compongono Mediterraneo gli elementi naturali, la moltitudine di lingue, il lavoro dell’uomo sono messi in connessione con la tecnologia, che è la chiave di accesso al paesaggio, ai colori, ai suoni. Si entra nell’interattività con un gesto naturale e con un corpo senziente. Ha ragione la videomaker Agata Chiusano a dire che le videoinstallazioni di Studio Azzurro “hanno conquistato uno spazio fino allora inesplorato: quello della fisicità emotiva dello spettatore”.

Questa modalità di naturale artificialità, che prevede l’esposizione di “ambienti sensibili” al calore umano, al suono prodotto dal battito di una mano, che escludono qualunque interfaccia tecnologica e promuovono, come ben stigmatizza Valentina Valentini, “lo spettatore come io narrante”, è una costante della ricerca di Studio Azzurro sin dagli esordi. Nel Nuotatore, una delle prime installazioni del gruppo, lo spettatore è materialmente immerso nella vasca vuota di acqua ma riempita di monitor sincronizzati ricostruita dentro Palazzo Fortuny ed è sollecitato a immaginarsi una storia seguendo il nuotatore nella sua linearità di percorso acquatico ma anche i relitti e le tracce inattese che interrompono la serialità dell’azione. Perché in fondo “L’idea di interattività era latente nelle nostre videoinstallazioni. Un’interattività concettuale, non fisica o parzialmente fisica perché si poteva interagire con lo spazio

Non c’è dubbio che la data di nascita del videoteatro sia sancita proprio dagli spettacoli di Paolo Rosa e Studio Azzurro in collaborazione con Giorgio Barberio Corsetti: da Prologo a diario segreto contraffatto (1985) a Camera astratta (1987), quest’ultimo considerato un “esempio-faro” del teatro elettronico italiano e che raccoglie l’eredità lasciata dal Teatro Immagine di Memé Perlini, nome storico dell’avanguardia romana.  Il Dams di Bologna nel 2003 organizzò un importante convegno dal titolo Lo schermo e lo spazio, coordinato da Gerardo Guccini, in cui Paolo Rosa intervenne proprio a spiegare le ragioni dell’innovazione del lavoro teatrale insieme con la Gaia scienza di Corsetti in cui la tecnologia entrava non quale elemento decorativo ma come appendice fondamentale per l’attore e per lo sviluppo stesso della drammaturgia: “Sono spettacoli che ci introducono alla ‘doppia scena’ e al dialogo tra personaggio naturale e personaggio artificiale, che ci dava insomma la consapevolezza che usare la tecnologia in scena voleva dire pensarla in termini drammaturgici prima ancora che scenografici. I monitor recitano, si muovono, si stancano come gli attori, mostrandosi in tutta la loro fisicità e fragilità.”

Paolo odiava correnti ed etichette e per questo motivo si tirò ben presto fuori dal contesto della videoarte e, in generale, dal cosiddetto “sistema dell’arte”. L’arte elettronica, era solito dire, ha una forza dirompente tale che fa saltare il problema disciplinare: “La videoarte ci sembrava che fosse come la bodyart, come la conceptual art, una delle tante forme e tendenze delle arti visive”.

Di Paolo Rosa ci mancherà la gentilezza, la generosità e la passione che metteva nel suo lavoro; ci mancherà il sorriso e la disponibilità a confrontarsi e a dialogare, a mettersi a disposizione di tutti, di studenti e neofiti dell’arte elettronica come di critici acclamati. Ci mancherà la persona impegnata nel suo tempo, preoccupata di dar vita più a “contesti partecipati” che a opere, a connessioni e relazioni più che a creazioni artistiche.

Avevo sentito Paolo poco prima di Ferragosto: ci legavano amicizia, studi e lavoro in Accademia a Brera. Era stato Paolo a introdurre il mio libro Nuovi media nuovo teatro a Book city a Milano.
Mi congedo facendo mio questo commosso ricordo di Sandra Lischi, studiosa di media e cinema che mi ha permesso di conoscere, all’Università di Pisa, la straordinaria lezione d’arte e di umanità di Paolo:

Ripenso all’impressionante qualità e quantità dei doni di Paolo: le sue folgoranti, problematiche sintesi teoriche; i suoi film, con quella particolare libertà di sguardo; la sua infaticabile attività di insegnante; i suoi innumerevoli testi; la sua disponibilità e curiosità umana; il suo modo di pensare, progettare e accompagnare la creazione artistica; la sua idea di impegno; la sua serietà; il suo sorriso; la grazia che metteva in tutto; e anche la garbata fermezza, la lucidità critica, lo scontento per un paese e per un sistema dell’arte sordo e cieco; la rivendicazione di spazio alla poesia e alla bellezza mai disgiunte dal senso del vivere civile, della memoria, del potere rivoluzionario del linguaggio. Sono ormai un patrimonio inciso a fondo nel nostro percorso le sue riflessioni sulla tecnologia, il suo pensiero critico sull’interattività non come dispositivo tecnico ma come possibile attivazione di sensibilità, di intelligenza coniugata con la meraviglia; la sua teoria di una ricerca che può e deve essere donata anche in una dimensione di “spettacolo” (togliendo a questa parola la pesantezza volgare che l’ha avvolta in quest’epoca); la sua consapevolezza culturale e la sua capacità visionaria. La sua teoria si incarnava nella vita stessa di Paolo: l’importanza e la responsabilità del comportamento, l’etica, l’idea del “dono” che emergono dai suoi scritti sull’arte erano anche nel suo modo di essere.

http://www.youtube.com/watch?v=N88xXGWoSXs&feature=share&list=PLKQi86dfXuoZBfN6GOTKT1tOKUyLyuG_T

Mi presento…
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Sono esperta di digital performance e video teatro; ho conseguito il dottorato di ricerca all’Università di Pisa in Stili forme e codici della rappresentazione teatrale, cinematografica e audiovisiva studiando a Québec city presso Ex machina di Robert Lepage, sul quale ho scritto una monografia (Il teatro di Robert Lepage, Bfs 2004).

Ho insegnato per molti anni al Corso di laurea in Cinema Musica e Teatro all’Università di Pisa, al Dams di Bologna e al Dams di Imperia. Docente a contratto di Digital video e drammaturgia multimediale all’Accademia di Brera Titolare della cattedra di Storia dello spettacolo prima all’Accademia di Torino e attualmente a Macerata

Ho pubblicato diversi volumi e antologie tra cui: Le arti multimediali digitali (con A. Balzola, Garzanti 2004), Nuovi media nuovo teatro (2011), Frankenstein del Living Theatre (2004) con prefazione di Judith Malina. Sono cofondatrice del webmagazine ateatro.it e scrivo per diverse riviste cartacee e on line: Rumorscena.com, cultureteatrali.it, Hystrio, Juliet-Art magazine, Digimag. Ho scritto per riviste universitarie di teatro: Teatro e Storia, Elsinore. Ho scritto su William Kentridge, Motus, Bob Wilson, Heiner Goebbels, Marcel.lì Antunez Roca, Critical Art Ensemble.

Co-curatrice (su incarico del Diras di Genova) del progetto europeo triennale IAM su realtà aumentate applicate allo spettacolo e ai beni culturali.

Giurata a Festival di cortometraggi e drammaturgia, presente a conferenze internazionali tra cui: The global electronic Shakespeare Company (Università di Pisa), Embodiment of Authority (Helsinki, Sibelius Academy);The local, the global, and interdisciplinary performance in the works of Robert Lepage (London, British Association for Canadian Studies), Scenes-digitales- Le théatre dans la sfére du numérique (Parigi, Centre Pompidou); Convegno Bande dessinée, animation e spectacle vivant, Università di Lyon 2; Architectural mapping e interaction design (Bibliotheca Alexandrian, Alessandria D’Egitto), Le nuove tecnologie applicate all’espressione artistica (Pesaro Film Festival), Dal teatro “rimediato” al teatro “aumentato” (Teatro Valle occupato, con E.Gentile), Gli scrittori e la scena (Associazione nazionale docenti di Italianistica, Università di Sassari), Performance e performatività (Convegno annuale dell’Associazione per gli Studi di Teoria e Storia Comparata della Letteratura- Università di Messina), Rete critica  (Teatro Olimpico, Vicenza).

Da alcuni anni mi sto occupando del Teatro in Kosovo e sto traducendo l’opera del drammaturgo Jeton Neziraj per le edizioni Cut up. Location manager per MASBEDO ho collaborato con il duo di videomaker all’allestimento dell’installazione Schegge d’incanto in fondo al dubbio per la Biennale di Venezia 2009 e per Distante un padre, cortometraggio per l’ONU. Link su AMM: EduEda Educational Encyclopedy, Noemal, VuotocicloStamp ToscanaFrancoAngeli, ArteDonna Golfo dei Poeti Film Festival, Armando Adolgiso

annnnnnnnnnnn

Mapeando superficies. Artículo de A.M.Monteverdi y Enzo Gentile
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Artículo de Anna Maria Monteverdi y Enzo Gentile que hace un recorrido de las técnicas de video mapping y contextualiza esta nueva técnica artística en el contexto teatral y su historia.  www.xanela-rede.net (tradotto in spagnolo da Konic thtr; in italiano su Interactive-performance). 

 

images (1)Primero era la video proyección. Entonces llegó el mapeo de vídeo digital y eclipsó todo lo demás. El mapping arquitectónico, façade mapping, 3D vídeo mapping, videoprojection mapping, architectural VJ, son algunas de las expresiones utilizadas para definir estos nuevos formatos artísticos. El ámbito de aplicación de estas técnicas es la llamada Realidad Aumentada, una superposición de revestimiento virtual sobre estructuras materiales con el objetivo de modificar la percepción visual.

Sobre la base de estos experimentos de realidad aumentada se crearon obras videográficas y arquitectónicas intrínsecamente nocturnas, y espectáculos teatrales que juegan con escenografías / actores virtuales y proporcionan un mapeo (mapping) 2D y 3D de gran realismo con proyecciones sobre enormes superficies: paredes de palacios, castillos, torres, pero también telones teatrales.

Animación, música, experimentaciones videográficas e interactividad se prestan al desarrollo de innovadores objetos multimediales y artísticos. Esta técnica agrega una audaz interacción entre la solidez de la arquitectura y la fluidez de las imágenes en movimiento.
Si el artista callejero norte-americano Julian Beever – rebautizado familiarmente Pavement Picasso – usa la tiza para crear efectos ilusionistas tridimensionales en el suelo de las calles (3D street art), ahora es la tecnología vídeo aquella capaz de engañar al ojo y de hacernos creer ver lo que no hay.

 En Italia son especialistas en este campo Apparati Effimeri (creadores del visual de Madre assassina por Teatrino Clandestino), Roberto Fazio, Luca Agnani, AreaOdeon, Claudio Sinatti, Enzo Gentile/Giacomo Verde de White Doors Vj e Insynchlab. En el mapa internacional destacan los alemanes Urban Screen, arquitectos especializados en instalaciones digitales e instalaciones también en áreas urbanas. Nacidos como grupo en el 2008 pero activos ya desde el 2004 con sede en Brema, trabajan en el campo del entretenimiento, de la publicidad y del espectáculo usando los nuevos medios de comunicación digitales y las videoproyecciones. Abiertos a la colaboración con artistas que trabajan el motion graphic y el video, han creado un nuevo género de arte público estrictamente digital.

El trabajo artístico se inició con las técnicas y programas creados específicamente para ello y se basa en una reproducción precisa de la superficie del elemento arquitectónico que se va a intervenir y la proyección de un video digital o de animaciones perfiladas con exactitud sobre este fondo arquitectónico. Esta proyección da lugar a extraordinarios acontecimientos y a efectos tridimensionales improbables cuanto fantasmagóricos.

Real o virtual? Desde la perspectiva de Video Mapping monumentista. 

La ilusión perceptual, en los casos más exitosos de Video Mapping, es la de una “arquitectura líquida”, flexible, que se adhiere como una película o se separa de la superficie real. Los fragmentos de superficies crean una ilusión óptica de impacto como si fueran piezas de Lego, todo bajo la mirada del público o del transeúnte, que ya no pueden distinguir entre la trama arquitectónica real y virtual.

Inmediatamente adoptado por las grandes marcas internacionales para su publicidad y el lanzamiento de nuevos productos, la técnica hace también entrever un posible empleo performativo digital, que permite unir vídeo arte, animación, instalaciones, artes gráficas, diseño de iluminación y teatro en vivo. Fachadas de casas e iglesias con cada uno de sus elementos arquitectónicos que se disgregan, se convierten en imágenes / cuadros en movimiento, adornados con manchas de luces y colores que cambian al ritmo de la música, personajes digitales que se encarnan en las ventanas, portones, techos: es un nuevo arte medial, un arte media-performativo.

La técnica es la del mapeo y del uso de máscaras, que explotan la pre-distorsión de la imagen o del vídeo para que aparezca no distorsionado sobre la superficie mapeada. La proyección tiene que ser ante todo perfectamente homógrafa: dos planos resultan ser homógrafos cuando los elementos geométricos de un plano corresponden a los del otro de manera biunívoca. Cualquier alteración de la distancia y del ángulo de incidencia del haz de luz implica alteraciones de la perspectiva de la imagen y por consiguiente de las irregularidades geométricas. Se tiene que considerar también la posición de los espectadores (una desviación máxima de + o – 15° con respecto a la proyección) para percibir los elementos en 3D no natural (que son en 2D…)

Estamos frente a una renovada “máquina de visión”. En el fondo, el Video Mapping se basa en el mismo principio que las “visiones inefables” del siglo XVI, es decir, aquellos que son sujetos a la anamorfosis, a los extremos de la perspectiva lineal del Renacimiento. En las obras anamórficas, la realidad sólo puede ser percibida a través de un espejo deformante, mientras que el mapeo de vídeo no es más que una máscara que distorsiona / crea una realidad inexistente. La historia del arte nos ha aportado no sólamente la perspectiva exacta “a la italiana”, pero también los puntos de vista, el “sfondati prospettici “, la concatenación de los planos y múltiples puntos de vista que plantean el problema de la profundidad en la pintura, la expresión en un solo plano de la tercera dimensión. Un antecedente histórico y artístico de esta técnica de ilusión tridimensional sobre la arquitectura, lo podemos encontrar en la perspectiva monumental y la pintura barroca (el llamado quadraturismo, en palabras de Vasari, con referencia a la representación de la perspectiva de la arquitectura que “rompe” los límites del espacio real engañando al ojo, y que Omar Calabrese define como “triple espacialidad en la pintura) y el trompe-l’oeil.

Vasari_frescos

Frescos del gran salón del palacio de la Cancillería, de Vasari.

La sugerencia y construcción ficticia del espacio mediante la unión entre el fondo y el primer plano, y el artificio ilusionista resultante, es la base del arte monumental: desde Vasari con sus Frescos de la Cancillería a los frescos en el Palazzo Labia de Tiépolo, de la Cena en casa de Levi de Veronese hasta la pintura de Miguel Ángel en la Capilla Sixtina, la pintura se une a la arquitectura y se fusiona con ella. Así lo afirma Charles Bouleau en La geometría secreta de los pintores:

“La perspectiva monumental es el conjunto de la convenciones que impone a una obra de arte el espacio que ocupa dentro del monumento. El caso es que no exista confrontación, sino armonía entre la obra representada historiada o no y el monumento que es también a su vez obra. El monumento exige que se conserve cierta relación con sus muros, con sus proporciones, y que se respete su escala. Los pintores no deben destruir mediante las ilusiones que crean, la superficie mural, y por otra parte los escorzos no deben perjudicar a las pinturas en sí mismas”.

Peruzzi

Bibbiena_Villa_Prati

Arriba: la escena de Baldassarre Peruzzi para La Calandria la escena comica de Serlio. Abajo: los frescos de Bibbiena a Villa Prati.

Haciendo un recorrido por la historia del teatro, es imposible no mencionar las técnicas de representación gráfica del espacio con un fondo pintado en perspectiva, la escenografía del ilusionismo de los siglos XVI y XVII y el conjunto de obras y tratados relacionadas con estas técnicas: de los dibujos de Baldassarre Peruzzi para la Calandria (1514) a las escenas clásicas en los dibujos de las escenas de Serlio para la comedia, para la tragedia y para escena rústica(1545) a la sección teatral de la obra Perspectivae libri sex de Guidubaldo (1600), los libros de Andrea Pozzo (1693) y Ferdinando Gallos Bibbiena (1711), pasando por la famosa Pratica di fabbricar scene e machine ne’ teatride Nicolò Sabatini (1638) (sobre esto, ver los estudios específicos y en particular el volumen de Ferruccio Marotti Lo spazio scenico. Teorie e tecniche scenografiche in Italia dall’età barocca al Settecento, Bulzoni, 1974).

En la época actual, podemos mencionar:

Lepage1

Lepage2

- el landscape, el cubo de Lepage para Andersen Project, un dispositivo cóncavo que acoge las imágenes de vídeo proyectadas y que gracias a la elevación de la estructura parece tener una corporeidad tridimensional.  

Motus
-la jaula en perspectiva en L'Ospite de Motus, una escenografía monumental y apremiante constituida por un plano inclinado cerrado por tres lados todos ellos convertidos en pantallas que dan la sensación de aplastar a los personajes. El ingenio de esta puesta en escena permite una integración artesanal y eficiente del cuerpo y la imagen gracias a una ligera elevación de la estructura central, dando la ilusión de volumen y profundidad a las imágenes proyectadas.

 La técnica de videomapping está despertando gran interés, y ahora no hay prácticamente ningún gran evento, noche en blanco, celebración de centenario que no incluya un videomapping. El videomapping también se ha convertido en un paso “obligado” para el lanzamiento de las grandes marcas: hemos pasado de los carteles e impresiones enmarcadas con luces de neón a la señalización digital (la publicidad en formato electrónico, los LED de las pantallas LCD o las de plasma, las pantallas táctiles en los espacios públicos). A menudo, estos eventos no sólo son financiados pero también promovidos por grandes empresas como Toshiba, Nokia, Sony, Smasung, LG, para demostrar la potencia de sus proyectores (ya que, obviamente, los usuarios principales de proyectores de decenas de miles de lúmenes son los mega-eventos en estadios, conciertos, promocionales).


Las fachadas de edificios se han utilizado como grandes telones de fondo y acompañan conciertos en vivo, como en la Piazza Duomo, en 2008, con un concierto de Christian Fennesz con imágenes de Giuseppe La Spada. El evento fue firmado por la empresa italiana Urban Screen Spa, a cargo del primer proyecto de medialización urbana en Milano con una mediafachada de 487 metros cuadrados (patio Arengario, Piazza Duomo, Milán, proyecto Mia, Milan El Alto): Mia es la arquitectura multimedia de LED más grande en Europa. Se multiplican los festivales internacionales dedicados al género, como el Mapping Festival en Ginebra o el Kernel Festival en Desio, entre otros. El fenómeno, a medida que ha ido adquiriendo proporciones cada vez mayores y una difusión internacional, ha sido también el tema de conferencias internacionales organizadas por la Asociación Internacional Urban Screen, con eventos (en Manchester y Amsterdam) y la primera publicación exclusivamente dedicada a este tema y de descarga gratuita desde el sitio web Networkcultures.org. En el Festival des Lumières de Lyon en 2010, el Grupo 1024 Architecture produce una pieza notable, que cubre literalmente el palacio con una el  palacio con una máscara interactiva.

Grupo1024

En este miesmo año, el Festival Kernel nos muestra una sucesión de colapsos, grietas e intrusión de plantas y de ciencia-ficción en la fachada del Palacio Tittoni en Desio. O bien el mapeo de la tierra de las pistas de tenis para el Master de Francia en París Bercy, activado por un controlador de PS3 y el software MadMapper (siempre a manos de Arquitectura 1024). También Studio Azzurro realizó en noviembre de 2011 un videomapping titulado Awakening, una alegoría de las figuras de la música en la plaza Scala de Milán: para la inauguración de los Museos “Galerías de Italia”, dedicado al siglo XIX, el mapping se proyecta en los cuatro principales palacios a la vez, el Palacio Beltrami, el Palacio Anguissola, la Scala y el Palacio Marino. En consonancia con la poética de Studio Azzurro, las figuras de las pinturas cobran vida, flotan, fuera del marco e invitan a la gente a entrar en el museo. White Doors VJ utiliza la superficie arquitectónica mapeada como un “lugar” para una acción videoperformativa en vivo, en la que Giacomo Verde actúa al ritmo de la música, generando efectos digitales sobre unas formas y objetos filmados en directo que se mezclan al contenido del videomapping. Es una variación significativa de su “Videofondali” diseñado para la lectura de poesía en vivo, eventos coreográficos o sonoros.

Se ha logrado una verdadera ilusión óptica en este evento en Berlín, un mapeo con ilusiones en 3D el donde el edificio se convierte en un robot, un cubo de Rubik, un transformador, un palacio de hielo.

Herramientas:

Los software más usados para el videomapping son: vvvv (o V cuatro), processing (de código abierto); KPT (gratis), Isadora, Adobe Flash, MAX / MSP/Jitter, Pure Data (código abierto), OpenFrameworks (código abierto) . En 3D: Blender (open source), 3D Studio Max , Cinema 4D.

Processing es un lenguaje de programación basado en Java, a su vez heredero del antepasado de todos los lenguajes orientados a objetos – el C – con el que se pueden desarrollar aplicaciones visuales impresionantes, gestionar la interacción entre sonidos y entorno visual y crear simulaciones realistas para juegos o contenido interactivo. Tiene una sintaxis muy lineal, y puede alcanzar altos niveles de complejidad. Es particularmente adecuado para aplicaciones multimedia distribuidas con licencia de código abierto. El lenguaje, que tiene versiones en todas las plataformas (Windows, Mac, Linux, Android…), cuenta con una amplia comunidad internacional, donde uno puede disfrutar de un diálogo continuo y compartir sus logros. Sitio de referencia: www.processing.org.

VVVV es otro entorno de programación multimedia libre para uso no comercial. Permite manejar gráficos, audio y video en tiempo real a través de una interfaz visual de tipo diagrama de flujo, que no se basa en código escrito sino en objeto-iconos que le confieren características interactivas y una edición visual. Es una forma de programar por “objetos” con un enfoque intuitivo, especialmente adecuado para aquellos que están acostumbrados a tratar con representaciones visuales de comunicación. Sitio de referencia principal: www.vvvv.org

Mapeando objetos. Cualquier objeto se puede mapear, no solamente las superficies de paredes, sino también (y de manera más fácil) los pequeños objetos, muebles a medida, o incluso maniquíes. Por lo tanto, el mapping se puede utilizar en campos como la escenografía, el vestuario, las salas de exposición o el diseño de interiores. En esta demo se muestran las infinitas posibilidades de videomapping a pequeña escala, utilizando como superficie de proyección un maniquí que gracias al mapping se ve vestido videodigitalmente de mil maneras distintas.

Original e inquietante es la máquina humana diseñada para la instalación Locomotoras creada y mappeada en la Place des Arts del grupo canadiense Departement: una maraña de cuerpos pasan a formar un engranaje corpóreo en un mosaico de pantallas.

Locomotive – Place des Arts – Espace culturel

 Impresionante también son las instalación de AntiVJ, que trabajan con elementos orgánicos en proyectos como Paleodictyon para el Centre Pompidou en Metz.

PALEODICTYON

 Del cubo a la catedral


Podemos considerar que Urban Sreen con su 555Kubik fueron los que iniciaron el genero de vídeo mapping a gran escala en 2009.

UrbanScreen

Una mano gigante y un teclado se posan sobre un edificio en forma de cubo, mientras que los cuadros que forman la superficie de la pared parecen salir de ella en un juego de geometría intrigante. En este contexto, también encontramos Rose Bond, Fokus Productions, Telenoika, Paradigma, AntiVJ, Obscura Digital (quien creó el mapping tanto para el aniversario de Coca Cola, como para un evento de interacción inspirado en el mundo de Facebook durante una reunión de los desarrolladores de la red social).

AntiVJ

Fueron Obscura Digital, quienes después de trabajar para la Sydney Opera House, quienes crearon la proyección de vídeo más espectacular que se haya realizado hasta ahora, sobre la Gran Mezquita de Abu Dhabi para celebrar la Unión de los Emiratos Árabes. Las cifras hablan por sí solas: 44 proyectores para un total de 840.000 lúmenes cubrieron un área de 180 metros de ancho y 106 de alto.

Sheikh Zayed Grand Mosque Projections

Los presupuestos que manejan las grandes empresas para estos eventos, no son obviamente al alcance de la mayoría de los artistas independientes. Por tanto, es necesario centrarse en las ideas innovadoras para hacer frente a esta limitación. La proyección arquitectónica en un espacio cerrado, preferiblemente interactiva, es una gran oportunidad que los artistas y los diseñadores tienen a su disposición para representar sus ideas.

El vídeo mapping puede aplicarse en espacios cerrados, en teatros equipados, sin tener que utilizar los grandes proyectores que tienen un coste equivalente al de comprarse una vivienda. En este tipo de situaciones, emociones e ideas pueden prevalecer sobre el gigantismo tan de boga en estos momentos.Eso es lo que el mappimg viene aplicando en la cultura vj, para los clubes, discotecas y otras salas abarrotadas, donde la música tecno es siempre acompañada de vídeo en directo. En Ibiza el grupo Palnoise entretiene a la audiencia con un mapping abstracto pegado al ritmo salvaje de un DJ. Pero el mapping de audiovisuales más espectacular ha sido el de Amon Tobin: sus actuaciones se caracterizan por una estructura geométrica en el centro de la escena, en la que se proyectan las imágenes. El impacto visual proporciona un excelente soporte a su peculiar sonido.

El grupo Le Collagiste VJ, como indica su nombre, propone soluciones espectaculares de VJ mapping.

El público está particularmente atraído por estas formas de espectáculo visual y musical, no sólo por su novedad, sino también por la fascinación hacia las convulsiones de la percepción, la creación de objetos ‘imposibles’ y la precisa sincronización entre imagen y sonido.

Nos referimos al canal de vídeo Vimeo dedicado a videomapping con actualizaciones continuas: ilovemapping

y por supuesto a los numerosos blogs, sitios web y “tutoriales” en la red que explican el procedimiento y el funcionamiento de los distintos programas de software.

El paso siguiente en la evolución de esta técnica ha sido la incorporación de la interacción del público: un ejemplo de mapping de proyección interactiva es Dancing House, por el artista austríaco Klaus Obermaier / Exilio para Lichtsicht, (Bad Rothenfelde, Alemania).

 Roberto Fazio con Nicholas Saporito está experimentando con el mapeo arquitectónico interactivo con vvvv. La interacción se produce a través del movimiento humano captado por una Kinect, pero también puede interactuar cantando o hablando en un micrófono como en este mapping de 1024 Architecture para el Festival Lumière de Lyon, fachada del teatro Célestin.

Nuform nos propone también utilizar el IPad: el público puede elegir el color, la iluminación de efectos especiales y otras maravillas que se proyectan en los edificios. NuFormer, una compañía con sede en los Países Bajos, se ha especializado en la comunicación digital, motion graphics, películas digitales y proyecciones en 3D para eventos de negocios: extraordinario efectos en su Projection on Buildings.

NUform

El vídeo de esta fachada de edificio que parece desmoronarse bajo los ojos del público o que se llena de bolas de colores ha recorrido los todos los sitios dedicados al arte digital, aportando el éxito a esta muy especial y nueva forma de arte.

NuFormer Showreel 2011

Così Rob Delfgaauw de Nuformer: 
 Tenemos solicitudes de espectáculos, performances, conciertos y eventos. Estamos desarrollando una técnica para usar proyección 3D en interior y específicamente para teatros y en contexto de conciertos. En la actualidad, nuestra investigación se centra en cómo encontrar la forma más adecuada para combinar la interactividad con proyecciones en 3D y comunicar la experiencia al público. Desde el momento en que hay suficiente oscuridad y la luz ambiente es baja, podemos proyectar de la misma manera en exteriores o en el interior de un teatro. Los artistas tienen que hacer frente a una nueva forma y un nuevo entorno con el cual expresarse. Trate de considerar un gran edificio como si se tratara de fondo animado de un escenario. Es impressionante. Sobretodo si el contenido se genera en tiempo real.”(entrevista de Anna Maria Monteverdi/Enzo Gentile, 2010).

Il Teatro in Kosovo
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Kosovo: i protagonisti del nuovo teatro e i centri culturali della capitale.

Pubblicato su Rumor scena 

Passaggio nei Balcani. (1)

Nonostante il conflitto nei Balcani sia terminato quattordici anni fa e il Kosovo si sia autoproclamato Repubblica dal 2008 (NSK), ancora profonde sono le cicatrici della guerra contro la Serbia, che ha riconosciuto una linea amministrativa di confine (Abl) ma non l’indipendenza della sua ex regione meridionale. Per le strade si vedono sempre meno i mezzi della sicurezza internazionale (Kfor, Unmik, Eulex, Osce), considerato che da giugno 2014 molte delle missioni militari chiuderanno e si darà il via a un processo di “normalizzazione” nell’amministrazione del governo locale. La questione dei confini e la tematica del nazionalismo sono tuttavia, laceranti e palpabili, e ad attraversare queste zone, soprattutto nella parte settentrionale del Kosovo, dove è presente l’enclave serba di Mitrovica, tornano in mente le parole dello scrittore triestino Claudio Magris: “I confini muoiono e risorgono, si spostano, si cancellano e riappaiono inaspettati. Segnano l’esperienza, il linguaggio, lo spazio dell’abitare, il corpo con la sua salute e le sue malattie, la psiche con le sue scissioni e i suoi riassestamenti, la politica con la sua spesso assurda cartografia”. (Come i pesci il mare, “Nuovi Argomenti”, 1991).

Lo sviluppo urbano dopo la fine del conflitto, ha avuto una progressione vorticosa (il cosiddetto “turbo-urbanism”), apparentemente senza un vero piano regolatore, lambendo anche aree collinari un tempo preservate dal cemento perché situate in zona sismica. Coesistenze anche violente di stili e architetture poco coerenti con il paesaggio, fanno di Pristina, la capitale, una città caotica e ben poco riconducibile a una sola tipologia edilizia. L’esterno della Biblioteca Nazionale (iniziata nel 1975) ha un’improbabile e assai orribile germinazione di 99 cupole di vetro ricoperto di rete metallica: è stata inserita tra gli edifici più brutti del mondo, nella classifica del Daily Telegraph. Allo stesso stile – Brutalismo– sono riconducibili anche il Centro sportivo (una specie di fantascientifica astronave) e il Grand Hotel. Il cuore pulsante della città si snoda sul lungo Boulevard Madre Teresa, oggi definitivamente terminato con l’allestimento di una fontana che si illumina di luci colorate e sbuca direttamente dalla pavimentazione proprio davanti al Teatro Nazionale. AI lati del Boulevard, venditori di castagne arrostite, di libri usati e di schede telefoniche si alternano a bambini rom che suonano percussioni. Non sembra, comunque, di essere in Kosovo. Piazze nuove di zecca, illuminazione, fontane, negozi e moda in vetrina che guarda all’Europa dell’Ovest, sia pur con qualche anno di ritardo. Certo, questa immagine di Pristina non rappresenta la realtà kosovara, povera e con case sovente senza acqua e elettricità. Ben due statue dedicate ad eroi o “amici” del Kosovo, fanno bella mostra di sé: una è dedicata a Ibrahim Rugova, primo presidente e capo, all’epoca del conflitto, di una sorta di movimento autonomista pacifico, e l’altra è la controversa statua dedicata al “liberatore” Bill Clinton nell’omonimo viale. Uno dei tanti segnali tangibili dei forti contrasti che qua convivono. E’ chiaro che Pristina sta vivendo una rinascita che la potrà portare ad essere in questo processo di lento decentramento culturale verso Est, una delle città europee della cultura.

Luoghi e centri culturali.

Il Teatro Nazionale di Pristina (Teatri Kombetar) è uno spazio culturale istituzionale di limitate dimensioni come capienza (300 persone circa), una pianta a ferro di cavallo senza ordini di galleria ed è considerato il “salotto buono” della città. Le attività teatrali vengono insegnate alla Facoltà d’Arte dell’Università di Pristina che ha materie come scenografia, regia, recitazione, storia del teatro e una sala teatrale interna per gli esami di profitto, anche se vengono usate metodologie d’apprendimento e repertori drammaturgici più conservativi che non innovativi.

Le istituzioni culturali di Stato sono presenti, poi, con il Museo Nazionale (che ospita sia il Museo archeologico con la famosa terracotta neolitica della Dea sul trono, emblema della città, che una terrificante esposizione stabile dedicata alla presenza militare dell’Onu in Kosovo) e il Museo etnografico ricavato da un complesso residenziale di impianto ottomano ben conservato. Capitolo a parte la Galleria Nazionale d’arte contemporanea il cui conservatore nonché artista Erzen Shkololli organizza mostre collettive della cosiddetta Balkart di notevole interesse e convegni che fuoriescono dai puri slogan nazionali: se l’evento del 2012 era stato Adrian Paci, nel 2013 si sono susseguite mostre organizzate da curatori internazionali (Charles Esche, Christine Frisinghelli e Galit Eliat). Un padiglione della 55° Biennale d’Arte di Venezia era dedicata al Kosovo.

Più che le strutture istituzionali, sono i piccoli spazi culturali decentrati i luoghi dove si concentrano le forze migliori e giovani per un possibile e radicale cambiamento di rotta verso una cultura identitaria che si emancipi ma guardi anche a Ovest dell’Europa. Per avere un’idea della vivacità e della crescita artistica del nuovo Kosovo, può essere utile consultare il sito Kosovo 2.0, rivista on line che ha un corrispettivo quadrimestrale stampato dall’ottima qualità di testi e grafica. Sono quattro fondamentalmente i centri di aggregazione della capitale: si parte da Qendra Multimedia, nel quartiere Dardania, di fatto la struttura produttiva che supporta le migliori realizzazioni nel campo teatrale e letterario del Kosovo anche grazie ai finanziamenti europei. Ideato da Jeton Neziraj, giovane drammaturgo e personaggio tra i più autorevoli nei Balcani, Qendra ha prodotto spettacoli e pubblicato un interessante volume dal titolo New literature from Kosovo elencando autori, traduttori e registi presenti in questo territorio tra cui Beqe Cufaj, Visar Krusha, Shpetim Selmani e molti altri.

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  Adrian Paci all’opening della mostra di Pristina, foto Enver Bylykbashi

Tetris è, invece, un open space, un locale alternativo dove vengono proposti concerti, mostre e iniziative letterarie: ricavato da un appartamento privato, il luogo è accogliente e caldo e si può bere dell’ottima Rakija (la grappa aromatizzata locale) mentre si chiacchiera con i giovani creativi della capitale che qua si danno appuntamento. All’epoca della mia presenza a Pristina, a fine novembre era in programma un vernissage dell’artista Rron Qena, pittore di talento che mescola avanguardie nei suoi coloratissimi ritratti al femminile.

Imperdibile il caffè-libreria Dit’e’ Nat, luogo molto “trendy” della capitale dalla vaga atmosfera parigina, che a certe ore del giorno (a pranzo) e della sera (dopo cena) si riempie all’inverosimile di giovani studenti universitari o intellettuali, per bere e mangiare ma anche per consultare e comprare libri e ascoltare musica jazz dal vivo. Qua è possibile conversare con la co-fondatrice, la regista cinematografica Kaltrina Krasniqi che ha fatto del locale anche il luogo di incontri mensili con il cinema. Infine da segnalare tra i luoghi d’arte alternativi Stacion – Center for Contemporary Art. Fondato nel 2006 da Albert Heta e Vala Osmani, Stacion è uno spazio per artisti, architetti, pensatori, critici, e ospita eventi e conferenze internazionali.

I Teatri.

Il teatro indipendente ODA è stato fondato nel 2002 da Lirak Çelaj, attore e Mehmeti, regista. Oltre alle sue produzioni ospita compagnie teatrali dall’Albania, Macedonia e altri paesi balcanici, Europa e Stati Uniti. Oda è membro di vari network teatrali in Europa.

Il Teatro Dodona fondato nel 1985 da Rabije Bajrami e un gruppo di altri artisti come i registi Melehate Qena eIsmail Ymeri è invece un vero simbolo di resistenza. Dedicato espressamente ai ragazzi, questo teatro è stato l’unico spazio culturale rimasto aperto durante il conflitto. Quando le scuole e le istituzioni albanesi chiusero dopo la revoca da parte della Serbia, dell’autonomia del Kosovo, il Teatro Dodona divenne un luogo di incontro per la comunità albanese, e nonostante il rischio, gli spettacoli continuavano a essere programmati; fu, come ricordò il famoso attore e regista kosovaro Faruk Begolli, direttore del Dodona “una protesta contro la violenza, una manifestazione di orgoglio e dignità, una forma di resistenza”. Dalla fine del conflitto sono stati ospitati più di 370 produzioni.

                                                          Jeton Neziraj e la drammaturgia in Kosovo.

Neziraj è la coraggiosa voce politica (spesso censurata) nel teatro del nuovo Kosovo. Autore di oltre 15 commedie (tra cui The last Supper, Yue Madeline yue; The demolition of the Eiffel Tower; Patriotic hypermarket, The bridge, War in time of love) rappresentate in tutto il mondo, discute nelle sue opere, di terrorismo, razzismo, discriminazione, corruzione, e in generale del “chaotic post-war Kosovo”, la qual cosa non è stata senza conseguenze: per la sua collaborazione con Saša Ilić sulla antologia serbo-kosovara Iz incontaminate, s ljubavlju / Nga Beogradi, mi Dashuri (Da Pristina, con Amore / Da Belgrado, con Amore) ha perso la sua posizione di direttore artistico del Teatro Nazionale del Kosovo nel 2011. Neziraj pone al centro della sua riflessione, una critica alla propaganda governativa che non risparmia neanche il teatro, e sottolinea l’importanza dell’arte in una società democratica: “Un’ondata di mania patriottica ha riempito i teatri del paese che producono sempre lo stesso noioso discorso politico: quello nazionalista”.

Neziraj ha collaborato con il famoso CZKD (Centro per la decontaminazione culturale) di Belgrado diretto daBorka Pavicevic e ha realizzato l’evento Polip International Literature Festival. La nuova scena teatrale non dovrà restare ancorata al passato, alle separazioni del conflitto, ma sicuramente dovrà essere uno strumento per il superamento del trauma, per la ricostruzione, per un nuovo dialogo e una nuova identità. La natura politica del lavoro di Neziraj, le cui opere sono state tradotte in numerosi paesi fuori dalla cerchia balcanica, è nello svelare l’ambiguità della Storia e la sua irriducibilità a un racconto coerente, e come tale, non può che essere esposta in modo distorto, sarcastico, surreale e in uno stile asciutto che taglia l’inessenziale. Neziraj mette al centro dei suoi testi, personaggi emblematici di una condizione non solo sociale e politica ma anche e soprattutto “geografica”, addirittura di frontiera: il Kosovo post-jugoslavo; le circostanze in cui essi si trovano a vivere (guerre, divieti, soprusi, persecuzioni) rendono la loro quotidianità non così lineare, sempre in balìa di deviazioni catastrofiche. Con Peer Gynt dal Kosovo, Neziraj ha scritto una storia paradigmatica della migrazione europea: il suo eroe ingenuo proveniente dal Kosovo vaga attraverso l’Europa, dove sentirà la differenza tra il sogno della libertà e la realtà. In Yue Madelein Yue, una giovane Rom espulsa dalla Germania in Kosovo viene ferita in un cantiere edile: mentre combatte per la vita, il padre combatte per avere giustizia. Ma il grande detonatore dei testi di Jeton Neziraj è l’umorismo. Mille sono le battute nascoste tra le pieghe delle frasi, richiami parodici dietro cui distruggere il potere: la vedova di guerra si innamora dell’addetto all’ufficio Missing person dove era andata a denunciare la scomparsa del marito, l’uomo che fa indossare alla sua donna il burqa, non la riconosce più, in mezzo a troppe donne velate, l’attore che deve leggere il discorso sull’indipendenza del Kosovo del Primo Ministro è in crisi perché non sa quando ci sarà questa indipendenza. Testi critici su Neziraj sono stati pubblicati su Theater der Zeit (dicembre 2013); in Italia sono apparsi alcuni articoli su Post teatro (blog di Repubblica), ateatro.it, Laspeziaoggi, e prossimamente su Hystrio (gennaio 2014) e Teatro e Storia (Febbraio 2014), tutti a mia  firma.

                                    

Il Crollo della Torre Eiffel: dal testo alla scena. Il debutto a dicembre 2013 a Pristina

The demolition of the Eiffel Tower è stato scritto durante una residenza artistica di Neziraj in Francia, in Val de Reuil, a seguito di un invito da parte del regista Patrick Verschueren ed è stato realizzato in forma di reading a New York (al Gerald W. Lynch Theater) in occasione il decennale della commemorazione dell’11 settembre. Agli inizi di dicembre, quest’anno, il testo ha avuto il suo primo debutto teatrale comleto di scrittura scenica al Teatro Nazionale di Pristina con la regia della moglie di Jeton, Blerta Neziraj. Blerta si è avvalsa della dramaturg Borka Pavicevic e di professionisti internazionali (per le coreografie Violeta Vitanova e Stanislav Genadiev, per le voci e musiche diGabriele Marangoni, per le ombre e marionette Clément Peretjatko) che affiancavano gli attori, tutti provenienti dal Kosovo. L’autore “tratta” la tematica urgente del terrorismo come una conseguenza dei conflitti religiosi e politici globali. Tra divisioni, fraintendimenti, fanatismi, violenze (vere e presunte), il testo smonta certezze e luoghi comuni e fa convivere il mito di Orfeo e Euridice con una fiaba (inventata) di atmosfera ottomana.

Due terroristi vogliono distruggere l’emblema dell’Europa per un atto sacrilego compiuto da un francese che va in giro per Parigi a sollevare indisturbato il velo alle donne che indossano il burka. Una serie di fraintendimenti portano alla verità: l’uomo cerca solo di ritrovare la donna che ama, confusa tra mille altre dietro il velo. Quindi si tratta non di una storia di sangue, di vendetta ma di una storia d’amore tra due ragazzi che si conoscono in strada vendendo rose e giornali. Intrecciata a questa vicenda, altre storie si inanellano, creando una drammaturgia costruita con sapienza, su piani paralleli. Si va da quella quasi fiabesca del condottiero Osman che distribuisce veli alle giovani donne (ma anche lui si innamorerà e vagherà a ricercare la sua amata nascosta dal velo da lui donato, cercandone lo sguardo, come Orfeo), a quella piena di non sense dei terroristi improvvisati che arrivano a Parigi per far saltare la Torre Eiffel. Tutto il dramma di Neziraj è una questione di punti di vista, di sguardi alterati o offuscati, di visioni non cristalline, di veli che impediscono la vista o la acuiscono, di sguardi negati. In buona sostanza, di filtri che ci impediscono di leggere la realtà.

Della coppia di terroristi (a metà tra Didi e Gogo di Beckett e Totò e Peppino) che vogliono far cadere il simbolo dell’Europa, viene data un’immagine non molto edificante. Criticano i modi di vita europei, additano la pornografia, litigano tra i componenti delle varie correnti religiose islamiche e conoscono, apparentemente, una sola legge, quella della vendetta. Alla fine l’unica torre che viene distrutta è quella fatta di cerini: qua Jeton Neziraj incontra felicemente lo scrittore Etgar Keret, nato a Tel Aviv l’anno della guerra dei Sei giorni (1967) i cui libri, apertamente ironici sui luoghi comuni della cultura israeliana, sono intrisi di vero humour nero.

In scena quattro attori di talento: Shengyl Ismaili, Ernest Malazogu, Armend Ismajli, Adrian Morina diretti daBlerta Neziraj in un allestimento originale che “intellettualizza” la drammaturgia e la restituisce attraverso corpi che si alternano alle marionette (e talvolta scambiandosi con queste): ne esce una perfetta partitura orchestrale per voci e ombre di grande effetto, ma anche una partitura di movimenti simile agli Actes sans paroles di Beckett. Centrale sia la progettazione di una scenografia da teatrino d’ombre, sia soprattutto l’apparato sonoro e vocale composto da Gabriele Marangoni, a lungo collaboratore della compagnia, che funge da accompagnamento ritmico dando una potente ossatura strutturale musicale dentro cui inserire una gestualità rituale e una mimica non naturalistica. Attori-manovratori di marionette, attori-cantanti, attori-acrobati: una vera prova di bravura da parte degli interpreti, molto apprezzata dal pubblico che ha affollato il teatro.

Il teatro di figura, con i cartoncini e le sagome dei personaggi restituisce la sensazione di atemporalità, perfettamente adatta alla storia leggendaria di Osman. Talvolta, nel compiere movimenti banali come in un rituale, nel ripetere come fossero nenie religiose delle frasi comuni, i personaggi stessi prendono dei tratti automatici e deumanizzanti, in un meccanismo dell’assurdo che dipinge a pieno la nostra società. Infatti la sensazione che la “burattinizzazione” sia dell’intero Occidente è forse un livello di lettura che andrebbe la pena di sondare. E se fossero la politica e la religione stessa a “tenere i fili” dei personaggi (terroristi o capi della rivolta, mandanti o esecutori) e a manovrarli? In scena ci sono figure sicuramente ridicole, private di un pensiero proprio. A loro calza perfettamente la metafora della marionetta senza volontà. Unica, viva, la donna con il burka che rispetto a tutti loro, ciechi o accecati appunto da un potere del tutto arbitrario, vede e ha la libertà agli altri mancata, di agire e scegliere. Blerta porta alla superficie sia una dimensione di affermazione di diritti che l’avversione per “tutto ciò che sembra”. Se nella società contemporanea il potere obbliga a indossare maschere sociali di finzione (che genereranno il conflitto), invece il velo non cambia la persona e il suo modo di essere: l’ironico e profondo brano cantato dalla protagonista velata, dal significativo titolo Io vedo corrisponde nella sostanza, alla frase di Amleto: Io ho dentro ciò che non si mostra.

www.qendra.org

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Masbedo: dal video alla performance
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Pubblicato su Interactive-performance

Era a Prato, al Museo d’arte contemporanea in occasione della mostra “Nessuna paura”; mi colpì molto la modalità e la dimensione della installazione di Masbedo dal titolo 10 insects to feed (la multivisione, con tre pannelli incorniciati a formare un trittico di gigantesche proporzioni), la perfezione tecnica (la qualità della fotografia, la luce, le campiture cromatiche degli abiti, la scelta cinematografica delle inquadrature e delle immagini), e non ultima, l’interpretazione degli attori basata un’improvvisazione fisica estrema a raccontare panico improvviso, soffocamento e delirio: in sostanza, mi colpì la forza complessiva dell’opera video nel suo insieme.
L’impressione fu quella di avere di fronte artisti che, pur giovanissimi come Jacopo Bedogni e Niccolò Massazza, avevano già trovato la corretta grammatica per un’arte video di grande valore e sviluppato una conseguente sintassi coerente e originale. I loro lavori sono caratterizzati proprio, sin dagli esordi, da una fase di pre-produzione studiata nei dettagli, articolata e complessa, che mette in campo ogni volta, un vero staff cinematografico di professionisti della scrittura e dell’immagine e che produce come risultato finale, video opere di grande rigore stilistico e formale.

Il contenuto, sempre fortemente drammatico, della trama video, non è mai realistico: tende a mostrare, evocandoli, luoghi dell’interiorità, affrontando immaginari mentali che partono sì dalla realtà ma per trasfigurarla. Da qui l’accostamento a Bill Viola la cui arte video, su sua stessa ammissione, è volta a “oltrepassare una soglia, allontanarsi dal mondo fisico e entrare nel mondo metafisico” (Bill Viola, The Landscape within, Conferenza alla Scuola Normale Superiore, Pisa, 2001).

Le ambientazioni dei video dei Masbedo (Schegge d’incanto in fondo al dubbioTeorema d’incompletezzaGlima) grondano potenti metafore esistenziali: le vette impervie e le cime innevate del Monte Bianco, le grandi profondità marine, il mare in tempesta della Francia del Nord, il paesaggio glaciale e vulcanico dell’Islanda non sono altro che potenti e drammatiche istantanee interiori, un veritiero e scomodo specchio dell’anima; dentro questo panorama desolato un uomo e una donna nella solitudine più sfrenata ma anche nella resistenza più accanita, sono intenti in quella lotta quotidiana nel “gran mare dell’essere” (come scriveva Giacomo Leopardi).

 

Un “esistenzialismo tecnologico” in cui Masbedo si riconoscono e coltivano una loro estetica fortemente connotata e riconoscibile. Testi importanti accompagnano i loro story board, scritti da Aldo Nove o ispirati alla filosofia di Houellebecq; ma sono più importanti i sottotesti, suggeriti dalle atmosfere cupe e avverse che avvolgono un lui e una lei imprigionati, in eterno, vicendevole conflitto che approda a un temporaneo stato di tregua, fisica e mentale. Come Amleti irrequieti, vaganti nel vuoto pneumatico di una condizione tragica, evocata nella sua abissalità da una camera iperbarica o da interminabili silenzi, vivono distillandosi l’ossigeno per una rinascita, o almeno, per una via di fuga.

 

Masbedo, Leopardi e gli altri
Le tematiche comuni alla quasi totalità dei video dei Masbedo (Teorema di incompletezzaGlimaAutopsia del tralalaTogliendo tempesta al marePerson) sono il senso di vuoto, di disincanto e di precarietà esistenziale, l’incomunicabilità, l’isolamento volontario come rifugio ultimo, la custodia sisifica dei valori societari, l’arte che trattiene gli ultimi brandelli di umanità, la sterilità dei rapporti umani nel generale inaridimento e decadenza morale della società occidentale. Il bisogno di infinito.

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Nel video Teorema di incompletezza è assente, esattamente come nelle Operette morali di Leopardi, la figura umana: il paesaggio intorno quasi agli estremi confini della terra, è di una alterità spiazzante. La camera è pressoché fissa, registra con pochi cambi di inquadratura, ciò che ha davanti come se non ci fosse nessuno a comandarla; del resto non c’è neanche un vero soggetto ma solo un gioco tra un sorvegliante impersonale e forse automatico e un sorvegliato altrettanto inanimato (ricordando questo l’occhio della macchina elettronica di Der Riese di Michael Klier e il famoso video e relativa installazione di Michael Snow La Région Centrale creato con un dispositivo di ripresa automatico che registrò per 5 giorni in tutte le possibili angolazioni, il paesaggio montuoso del Québec). La scena è composta infatti da un’insolita “natura morta”: una tavola di legno con due sedie, apparecchiata con una serie di bottiglie e bicchieri vuoti che vengono frantumati da una pallottola sparata con grande conflagrazione in un paesaggio lavico sconfinato e lontano da ogni socialità. Quello che era un rassicurante paesaggio di oggetti della più pura quotidianità, fatto di contenitori trasparenti integri e lucidi, diventa un attimo dopo lo sparo dell’invisibile cecchino, un universo di vetri acuminati, taglienti mentre il rivolo d’acqua continua, testimone indifferente, a scorrere sotto la tavola. InSchegge d’incanto in fondo al dubbio un uomo e una donna sono intenti in una lotta di proporzioni titaniche: da una parte l’uomo si trascina faticosamente nella neve con un paracadute aperto e tenta ostinatamente di opporsi alla violenza elementale, dall’altra la donna si accinge a salvare suppellettili domestiche impregnate di riferimenti psicologici e simboli di sesso e di fede. Nuota a fatica nella marea fangosa dell’esistenza inumana che l’ha travolta, portando se stessa e i propri oggetti di affezione e memoria lontano, al riparo dalla civiltà, o tutto quello che ne rimane. In entrambi i casi Masbedo usa un linguaggio figurato, fatto di pregnanti metafore visive: l’ordinario e lo straordinario convivono insieme. La deriva esistenziale dei video di Masbedo ha sempre un suo correlativo oggettivo in una natura matrigna che ha già dimenticato l’uomo.                                                 

Come nel quadro di Caspar David Friedrich Il mare di ghiaccio la cui ispirazione gli fu offerta dalle spedizioni al Polo Nord avvenute per nave nel 1819 e nel 1824 o nei quadri di Ruskin, qua si annulla il succedersi dei giorni e delle stagioni, tutto è eterno e quest’eternità è di ghiaccio; non si può non vedere nei video di Masbedo un riflesso del “pensiero poetante” di Leopardi (da una definizione di Benedetto Croce). In Dialogo della Natura e di un Islandese o ne La ginestra la natura non è mai confortante. E’ nemica o almeno è ostile:

“(L’Islandese si rivolge alla Natura: A questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria… tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi).”

Valgono anche per Masbedo le parole di Asor Rosa sulla Ginestra di Leopardi:

“Leopardi esprime con estrema forza il valore morale di un comportamento che non s’illude di trovare a questa infelicità un risarcimento spirituale ma nella resistenza disillusa e pur fiera alle avversità della natura crede di assolvere al compito naturale assegnato alla ragione dell’uomo e su questa matura consapevolezza, senza speranza alcuna ma anche senza vigliaccheria, fonda il rapporto uomo-natura, che è ormai un rapporto antagonistico e agonistico, di lotta reciproca e senza cedimenti.”

Indeepandance: o del meticciare linguaggi 
E’ del 2008 il concerto video live Indeependance (Arena Civica di Milano) in cui Masbedo provano a mescolare in una dimensione da grande palco, formati e generi artistici in un potente e spettacolare live electronics. Un progetto pilota che voleva unire video live, teatro, poesia e musica grazie a collaborazioni con etichette e artisti internazionali (dalla Real World di Peter Gabriel a Bjork a Steward Copeland a Howie B) in un format a metà tra il palcoscenico dei concerti rock e le installazioni multimediali e in un coinvolgimento sensoriale potente e ipnotico: il pubblico era collocato al centro di una piattaforma da cui erano governati suoni e immagini live mentre il perimetro dell’arena era delimitato da quattro schermi avvolgenti di grandi dimensioni.

Masbedo con questo progetto incarna il concetto prettamente postmoderno esposto da Frederic Jameson di “saturazione estetica”, una saturazione totale e complessiva dello spazio culturale da parte dell’immagine, una permeazione dell’immagine nella vita sociale e quotidiana. Masbedo si muovono proprio in un libero e ambivalente universo cross mediale e amano definire i loro interventi un “meticciare i linguaggi”, o creare “un’arte bicefala” poiché privilegiano allo specifico del medium, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno artistico dal doppio codice genetico, affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo per espandersi tra territori diversi oltre al video: teatro, cinema e pittura. Un’arte intermediale, un’arte espansa. Come ricorda Bruno Di Marino citando le esperienze di Nam June Paik ma anche quelle successive di Laurie Anderson, Peter Gabriel, Metamkine nei cui concerti la componente sia visuale che multimediale “arricchiva notevolmente il loro immaginario musicale in direzione spettacolare” la musica il cinema, il video e la performance sono sempre stati strettamente collegati. (B. Di Marino, Interferenze dello sguardo. sperimentazione audiovisiva tra analogico e digitale, 2002).

E’ quindi un naturale territorio multidisciplinare quello in cui si muove il video sin dal suo esordio dalla metà degli anni Sessanta (dai protagonisti del movimento Fluxus a Paik a Cage), come ricorda Simonetta Cargioli “fecondo terreno per sperimentazioni di incroci attraversamenti e transizioni. In questo contesto di effervescenza creativa e sperimentale il medium video ha vissuto in perfetta promiscuità con le altre arti con le quali si intreccia, si mescola, si confronta, che ingloba, di cui prende a prestito qualche cosa provocandone alterazioni radicali. La performance, la danza, la poesia, il cinema, tra gli esempi numerosi, diventano altra cosa dopo il video o perlomeno, dopo averne assorbito il contatto” (S. Cargioli, Introduzione a Le arti del video, 2004).
Così Masbedo ripropongono in chiave attuale una modalità video dialogica e intermediale ampiamente sperimentata proprio dai pionieri dell’art vidéo. I loro video traggono ispirazione dalle pitture antiche (i loro personaggi assomigliano nelle pose e nei sembianti a figure mitologiche, ricordano pitture prerinascimentali o preraffaellite e sculture tardo romane) e assorbono credito vitale dall’improvvisazione teatrale degli attori privati di sceneggiatura e posti di fronte a canovacci con poche battute; la performatività di alcuni loro video è talmente evidente che lo sfociare nel teatro vero, fatto di palcoscenico come “arena degli attori” diventa (come lo è stato alla fine degli anni Ottanta per Studio Azzurro a coronamento della loro attività video artistica con Camera astratta) quasi una necessità o uno sconfinamento naturale.

Glima.

Il video Glima nato dall’esposizione di una proposizione base, sviluppata dagli attori senza indicazioni registiche dettagliate, è diventato performance video-corporea di enorme fisicità e di grande impatto (grazie anche alla musica live di Lagash e Gianni Moroccolo) in occasione del Festival di Dro nel luglio 2010.

Un uomo e una donna lottano legati da vincoli di lacci in pelle come un’appendice organica che rimanda a un rito di possessioni sadomasochistico e afflizioni autoindotte (intensa l’interpretazione diErna Ómarsdóttir e Damir Todorovic come si vede dalle fotografie di Iris Stefansdottir); intorno a loro una terra vulcanica, l’Islanda, paese che sta subendo un processo di erosione millenario.

Il paesaggio non è estraneo, entra nella violenza perpetrata nei corpi dove alternativamente uno diventa carnefice e l’altro vittima; in questo rituale della coercizione sotto cui si può leggere la generale volontà a non integrarsi, a non piegarsi e a non sottomettersi alle regole del mondo e la generale riluttanza ad obbedire all’ordine sociale i protagonisti hanno abbandonato la civiltà ma non la disponibilità a combattere magari in nome di un’ipotetica causa comune che presuppone l’unirsi degli uomini in una catena umana a difesa del proprio patrimonio di valori. La performance con due schermi e una pedana ad altezza del pubblico, prevedeva anche un’interazione degli attori con una webcam montata su un robot dalla forma aracnoide telecomandato che catturava i dettagli dei volti.

Pathei Mathos (Apprendo dalla sofferenza)

Il video Schegge d’incanto in fondo al dubbio è ricchissimo di riferimenti iconografici alla classicità e alla mitologia greca, e numerose sono anche le citazioni al codice di stile della pittura fiorentina trecentista rivolta alla concretezza dei contenuti umani delle immagini sacre (per la figura femminile la raffigurazione drammatica della Madonna in pietà o della Maddalena sotto la croce, per l’uomo l’immagine titanica del Prometeo incatenato: “ritto”, “insonne”, “temerario”).
La donna, novella Antigone, opponendosi all’omologazione del mondo, alla vita umiliata, compie un gesto impetuoso e solenne di ribellione: fugge e trascina dietro di sé gli oggetti che sono inseparabili dal suo corpo perché ne rappresentano la vita vissuta; infine, ferma immobile su un piedistallo in mezzo al mare, con gesti plastici e una torsione del corpo ricchi di pathos – come nella raffigurazione scultorea ellenistica del Galata morente – accende un fuoco come a chiedere aiuto.

In questo gesto plastico l’attrice evoca miti tragici e archetipi del femminile che raccontano come la vita umana, pur nelle difficoltà e nel dolore, lasci dietro di sé schegge di bellezza. Se l’uomo incarna il motivo dell’audacia di chi ha osato ribellarsi e andare oltre il limite estremo (“Io, invece, che avrei dovuto saper morire, per essere andato oltre la parte a me assegnata, vivrò una vita infelice”, Euripide, Alcesti) la donna mostra una maschera del dolore, un urlo muto che porta con sé tutto il lamento dell’esistere.

Il video trasmette proprio quel senso profondo e necessario di purificazione e metamorfosi dell’essere e quel bisogno di rivelazione da cui nasce la tragedia attica antica e che ci è stato trasmesso dalle pitture vascolari greche: “desistere dal ciclo prendere fiato dalle miserie” (frammento orfico da Proclo, cit. da G. Colli, La sapienza greca).

“Nello sperimentare il tragico a teatro, gli spettatori si trovano di fronte al colmo dell’orrore, a crisi di instabilità e a prove di resistenza, ovvero di fronte a esperienze che nessuno si augurerebbe mai di dover affrontare nella vita reale. Ma poi alla fine dello spettacolo, nessuno ne esce morto o traumatizzato. L’esperienza dell’abisso, il viaggio nell’instabilità a teatro sono vissuti – visti, ascoltati – in una forma che ha bellezza. La poesia, la danza, la musica, i costumi e le voci, l’armonia di suono e azione collaborano a rendere l’esperienza teatrale un momento da cui l’uomo può trarre non abbattimento e debolezza, ma energia. Quello che fanno questi splendidi vasi è di distillare bellezza dalla confusione di tutta questa nostra vita umana. Le pitture vascolari, le tragedie, i vasi e gli spettacoli interagiscono al fine di rinnovare nell’uomo la forza di resistere alla morsa delle tenebre.
(Oliver Taplin, Professore di Lingue e Letterature Classiche e Direttore dell’Archive of Performances of Greek and Roman Drama all’Università di Oxford, testo della conferenza tenuta all’Università di Catania, 18 gennaio 2010).

Jeux de cartes: intervista a Robert Lepage
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Pubblicato su Interactive-performance.it

Traduzione di Giancarla Carboni

Alla presentazione del progetto Reseau 360°, in occasione del debutto francese di Jeux de Cartes, fa gli onori di casa Philippe Bachman, direttore del teatro La Comete a Chalons en Champagne e anche progettista e ideatore della Rete. Bachman ricorda che sin dalla sua prima stagione nel 2005, aveva programmato Le Projet Andersen: in quell’occasione propose a Lepage di visitare il vicino circo costruito all’inizio dell’Ottocento, che oggi ospita la scuola nazionale delle arti circensi. Si tratta di uno spazio dove negli anni, sono stati programmati anche concerti e spettacoli tradizionali. Proprio durante una conversazione sugli spazi a pianta centrale, Lepage gli suggerisce alcuni spazi simili in Inghilterra (come la Roundhouse, che ospita concerti) e così inizia da parte di Bachman, una ricerca di altri luoghi aventi palcoscenici circolari nell’Europa dell’Ovest e dell’Est, spazi con origini diverse dal circo. 

Si arriva a una interessante mappa di edifici che si originavano dal patrimonio industriale o storico (come gasometri e cisterne d’acqua) riconvertiti in tempi recenti, a spazi per eventi. Questi luoghi molto particolari condividevano – a detta di Bachman – due caratteristiche: il fatto di essere isolati e a pianta centrale.

A questo punto Lepage prende la parola per raccontare, con umiltà e semplicità, la genesi del progetto teatrale vero e proprio. Sono diversi i “temi” affrontati dal regista canadese: la ricerca della forma, la scrittura drammaturgica come un continuo “non finito”, il “racconto in cerchio”, il richiamo al circo e allo show musicale ma anche ai match di improvvisazione e al teatro medioevale… E racconta cosa significa sentirsi “attore bidimensionale” like an Egyptian”.

 

La rottura della frontalità: il teatro degli anni Sessanta

L’idea di lavorare in uno spazio circolare mi interessava. Ho ripensato al teatro gli anni Sessanta, Settanta sino agli anni Ottanta. In quel periodo il teatro provava a rompere la quarta parete e la scena tradizionale lavorando anche in spazi circolari oppure faccia a faccia col pubblico. Si recitava spesso in luoghi industriali, insomma il teatro voleva liberarsi. Si era consolidato un vocabolario legato al vecchio teatro tradizionale all’italiana dal quale ci si voleva liberare: stile di recitazione, messa in scena, tutto era messo in discussione. Era in atto una rivoluzione che avrebbe cambiato le cose. Incastrato dentro una scena video-frontale, mi sono ritrovato come un’immagine “all’egiziana”. 

Negli anni Novanta il teatro comincia ad integrare sempre più spesso le immagini. La tecnologia era più disponibile, più malleabile, più accessibile. Si usava il video, si lavorava col bidimensionale e gli spettacoli erano diventati col tempo, prigionieri di questa forma. Anche io sono tornato a quello schema frontale di scena e mi sono ritrovato “come un’immagine all’egiziana”. Tutto questo era molto interessante e divertente, certamente si stava creando un nuovo vocabolario ma io mi sono sentito imprigionato in questa nuova dimensione. L’idea iniziale infatti, era quella di liberare la scena grazie al video, ma la cosa poi, è ricaduta in una sorta di immobilismo. Nei primi spettacoli, come  che era bi-frontale (le azioni si svolgevano di fronte e dietro uno schermo ndr), non ci si preoccupava necessariamente di quello che la gente vedeva o non vedeva, sentiva o non sentiva ma si cercava di trovare una chiave di recitazione che facesse arrivare la storia agli spettatori. Così mi sono ritrovato invece, nei miei spettacoli alla fine degli anni Novanta schiacciato come in una sorta di sandwich.

La scena a cerchio con Peter Gabriel: il ritorno alla teatralità 
Nel 2001 ho collaborato, per la seconda volta, con Peter Gabriel per il suo tour Growing up Live. Il palco era circolare e molto simile a quello di questo spettacolo. Nonostante non fosse uno show perfetto, mi aveva fatto ripensare all’idea di liberarmi del quadrato. Il solo modo di superare il problema di lavorare in un’area circolare, è quello di reinventarne il vocabolario. Quando c’è un gruppo che suona, si pongono dei problemi legati alla gestione dello spazio: per esempio, il chitarrista per chi deve suonare? Deve guardare il pubblico o altrove? Non era certo la prima volta che un gruppo rock suonava in uno spazio del genere, ma per me era la prima volta. Mi ponevo anche il problema del video: se non c’è uno sfondo o uno schermo, come si fa?
Mi piaceva molto l’idea del cerchio, il fatto che lo spettatore vedesse lo spettacolo e allo stesso tempo vedesse se stesso. Il pubblico guarda lo spettacolo, cerca di capire quello che succede ma allo stesso tempo vede l’eco della sua stessa reazione, si è consapevoli di far parte di una sorta di comunità. Mi sembrava che tutto ciò avesse una teatralità che io avevo perso nei miei spettacoli e avevo voglia di tornare a questo. 
Ho iniziato Jeux des cartes consapevole che sarebbe stato molto problematico lavorare in uno spazio circolare: trovare il livello di recitazione, decidere di recitare di fronte a solo una parte del pubblico ma necessariamente di spalle a qualcun altro, fare attenzione che il dettaglio sia visibile, che arrivi un’immagine molto precisa perché tutti la vedano e capiscano. Ma allo stesso tempo è questa la bellezza delle cose. E’ necessario mettersi in pericolo soprattutto a teatro, bisogna rischiare.

C’è una cosa che ho riscoperto dopo lo show di Gabriel e ancor più col Cirque du Soleil, (parlo dello spettacolo nel tendone dove non c’è uno spazio esattamente a 360° ma semicircolare, un po’ elisabettiano): l’idea che mi ha subito affascinato è che il pubblico vede la performance ma allo stesso tempo gli spettatori. Questo fa sì che il pubblico sia consapevole che si racconta una storia ma allo stesso tempo si crea anche una distanza.

Circolarità e verticalità: il circo, il teatro medioevale 
L’elemento che hanno in comune tutte queste esperienze è l’idea della verticalità. Quando il direttore del Cirque du Soleil mi chiese di collaborare con loro, mi disse che potevo fare ciò che volevo ma dovevo necessariamente sviluppare l’azione coprendo tutti i livelli dal suolo al soffitto. Mi disse che questa linea immaginaria verticale doveva essere il mio riferimento costante. Mi ha fatto capire una cosa importante e cioè che il circo è verticale, che quando si lavora su uno spazio circolare c’è necessariamente l’esigenza anche della verticalità.

 

Nel XX secolo siamo ossessionati dal cinema, dove l’immagine è orizzontale ed è la telecamera che si muove e ritrae l’uomo e il suo ambiente. Il teatro, al contrario lavora da sempre sulla verticalità. L’uomo è sulla terra, verso l’alto sono le sue aspirazioni, il suo dio, la sua morale.
Anche le storie da sempre erano scritte in quel senso: c’è l’uomo e in alto la sua volontà di crescere, le sue aspirazioni e la sua morale, più in basso il diavolo, l’inferno. Mi sono accorto che anche noi di Ex Machina, nel modo di raccontare le storie, avevamo eliminato il diavolo e dio (non ci chiamiamo infatti Deus ex machina ma solo Ex Machina dunque dall’inizio abbiamo eliminato la parola dio); volevo tornare a questo modo di raccontare le storie dove la verticalità ci forzava a ricongiungerci un po’ di più alla poesia, alla mitologia. Il cerchio insomma, ci ha messo di fronte a cose che non avevamo mai fatto, che non conoscevamo.
Per me è un’esperienza davvero molto ricca. Con l’organizzazione Reseau 360° e con Philippe è interessante discutere su cosa vuol dire lavorare in uno spazio circolare e che cosa vuol dire raccontare una storia in cerchio, quali sono i punti forti e quelli deboli, quali sono i vantaggi e quali i pericoli. Trovo che questo sia molto sano. In questo momento, non dico che le persone amino la facilità, ma c’è una sorta di accettazione degli standard industriali che dicono che tu devi raccontare una storia frontalmente, seguendo degli schemi fissi. Certo, ci sono quelli che lo fanno bene e quindi tanto meglio per loro, ma io amo complicare le cose!

Tecnici e attori dentro e sotto la scena 
Ci sono dodici persone che lavorano nello spettacolo tra attori e tecnici. Noi parliamo di tecnici ma si tratta di manipolatori che come con le marionette, muovono la struttura partecipando attivamente al racconto della storia. Si cerca con loro di capire come fare le entrate e le uscite in una struttura circolare. A partire dal momento in cui abbiamo cominciato a improvvisare, a esplorare le storie, gli attori suggerivano dei personaggi o delle situazioni e ci siamo ritrovati che erano dentro delle camere d’hotel. Allora ci siamo posti il problema di come rendere le quattro pareti delle camere; io amo molto gli ostacoli, amo molto i problemi e così proviamo varie soluzioni direttamente in scena. Prima dello spettacolo gli attori stanno almeno una ventina di minuti sotto il palco ad aspettare perché non possono entrare dopo gli spettatori, non possiamo vederli entrare. Gli attori hanno una sorta di volontà elastica per fare il vuoto nella mente e aspettare! Questa dimensione circolare è un’altra cosa rispetto a quello a cui siamo abituati, e sono queste le cose che mi attraggono..

Processo di scrittura: le carte in mano 
Io non ho tutte le soluzioni in tasca, le regole o le chiavi di ingresso: ci si imbarca in un’avventura in cui ogni tanto si trovano delle soluzioni che funzionano. C’è anche il pubblico che ci dice quello che funziona, quello che ha capito o meno e questo fa parte del processo creativo. Ci siamo riuniti attorno ad un tavolo, attori e non attori. Nei miei spettacoli ci sono sempre artisti che arrivano da diversi ambienti (cantanti lirici, imitatori, non attori etc.), che arrivano con un bagaglio di esperienza diversa. In questo caso ho dato loro le carte da gioco, che non sono esattamente un tema ma una risorsa, e insieme abbiamo giocato e parlato, abbiamo fatto delle improvvisazioni e anche delle ricerche.
Lo spettacolo è un po’ l’immagine di qualcosa che funziona bene ma prima di prendere la sua forma finale passa attraverso molti stadi e prove. Concentrando le prove in brevi blocchi di tempo (qui a La Comete 5 giorni, a Québec 10 giorni in cui abbiamo messo in piedi la struttura dello spettacolo e lo abbiamo presentato, abbiamo fatto 3 prove pubbliche) c’è sempre molto poco tempo per sviluppare il lavoro.
Tra questi blocchi ci sono 4, 5, 6 mesi. Ciò significa che non si fanno molte prove, tutto succede durante la tournèe. Arriviamo in una città dove ci prendiamo qualche giorno per discutere cosa cambiare, valutando ogni volta quello che ha funzionato o meno e si cambiano delle cose. Gli attori decidono a volte, anche di scambiarsi le battute.
Tra Madrid (dove è avvenuto il debutto assoluto, ndr) e qua a Chalons sono cambiate molte cose, a Madrid lo spettacolo infatti durava 3 ore, qui 2 ore e mezzo. I personaggi prima di trovare la linea interpretativa improvvisano, tentano degli esperimenti. All’inizio si cambiano molte cose perché ci si accorge di volta in volta di quello che non funziona e a forza di recitare, lo spettacolo inizia a prendere forma, a scolpirsi, il testo si affina e i personaggi trovano il loro percorso e la loro collocazione. Non c’è una visione di partenza di un grande autore che dice “si scrive così, si fa così”, la scrittura fa parte della dinamica del gruppo. Questo è uno spettacolo che ha bisogno di un grosso montaggio, sono necessari 2 o 3 giorni di lavoro e noi ne approfittiamo per far arrivare gli attori un po’ prima e discutere con loro. Alla fine di queste riunioni si prova e si fa una generale tecnica per capire se tutto funziona. Durante la generale tecnica si provano anche varie soluzioni drammaturgiche.

Cambiamenti dell’ultimo momento. Il teatro è uno sport 
Da quando è iniziato questo spettacolo abbiamo fatto 15 repliche. Ci sono dei punti che rimangono stabili perché funzionano. Ci sono molte cose che cambiano e altre che si solidificano, si fissano. In questa scelta, in questo modo di lavorare (ed è ciò che ci piace) c’è la scelta di mettersi in una condizione di pericolo. Le persone si affezionano ai punti più forti dello spettacolo, quelli che funzionano, quelli emozionalmente solidi. Sappiamo ad esempio, che la fine dello spettacolo sarà con il personaggio che soffre di gioco compulsivo e il suo sciamano, ma quello che dice e quello che succede cambia ogni volta, ancora non abbiamo trovato la chiave. Anche stasera cambieremo qualcosa, riscriviamo. Ma questo è il nostro sport! E’ molto sportivo quello che facciamo.  Ci sono delle cose che il pubblico non capisce ma ce ne sono altre che lo incollano alla storia. Noi ascoltiamo, arricchendo il nostro lavoro di nuovi elementi. Questo è un modo particolare di lavorare, fuori dal sistema nel quale ci si aspetta lavori subito pronti all’uso.

La narrazione non è all’altezza di un autore come me? Ma la storia non è ancora finita… 
La storia non è ancora cresciuta, i miei spettacoli sono così, può darsi che qualcuno abbia visto miei spettacoli più completi; è vero, ciò non scusa certe lacune drammaturgiche dello spettacolo. Ma è così che procediamo. Ancor prima che lo spettacolo venga scritto o messo in scena ci diciamo cosa vogliamo dire e fare e mettiamo in piedi il progetto scenografico che ci offre un terreno di gioco. Da qui partiamo per raccontare le storie e in questo terreno di gioco le cose nascono e crescono. Non sappiamo sempre dove siamo rispetto al percorso evolutivo dello spettacolo. Per esempio, quando abbiamo fatto Lipsynch a Londra c’era un ottimo impianto scenografico a supporto di idee che avevamo in testa ma che ancora non avevano trovato una forma. E la storia non reggeva ancora. Dopo tante repliche, lo spettacolo ha preso una forma precisa, esatta. E’ il mio modo di lavorare, non posso fare diversamente. Non ci sono certezze. E’ così che ho sempre sviluppato i miei spettacoli e a parte questo, c’è anche un fattore culturale. Cioè a dire che ci sono degli spettacoli che evolvono meglio all’interno di un contesto, in una certa cultura e che per diversi motivi rendono possibile la crescita dello spettacolo. Anche solo il fatto che all’inizio non ci si accorge che è mal scritto perché magari va in scena in un paese di lingua diversa. Anche questo fa parte dell’evoluzione dello spettacolo. L’itinerario dello spettacolo partecipa al suo sviluppo. Penso che dopo le date in altre città francesi (Lyon, Amiens) e inglesi (Londra), alla data di marzo a Parigi il pubblico vedrà uno spettacolo più completo. E’ sempre una nuova esperienza per chi si interessa al processo creativo, a me interessa soprattutto a quello. Ci sono persone infatti che vengono più di una volta agli spettacoli (indica Anna Monteverdi ndr) La delusione fa parte del processo ma a me questo piace.

Una questione di perfezione: il regista è un vigile urbano 

Ho una preoccupazione di perfezione per la scrittura e anche per la drammaturgia. Ma questa cresce lentamente perché si lavora con materiale umano. La tecnologia la si programma e si fa ciò che si vuole. Gli umani invece sono complessi! Per me questo è un lavoro necessario da fare, per gradi, una scoperta: non so dove andiamo ma so che c’è sempre un continente. Non sono un autore e un regista che dice “Seguitemi so dove andiamo”. Gli attori sono molto coraggiosi: nel momento in cui mi chiedono cosa devono fare nello spettacolo io rispondo che non lo so. Ed è vero, so solo che parla del gioco delle carte. Non ho subito la storia, io scavo e scolpisco il materiale che ho a disposizione. Le persone portano le loro esperienze, le loro idee e io divento un vigile urbano e a un certo punto, quando le cose circolano bene, sono in grado di vedere davanti a me le storie e di scolpire il personaggio, ma all’inizio non ci sono che idee e bisogna avere pazienza. Non sono quel tipo di artista che arriva con la visione di quello che vuole fare. Di sicuro sono come il capitano della nave che dice che non sa dove si va e quando si arriverà ma solo che c’è un continente, e che quindi si toccherà sicuramente terra. Si continua a lavorare sino a quel momento.

Il segreto: lavorare con l’agilità del rettile 
Lo spettacolo dipende anche dal tipo di tensione che si dà agli artisti. Noi pensiamo di presentare al pubblico delle cose interessanti, delle idee davanti alle quali può, più o meno, rimanere colpito, ma creiamo comunque un interesse. Anche se il pubblico non ha capito tutta la storia per intero, lo si ascolta cercando di capire se ci sono dei punti forti da valorizzare. E’ il nostro modo di aprire i giochi, mettere in campo anche la nostra ignoranza, ma c’è sempre grande fiducia. Anche se non c’è una garanzia assoluta in questo metodo di lavoro collettivo di Ex Machina, è necessario passare dagli spettatori e anche dalla critica. Raccogliamo i punti di vista e li mettiamo dentro unmulinello e ci lavoriamo.
E’ molto difficile il momento della ghigliottina della prima, il debutto: io sono riuscito a evitarla. Noi lavoriamo con l’agilità del rettile (sposta la mano da una parte all’altra mimando il serpente, ndr), cioè cerchiamo continuamente nuove vie. Ogni pubblico vuole cose diverse. Anche questo fa parte del mio lavoro. Ho detto prima della questione culturale, mi viene in mente La face cachée de la lune. Non avevo idea che trattasse temi universali e non sapevo in che modo li trattasse. Ho portato lo spettacolo in Europa ed è andato bene sino a quando non sono arrivato in Corea e il pubblico fece delle riflessioni importanti sui due fratelli della storia e su cosa significava per loro, e così mi sono reso conto che c’era una dimensione universale, ma questo non l’avevo messo in conto nel mio spettacolo, è una cosa che è nata li. Così mi sono rimesso a scrivere e ad arricchire la storia sulla base di questa riflessione. Io non so quale spettacolo lo spettatore vedrà ma cerco di confrontare sempre la storia con diverse culture e diverse persone, e questo è una vero lusso.

L’attore? E’ un cantore, uno che fa, uno che mostra 
Un buon attore normalmente è quello che partendo da un testo fa un’ ottima interpretazione e il regista può lavorare faccia a faccia con lui perché tutto è dentro il testo. Noi non abbiamo testo e allora il gioco è davvero un gioco e al momento giusto si finisce per ricreare e rifare da zero. Si cambia in continuazione e alla fine è come se avessimo avuto un buon testo sin dall’inizio. Ma il testo in realtà all’inizio non c’è, quindi io non posso dirigere l’attore, si può parlare delle idee. L’attore diventa più un cantore, uno che fa, uno che mostra.

Never ending stories 
Noi non abbiamo modo di prenderci due anni di lavoro su un solo spettacolo in Canada. Bisogna lavorare su più spettacoli e non si può provare concentrando il numero di ore a disposizione. Noi preferiamo prendere questo numero d’ore e allungarlo sui due anni di lavoro. In questo spazio di tempo le persone pensano allo spettacolo e fanno delle ricerche, tornando con delle buone idee. Utilizziamo il numero d’ore a nostra disposizione allungandole su un periodo più lungo. Si comunica con tutti i mezzi quando non ci si vede (mail, telefono etc) perché, non essendo una compagnia, lavoriamo con persone che fanno anche altre cose e vivono in città e stati diversi. Ma il lavoro di messa in pratica si fa quando siamo riuniti in gruppo prima dello spettacolo. Ad esempio, ogni volta vediamo il video dell’ultimo spettacolo per capire ciò che si è cambiato e va bene, e quello che si deve cambiare. Gli attori allo stesso tempo hanno una visione della scena nel suo complesso, a volte addirittura rimangono sorpresi vedendo quello che succede in scena e in relazione anche a questo cambiano delle cose dei loro personaggi. Quando ci incontriamo la volta successiva tutti hanno molte nuove idee. Questa è una dinamica che io trovo molto eccitante, c’è un’effervescenza… ed è sempre il rifiuto della ghigliottina della prima: si prova uno spettacolo per un anno, si fa qualche anteprima e poi il debutto e da quel momento non si muove più nulla, se alle persone piace, bene, se non piace.. è tutto finito. La ghigliottina. Io non ho voglia di stare dentro un sistema così, io penso che si debba lavorare su un progetto sino a farlo funzionare. E’ difficile farlo nel sistema attuale ma noi crediamo fermamente in questo processo creativo.
Gli attori hanno sempre voglia di recitare come quando si fanno i match di improvvisazione: non si sa se funzionerà o meno. Bisogna essere un po’ dipendenti dall’adrenalina per lavorare così.
Questo non giustifica nulla, se ci sono dei problemi drammaturgici ne siamo coscienti e cerchiamo di fare meglio. Ma è lo sport che pratichiamo, è uno sport diverso.

La creazione collettiva? Un’idea fricchettona a cui io credo ancora 
Siamo partiti da un gioco di carte, se giochiamo insieme e io chiedo ad esempio “A cosa vi fa pensare il colore rosso o il nero nel gioco delle carte?” Mi direte qualcosa e io non potrò mai essere in disaccordo con un’impressione di un altro, quindi non ci sono mai dei conflitti da questo punto di vista. Ma se si facesse così col tema della guerra nascerebbero subito dei conflitti perché tutti arrivano da una classe sociale differente e da un posto diverso e sul tema abbiamo opinioni diverse.
Si inizia con delle cose più poetiche e chiedo ad esempio ciò che le carte evocano e le persone raccontano fatti personali. Io prendo tutto questo materiale cerco di analizzarlo e intrecciarlo, cosicché il lavoro prende il colore di chi partecipa e questo spettacolo è davvero il risultato di queste sei persone più me.
Può capitare che per ragioni professionali qualcuno non possa continuare la tournèe e venga sostituito da un altro attore che cambierà ancora il colore dello spettacolo, e farà delle cose migliori o anche peggiori. Io so che in tutte le creazioni non c’è niente che si perde e niente che si crea. Molto spesso ci si riunisce intorno al tavolo portando delle idee che poi vengono abbandonate, addirittura buttate via ma che poi in qualche modo finiscono per riaffiorare facendosi strada in diversi modi e risalendo a galla per trovare la loro collocazione.
E’ così: una vecchia idea fricchettona degli anni Sessanta di creazione collettiva ma io ci credo ancora, ci sono persone che sono più al loro agio con questo modo di lavorare piuttosto che in una dittatura di regia.

L’attore deve essere in pericolo: la regola del teatro dai match di improvvisazione 
Noi non ci aspettiamo che lo spettatore si interessi al lungo processo di creazione. Noi cerchiamo di fare il meglio nel momento in cui lo stiamo facendo, per lo spettatore che c’è in quel momento, in quel luogo, senza giustificare nulla di quello che accade in scena facendo riferimento agli spettacoli precedenti o a quelli futuri. Tutte le sere cerchiamo di fare il meglio. C’è un motivo per il quale procediamo così, ed è per il fatto che il teatro abituale, convenzionale non suscita in noi lo stesso interesse. Non è una critica, non dico che quello non è un buon teatro, dico solo che quel tipo di teatro non ci mette in pericolo ogni volta che lo mettiamo in scena. Più regole ci sono, meno interessante sarà per un attore o per un regista.

Io arrivo dai match di improvvisazione e ho lavorato per il circo dove gli artisti provano i numeri di giocoleria ma non sono mai veramente sicuri di essere pronti. Credo però che lo spettatore riceva comunque qualcosa di importante ed è per questo che io difendo questo modo di fare e tutti i rischi che questo comporta. Cerchiamo di fare il meglio che si può la sera che si fa lo spettacolo; poco importa se a volte la drammaturgia è un po’ in bilico; il pubblico vede delle persone che sono in “pericolo”, che hanno questa energia e a volte questo fa scattare il miracolo, a volte è davvero miracoloso! A volte per niente.. Succede sempre che c’è qualcosa che fa scattare la molla della soluzione giusta, ci prendiamo il rischio di offrire questo.

Una drammaturgia a incastri 
Siamo sicuri che faremo come spettacolo: picche, cuori, danari e fiori ma queste carte prima eranospade, coppe, danari e bastoni. Questo perché le carte arrivano dal mondo arabo. Picche, ovvero spade è legato al mondo militare; il cuore/coppe è legato all’idea dell’amore ma è anche il sacro Graal, quindi è una carta legata alla religione, alla magia, alla superstizione, (si svolgerà un po’ nel mondo della magia a Parigi nel diciannovesimo secolo e non ha nulla a che vedere con lo spettacolo in corso).
L’altro è denari, che in inglese è diamonds, cioè legato a qualcosa che ha valore. Prima questa carta era rappresentata dalla moneta, quindi è legata al mondo del commercio; l’ultimo è fiori/bastoni che rappresenta l’agricoltore, l’operaio, ma rappresenta allo stesso modo la rivolta.
Adesso abbiamo toccato il tema militare nel prossimo ci sarà il tema della magia poi mondo degli affari e così via. Sono tutti temi collegati ed è importante per noi che nel primo spettacolo siano rappresentati tutti i semi.
E’ la prima volta che cerchiamo di seguire quattro storie contemporaneamente, normalmente negli spettacoli seguiamo le storie una dopo l’altra, qui cerchiamo di farlo contemporaneamente.

 C’è in queste quattro storie un rappresentante per ogni seme:
♠ spade/picche (la storia militare);
♥ cuori/coppe (la coppia che si sposa a Las Vegas;ci sono anche dei riferimenti alla fede e al sistema religioso);
♦ danari/ori (il mondo degli affari, col personaggio che soffre di gioco compulsivo che viene a Las Vegas per affari);
♣ bastoni/fiori (il mondo proletario, gli impiegati del casinò e della caffetteria che sono tutti immigrati e parlano in spagnolo).
Per noi è importante che le quattro carte siano rappresentate nella prima uscita in una sorta di microcosmo che inizi l’intreccio. Non sappiamo ancora se queste quattro storie avranno un legame ma sappiamo ci saranno dei temi che si intrecciano e si faranno eco lungo tutto il progetto. Il grande desiderio è quello di presentare in futuro i quattro spettacoli.

13 carte, 7 attori 
Non abbiamo ancora ingaggiato tutti gli attori ma ci saranno 7 attori per cuori. Abbiamo 13 carte, 6 attori per picche e 7 per cuori. Ci sono delle regole anche per questo: mescoleremo le carte per poi dividerle in due mazzi e decidere chi farà la terza parte e chi la quarta.
Anche per chi fa il montaggio dello spettacolo è chiara questa situazione in cui delle immagini trovano lentamente la loro collocazione, ma non si può mai forzare questo processo in modo definitivo.

Film e teatro: “Il teatro è NOW!” 
Una differenza tra far dire una cosa a un film e farla dire a uno spettacolo è che nel film si ha il materiale relativo alle riprese e si può solo cercare di incastrarlo col montaggio, cercando di far parlare le immagini ma resta tutto nelle immagini. Io invece posso benissimo dire ai miei attori, in qualsiasi momento di fare una cosa con un’intenzione completamente diversa e loro rimetteranno tutti gli orologi a zero. Nel cinema questo ovviamente, non si può fare perché è già tutto registrato. Per questo che trovo interessante recitare con questa particolarità del teatro: ogni giorno è un nuovo giorno e non si sa mai cosa accadrà.
Io non faccio molto cinema ma le prime volte che l’ho fatto, scrivevo la sceneggiatura, si girava si faceva il montaggio, poi il film veniva distribuito e durante il tempo di distribuzione magari ad un festival, parlavo con la gente del mio film e avevo l’impressione di vedere il fantasma delle mie idee passate. Quello che vedevo era quello che ero, magari due anni prima! Questo a teatro non succede mai. A teatro si parla di ciò che abbiamo fatto ieri, che faremo oggi e domani, anche se la tournèe è iniziata da cinque anni. E’ sempre now! Per questo io mi sento molto più vicino al teatro.

Di Anna Monteverdi e Giancarla Carboni.

Ricordando Julian Beck, testo di Gerald Thomas
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Note inedite raccolte da Anna Monteverdi

 Nel 1985 il giovane regista Gerald Thomas che aveva già lavorato con John Cage (qui una testimonianza di CAGE sul suo lavoro) diresse per l’ultima volta Julian Beck in un piéce da Beckett, That Time prima della sua morte. L’ho raggiunto via mail e mi ha lasciato questa testimonianza inedita.

Samuel Beckett e Gerald Thomas

Quando Julian Beck mi invitò a dirigerlo, quasi svenni. La ragione? Era uno degli uomini di teatro che avevo maggiormente ammirato (e seguito) durante la mia giovinezza a Londra, a New York e in Brasile, e improvvisamente, questa Icona, uscita per un momento dal suo Living Theatre mi invitava a dirigerlo.

Ero già conosciuto a New York per il mio legame diretto con Samuel Beckett e avevo già allestito in anteprima mondiale alcuni dei suoi testi al teatro La MaMa e in altri luoghi, con grandi risultati, non solo a New York ma anche oltre oceano. Ci presentarono. Era già molto malato e io ero senza parole.

Julian mi lasciò libero di scegliere quale testo di Beckett rappresentare, e io decisi per That Time, una premiére assoluta per l’America. Inoltre avrebbe richiesto molto poco sforzo fisico per Julian. Il brano consisteva di un personaggio che ascoltava la sua stessa voce divisa in tre parti, raccontare del suo passato. Era immobile, o almeno io l’ho reso così, con un piccolo tocco della mano sul volto ogni tanto, quando veniva pronunciata la frase “when was that?

Poiché Julian non poteva parlare con chiarezza per lungo tempo all’epoca (il cancro gli aveva colpito le corde vocali) andammo in studio e registrammo tutto, parola per parola. Prevedendo che il risultato finale sarebbe potuto essere noioso per il pubblico, decisi di usare partiture musicali. Una di John Cage, l’altra di un mio ex compagno di lavoro artistico Luciano Berio (in Zaide a Firenze, 1995, Maggio Musicale). E così il testo divenne, in qualche modo, musica. Julian sembrava sorpreso e felice dell’idea. Ricordo che che quando ascoltò per la prima volta il registratore chiese: “Sono io o avete trovato un altro attore con una voce simile a me che può cantare così meravigliosamente?” Tutti in teatro risero.

E la conclusione non fu altro che un enorme successo. Andavo a prendere Julian a casa sua (nel West End Avenue, 98th Street, a Manhattan) ogni giorno per lo spettacolo. Facemmo tutto esaurito in teatro un mese prima. Lo spettacolo si spinse fino al Theater Am Turm di Francoforte e progettammo altri viaggi, ma Julian si ammalò sempre di più durante la trasferta e dovemmo cancellare la data di Belgrado e altre ancora. Ritornammo tutti a New York. Lo spettacolo fece a un gran successo in Germania, e sullo spettacolo il critico Peter Iden scrisse un articolo molto lungo che entrava nel merito soprattutto del mio metodo del metalinguaggio teatrale: un vero uomo che stava realmente morendo, recitava sulla scena un uomo che stava morendo.

Pochi mesi dopo Julian morì. Ero a Rio e tornai subito a New York in tempo per i funerali, Allen Ginsberg fece una registrazione video della sepoltura nel New Jersey.

Questa fu una tra le più onorevoli e incredibili esperienze della mia vita. Julian mi disse: “Se vuoi fare una cosa falla grande, e più grande ancora, vattene da New York. Vai in Brasile”. L’ho fatto. Ho seguito ogni singolo consiglio che lui mi diede. Julian non era di questo mondo. Devo gran parte della mia posizione artistica oggi (71 testi e opere liriche rappresentate in 12 Paesi) al consiglio di Julian.

Dio ti benedica Julian. E’ duro credere di essere stati su questo pianeta per vent’anni senza di te. Ricordo ogni ruga sul tuo volto, tutte le volte che hai sorriso, nonostante il tuo dolore, il tuo enorme dolore metafisico di non essere stato in grado di cambiare il mondo come avevi sognato. Ma, d’altra parte, ti sei salvato dalle atrocità di George W. Bush e dalla militarizzazione ed egemonia degli Stati Uniti nel mondo, dall’invasione dell’Iraq, dalla morte di 200.000 civili che non c’entravano niente, tutto in nome del Petrolio, dell’avidità e oggi c’è ancora più discriminazione di quando eri tra noi. Il mondo è tornato indietro. Viviamo in una società orribile, Julian. Tu ci hai lasciato appena in tempo, quando la corruzione si poteva appena vedere o sospettare. Ora infetta tutti i media, tutte le istituzioni, governi e società. In qualche modo sono felice che tu non sia testimone di questa globalizzazione.

D’altra parte però sono infelice che il mondo abbia perso uno dei suoi più valorosi guerrieri. Forse se tu fossi qui, tutto questo orrore sarebbe stato colpito allo stomaco e al cuore, non avrebbe resistito al tuo carisma. Il tuo incredibile carisma. Mi spiace, sto piangendo e non riesco più a scrivere. Mi manchi troppo.

 LOVE

 Gerald Thomas-

Website: www.geraldthomas.com; videosite: http://geraldthomas.net

Photo: a sinistra Judith Malina e Julian Beck; al centro Gerald Thomas con Samuel Beckett; a destra Julian Beck in That time ritratto da IRA COHEN;

BIO: Born in 1954,Gerald Thomas has spent his life partly in the United States, England, Brazil and Germany, graduating as a reader of Philosophy at the British Museum Reading Room and “officially” beginning his life in the theater at La MaMa Experimental Theater (but having received early on in life a great inspiration by watching the rehearsals of Victor Garcia’s masterpiece staging of Genet’s Balcony in Sao Paulo in the seventies. A year later, at the Aldwych in London, Thomas was able to become an ‘intruder’ in Peter Brook’s rehearsals of the RSC in the Midsummer Night’s Dream. Back in the US, at La MaMa, Thomas became an illustrator for the Op-Ed page of the New York Times while also conducting workshops at La MaMa, where he adapted and directed a few world premiere Samuel Beckett prose and dramatic pieces. In the early eighties, Thomas began working with Beckett, the man himself, in Paris (after a lot of correspondence had been exchanged between them for almost two years), adapting new fiction by the author. Of these, the more notorious were “All Strange Away” and “That Time” staring the legendary Living Theater founder, Julian Beck in his only stage acting role outside of his own company, The Living Theater. In the mid-eighties, Thomas became involved with German author Heiner Müller, directing his works in the US and in Brazil, and began a long term – and highly questionable partnership with American composer Philip Glass.

Heiner Goebbels e il Festival di Ruhr
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Pubblicato su Juliet Art Magazine

La Triennale di Ruhr (2012-2014) in Germania conclusasi a ottobre, è stata una delle manifestazioni artistiche più complete e ricche dell’anno. Merito del direttore, al suo secondo e penultimo anno di incarico: il compositore e regista teatrale tedesco Heiner Goebbels, una delle personalità di rilievo nel panorama della sperimentazione musicale e multimediale contemporaneo.

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                                                                           Heiner Goebbels
 

Il fittissimo calendario di un mese e una settimana di programmazione prevedeva concerti, installazioni audiovisive, spettacoli teatrali, eventi di music theatre con supporto di visual, molti dei quali debutti assoluti, co-produzioni o proposte site specific. L’opening era dedicato al musicista americano, famoso per le sue composizioni in microtonalità, Harry Partch (1901-1074) con l’allestimento dell’opera Delusion of the Fury in formato multimediale a firma dello stesso Goebbels, che è stata salutata unanimemente dalla critica come l’evento musicale dell’estate. Sulle scelte artistiche di Goebbels –che ha voluto proporre opere di videoarte, musica, danza, digital performance– i nomi dicono già tutto: Robert Wilson, Douglas Gordon, Robert Lepage, Anna Teresa De Keersmaeker, Ryoji Ikeda, Quai Brothers, Rimini Protokoll, oltre allo stesso Goebbels che ha riallestito per l’occasione Stifter dinge sia in versione teatrale che installattiva.

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                              Silence, Exile,Deceit, installazione audiovisiva di Douglas Gordon 
 

Esperienze percettive, opere che interagiscono con lo spettatore, installazioni immersive in spazi densi di significato, di memoria, di storia. Il Festival era dislocato in varie aree geografiche intorno a Essen, seguendo un’idea cara alla ricerca, di drammatizzazione di luoghi industriali o non convenzionali; il più spettacolare di questi era il distretto carbonifero di Zollverein dove, grazie a un programma europeo di finanziamento, è stata rifunzionalizzata per una fruizione culturale, una ex area produttiva industriale per l’estrazione e lavorazione del carbone, molto vasta e affascinante per la presenza di macchinari, ciminiere e strutture adattate al nuovo uso. Così il videomaker Douglas Gordon ha lavorato dentro l’area del Kokerei per una installazione (o meglio, pantomina industriale, come viene definita dall’autore) molto suggestiva dal titolo SIlence, Exile, Deceit. Qua immagini video da incubo proiettate su pareti, tra luci spettrali e sonorità liriche, apparivano all’improvviso in mezzo a fiammate, fumi e voli di scale, in una struttura che calava in verticale nelle viscere della terra a raccontare storie enigmatiche alla Edgar Allan Poe.

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                                        Jeux de cartes-Coeurs, spettacolo di Robert Lepage
 

Il giapponese Ikeda nella stazione di Duisburg invece, ha tradotto in installazione audiovisiva di tipo immersivo, i dati digitali che ci circondano nella vita quotidiana. Il canadese Robert Lepage, ovvero il nome più autorevole nel teatro visuale contemporaneo, è sbarcato qua per il debutto del secondo atto dello spettacolo multimedia Jeux de cartes avente una originale scenografia a pianta centrale mobile con personaggi che spaziavano dal Québec contemporaneo all’Algeria della guerra d’indipendenza, in una successione di quadri e di eventi dal chiaro gusto cinematografico. Stifter dinge di Goebbels invece, è una raffinata e insieme stravagante proposta di spettacolo senza attori, con pianoforti assemblati insieme a oggetti, che scorrono su binari suonando senza musicista, avanzando verso il pubblico, sopra vasche con acqua e con intorno proiezioni video e suggestioni sonore e letterarie, in un’utopia di “macchina celibe” di duchampiana memoria che ha richiamato alla mente anche operazioni avanguardistiche storiche (dal Dadaismo a Fluxus). Un Festival che “non istruisce e non intimorisce ma offre un’esperienza per tutti i nostri sensi” secondo la volontà del suo direttore, frase che suona per molte ragioni, come un vero e proprio manifesto programmatico d’arte contemporanea. Polifonica.

Un teatro attraversato da visioni: il Théâtre du Soleil
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Silvia Bottiroli e Roberta Gandolfi, Un teatro attraversato dal mondo. Il Théâtre du Soleil oggi, Titivillus, 2011

Gli autori di questo importante libro su Ariane Mnouchkine sono Silvia Bottiroli (direttrice del Festival di Sant’Arcangelo) e Roberta Gandolfi (ricercatrice all’Università di Parma) e la collaborazione per gli apparati critici, di Erica Magris. Il titolo è ben spiegato dalle stesse parole della Mnouchkine che compaiono nella introduzione (Teatro, mondo, utopia) scritta insieme, o per dirla con la parafrasi più amata dalla Mnouchkine “in armonia con” la drammaturga Hélène Cixous:  

Ho l’impressione che il nostro teatro – come gli altri del resto – sia attraversato non solo dall’eco del mondo ma dal mondo stesso… Ci siamo talvolta sentiti assediati dalle persone che venivano da fuori, che avevano bisogno di stare da noi, che volevano farsi ascoltare, avevano bisogno della nostra protezione, avevano cose da raccontarci, da comunicarci, da insegnarci. Penso che il meno che si possa dire è che in questo momento il Théâtre du Soleil è attraversato dal mondo, ci sono persone d’ogni dove.

Un libro importante (edito da Titivillus) considerato che, assai colpevolmente, in Italia non era uscita finora, neanche una monografia sul gruppo. Gandolfi e Bottiroli indagano nello specifico gli ultimi tre spettacoli della compagnia (Le Dernier Caravansérail, Les Ephemères, Les Naufragés du Fol Espoir) con interventi critici oltre che delle autrici, anche di Béatrice Picon-Vallin, direttrice del CNRS di Parigi e studiosa del teatro del Novecento che ha seguito con grande passione la compagnia sin dai suoi esordi, svelando per prima il meccanismo della “cineficazione teatrale” dei suoi lavori. Ed infine, il libro ospita le voci dal Soleil, ovvero le testimonianze dirette tra gli altri, di Charles- Henri Bradier, condirettore del Soleil e Duccio Bellugi Vannuccini, co-creatore. Un libro che racconta le diverse prospettive di lavoro (attoriale, scenografico, tematico) del Soleil e che ci aiuta a scovare quella gemma di bellezza immersa nelle profondità marine che, nella metafora preferita della Mnouchkine, diventa l’obiettivo della ricerca teatrale.

Poche compagnie teatrali possono vantare la longevità del Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine, regista francese che ha messo in scena la Storia, la Rivoluzione e la lotta dei popoli per la libertà (1789, 1793, L’Age d’Or). Stare una sera alla Cartoucherie, sede storica della compagnia nel bel mezzo del Bois de Vincennes, è un’esperienza unica che, per chi ama il loro teatro, giustifica da solo, un viaggio a Parigi. La cena, un caffè o la limonata del deserto insieme agli attori e agli altri spettatori prima e dopo lo spettacolo, la visione ravvicinata degli artisti che si truccano, Mnouchkine che si intrattiene a parlare “in amitié” con chiunque, è qualcosa che difficilmente si cancella dalla memoria.

Personalmente ho visto tutti gli spettacoli del Soleil dal Tartuffe (1995) in poi e tutti quelli raccontati nel libro (alcuni anche più volte e fuori della sede parigina: Tambours sur la Digue lo vidi nel 2001 al Festival dei teatri delle Americhe di Montréal, in un gigantesco Palazzetto del Ghiaccio sold out da svariati mesi). L’ultima avventura teatrale della Mnouchkine, Les Naufragés du Fol Espoir è una curiosa rielaborazione cine-teatrale dal romanzo postumo di Jules Verne che diventa una sorta di viaggio anche per gli spettatori: la storia, ambientata agli inizi del Novecento durante un film in corso di lavorazione negli scantinati di un ristorante, esplora gli ideali e le utopie socialiste che in quegli anni infiammavano nobili animi. Così, mentre si gira il film ispirato all’attraversamento in nave delle lande ghiacciate, si indaga la psicologia dei naviganti e dei viaggiatori: chi alla ricerca dell’oro, chi alla ricerca di un lavoro, chi alla ricerca di un luogo dove piantare la bandiera del socialismo. Ma la nave è il microcosmo del mondo dove viltà e coraggio, nobiltà e avidità, amore e odio si scontrano per approdare nel deserto ghiacciato di una terra vuota e inutile ma che pure è contesa dall’Inghilterra e dall’Australia.

Qual è dunque, il luogo dove far crescere gli ideali del socialismo? Nessuno, non più, neppure nella lontana terra ghiacciata dove nulla cresce, perché neanche lì gli uomini riescono a vivere in armonia accecati come sono dal denaro, dal potere, dalla vendetta. A questa conclusione amara viene il sospetto che Mnouchkine aggiunga un sotteso happy end: la terra promessa esiste, ed è proprio la Cartoucherie il luogo del suo teatro che ha dimostrato a tutti che si può vivere in comunità condividendo vita, ideali e utopie dentro e fuori il teatro e trasmettendo a tutti le bonheur della concordia. Qua la rivoluzione francese ha avuto esito positivo, e Ariane Mnouchkine ha usato la scena per portare alla luce i problemi concreti dell’umanità non sottraendosi dunque, a quel dovere del teatro, a cui spesso le compagnie invece, si fanno latitanti, di ficcare gli occhi in faccia alla vita: la tragedia dei profughi, le violenze, le persecuzioni, le emarginazioni, la mancanza dei diritti civili nei paesi totalitari, le torture, le discriminazioni. La Cartoucherie è veramente la no man’s land dove tutti hanno diritto di cittadinanza, dove è possibile incontrare il teatro degli oppressi, il teatro d’Oriente, quello di Baghdad e dove conoscere altre culture, altre lingue. Les Ephemères è un vero spettacolo-fiume in cui si raccontano quasi sottovoce, le piccole cose della vita, ricordi lontani e dolori familiari che offrono uno scorcio assai realistico delle variegate vicende umane e delle relative problematiche e divisioni sociali. Il tutto (attori e oggetti di scena) raccontato in una pedana mobile mossa all’uopo da servi di scena (repousseur), modalità inaugurata dal gruppo ai tempi di Le Dernier Caravansérail. Un libro importante da aggiungere alla biblioteca ideale che racconta i protagonisti di questo “teatro vivente”.

Addio a Berlino di Christopher Isherwood
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Pubblicato su Laspeziaoggi.it

Ristampato da Adelphi in questi giorni Addio a Berlino è il romanzo da cui Bob Fosse nel 1972 ricaverà la trama del film Cabaret con Liza Minnelli. Pubblicato originariamente nel 1939 è uno spaccato della Berlino del 1930-1933, anni in cui il protagonista arriva a vivere il clima brulicante di arte e vitalità della Repubblica di Weimar. Da un’affittacamere il protagonista Chris conosce la sensuale Sally Bowles, aspirante attrice svampita, seducente frequentatrice di cabaret e caffè (quelli immortalati da Otto Dix) e insieme incontrano personaggi emblematici di un’epoca: Natalia, rampolla di una colta famiglia ebrea dell’alta società,Fritz, ricco faccendiere tedesco, Paul Rakowsky, truffatore polacco…

Per chi vuole conoscere il clima in cui Brecht inizia a scrivere le sue opere drammaturgiche,  quello del teatro di massa proletario di Platon Kerzhenev e il teatro dell’agit prop non può ignorare questo testo. Lo zoo sociale de L’opera da tre soldi rappresentato per la prima volta il 31 agosto del 1928, l’apice più grandioso del suo “teatro antigastronomico” che sancisce anche la relazione tra Brecht e il musicista Kurt Weill, si ispira direttamente a questa atmosfera. E se nel contenuto dell’opera brechtiana si sancisce l’assunto fondamentale che i metodi della malavita non sono poi così diversi dalla borghesia (Dice il capo dei banditi Macheath “Perché le leggi ci prendono di mira? Siamo forse più disonesti degli altri?”), nella forma sono presenti le famose song che rimandano proprio al cabaret, alle sue ballate brillanti, esplicite e i suoi mascheramenti, quel cabaret imperante nella Berlino degli anni Venti e primi anni Trenta così ben raffigurata da Isherwood.

WILLIAM KENTRIDGE E KARA WALKER.
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Dalle installazioni al teatro.

 William Kentridge[1] tra i più grandi artisti visivi mondiali, svolge un’attività artistica multipla sin dalla fine degli anni Settanta in Sudafrica: le sue opere spaziano dalle incisioni con tecniche diverse (puntasecca, acquaforte, acquatinta) ai disegni a carboncino, a gesso e pastello, ai collage, alle pitture, alle installazioni con sculture in bronzo, con mobili, arredi e schermi (che formano veri e propri teatrini in miniatura), ai film animati in 16 e 35mm, ai disegni a silhouette realizzati espressamente per i fondali teatrali. L’esposizione a Documenta Kassel nel 1997 e la personale alPalais des Beaux-Arts a Bruxelles nel 1998 ne decretano il successo mondiale.

La sua biografia è costellata di numerosi eventi legati al teatro: iscritto alla Ecole Jacques Lecoq a Parigi, scenografo attore e regista della Junction Avenue Theater Company e della Handspring Puppett Company di Johannesburg, allestisce opere dai testi di Tom Stoppard e Alfred Jarry. Famose sono le incisioni che costituiscono la serie Ubu tells the truth (1996-1997) andato in scena con la collaborazione di Handspring Puppett Company, i disegni per lo spettacolo Faustus in Africa (1995), per Confessions of Zeno (2002), per l’opera in musica Il ritorno di Ulisse in patria (1998) da Monteverdi; alcune fotografie inserite nel volume documentano l’installazione Preparing the Flute, un modellino teatrale con due film animati in 35mm con cui Kentridge reinventa il suo lavoro per le scenografie per l’opera Il Flauto magico da Mozart.

Ricordiamo soprattutto i Drawings for Projections, film animati muti realizzati da Kentridge a partire da disegni al carboncino e inaugurati con la fine degli anni Ottanta. Travagliato il lavoro di Kentridge davanti alla Bolex 16mm per creare sequenze animate composte da innumerevoli e minime variazioni e cancellature del disegno monocromo davanti alla macchina da presa, ci riporta al cinema delle origini, ai primi studi fotografici del movimento di Marey:

A differenza dell’animazione classica in cui per creare un solo secondo di filmato si realizzano ventiquattro disegni diversi su altrettanti fogli, per i suoi film Kentridge usa solo pochi fogli di carta che vengono ossessivamente disegnati, cancellati e ridisegnati a carboncino. L’artista parte da un largo foglio bianco appeso al muro e vi disegna la prima scena. Poi passa alla telecamera con cui riprende il disegno per pochi istanti. Quindi ferma la cinepresa e torna al disegno: lo altera con cancellature, aggiunte e sovrapposizioni anche solo infinitesimali, facendo evolvere l’immagine secondo la narrazione. E di nuovo torna a filmare il disegno, nato da una metamorfosi di quello precedente, di cui conserva la memoria[2].

Ma le sue opere sono inscindibili dalla storia recente del Sudafrica, dal tema dell’apartheid a cui Kentridge dedica la lunga saga di Soho Eckstein, storia di un avido e ingordo capitalista industriale simbolo stesso della corruzione e della depravazione in una Johannesburg colpita dalle ingiustizie razziali e dallo sfruttamento del lavoro operaio nelle miniere. Il personaggio che gli si contrappone è il solitario e triste Felix Teitlebaum.

Nel repertorio visivo di Kentridge le ombre sono un motivo iconologico costante e un vero topos, sviluppate nelle più diverse tecniche: dalle sculture in lamina nera di figure in sospensione tra le due e le tre dimensioni (addossate su muro o anamorfiche e disperse a frammenti nello spazio, e persino rotanti su un perno o riprese dalla telecamera/macchina da presa), alle processioni in silhouette di derelitti in marcia eseguite a collage con carta strappata (come in Portage, 2000), dalle sagome di figure nere di varie dimensioni inserite su arazzi fino ai ciclorama di profili neri su sfondo bianco o su pagine di libri e su carte geografiche, e infine alle proiezioni animate (Shadow Procession, 1999; Stair Processing Vertical Painting, 2000; Procession or Anatomy of Vertebrates, 2000).

I video, le installazioni e le opere filmiche animate di William Kentridge a partire da disegni al carboncino sono creati quali forme espressive aperte che si espandono verso inedite traiettorie artistiche, in una felice “conflittualità relazionale”: il video, come espansione del fatto grafico, diventa installazione, poi quadro scenico animato all’interno di uno spettacolo (come nel recente progetto ispirato al racconto Il naso di Gogol dal titolo I am not Me, the Horse is not Mine, 2008). L’effetto di ombre in movimento nel suo teatro (con una eco non incidentale al teatro giavanese, il wajang) è variamente combinato con le proiezioni video o filmiche, tecniche che insieme creano un gioco e uno scambio ininterrotto tra la parte frontale e quella retrostante la scena, entrambe spazio d’azione live sia dell’attore (o della marionetta) che della macchina (e del suo manovratore). Ultimo progetto portato al MAXXI di Roma è The Refusal of Time, in cui Kentridge realizza un collage di eventi e opere: film animati con una proiezione sincronica a cinque canali in cui si incastrano teatro, cinema, ombre, musica, scultura.

L’onda anomala innescata da artista politico come Kentridge, con il suo repertorio di figure nere in processione e di cortei di ombre animate, simboli di azione, resistenza e riscatto in un Sudafrica “riconciliato” all’indomani della vittoria dell’African National Congress di Mandela e della fine dell’apertheid, sta facendo scuola anche in territori non strettamente teatrali. Il motivo kentridgiano della processione di figure nere a mo’ di ciclorama e i video animati con sagome di carta, però con protagonisti schiavi, madri stuprate, sottomesse, uomini torturati (che sembrano a prima vista innocenti decorazioni che escono da lavori di découpage o dal cassetto di giochi dei bambini) sono al centro del lavoro della giovane artista afro-americana Kara Walker.

Il lessico dell’artista (quale si evince da tutte le sue opere nei più diversi formati e tecniche usati: acquarello, inchiostro o carboncino su carta, collage, figurine di carta su muro, o film in 16mm) è connotato da un voluto primitivismo (il film Possible Beginnings on the Creation of African-America, 2006 e l’allegorico tableau composto da ritagli di carta neri su parete bianca The End of Uncle Tom, 1995 o la serie negativa con figure bianche su fondo neroExcavated from the Black Heart of a Negress, 2002) di cui parla Yasmil Raymond nel catalogo dedicato alla Walker My Complement, My Enemy, My Oppressor, My Love (2008).

L’epopea della negritudine passa dalla tratta degli schiavi alla guerra tra sudisti e nordisti, al colonialismo, dal racconto dello Zio Tom, allo sfruttamento razzista, alla proclamazione dell’emancipazione femminile. Walker raffigura atti indecenti di sesso mescolati ai segni del potere, la nascita con lo smembramento e tutte le pericolose derive dal desiderio alla procreazione: violenza, allattamento, dominazione (dell’uomo sulla donna, dell’uomo bianco sullo schiavo nero: le serie di acquarelli, disegni a matita e inchiostro Do you like Creme in your Coffee and Chocolate in your Milk? e Negress Notes entrambi del 1997). I suoi lavori con proiezione video, carte ritagliate e ombra (come in Darkytown Rebellion, 2001) sono ulteriormente esaltati dalla performance dal vivo con effetti luministici colorati. Dalle ombre ritagliate su carta e incollate alla parete, alle silhouette realizzate con il supporto di mixed media fino alla animazione dal vivo in direzione performativa. L’aspetto del teatro multimediale è legato infatti, alla creazione di alcuni video come piccoli teatrini, realizzati attraverso l’animazione manuale effettuata in diretta dietro uno schermo, delle figure nere ritagliate servendosi di bastoncini, a raccontare schiavitù infinite e oppressioni millenarie.

 

Rumor (s)cena di Roberto Rinaldi
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Rumor s)cena ovvero le notizie su tutto quanto fa spettacolo. Rumors è il titolo della farsa scritta da Neil Simon, traducibile in italiano come Pettegolezzi. Si riferisce ai pettegolezzi di cui il dramma è pieno, alludendo all’ambiguità del mondo della borghesia. Rumor parla al teatro e chi lo fa. Lo spazio scenico dal greco σχηνέ, skené. Una scena è la più piccola unità narrativa che abbia una propria autonomia all’interno di una sceneggiatura. Qui le scene sono molte,  di città per città, dove ci sia un luogo deputato all’arte e una locanda dove rifocillarsi.  Il dopo teatro segue come consuetudine sedersi intorno ad un tavolo  in compagnia  di amici, critici e semplici appassionati. Il convivio.

Rumor(s)cena è curato, diretto, scritto, da Roberto Rinaldi, ovvero un giornalista pubblicista  di professione viaggiatore di teatro in teatro, di paese in paese. Con l’orario ferroviario mandato a memoria.  Una nuova passione dopo il giornale fatto di carta stampata, le redazioni di periferia, la televisione dietro le quinte,  la radio (la mia passione), uffici stampa (poco uffici) , molta stampa. Dalle poltrone di platea ai dietro le quinte. Ora approda a Rumor(s)cena, ultima  creazione indipendente.  E nomade.

Già direttore responsabile della rivista Per Vivere, trimestrale di informazione scientifica-medica. (Trento)

Già capoufficio Stampa Festival Settimane Musicali Meranesi  (Merano)
Teatro Lenz Rifrazioni Parma e Festival teatrale “Natura dei Teatri” (Parma).
Ufficio Cultura Centro Trevi Ripartizione Cultura Provincia Autonoma di Bolzano.

Già collaboratore delle redazione Cultura e Spettacoli Quotidiani Il Mattino dell’Alto Adige (Bolzano),
L’Adige (Trento),
Corriere del Trentino e Alto Adige, (Bolzano)
La Voce di Romagna (Rimini),
Trentino (Trento)
Alto Adige (Bolzano)
RAI  3  programma ULTIMO MINUTO  (Roma)
RAI  3 sede di Bolzano, programmi radiofonici di Cultura e Spettacoli.

Caporedattore e critico teatrale www.teatro.org
titolare del blog di cultura ARTEOVUNQUE  edito da L’ESPRESSO BLOG
collaboratore e critico giornale SENTIRE e www.giornalesentire.it
Collaboratore QUI BZ, quindicinale di informazione (Bolzano)

Algeria e Québec nel teatro di Lepage
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Pubblicato su Historycast

l regista e attore canadese Robert Lepage (nato a Québec City nel 1957) è uno dei più acclamati artisti scenici contemporanei. Consensi unanimi e riconoscimenti per il suo teatro senza frontiere, caratterizzato da una narrazione prossima a quella cinematografica, sono arrivati dai maggiori teatri e festival mondiali. Il suo è un teatro multiculturale, ricco anche di riferimenti (critici) alla tematica del separatismo québecois.

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Gli esordi sono caratterizzati dalla famosa Trilogie des Dragons (1985) che ripercorre 75 anni di storia (1910-1985), vissuti da tre generazioni di immigrati cinesi nelle Chinatown di Québec city, Toronto e Vancouver. Il messaggio implicito nell’adozione non solo delle modalità tipiche del teatro orientale ma persino della lingua cinese, era quello di un’apertura verso nuove culture, oltre il nazionalismo imperante e lontano da ogni rivendicazione restauratrice. Nella Trilogie Lepage adotta una vera e propria “strategia di non traduzione” mantenendo in scena alcune parti interamente dialogate in cinese, testimoniando il particolare clima politico e sociale canadese e la trasformazione in atto all’interno della regione del Québec, con le successive ondate di immigrazione dall’Estremo Oriente e la contrastata relazione con la lingua e la cultura inglese.

Queste le tappe più significative della storia del Québec: la nascita della Nuova Francia (1534), la fondazione del Québec (1608) e quella della Confederazione canadese (1867), la Guerra tra Francia e Inghilterra (la “Conquista”: 1812-1814), la Rivoluzione Tranquilla (1960-1966), la Loi sur les langues officielles (1969-1974: l‘Assemblea legislativa del Québec adotta il progetto di legge 22 e il francese diventa lingua ufficiale della provincia del Québec, nella pubblica amministrazione,nelle professioni, nel commercio, nell’insegnamento), l’Ottobre (1970) e i referendum sull’indipendenza (1980 e 1995). Nel referendum popolare del 1980, che seguì di qualche anno la nascita del partito indipendentista, il Parti Québecois (1976), una minoranza sia pur consistente della popolazione del Québec (il 40%) si pronunciò a favore del separatismo, condizionando tutta la politica della Regione fino ad oggi, anche se di fatto, il referendum non diede vita ad alcuna svolta nazionalista o secessionista. Il secondo referendum sull’indipendentismo del 1995 portò i fautori del separatismo a un scarto di voti inferiore all’1% e a un riconoscimento da parte del governo federale del Québec come “società distinta”.

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Il Canada ha fatto del multiculturalismo –sia a livello delle province sia a livello federale- la sua politica ufficiale: ha promulgato sin dal 1971 il Multiculturalism Act mentre la legge 101 del 1977 del Québec che rendeva obbligatoria per gli immigrati la frequenza a scuole di lingua francese, favoriva una maggior assimilazione degli stranieri all’interno della comunità francofona, disperdendone però, le peculiarità, le tradizioni, la lingua. Con la legge 101 –la Charte de la langue française il francese diventa anche lingua di Stato e delle Leggi. Lo scopo era di franciser l’economia e rendere questa lingua il vettore privilegiato per l’inserimento nel mondo del lavoro. Come ricorda Antonella Crudo (Identità fluttuanti. Italiani a Montréal e politiche del pluralismo culturale in Québec e Canada, Luigi Pellegrini 2005) questa politica però, è “attraversata da tensioni e contraddizioni, tra il centro e le periferie, tra le nozioni di due popoli fondatori, i francofoni e gli anglofoni, le rivendicazioni dei popoli autoctoni, e degli altri gruppi che reclamano sempre di più un proprio spazio e un maggior riconoscimento politico del loro fondamentale apporto alla costruzione del Paese”.

Il Front de Libération du Québec (FLQ), l’organizzazione separatista che aveva come manifesto il volume di Pierre Vallières Negri bianchi d’America (scritto in carcere a New York nel 1966 col significativo sottotitoloAutobiografia precoce di un “terrorista” del Québec), nasce nel 1963 e sarà responsabile del sequestro e uccisione del ministro Pierre Laporte (1970);  la successiva Crisi di Ottobre segnò una durissima repressione contro i simpatizzanti dei gruppi separatisti culminata nell’imposizione da parte del governo federale guidato da Trudeau, della Loi de mésures de guerre. La vittoria del Parti Québecois e di Lévesque con lo slogan Maitres chez nous (Padroni a casa nostra) sembrava riproporre l’utopia di un Québec nazione-stato.

Nel teatro si hanno poche tracce di questi eventi. Dominique Lafon ricorda che, tranne poche eccezioni, i drammaturghi e i registi del Québec di questo periodo preferiscono sviluppare tematiche più psicologiche che ideologiche, e non intraprendere la strada di un teatro politico engagé: è una “congiura del silenzio che ha escluso dalla scena teatrale come da quella politica, non solo i protagonisti degli avvenimenti degli anni Settanta ma il discorso insurrezionale di cui erano i porta voce”. (D.Lafon, Des coulisses de l’histoire aux coulisses du théatre: la drammaturgie québecoise et la Crise d’Octobre, in “Theatre Research International”, n. 1, 1998).

 

Si discosta da questo quadro il cosiddetto Cycle Shakespeare dalla tradaptation (traduzione-adattamento) di Michel Garneau in québecois di Coriolano, La tempesta e Macbeth scritta agli inizia degli anni Settanta in piena ondata nazionalista. Sul piano letterario l’esperimento di Garneau, ricco di tracce, prestiti linguistici, arcaismi del francese del Québec, e presenza del joual, la parlata popolare dei canadesi francofoni, anticipa le prime iniziative del governo Lévesque, tra cui appunto, la Loi 101 che faceva del Québec una provincia interamente francofona. Molti letterati hanno voluto dare dignità e legittimità alla lingua “québecoise“: una lingua che ha le sue radici proprio nella valorizzazione della specificità del Québec, come veicolo di contestazione della propria indipendenza. Il joual è stato anche adottato da un’importante corrente letteraria come strumento di espressione privilegiato: così il drammaturgo Michel Tremblay che ha scritto opere interamente in joual: “Non c’è più bisogno di difendere il joual, si difende da solo. Il joual fino a che resterà così è straordinario; è più vivace che mai……Qualcuno che si vergogna del joual, è qualcuno che si vergogna delle sue origini, della sua razza, che ha vergogna di essere del Québec”.

Le scelte registiche di quegli anni, quindi, inseriscono Lepage all’interno del dibattito politico in corso sull’indipendentismo di cui Garneau fu portavoce. Lepage però, prende le distanze dal separatismo; in un articolo per “Time magazine” (9 agosto 1999) auspica un giusto equilibrio tra nazionalismo e patriottismo, tra il preservare la propria cultura e condividerla in un’ottica mondiale, oltre l’anglofonia e la francofonia. A Rémy Charest confida la propria idea di una necessità di allargare i propri orizzonti geografici: in Québec, dice Lepage, il protezionismo culturale e linguistico ha creato una mentalità xenofoba e razzista. A Josette Fèral racconta l’importanza e il ruolo degli artisti per far conoscere il proprio paese; in relazione al problema linguistico del Québec si scaglia contro l’immobilismo e il radicamento anacronistico alla propria terra (J. Fèral, L’attore deve avere sete di sapere. Conversazione con Robert Lepage, “Teatro e Storia”, n.17, 1995, p. 303).

Inevitabilmente, anche laddove non ne fa esplicito riferimento, il teatro di Lepage ricorda proprio la difficile posizione del Québec, in eterno conflitto culturale, linguistico e politico tra l’anglofonia e la francofonia e costantemente alla ricerca delle proprie radici storiche e di una non facile affermazione della propria identità.

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In Les aiguilles et l’opium (1989) il protagonista Robert, artista québécois a Parigi per un lavoro di doppiaggio, al proprio psicoanalista che gli domanda come mai si occupava di teatro, risponde con una lunga metafora sulla storia del Canada, letta ironicamente come “una tragedia shakesperiana in 5 atti”, concludendo con uno scetticismo di fondo sulle strade intraprese sia dalla parte più rivoluzionaria che da quella più moderata:

Non so cosa lei sappia del Canada e del Québec ma sono società molto “teatrali”. Quello che deve fare è guardare gli ultimi cinquanta anni della sua storia politica e vedrà che è scritta come un brutto dramma. No, non una commedia, direi che è più simile a una tragedia shakesperiana in 5 atti, una della più antiche, come Tito Andronico. Il primo atto è ambientato nel 1950, e accadde quello che è chiamato il “rifiuto globale”. Era il manifesto firmato da artisti e intellettuali che decisero di fare le cose a modo loro. E’ l’equivalente di quello che accadeva a Parigi nello stesso periodo con l’esistenzialismo, con Sarte, Albert Camus, Simone de Beauvoir. Nel 1960 c’era un movimento chiamato “la Rivoluzione tranquilla”. Non so perché si chiamasse così, forse perché c’era una rivoluzione in corso ma nessuno l’aveva notato. Poi nel 1970 abbiamo avuto l’Ottobre. C’era un gruppo di separatisti, terroristi che rapirono un diplomatico inglese (…) Nel 1980 ci fu un referendum sull’indipendenza con la risposta che tutti conoscono…La risposta fu No, conosci la domanda, era molto lunga e confusa sulla sovranità, l’associazione…E’ come divorziare ma vivere nella stessa casa, quel tipo di situazioni lì, io tengo i bimbi tu i mobili, non mi è permesso di parlare ai bimbi ma posso parlare ai mobili. Penso che la risposta sia confusa come la domanda. L’anno seguente era il 1990 e tutti in Canada speravano che sarebbe stato il quinto e ultimo atto e che ci sarebbero state le riforme costituzionali per comprendere meglio la parte inglese del Paese, quella, francese, in nativi. Come vede, molte cose accaddero in Québec negli anni con uno zero, ma niente in mezzo.

Molte delle regie di Lepage che prevedono una situazione conflittuale tra personaggi (anche quando sono interpretati da un solo attore) vengono rese scenicamente con l’uso contemporaneo del francese e dell’inglese. E anche laddove questo escamotage non viene restituito nella sua evidenza, sembra sempre che il riferimento sotterraneo sia alla questione québécoise mai irrisolta, talvolta suggerita con i caratteri della vecchia commedia, con gli stereotipi assegnati dalla tradizione ai due diversi gruppi linguistico-culturali dominanti del Québec.

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In La face cachée de la lune (2001) due fratelli del Québec non riescono a comunicare da molto tempo a causa della diversità di vita e di scelte, ma la morte della madre li farà avvicinare; Romeo and Juliet rappresentato a Saskatoon (1989) venne reso con le due famiglie dei Capuleti e Montecchi che si contrastavano parlando rispettivamente gli uni l’inglese e gli altri il francese.

L’ultimo in ordine di tempo è lo spettacolo Jeux de cartes (2013). Nel secondo episodio, Cuori, della quadrilogia dedicata al gioco delle carte (e relative simbologie), il conflitto da cui si generano le storie – che spaziano, grazie a una straordinaria tecnica drammaturgica, dalla contemporaneità all’Algeria coloniale alla Francia di fino Ottocento- è ambientata proprio in Québec: una giovane ricercatrice di Storia del cinema delle origini, conosce casualmente, nella multietnica Montréal, un taxista marocchino e se ne innamorerà. Lo scontro di natura religiosa e culturale tra la famiglia musulmana di lui e la tipica famiglia del Québec di lei, con il padre inglese e la madre francese, dà vita a una serie di sequenze esilaranti in cui possiamo identificare ben definiti gruppi sociali e mentalità tipiche: perbenismo, concretezza pratica, riservatezza, autocontrollo e puro aplomb inglese del padre, e frivolezza e protezionismo per la madre francese. Entrambi condividono una visione un po’ razzista della società –nonostante il pluralismo culturale sia considerato una conquista precoce della società canadese- e non accettano la nuova religione della figlia. Infatti la ragazza deciderà di sposare l’Islam e indossare il velo, lo hijab.

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Da questo quadro familiare non confortante e non edificante, ambientato in Québec, dietro cui possiamo riconoscere altri e ben più belligeranti scontri, si torna all’indietro –senza soluzione di continuità e mantenendo una struttura narrativa “parallela”- in Algeria, dove il giovane marocchino sbarca a seguito della morte del padre, per rintracciare le proprie origini familiari e trovare le memorie del nonno; qui scopre che le sue radici non sono affatto marocchine, ma algerine da alcune fotografie dalle quali constata anche che il nonno era uno dei capi partigiani della guerra per la decolonizzazione e l’indipendenza dell’Algeria, un membro del Fronte di Liberazione Nazionale. Uscito dalla clandestinità il FLN darà inizio alla rivolta, diventata poi guerra di massa dopo le rappresaglie delle truppe francesi contro la popolazione civile (battaglia di Algeri, 1957). E’ un omaggio di Lepage all’Algeria proprio nell’anno delle celebrazioni dei 50 anni di indipendenza: infatti proprio il 15 settembre del 1963 nasceva la Repubblica democratica e popolare d’Algeria con una Costituzione che apriva le porte a un regime presidenzialista e monopartitico con a capo Ben Bella. La trama, ben ricamata e ricca di annodamenti imprevisti, è punteggiata da molti personaggi tra passato e presente e si estende in un cinquantennio abbracciando America e Africa sotto il minimo comune denominatore del viaggio verso la libertà; una fabula che lascia sempre più il posto a un intreccio libero di muoversi avanti e indietro nel tempo, senza coerenza, seguendo piuttosto una logica cinematografica.

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Così si passa dal Québec di oggi, dove convivono vecchie lacerazioni e nuovi separatismi, all’Algeria di ieri, quella del colonialismo e della guerra di indipendenza. In mezzo alla grande Storia le memorie di resistenti, quei partigiani che hanno combattuto valorosamente o coloro che hanno vissuto clandestinamente o attraversato illegalmente i confini e sono arrivati sino in Québec, nascondendo la loro vera identità persino a figli e nipoti. Memorie di torture, quelle stesse raccontate nel terribile libro di Henri Alleg, direttore della rivista d’opposizione “Alger républicain”, perseguitato e imprigionato dai francesi. L’elettricità che darà vita alla modernità (rappresentata in scena dalla nascita del cinema) è la stessa usata dagli aguzzini contro i corpi dei prigionieri algerini. Incroci e destini di uomini, incroci e destini di macchine. L’Algeria colonizzata dalla Francia è oggetto poi, di un curioso excursus drammaturgico in cui alcuni artisti legati alle sperimentazioni tecniche (il fotografo Félix Nadar, il regista Georges Méliès) si intrecciano con le loro storie come in un ingranaggio di orologio, auspice la figura dell’illusionista Jean Eugène Robert- Houdin (che ispirò il grande Houdini), primo ad usare per le sue magie l’elettricità. In un possibile universo parallelo incontriamo, nello spazio del palcoscenico girevole, molti personaggi che, sotto il segno della Storia, vanno alla ricerca di una propria identità, di una memoria, in un cammino non facile verso la verità, per dare concretezza e solidità alle proprie vite.

TRA REMEDIATION, AMBIVALENZA E INTERTESTUALITÀ, ALCUNE PREMESSE TEORICHE AL TECNO-TEATRO.
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Da alcuni anni mi occupo di autori e registi teatrali contemporanei il cui lavoro viene associato alle tecnologie e alla multimedialità: da una parte Robert Lepage, William Kentridge, Heiner Goebbels, e dall’altra gruppi come Masbedo, Urban Screen, Motus, Konic thtr.Analizzandone il processo creativo e indagando le ragioni profonde dei loro allestimenti teatrali ho trovato, per i primi, alcuni richiami espliciti a motivi che appartengono più al teatro dell’origine che non a quello della videocultura digitale: dalle ombre (viventi e animate) alle macchine (dispositivi scenici o congegni prospettici). Sono questi ad adattarsi al mutato ambiente teatrale digitale e alle rinnovate esigenze della scena contemporanea e non viceversa. Lepage, Kentridge e Goebbels accettano la sfida del contemporaneo mascherando il vecchio con il nuovo, mostrando l’innovazione tecnologica come la naturale evoluzione di un sapere tecnico antico che appartiene “geneticamente” al teatro.

Se Edward Gordon Craig brevettava nel 1910 a Londra i suoi celebri screen (“le mille scene in una”)[1]contenenti un richiamo alle scene del cinquecentista Sebastiano Serlio (autore del trattato Il secondo libro di Perspettiva,1545 e dei Libri di architettura, 1560)[2], il canadese Robert Lepage ripropone (sia nei suoi “one-man-show” che negli allestimenti per la lirica e per eventi per il grande pubblico) apparati macchinici e scene girevoli di stampo rinascimentale[3].

Il compositore e regista tedesco Heiner Goebbelsper la sua scena auto funzionante, sonora e macchinica, senza attori o manovratori, si rifà piuttosto, agli automata[5].

Nel secondo gruppo di giovani artisti e gruppi tecnoteatrali, è bene evidenziata un’altra singolare “concrezione”: l’adeguamento del nuovo teatro ai principi portanti dei new media e conseguente evoluzione dalla ormai storica “scena intermediale” (in cui avveniva uno scambio alla pari dei media) a quella ambivalente (in cui prevale il “formato mediale” di singoli supporti indipendenti sull’integrazione degli stessi), in una inedita formulazione di spettacolazione totale. Concetto quest’ultimo, bene espresso proprio dal regista e compositore tedesco Heiner Goebbels che specifica quanto i suoi lavori teatrali –che contengono elementi sia musicali che multimediali- non siano affatto finalizzati ad una “opera d’arte totale wagneriana”:

 “Non miro al Gesamtkunstwerk, al contrario. In Wagner ogni cosa tende e opera verso lo stesso fine. Ciò che vedi è esattamente ciò che senti. Nei miei lavori la luce, la parola, la musica e i suoni sono tutte forme a sé. Quello che cerco di fare è una polifonia di elementi in cui ogni cosa mantiene la sua integrità, come una voce in un brano di musica polifonica. Il mio ruolo è quello di comporre queste voci in qualcosa di nuovo”[6]

 Alcuni concetti (provenienti sia dalla critica letteraria e linguistica che dai media studies) ci vengono in aiuto per inserire nella più corretta cornice estetica, da una parte, questo strano connubio tra arcaismo e contemporaneità tecnologica, e dall’altro il mimetismo o trasformismo delle nuove performance ad alto tasso di multimedialità: primi fra tutti, l’intertestualità (il testo come “mosaico di citazioni”, secondo la Kristeva) e la “remediation”.

La remediation è una modalità tecnica e linguistica che sta prendendo campo negli ultimi anni, configurandosi come un vero e proprio “nuovo stile”, approdando anche a teatro. Termine difficile da tradurre, la remediation (in italiano “ri-mediazione”) è entrato nel linguaggio comune grazie alla teorizzazione che ne hanno fatto nel 1999 Jay Davis Bolter e Richard Grusin (Remediation: Understanding New Media); in sostanza, nel momento in cui un nuovo mezzo di comunicazione appare sul mercato, questo si manifesta anche attraverso un’appropriazione o negoziazione (da parte sia dei media vecchi che di quelli nuovi), delle modalità, dei segni distintivi, dei codici artistici ed estetici dei mezzi che lo hanno preceduto, in una sorta di riorganizzazione delle forme comunicative. Per questo motivo un medium non scompare mai del tutto.

La remediation altro non è altro, quindi, che la competizione tra vecchi e nuovi media, ma anche il “rimodellamento” di tutti i media (o di alcune caratteristiche di essi) solo apparentemente tra loro inconciliabili o incompatibili: come ricordano gli stessi autori: “Un medium si appropria di tecniche forme e significati sociali di altri media e cerca di competere con loro o rimodellarli[7]”.

Jay Davis Bolter e Richard Grusin affermano che i nuovi media, ben lontani dall’essere entità indipendenti dai processi sociali ovvero, “agenti esterni che intervengono a scompaginare una cultura che sembra ignara di loro”, emergono dagli stessi contesti sociali, economici, culturali operando sui vecchi media un processo da loro definito appunto, di remediation che porta cioè, un “rimedio” all’incapacità dei vecchi media di rispondere alle mutate esigenze della società dell’informazione. Secondo Bolter e Grusin, i media digitali hanno messo in crisi i vecchi media costringendoli a “reinventare” se stessi, in sostanza ad attualizzarsi, a rimodellarsi e a scendere a compromessi con le richieste di un mercato sempre più attratto dalle tecnologie avanzate. Queste “rimediazioni” continuerebbero a succedersi dal Rinascimento ad oggi: nei tempi moderni la fotografia ha operato una rimediazione sulla pittura, la televisione ha fatto altrettanto con il cinema e con il teatro. Bolter e Grusin non parlano espressamente di teatro, anche se identificano e isolano tra i principi propri dei nuovi media proprio l’immediatezza e l’ipermedialità, elementi evidentemente non estranei alla grammatica del teatro (teatro come compresenza fisica di emittente e destinatario, secondo la definizione data dalla semiotica teatrale; teatro come “insieme di rapporti interagenti”, primo assioma del teatro ambientale di Richard Schechner[8]).

Remediation è quindi la possibilità di una reviviscenza per vecchie tecniche che hanno la possibilità di riemergere dal dimenticatoio o dall’obsoleto, restando così, al passo con la contemporaneità multimediale e contribuendo alla formulazione di una nuova estetica rétro-digitale. La più logica interpretazione della rimediazione, seguendo le intuizioni di Bolter e Grusin e confrontandole con le riflessioni estetiche di Rosalind Krauss[9], sarebbe la reinvenzione di un dato linguaggio all’interno di una grammatica e di una tecnica assai distante ma resa meno estranea grazie alle caratteristiche proprie del digitale, che ricongiunge gli opposti e determina le mescolanze più impensabili.

La contemporaneità artistica è fatta di innesti paradossali e di produzioni miste, di complessi progetti che vagano indifferentemente nel web, nelle gallerie d’arte e nei teatri provenendo dai mondi più distanti. In questa generalizzata computerizzazione della cultura (seguendo Lev Manovich[10]), la rimediazione produrrebbe una fenomenologia artistica aperta, mimetica e mutante.

Si privilegia infatti, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno-artistico affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo e derivante indistintamente dal videoclip, dalle installazioni, dai concerti, dal vjing, dalla graphic art, fino al cinema di animazione e persino alla videogame art. Non mescolanza, maintertestualità: è l’intertestualità la logica prevalente delle nuove produzioni mediali, ricorda Giovanni Boccia Artieri: 

Ci troviamo cioè entro una logica di produzione di testi che echeggiano testi precedenti, incedono sul gioco delle citazioni, evocano e suggeriscono, sono autoreferenti, e allo stesso tempo si aprono al remake, producendo uno stato di particolare eccitazione per la forma[11].

L’ambivalenza indica un oggetto che ha una doppia proprietà o funzione, che si presenta sotto due aspetti diversi (non necessariamente in opposizione): in queste nuove produzioni tecnologiche il teatro non nasce dal teatro e soprattutto non si esaurisce nell’atto teatrale, ma acquista una vitalità infinita grazie al digitale potendo espandersi in forma di film, installazione, opera d’arte autonoma. Da una parte ritroviamo una storica poetica di intreccio di linguaggi, dall’altra una proposta estetica più vicina alla tematica del digitale che considera i singoli elementi di un progetto artistico come oggetti (o testi) multimediali[12] come interscambiabili, aperti alle più diverse incarnazioni e tali da poter sperimentare tutti i possibili incastri mediali, in un nomadismo tecnologico senza precedenti. Ogni format può essere, così, considerato alternativamente realizzazione artistica autonoma o tappa di un ulteriore processo di elaborazione – virtualmente infinito e rigorosamente aperto.

 Il principio di variabilità permette di avere a disposizione numerose opzioni per modificare la performance di un programma o di un oggetto mediale: un videogioco, un sito, un browser o lo stesso sistema operativo. […] Se noi applicassimo questo principio alla cultura tout court significherebbe che tutte le opzioni utilizzabili per dare a un oggetto culturale una sua identità specifica potrebbero in teoria, restare sempre aperte.[13]

 Ne risulta una indeterminatezza di genere che è la caratteristica dei nuovi formati digitali, apparentemente privi di un modello strutturale classificatorio. Si tratta, come osserva acutamente Laura Gemini di

 performance liminoidi e intermedie che mettono in luce la propria ambivalenza rendendosi difficilmente classificabili. È un’arte della performance che ha fatto propria la consapevolezza postmoderna, che ha riconosciuto l’esistenza di una rete complessa di flussi comunicativi e l’idea della conoscenza come partecipazione creativa dell’oggetto conosciuto. […] Parlare della performance artistica oggi significa non pensare né allo spettacolo come testo distinto (teatrale, televisivo, cinematografico o sportivo che sia) né allo spettacolare come categoria puramente estetica. Si deve piuttosto porre come condizione prioritaria la fluidità del mélange e rinvenire in quelle pratiche spettacolari che non si prestano ad essere classificate secondo rigide convenzioni formali. La stessa messa in scena va intesa come organizzazione di testi (cinema, teatro, televisione) che tendono alla progressiva indistinzione, a una dinamica di flusso che rende miglior merito alle forme comunicative contemporanee[14].

 Se Kentridge e Lepage sono emblematici di una tendenza alla rimediazione dei vecchi media che sta sempre più facendo scuola (dal mercato tornato in auge dell’analogico, al collezionismo delle tecnologie che “non ce l’hanno fatta”, ad artisti che mescolano deliberatamente vecchie tecniche, macchine e televisori a tubo catodico dentro installazioni interattive), dobbiamo riconoscere che numerosi sono i ricorsi, anche all’interno di ambiti di spettacolo commerciale (per esempi i concerti rock o i grandi eventi negli spazi pubblici), a dispositivi e invenzioni ottiche di fine Ottocento.

L’estetica del meraviglioso ovvero quella che Andrew Darley definisce l’estetica della superficie, è alla base delle forme spettacolari legate al videomapping[15]: la proiezione su enormi superfici architettoniche reclama uno sguardo panoramico e avvolgente nei lavori di Urban screen, Nuform, Apparati effimeri:

Urban screens

E’ così che l’intreccio tra la forma della spettacolarizzazione e realtà tecnologica del medium riprende le forme del meraviglioso presenti nelle modalità ottocentesche di intrattenimento di massa consentendone anche una ridefinizione dello spazio urbano: effetti speciali visivi ed immersivi dove talvolta la forma conta più del contenuto, dove sono i giochi di superficie ad essere rilevanti[16].

 Estetica che ha un gran debito nei confronti di panorama e diorama e delle diverse fantasmagorie della cultura popolare ottocentesca[17] ma anche nei confronti degli studi sugli scorci prospettici in pittura, sul quadraturismo, sull’effetto pittorico illusorio di sfondamento volumetrico. Si può dire allora che il video mapping e l’architectural mapping sono la prosecuzione ideale, in epoca di realtà aumentata e di dispositivi immersivi, delle macchine ottiche e degli esperimenti anamorfici[18] del Seicento.

Come ci ricorda Thomas Maldonado, la civiltà occidentale è diventata una produttrice e consumatrice ditrompe-l’œil, il quale si è svincolato dal virtuosismo fine a se stesso per avvalersi di tecnologie che tendono ad un iperrealismo:

 “La nostra è stata definita una civiltà delle immagini. (…) Questa definizione sarebbe più vera, se aggiungessimo che la nostra è una civiltà in cui un particolare tipo di immagini, le immagini trompe-l’œil, raggiungono, grazie al contributo di nuove tecnologie di produzione e di diffusione iconica, una prodigiosa resa veristica. Ciò appare chiaro con l’invenzione della fotografia e poi, in modo più evidente, con quella della cinematografia e della televisione. La conferma più incisiva viene, oggi, dall’avvento della grafica computerizzata, soprattutto se si pensa ai suoi ultimi sviluppi finalizzati alla produzione di realtà virtuali.”[19].

Per approfondimenti vedi: A.M. Monteverdi, Nuovi media, nuovo teatro, Milano, FrancoAngeli 2011



[1] Il brevetto degli screen, pannelli semoventi monocromi simbolo del suo teatro antirealista (Patent n.1771) viene depositato da Gordon Craig (che si firma  Stage-manager), il 24 gennaio del 1910. Nel documento Craig ne specifica caratteristiche tecniche, il funzionamento e i benefici per il nuovo teatro:

The object of my invention is to provide a device which shall present the aesthetic advantages of the plain curtain but shall further be capable of a multitude of effects which although not intend to produce an illusion shall nevertheless assist the imagination of the spectator by suggestion. My invention consists in the use of a series of double jointed folding screens standing on the stage and painted n monochrome –preferable white or pale yellow. The screens may be used as background and in addition to this use, may be so arranged as to project into the foreground at various angles of perspective so as to suggest various physical conditions such as, for example, the corner of a street – or the interior of a building”. Documento proveniente dalla Collezione Arnold Rood e pubblicato in occasione della mostra Exploding Tradition: Gordon Craig 1872-1966 (Victoria & Albert Museum, Londra, 1998)

[2] M.I.Aliverti, History and histories in Edward Gordon Craig’s written and graphic work.in Wagner E., Dieter-Ernst W. (a cura di) Performing the Matrix: Mediating Cultural Performance, Epodium, Monaco, 2008. La Aliverti partendo dalla Collezione di libri storici di teatro di Craig ora conservata alla Bibliothèque Nationale di Parigi (Départment des Arts du Spectacle) prende in esame l’influenza proveniente dallo studio dei Libri di Architettura del Serlio nel periodo tra il 1906 e il 1909, anni in cui Craig realizza la regia del Rosmerholm di Ibsen con Eleonora Duse e Hamlet (Mosca, 1908).

Franco Mancini afferma che lo stimolo per la sua idea di palcoscenico mobile era, effettivamente, venuta proprio dalla lettura del trattato del Serlio “che illustrava, tra l’altro, uno schema di teatro dalla superficie scenica sezionata a scacchiera. Costituito da volumi geometrici a forma di parallelepipedo ripetuti anche nella zona della soffitta e lambiti lateralmente da paraventi con il compito di modificare lo spazio scenico in rapporto alla necessità dell’azione, il palcoscenico di Craig, pur presentando pressappoco le stesse caratteristiche descritte da Serlio. Se ne distaccava per la mobilità, in quanto ogni quadrato poteva sollevarsi a piacere. F. Mancini L’evoluzione dello spazio scenico dal Naturalismo al teatro epico, Bari, Dedalo, 1986, p.57.

[3] La scena teatrale tra il Quattrocento e gli inizi del Seicento, in cui la prospettiva con scorcio aveva definitivamente sostituito le mansions paratattiche delle sacre rappresentazioni, viene a trasformarsi progressivamente proprio grazie all’introduzione di macchine e argani, congegni che permettevano trasformazioni rapide, cambi automatici oltre che voli, apparizioni di cieli e soli, demoni e angeli annuncianti o discendenti progettati da Brunelleschi, Vasari, Sangallo, Buontalenti in occasione delle feste di nozze farnese o medicea, per naumachie e contrasti. E’ negli “intermezzi” che lo spazio della scena è tutto per la macchina. Anche Leonardo si era cimentato come “apparatore” in occasione dell’Orfeo di Poliziano, come è testimoniato dagli studi e dai progetti datati 1506-1508 presenti nel codice Arundel conservato al British Museum di Londra. Vedi C. Molinari,Brunelleschi, Leonardo e la tradizione scenotecnica, in “Quaderni di teatro”, anno III, n. 10, 1980, p.6. Ed inoltre: C. Molinari, La scena vuota in E.G.Zorzi (a cura di) Teatro e spettacolo nella Firenze dei Medici. Modelli dei luoghi teatrali, Firenze, Leo S. Olschki, 2001

[4] Il teatro d’ombre muto era utilizzato ampiamente per i Sacri Misteri. Sul tema vedi M. Rak, L’arte dei fuochi, comunicazione al convegno Bernini e l’universo meccanico, in “Quaderni di teatro” anno IV, n. 13, pp.46-59.

[5] Automata è il titolo del volume di Erone di Alessandria, matematico che visse nel II sec. a.C. e tratta la meccanica dei corpi solidi. Erone descrive, tra gli altri, anche il famoso “teatro meccanico” con statue con sembianze umane che si muovevano , uccelli che cantavano, porte che si aprivano o chiudevano mossi dall’azione dell’acqua o del vapore.

[6] Intervista a H.Goebbels a cura di I.Hewett, “The Telegraph” (GB),  22 giugno 2012.

[7] J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation: competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini, 2003.

[8] R.Schechner, La cavità teatrale, De Donato, Bari, 1968, pp. 23-72.

[9] R.Krauss, Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte di oggi, Bruno Mondadori, Milano, 2006.

[10]Lev Manovich in Il linguaggio dei nuovi media (Milano, Olivars, 2001) parla del principio ditranscodifica culturale che caratterizzerebbe la società permeata dai nuovi media. In sostanza, la computerizzazione trasforma tutti i media in dati informatici e questo ha un riflesso immediato sul piano delle azioni e dei comportamenti umani, sui processi cognitivi, sulla cultura:  “Le modalità con cui il computer modella il mondo, rappresenta i dati e ci consente di operare su di essi, le operazioni tipiche di tutti i programmi (ricerca, comparazione, ordinamento sequenziale e filtrazione), le convenzioni di funzionamento delle interfacce – in sintesi, ciò che si potrebbe chiamare ontologia, epistemologia e pragmatica del computer – influenzano il livello culturale, l’organizzazione, i generi e i contenuti dei nuovi media.”( p. 69).

[11] G.Boccia Artieri, La sostanza materiale dei media: video culture digitali tra virtuale e performance, Pref. a A. Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006, p.12.

[12] Un oggetto mediale è, secondo Manovich “qualcosa che può essere declinato in versioni molto diverse tra loro ”, L. Manovich, cit, p. 57.

[13] Ibidem.

[14]L.Gemini, L’incertezza creativa. I percorsi sociali e comunicativi delle performance artistiche, FrancoAngeli, Milano, 2003, pp. 69-70.

[15] Si tratta di una tecnica video che fa interagire la realtà e la sua ricostruzione digitale e ne modifica la percezione visiva sovrapponendosi ad essa sino a stravolgerla. Sono esperimenti diaugmented reality applicati a spettacoli e eventi negli spazi all’aperto o in teatri, con proiezioni su enormi superfici (edifici o fondali teatrali).

[16] G.Boccia Artieri, La sostanza materiale dei media: video culture digitali tra virtuale e performance, Pref. a A. Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006, p.12.

[17] A. Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006, pp.71-74

[18] L’anamorfosi è una rappresentazione in prospettiva realizzata su un piano o su una superficie curva, la cui visione è possibile solo da un punto di vista non perpendicolare al piano su cui si trova l’oggetto, pena la visione deformata di quest’ultimo. Come ci ricorda Jurgis Baltrušaitis: “L’anamorfosi – parola che compare nel Seicento, benché si riferisca a combinazioni già note a tempo – ne [della prospettiva, N.d.A.] inverte elementi e princìpi: essa proietta le forme fuori di se stesse invece di ridurle ai loro limiti visibili, e le disgrega perché si ricompongano in un secondo tempo, quando siano viste da un punto determinato. Il procedimento si afferma come curiosità tecnica, ma contiene una poetica dell’astrazione, un meccanismo potente di illusione ottica e una filosofia della realtà artificiosa.” J. Baltrušatis, Anamorfosi o magia artificiale degli effetti meravigliosi, Milano, Adelphi, 1969, p. 13.

[19] T. Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 48.d

Michele Sambin: dalle videoperformance musicali al Tam Teatromusica
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Pubblicato sul Catalogo Invideo 2003 e su A.M.Monteverdi, A.Balzola  Le arti multimediali digitali,Garzanti 2004 e on line su Interactive-performance.it

 “Tutto ha inizio dal binomio immagine-suono. E un artista singolo che lavora su questi due elementi. Gli strumenti che usavo negli anni Settanta erano la pellicola, prima Super Otto poi 16 mm, perché lì immagine e suono erano inscindibili e interdipendenti, poi il video. Partire per questa utopica ricerca di costituzione di un linguaggio unico che comprendesse segni visivi e segni sonori”.

Così Michele Sambin racconta oggi del suo esordio artistico sotto il segno della pittura, del cinema, del videotape d’arte e di una performatività video e musicale, solitaria. Dopo un periodo di sperimentazione filmica testimoniato da Laguna, Blud’acqua, Tob&Lia(1968-1976), che lo colloca nel novero dei registi del cinema d’artista insieme ad autori come Andrea Granchi, Sylvano Bussotti, Gianfranco Baruchello, Ugo La Pietra, Sambin si dedica al “videotape creativo” (1974).

Guardando alle storiche soluzioni di “composizione globale” e ai pittori-cineasti della prima e seconda avanguardia (Léger, Richter, Fischinger, Ray, Moholy-Nagy), ai registi indipendenti e sperimentali(Warhol, Brakhage, Snow), ai concerti Fluxus, alle esperienze americane del Black Mountain College di Cage e c., ai dispositivi video di ambito concettuale (Graham, Campus, Nauman), alle opere-evento della performance art, Sambin mette in scena la tematica principale delle sue opere: il tempo:

Quando uno cerca di mettere insieme la pittura con la musica subito scatta la dimensione temporale e su questo tema troviamo le prime esperienze del cinema sperimentale: Brakhage, Michel Snow e ancora prima il canadese Mac Laren, che disegnava il suono sulla pellicola. E’ un concetto importante per me, questo del tempo, offrire una visione che si sviluppi nel tempo. Io partivo come artista visivo, e il primo conflitto è quello che si crea tra visione – la pittura – che ha un tempo non determinato e la musica che vive solo nel tempo”.

E’ all’interno dell’Università Internazionale dell’Arte di Venezia dove era stato chiamato a tenere dei laboratori di cinema e forme plastiche (1972-1975) che per Sambin avviene il passaggio dalla pellicola al videonastro, al nastro magnetico: “Fu un momento di alta formazione, c’erano architetti come Buckminster Fuller (1) che davano un taglio trasversale alle categorie artistiche”. E’ incaricato di acquistare un’attrezzatura video e di condurre le prime sperimentazioni con il nuovo mezzo:

Era un Akai, l’antesignana del primo Sony Portapack, e aveva ancora un nastro ¼’’. Ed è stato per me un’esplosione di creatività. Con il 16 mm tre minuti di girato erano molto costosi e lunghissimi i tempi di attesa tra il fare e il vedere. Cominciava ad essere interessante anche il problema del rapporto tra video e teatro perché nelle ultime situazioni cinematografiche non presentavo più solo pellicole per la proiezione ma sonorizzavo il film dal vivo; diventava fondamentale la relazione vivente, lavoravo con l’immagine in tempo reale. L’immagine diventava uno stimolo per creare suoni”.

 Le prime esperienze di videorecording e di videoinstallazioni vanno in direzione di un naturale sviluppo performativo, tendendo sempre più ad esplodere oltre la cornice-schermo-galleria e a diventare puro evento, accadimento in tempo reale, e per il pubblico, “condizione di esperienza” (Duguet), un insediarsi direttamente all’interno del flusso “presente-continuo” delle immagini. In Ripercorrersi(1978, Prod. Centro video Palazzo dei Diamanti, Ferrara) protagonista è il pubblico che percorre uno stretto spazio che conduce a un luogo dove sono visibili su monitor, attraverso il sistema di video a loop e un gioco di ritardi di visione, rimandi ciclici del suo corpo.

 

Dice Sambin:

“Le videoinstallazioni sono un elemento fondamentale del mio passaggio al teatro: il pubblico assiste a un processo che non è solo elettronico ma anche fisico”.

Sulla performatività implicita delle installazioni video Anne Marie Duguet osservava:

«L’installazione è realizzata per essere esplorata dal visitatore che, facendo ciò, non solo ne costruisce progressivamente la percezione, ma anche mette in gioco quella degli altri visitatori. L’esistenza stessa di certe opere (….) esige un’attività particolare da parte del visitatore per potersi manifestare pienamente. Questi esegue dunque una performance che diviene spettacolo per gli altri. Bisogna insistere sulla temporalità specifica di queste opere che sono innanzitutto dei processi, che esistono solamente nella durata della loro esperienza, nel qui e ora della loro attualizzazione. Esse appartengono ad un’arte della presentazione e non di rappresentazione.» (2)

Spartito per Violoncello è una performance musicale del 1974 in cui il videotape viene utilizzato come parte integrante della composizione. Anelli e chiodi gettati sul tavolo e il movimento stesso della telecamera che riprende gli oggetti sono tradotti in linguaggio sonoro; dietro l’evento, Cage e la musica indeterminata. La video-calligrafia come spartito verrà usata in molte performance musicali tra cui Looking for listening (1977, Prod. Asac-La Biennale di Venezia). L’evento è, evidentemente, irripetibile e non prevedibile:

“In Spartito per violoncello usavo la telecamera come strumento musicale dei tempi di visione: la scuotevo, la muovevo e questo determinava un input che l’esecutore – che ero io stesso – decodificava in termini musicali. C’era un po’ di Léger, un po’ Anemic cinema. Partivo dall’idea di usare il monitor come spartito.”

Esiste anche una videoregistrazione che documenta la performance; come per molte altre videocreazioni di Sambin, più che supporto per la memoria si tratta di un’ulteriore estensione-prolungamento temporale dell’opera stessa; l’operatore crea movimenti inattesi, zoomate che esplorano dentro il monitor: in questa condivisione paritetica della dimensione della “pura durata” di corpo e macchina, e in questo proliferare di processi attivati dalla musica e dal videotape, il performer diventa contestualmente al concerto, materiale per la ripresa. Il video è il primo risultato dell’incontro con Paolo Cardazzo della Galleria del Cavallino di Venezia, con il quale Sambin stabilirà una relazione duratura di stima reciproca. La Galleria nata nel 1972 inizia infatti, a documentare le performance ospitate nello spazio espositivo, anche sulla scia dell’imponente lavoro di registrazione di Luciano Giaccari a Varese, che nello stesso periodo teorizzava le diverse tipologie videodocumentative. (3)

Sambin sarà il primo artista a sperimentare a partire dal 1976, declinando in seguito l’operazione in moltissime varianti, il videoloop, il video a bobina aperta (open reel). E’ un procedimento circolare generato dalla semplice unione delle estremità dei due nastri di registrazione e di lettura in cui l’immagine e il suono vengono ripetuti a ciclo. (4) L’artista registra ad intervalli, suoni e gesti; il nastro scorre, va alla bobina di lettura che rimanda l’immagine con un breve scarto al monitor; l’artista diventa, l’interlocutore del suo “se stesso elettronico” con cui affronta un dialogo infinito. Prendendo a prestito termini cari al Marshall Mac Luhan de The Gutemberg Galaxy (1962) e Understanding Media (1964), il video diventa “protesi”, prolungamento di una sua funzione:

Era una dimensione concettuale, più che di attenzione all’immagine perché il senso di questa operazione era quello di usare il video come possibilità di estensione espressiva di un corpo. Parlavo con me stesso, suonavo con me stesso, mi intervistavo, facevo cose che senza questi supporti non potevo fare. Il video come amplificazione, come protesi, è da intendere come strumento che non ferma un processo, ma che lo amplifica, lo moltiplica”. (5)

Nelle performance e nelle video installazioni realizzate con il videoloop – tra cui Duo, per un esecutore solo (1979); Anche le mani invecchiano(1980), Sax soprano (1980) – l’artista continua all’infinito a suonare, parlare e a (cor)rispondersi, vocalmente, musicalmente e visualmente. L’artista dà un’efficace spiegazione (e dimostrazione pratica) in Vtr and I (1978) in cui viene isolato e investigato questo specifico funzionamento autoriflettente del Video Tape Recorder. Si tratta di una vera esposizione autoanalitica del proprio lavoro d’artista, un’”operazione video-linguistica” perché il dispositivo video “è tematizzato e preso come oggetto di indagine”. (6)

L’azione performativa è della macchina, prima ancora che del corpo: il gesto mimico-facciale e sonoro ripetuto ad intervalli davanti a una telecamera, attraverso un videorecording e un feedback causato dal posizionamento della telecamera davanti al televisore, innesca un meccanismo a catena. Il corpo incontra se stesso nello spazio del monitor e si mescola alle forme astratte autogeneratesi dal video, dando vita a un effetto di sovrimpressione delle immagini con il loop e ad una loro rinascita (e metamorfosi) ciclica. La riproducibilità è (ossimoricamente) generativa. Dall’unicità della perfomance alla performatività dei media di riproduzione.
Usando il tempo non nella sua sequenzialità-consequenzialità ma con continui détournement e sfasamenti, manipolandolo, ritoccandolo, invertendolo come fosse una materia concreta e quasi plasmabile, scindendo il suono dall’immagine corrispondente (come in Echoes, 1976, Autoritratto per 4 telecamere e 4 voci, 1977 e come nel progetto di video installazione per violoncello sospeso in moto perpetuo e apparecchiature audio e video From right to left, 1981) Sambin produce un decisivo e significativo spiazzamento percettivo rispetto all’esperienza dello spazio-tempo quotidiano. Questa dimensione articolata del tempo, soggettivizzata e personalizzata, sembra suggerire proprio il valore del tempo come conquista attiva e individuale:

“Di solito la familiarità con un mondo ‘perfettamente doppiato’ in cui ogni aspetto visivo è necessariamente collegato ad un aspetto sonoro (anche il silenzio è suono) non ci fa notare questa spontanea connessione, le cose così come stanno ci sembrano naturali. Spezzare questo legame significa ottenere dei modi di percepire meno consueti, in cui ad ogni fatto non corrisponde necessariamente ciò che di solito gli viene associato”. (7)

Il videoloop viene usato in seguito, per Il tempo consuma (1979), l’opera più tautologica e concettuale di Sambin. Un “metronomo umano” (il corpo dell’artista oscillante a intervalli regolari) è ripreso da un video e trasmesso ad un monitor. Il performer scandisce la frase: “Il tempo consuma le immagini, il tempo consuma i suoni” che genera, nel processo ciclico di registrazione-cancellazione-registrazione, una grande quantità di immagini di sé ed un effettivo deterioramento fisico del nastro e di conseguenza, del suono e dell’immagine incisi. Nata come opera video è diventata videoperformance e successivamente installazione per tre videoregistratori sincronizzati, commissionata per la manifestazione milanese Camere incantate curata da Vittorio Fagone (1980). ll passaggio dal video al teatro avviene con il Tam Teatromusica, fondato da Sambin a Padova all’inizio degli anni Ottanta insieme con Pierangela Allegro e Laurent Dupont, e in un primo momento i lavori teatrali vengono ancora presentati nelle Gallerie d’arte frequentate da Sambin come videoartista e come performer:

“Il mio passare al teatro è dovuto – grazie o purtroppo – alla Transavanguardia di Achille Bonito Oliva. In quegli anni c’era una grande esplosione di performatività, anni che ho vissuto come una gioia degli intrecci delle arti, di incontri con Laurie Anderson, Marina Abramovic, personaggi che hanno tracciato una linea di non pittura, di non scultura, lontani dal mercato. La Transavanguardia spezza queste utopie degli anni Settanta perché mettevano in crisi il sistema dell’arte (i video non si potevano vendere). Bonito Oliva riporta l’arte alla disciplina: pittura e scultura. E soprattutto la restituisce al mercato».

L’orientamento estetico ispirato al rapporto immagine-suono per le videoinstallazioni e le performance e l’esperienza di musicista elettronico di Sambin si riveleranno fondamentali nella definizione della nuova composizione scenica degli anni Ottanta che, non rinunciando alla musicalità e alle tecnologie audiovisive, privilegia ideologicamente come già nelle performance degli anni Settanta, “il tempo reale e la condivisione di procedimento, l’arte dal vivo e il rapporto diretto con lo spettatore”.

Il primo spettacolo si intitola Armoniche (1980); all’immagine e al suono si unisce il gesto, in un rapporto reciproco “fluido”, “armonico”. Anche Opmet (1982) prevede l’uso di video in scena che trasformano le azioni dei performer “dentro e fuori dal Cronos o tempo universale” mentre in Lupus et agnus (1988) è lo spettatore a scegliere se assistere allo spettacolo attraverso i monitor oppure attraverso un percorso frammentato tra le azioni degli artisti nei diversi spazi. Il progetto di teatro-carcere apre una delle più fortunate stagioni del Tam Teatromusica che si conquista sul campo una propria riconoscibilità e autoralità. MeditAzioni è il progetto biennale che ha permesso di realizzare laboratori coi detenuti, spettacoli teatrali, un libro-diario della Allegro e l’opera video Tutto quello che rimane insieme con Giacomo Verde. Se il video prima era estensione del corpo dell’artista, qui diventa abbattimento virtuale di una separazione:

In carcere il video diventa fondamentale. Lo avevo abbandonato perché pensavo ‘Parla solo con se stesso, non mi interessa più’. Quando i detenuti non potevano uscire perché il magistrato non gli aveva dato il permesso, lo spettacolo era stato già programmato e la gente li aspettava fuori, ho preso una telecamera e ho chiesto loro: ‘Dite alla telecamera quello che direste se ci fosse il pubblico’”.

Il video diventa quindi strumento di vitale importanza per il teatro che, nell’impossibilità di una “diretta” qui e ora, è costretto a darsi ai propri interlocutori esterni, in “differita” e a distanza. E’ alla qualità di riproducibilità del video che è affidato il compito di trasmettere quel messaggio teatrale oltre il teatro secondo il Tam: “Attraverso l’arte,” scrive Pierangela Allegro, “la nostra religione, si può arrivare al cuore degli uomini e attraverso la condivisione (che non vuol dire tolleranza) si possono creare crepe insanabili nel muro dell’indifferenza”.

NOTE

1 Buckminster Fuller: scienziato, architetto, disegnatore, inventore della cupola geodesica. Le sue teorie tendono a modificare la tecnologia per migliorare le condizioni sociali. Molto seguito dai giovani nordamericani e dai pionieri della televisione alternativa”, da R. Faenza, Senza chiedere il permesso. Come rivoluzionare l’informazione, Milano, Feltrinelli, 1973. Rimando al libro di Faenza anche per le caratteristiche tecniche relative ai primi VTR.
2. Anne-Marie Duguet, Installazioni video e interattive. Definizioni e condizioni di esistenza, in Visibilità zero, a cura di V. Valentini, Graffiti, 1997, p.14. Sui dispositivi installattivi video vedi S.Cargioli, Sensi che vedono. Introduzione all’arte della videoinstallazione, Pisa, Nistri-Lischi, 2002.
3. Sulla Galleria del Cavallino vedi B. Di Marino, Elettroshock, 30 anni di video in Italia, a cura di B. Di Marino e L. Nicoli, Roma, Castelvecchi, 2001. Nel 1972 Giaccari scriveva la Classificazione dei metodi di impiego del videotape in arte,introducendo per la prima volta la distinzione tra “ video diretto” (caldo, creativo) e “video mediato” (freddo, documentativo). Sulla classificazione: L. Giaccari, Dalle origini della videodocumentazione al museo elettronico inElettroshock, cit., pp. 37-40.
4. Con il videoloop Sambin non intende tanto la mise en abîme del feedback visivo quanto la bande sans fin. Il nastro di registrazione video immagazzina immagini che passano al nastro di lettura con un intervallo di tempo pari alla lunghezza dello scorrimento elicoidale tra le due bobine. Il procedimento artistico rientrerebbe sia in quella categoria definita da Mario Costa dei “videoriporti”, in cui l’artista “opera per o con il video” che in quella della “videoperformance”, in cui il dispositivo video “entra a far parte, come uno specifico insostituibile, di un’azione-operazione”. (M.Costa, L’estetica dei media. Avanguardia e tecnologia, Milano, Castelvecchi, 1999, p.254-255).
5.Sambin fa riferimento sia a Io mi chiamo Michele e tu?, che alla Autointervistainserite nella video installazione Il tempo consuma per Camere incantate (Milano, 1980).
6.M.Costa, L’estetica dei media, cit.,p.255.
7.M. Sambin, Testo inedito datato 17-9-1977.Sul significato politico e sociale del tempo nel video ha riflettuto il filosofo Lazzarato, passando attraverso Marx, Bergson e Paik: «Le tecnologie del tempo ci liberano dalla percezione naturale, dalle sue illusioni e dal suo antropocentrismo e ci fanno entrare in un’altra temporalità. Esse aboliscono la subordinazione del tempo al movimento e, di conseguenza, ci permettono un’esperienza diretta del tempo(…). L’istante è in questo caso, un divenire che, invece di essere incastrato tra passato e futuro, diventa germinativo, produttore di altre coordinate ontologiche» (M. Lazzarato,Videofilosofia. La percezione del tempo nel postfordismo, Manifesto libri Roma).

Interactive-performance di Enzo Gentile
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Sito e attività di Enzo Gentile, ingegnere elettronico e interactive designer, esperto di videomapping. Con Enzo abbiamo realizzato seminari, workshop per Accademie di Belle Arti e presentazioni e condividiamo il progetto europeo IAM (di cui lui è ideatore) su tecnologie aumentate per l’arte e il teatro.

http://www.interactive-performance.it/

Biografia in sintesi.

Sono nato a Imperia (1957) e mi sono laureato in Ingegneria Elettronica (Università di Genova). Ho acquisito un’importante esperienza in alcuni gruppi multinazionali dove ho ricoperto ruoli strategici in vari settori aziendali.

Dopo aver fondato un’associazione di professionisti operante in campo grafico e nel web design, negli ultimi anni ho seguito con interesse gli sviluppi delle nuove tecnologie utilizzate in campo artistico collaborando con varie Accademie, Associazioni, Teatri e Performer.Ho quindi affiancato alla mia attività di graphic e web designer quella di visual & 3D interaction designer:

–  Jebeil International Festival IAM European Project meetingVideo mapping and Interation design demos – Lebanon (Luglio 2013)-  Seminario su “Le nuove tecnologie applicate alle espressioni artistiche”- XXXFuoriFestival di Pesaro  (Giugno 2013)–  Workshop  “Architectural Mapping & Interaction Design” – Bibliotheca Alexandrina – Egypt (Giugno 2013)-  Seminario su “Le nuove tecnologie applicate alle espressioni artistiche e musicali”– Accademia di Belle Arti Cignaroli di Verona. (Maggio 2013)- Workshop ” Interaction & Media Design”  25 ore  – Accademia Albertina di Belle Arti di Torino (Maggio 2013)–

Docenza a contratto annuale di Graphic Design (Web Design) presso l’Accademia di Belle Arti Cignaroli di Verona (marzo 2013)- Workshop “Video mapping pratico per performer, visual artist e scenografi, Arte Generativa e Motion Tracking col kinect”  presso Teatro Giallo Mare – Empoli (FI) (Febbraio 2013)– Seminario su “Le nuove tecnologie applicate alle espressioni artistiche e musicali” – BoomArtFestival di Torre del Lago (LU). (Settembre 2012)– Accademia Albertina di Belle Arti : Festival Between 2012. Attività di supporto all’utilizzo delle nuove tecnologie per l’Arte. Torino (Giugno 2012)– Tavola Rotonda “Architettura degli spazi pubblici nelle Smart Cities” organizzato dal Politecnico di Torino nell’ambito del “Festival dell’Architettura” organizzato dall’Ordine degli Architetti di Torino. (maggio 2012)– Accademia di Belle Arti di Brera (Scuola di Nuove Tecnologie per l’Arte). Workshop “Videomapping: Interaction e & Media design per l’espressione artistica” – Milano (Maggio 2012)– Interventi formativi al DAMS (Università di Genova) nel corso “Nuove forme dello Spettacolo Multimediale” della prof.ssa Anna Monteverdi. (aprile 2012)– Ideatore e coautore del Progetto Europeo strategico ENPI CBC Med “Valorizzazione beni architettonici e archeologici tramite le nuove tecnologie” (approvato a Luglio 2012) e di altri progetti EU (Assi Cultura, Arteterapia e Nuove Tecnologie)– Teatro Valle Occupato  – Seminario: “L’architectural projection mapping in Teatro – Motion Tracking col Kinect” -Roma (aprile 2012)– Accademia di Belle Arti di Brera (Scuola di nuove tecnologie per l’arte): Seminario sul Video Mapping. Milano (Aprile 2012)–

Articoli e interviste sull’utilizzo creativo delle Nuove Tecnologie nelle espressioni artistiche– Ideazione e Realizzazione corto in 3D “The Skeleton” (2011)-

egentile@anughea.com

www.interactive-performance.it

www.anughea.com

www.whitedoorsvj.it


I nuovi formati del teatro mediale
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Pubblicato su Interactive-performance.it

Nuove frontiere per il teatro si aprono grazie alle caratteristiche di immersione, integrazione,ipermedialità, interattività, narratività non lineare propri del sistema digitale: dall’evoluzione nel web delle performance alla creazione di ambienti interattivi, all’elaborazione di una nuova scrittura e drammaturgia multimediale. I nuovi media di oggi non equivalgono ai nuovi media di ieri per le caratteristiche tecniche innovative, per i meccanismi sociali che innescano e per l’impatto comunicativo che determinano, ma di una comunicazione di nuova generazione, ramificata, orientata all’immediatezza, all’interattività, allo scambio, alla creazione di reti di relazioni, proiettata cioè, al network.

Emerge una nozione di scena aumentata (enhanced theatre è la definizione di teatro digitale data da Dan Zellner) che ha a che fare con il trattamento/processamento in tempo reale di informazioni multimediali, con il coinvolgimento sensoriale del pubblico e con la mediazione tra performer e computer. Una scena aumentata negli effetti e animazioni tridimensionali, nelle immagini in movimento, nella scena interattiva e in quella virtuale che sostituisce quella reale, negli attori sintetici che recitano in una live action insieme ai loro doppi in carne ed ossa, nella percezione del pubblico sollecitato a una visione multipla, a una compresenza di punti di vista.

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Uno stile ambivalente e mimetico per il teatro tecnologico: Dumb Type e Masbedo.

Teatro e digitale, per usare una terminologia cara a Marshall McLuhan, si stanno ibridando, anzi forse oggi siamo già alla seconda generazione tecnologica che sta dando vita a quello che si può definire, prendendo a prestito un termine dalla biologia, un teatro-chimera, un teatro dal doppio codice genetico caretterizzato da un libero nomadismo e mimetismo dei linguaggi.

Le immagini in movimento, le animazioni, i sistemi interattivi, i programmi informatici per una gestione live del materiale audiovisuale sono stati già da tempo assorbiti nella materia teatrale inaugurando un nuovo genere al confine con le altre arti (installazioni, concerti, film, opere video). L’ibridazione, ovvero per usare l’esatta definizione mcluhiana, ‟l’interpenetrazione di un medium nell’altro” in questa generalizzata computerizzazione della cultura, produce una fenomenologia artistica mutante derivante dal web, dal fumetto, dal videoclip, dalla videoarte, dal vjing, dalla motion graphics, al passo con le tecnologie digitali, altrettanto metamorfiche e “mimetiche”.

L’arte digitale è arte dell’ibridazione” afferma Edmond Couchot, una elaborazione interna alla scrittura, alla composizione, alla visione, alla forma della creazione d’arte di cui sarebbe responsabile proprio la natura “mutevole” dell’oggetto artistico multimedializzato. Le cross-ibridazioni tra sistemi di informazione, scritture, dispositivi di visione e di ascolto, complice il comune codice digitale, sono potenzialmente infinite: dai radiodrammi alle video performance, dalle installazioni performative, ai live set fino alla drammaturgia ipertestuale e on line in un’evoluzione continua e in una serie pressoché infinita di possibilità trasformative. Il testo, o meglio l’ipertesto drammaturgico, il progetto scenico, la partitura sonora-musicale, l’installazione, il video, il software, lo spettacolo, non appartengono più a generi diversi ma divengono fasi di un processo aperto, tassello di un mosaico spaziale e temporale mutante, flessibile e comunicativamente forte (A. Balzola).

Se Rosalind Krauss proponeva in Art in the age of the post modern condition (2005) di tracciare una riga definitiva per eliminare la parola medium “così da seppellirla come tanti altri rifiuti tossici della critica e procedere nel mondo della libertà lessicale”, Zygmunt Bauman in Modernità e ambivalenza (2010) individua nel concetto di “ambivalenza” che romperebbe la pratica del modello strutturale normativo, dell’ordine classificatorio delle categorie estetiche, uno dei temi chiave del postmoderno:

La situazione si fa ambivalente se gli strumenti di strutturazione linguistica si rivelano inadeguati: o il caso in questione non appartiene a nessuna delle categorie individuate dalla linguistica, oppure si colloca in più classi contemporaneamente. In una situazione ambivalente nessuno dei modelli appresi è quello giusto ovvero se ne potrebbe applicare più di uno (…) L’ideale che la funzione nominatrice/classificatrice si sforza di raggiungere è una sorta di ampio archivio che contenga tutte le cartelle che contengono tutti gli oggetti che il mondo contiene: ogni cartella e ogni oggetto sono però confinati in un loro posto distinto. E’ l’impossibilità di realizzare un simile archivio che rende inevitabile l’ambivalenza (…) Classificare consiste negli atti di includere e escludere. Ogni volta che diamo un nome a qualcosa, dividiamo il mondo in due: da un lato le entità che rispondono a quel nome; dall’altro tutte quelle che non lo fanno (…) L’ambivalenza è un effetto collaterale del lavoro di classificazione (…) Quella all’ambivalenza è una guerra suicida.5

 Ambivalenza delle tecnologie in atto quale potenzialità di scambio: Dumb Type, Motus, Masbedosono emblematici di questa “tendenza ambivalente” del teatro. Privilegiano infatti, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno-artistico affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo e derivante indistintamente dal videoclip, dalle installazioni, dai concerti, dal vjing, dalla graphic art, fino al cinema di animazione e persino alla videogame art.

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Nelle performance dei giapponesi Dumb Type la partecipazione dello spettatore è di natura immersiva, ricca cioè, di stimolazioni sensoriali multiple (dalle sub frequenze al noise, dalle immagini distorte, velocizzate ai video multipli), come se fosse un’installazione audiovisiva sperimentale.

Il video Glima di Masbedo, nato dall’esposizione di una proposizione base, sviluppata dagli attori senza indicazioni registiche dettagliate, come una performance corporea di enorme fisicità e di grande impatto, si è incarnato prima in un’installazione monocanale, poi in uno spettacolo vero e proprio con attori che interagivano in una scena video live con doppia proiezione. Da un formato video di breve durata si genera, stretchandosi, lo spettacolo. Un uomo e una donna lottano legati da vincoli di lacci in pelle come un’appendice organica che rimanda a un rito di possessioni sadomasochistiche e afflizioni autoindotte; intorno a loro una terra vulcanica, un paesaggio video-esistenziale: l’Islanda con la sua particolare orogenesi, con la sua attività vulcanica e la presenza della dorsale media-atlantica il cui processo tettonico sta spezzandola in due tronconi alla velocità di due centimetri l’anno, va a definire coordinate geoestetiche potentissime. Questi paesaggi fisici raccontano simbolicamente la distanza tra uomo e donna, ma anche il desiderio di riscatto, il disperato tentativo di opporsi a una deriva di rapporti umani e sociali basati su banalità e prevaricazione.
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Il paesaggio non è estraneo, entra nella violenza perpetrata nei corpi dove alternativamente uno diventa carnefice e l’altro vittima; in questo rituale della coercizione sotto cui si può leggere la generale volontà a non integrarsi, a non piegarsi e a non sottomettersi alle regole del mondo e la generale riluttanza ad obbedire all’ordine sociale, i protagonisti hanno abbandonato la civiltà ma non la disponibilità a combattere magari in nome di un’ipotetica causa comune che presuppone l’unirsi degli uomini in una catena umana a difesa del proprio patrimonio di valori. La performance con due schermi e una pedana ad altezza del pubblico proposta al Festival DRO e a ROMAEUROPA (2010), ripropone l’identica performance ma il paesaggio reale dove agivano i personaggi nel video, in teatro viene evocato dall’elettronica7.

 Motus sperimenta da sempre la contemporaneità di teatro-cinema in scena (da Twin rooms a X-racconti crudeli della giovinezza) e introduce anche la grafica animata (Rumore rosa); gli statunitensi Big Art Groupcon il ciclo di spettacoli definito “real time film”(Flicker, House of no more) ricreano un vero set cinematografico (usando un green screen) con la messa in mostra degli effetti da truquage. Approda a teatro una “composizione digitale” che unisce in una continuità senza cesura, televisione, cinema e teatro secondo una nuova estetica – seguendo Lev Manovich – “anti-montaggio” ovvero, “una creazione di spazi contigui in cui interagiscono diversi elementi (…)Nella composizione digitale gli elementi non sono più contrapposti ma miscelati; i loro confini vengono cancellati più che enfatizzati”.

Come Amleti irrequieti, vaganti nel vuoto pneumatico di una condizione tragica, evocata nella sua abissalità da una camera iperbarica o da interminabili silenzi, i protagonisti vivono distillandosi l’ossigeno per una rinascita, o almeno, per una via di fuga.

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La loro è un’arte intermediale in cui la musica il cinema, il video e la performance sono sempre strettamente collegati. Il riferimento principe per Masbedo è il territorio multidisciplinare dell’arte video della metà degli anni Sessanta, fecondo terreno per sperimentazioni di incroci, attraversamenti e transizioni. In quel contesto di effervescenza creativa e sperimentale, il medium video ha vissuto in perfetta promiscuità con le altre arti con le quali si è intrecciato, mescolato, confrontato. Citando le pionieristiche esperienze video performative di Nam June Paik, ma anche quelle successive di Laurie Anderson, Peter Gabriel e Metamkine, Masbedo allestiscono le loro performance a partire da originarie videocreazioni per poi arricchirle ed espanderle –alterandole radicalmente- con una componente musicale live (Schegge d’incanto in fondo al dubbio, Glima). Schegge d’incanto in fondo al dubbio di MASBEDO è nata come videoinstallazione per due schermi sincronizzati per la Biennale di Venezia (2009) ed è diventata una performance di live video con musica suonata sul palco da Lagash dei Marlene Kuntz.

La donna, novella Antigone, opponendosi all’omologazione del mondo, alla vita umiliata, compie un gesto impetuoso e solenne di ribellione: trascina nell’acqua a fatica, oggetti che rappresentano la vita vissuta e il quotidiano; infine, si immobilizza come statua, su un piedistallo in mezzo al mare, con gesti ricchi di pathos evocando miti tragici e archetipi del femminile che raccontano come la vita umana, pur nelle difficoltà e nel dolore, lasci dietro di sé schegge di bellezza. La donna mostra una maschera tragica del dolore, un urlo muto che porta con sé tutto il lamento dell’esistere. Il video trasmette proprio quel senso profondo e necessario di purificazione e metamorfosi dell’essere e quel bisogno di rivelazione da cui nasce la tragedia attica antica e che ci è stato trasmesso dalle pitture vascolari greche e dai frammenti orfici: “desistere dal ciclo prendere fiato dalle miserie”(frammento da Proclo cit. da G. Colli, La sapienza greca).

Il teatro di guerra del Kosovo
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Pubblicato su Repubblica on linePost teatro di Anna Bandettini

Tradotto e pubblicato in albanese sul quotidiano Koha Ditore

Ricevo da Anna Maria Monteverdi un bel reportage dal Kosovo, con particolare attenzione al teatro di di Jeton Neziraj (in basso, a destra nella foto), drammaturgo da noi ancora sconosciuto che dovrebbe essere conosciuto. Mi fa piacere pubblicarlo per farlo leggere a chi è interessato

Di Anna Maria Monteverdi*

TEATRO DI GUERRA. JETON NEZIRAJ E IL TEATRO DEL KOSOVO

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Sono passati ormai 5 anni dall’indipendenza (febbraio 2008) e 14 dalla fine del conflitto con la Serbia, ma oggi il Kosovo è ancora sotto il controllo delle forze di polizia dell’Unione Europea (Eulex) e dell’Onu (Unmik e Kfor) : il processo di “normalizzazione” dei rapporti tra Belgrado e Pristina e di legittimazione internazionale dei confini in quest’area dei Balcani occidentali sta procedendo ma lentamente.
Il teatro non può che essere protagonista assoluto in questo territorio in cui la divisione territoriale in forma di barricate e la difficile convivenza etnica e religiosa nel post war Kosovo viene definita shakespearianamente: Romeo and Juliettism. Il teatro è una naturale piattaforma di dialogo tra i popoli, un ponte tra culture che non si incontrerebbero mai, un luogo dove la «normalizzazione» -per dirla con i termini burocratici di Bruxelles-, imposta dall’alto, frutto di negoziati, bilaterali, o attraverso meccanismi di controllo di polizia internazionale passa, con assai migliore efficacia, da un genuino senso di ricerca collettiva di valori condivisi legati alla indipendenza, alla ricostruzione morale e civile oltre i separatismi e i nazionalismi.

Fluturimi-mbi-Teatrin-e-Kosoves-460x360Tutte riflessioni e interrogativi alla base del lavoro teatrale di Jeton Neziraj, drammaturgo trentacinquenne già direttore del Teatro Nazionale del Kosovo, i cui testi, rappresentati in molti paesi europei (recentemente ha avuto successo al festival di Lipsia Euro-scene con Yue Medlin Yue) e negli Stati Uniti (con The demolition of the Eiffel Tower) lo hanno reso un personaggio da cui è impossibile prescindere occupandosi della scena balcanica.
Neziraj si ritiene un «autore in tempo di guerra». I suoi testi che trattano tematiche politiche urgenti come il problema dei profughi di ritorno, dei rimpatriati forzati, del fondamentalismo islamico, sono solo in parte assimilabili ad un «teatro documentario»; lui preferisce parlare di un lavoro di «dramatizing reality». Nel suo teatro l’umorismo e la comicità possono diventare un’arma fenomenale per distruggere luoghi comuni e convinzioni nazionaliste.

images (1)Nel dicembre scorso ha debuttato con grande successo al Teatro Nazionale di Pristina il nuovo spettacolo tratto dal suo testo Fluturimi Mbi Teatri e Kosoves (Qualcuno volò sul teatro del Kosovo) messo in scena dalla bravissima moglie, Blerta Neziraj e dalla compagnia Qendra con in scena anche due talentuosi musicisti italiani, una violinista e un fisarmonicista: Gabriele Marangoni e Susanna Tognella. La trama è divertente: un regista e la sua compagnia mentre stanno provando la più famosa piéce di Beckett, ricevono la visita del segretario del Primo Ministro. Dovranno mettere in scena l’indipendenza (ancora non avvenuta) del Kosovo. Unica incognita: la data, ancora da definire perché dovrà stare bene a tutti: Usa e membri Ue, ma anche Eulex, Kfor, Unmik… Segreto anche il testo del MInistro che dovrà essere inserito nello spettacolo. Così in questa snervante attesa beckettiana, mentre la censura interviene perché i nemici di un tempo oggi sono diventati amici, a un tecnico di palco viene in mente di attuare una eroica missione: fare una trasvolata aerea aggiustando un velivolo e lanciando volantini con scritto «Riconoscete il Kosovo». Quando la data dell’indipendenza arriva è troppo tardi e coglie il primo attore ubriaco che sul palco implora la moglie di ritornare a casa. Se l’indipendenza del Kosovo è passata attraverso il consenso dei Paesi che contano a Bruxelles, senza coinvolgere direttamente la popolazione, l’indipendenza teatrale è stata messa effettivamente a rischio. Come in un classico play-within-play infatti, la piéce di Neziraj ha rischiato di non andare in scena per una censura politica. E anche in questo caso, come per tutta l’economia kosovara, salvifico è stato il deus ex machina dall’accento germanico (ovvero, l’intervento dell’ambasciatore svizzero e tedesco).
Il registro tragicomico di Jeton Neziraj trova il suo felice compimento nella regia di Blerta che accentua il ridicolo dei personaggi di potere (con relativi servi) e della situazione generale (un’indipendenza ottenuta con il permesso dell’UE e con il benestare di tutti i paesi ospiti -non sempre così graditi- sul suolo kosovaro). La soluzione scenica è semplice ma efficace: 4 sedie che diventano un’ottima appendice attoriale, con cui gli attori davvero straordinari, improvvisano balletti, gag, atti di seduzione, proclami ufficiali. I due musicisti hanno creato una partitura ritmata coinvolgente, allegra, scanzonata e folle almeno quanto la scrittura teatrale: da Singing in the rain pizzicato alla viola fino a Mission impossibile ai cori brechtiani fatti solo con le sigle dei contingenti militari e dei paesi UE. Solo questi passaggi varrebbero tutto lo spettacolo per restituire il senso di una forte denuncia (non meno attenuata dalla scelta del registro parodico) di un sistema di potere che in Kosovo ha assunto le forme di un protezionismo UE. Lo spettacolo ha avuto una breve tournée in Albania, in Macedonia e in Serbia. Speriamo sia possibile vederlo anche in Italia.

*Anna Maria Monteverdi è docente di Storia dello spettacolo all’Accademia Albertina di Torino e Storia del teatro alla Facoltà di Lettere di Cagliari. Dopo due viaggi in Kosovo ha deciso di dedicarsi al progetto “Theatre in a state of war” traducendo i testi di Jeton Neziraj e organizzando dibattiti e iniziative sul teatro dei Balcani. info: anna.monteverdi@gmail.com

Altri testi sul Teatro in Kosovo di AMM

LO SCHERMO E LA CITTÀ. THE BUILDERS ASSOCIATIONS
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Marianne Weems, regista teatrale fondatrice della compagnia multidisciplinare The Builders Association, specializzata in allestimenti teatrali riccamente dotati di tecnologia digitale interattiva e schermi panoramici, fa una acuta disamina a teatro, della tecnologia e della comunicazione mediata dal computer con riferimento alla loro influenza nella società e ai loro effetti nelle interazioni sociali. La tecnologia è sempre presente sia materialmente sia come argomento stesso degli spettacoli: il divario tecnologico tra Paesi civilizzati e terzo mondo, lo sfruttamento dei lavoratori attraverso il metodo aziendale dell’outsourcing , la simulazione degli eventi da parte dei media, la mediazione tecnologica che entra in ogni azione della nostra vita, il controllo elettronico. Siamo di fronte a un genuino caso di teatro politico tecnologico, giocato sempre su una scenografia straordinariamente self-evident e di notevole impatto visivo.

In Jet Lag aveva criticato il sistema dei media e della “costruzione dell’informazione”; in Alladeen aveva denunciato gli effetti dell’economia globalizzata, con i dipendenti di un call center indiano che venivano istruiti a cancellare la loro identità e il loro idioma per prendere a prestito la cultura e l’accento americano. In Supervision la Weems portava a teatro l’incubo della sorveglianza dopo l’11 settembre: cittadini i cui corpi sono diventati trasparenti, data body in un data space,persone che vivono nel white noise della costante connessione remota, viaggiatori bloccati alla frontiera a causa di controlli che incrociano informazioni strettamente personali con quelle dell’ AIDC (Automatic Identification and Data Capture). 


Marianne Weems (che ha lavorato come dramaturg e assistente alla regia di Elizabeth LeCompte e Richard Foreman) ha dato visibilità e concretezza palpabile a questi databodies , a questa infosfera immateriale attraverso un’imponente architettura fatta di uno schermo panoramico, proiezioni video multiple real time, animazioni computerizzate e un sistema di motion capture. Sono tre storie che parlano della violazione della privacy e del controllo e monitoraggio in tempo reale di liberi cittadini: vite che diventano trasparenti a cominciare dalle transazioni economiche e dagli spostamenti da loro effettuati, dallo stipendio che arriva loro in banca, dai loro incontri negli spazi pubblici sorvegliati. Marianne Weems mette in scena storie di ordinario pirataggio dati in epoca post-privata, legate al filo (o file …) della propria identità personale diventata informazione ramificata, incontrollabile, separata dal corpo fisico e che viaggia dentro migliaia di processori in uno spazio-dati invisibile.

In Continuous City, la Weems parla della “città ininterrotta”, ovvero della grande rete mondiale che, permettendo di oltrepassare barriere sociali e frontiere politiche, ha cambiato radicalmente il volto del paesaggio e dell’esperienza del vivere una città o l’intero villaggio globale, così come ha ampliato l’orizzonte delle nostre relazioni umane: il paesaggio dell’abitare contemporaneo è diventato un mediascape, luogo dell’”attraversamento nomadico”, smaterializzato come dice Castells, in uno “spazio di flussi”, flussi comunicazionali. soggetti all’alienante controllo in una società “post privata” in cui i mezzi di vigilanza sono diventati sempre più invisibili e sono penetrati nei meandri della rete. La città nelle tre storie raccontate, è vista attraverso schermi di varie dimensioni (smart mob, pc portatili e always-on) che vanno a comporre una scenografia luminosa intermittente, un caleidoscopio colorato; sono frammenti di città che si presentano come un puzzle che rilascia residui di ambienti animati e rumorosi appesi al filo di una connessione.

Il padre che lavora lontano e dialoga via skype con la figlia che è sempre connessa alla rete: le raccontando, attraverso le immagini, le caratteristiche delle città che visita e lei aggiorna quotidianamente un blog in cui racconta e scambia le sue visioni della città. Emozioni condivise a distanza, rete come “agile ambiente connettivo” (De Kerchove), corpi estesi a una dimensione senza frontiere fisiche e geografiche, in un altrove solcato dalla dismisura del web in cui il feedback fra la trasmissione e la ricezione è istantaneo.

La compresenza potenziale di corpi, messaggi, immagini nella stessa piattaforma comunicativa inaugura una rete di nuovi rapporti, un nuovo tessuto sociale che a loro volta plasmano una “città ideale” e una nuova dimensione “schermica” dell’abitare e del vivere contemporaneo. Oggi le proiezioni in pixel video su “ipersuperfici”, i grandi schermi addossati alle pareti dei palazzi (urban screens) usati anche come fondali live per concerti, le insegne digitali a grande formato (digital signage) fanno parte del paesaggio metropolitano raggiungendo formati oceanici (vedi il maxischermo pubblicitario da 24 metri inserito in un dirigibile, visibile a 4 chilometri di distanza). La dimensione esperienziale del public space, della piazza, attraverso schermi multidimensionali, secondo Simone Arcagni (“Il Sole-24 Ore on line”, 11 marzo 2009) si lega a quella più intima, individuale, televisiva: “Media, urbanistica, performance concorrono a realizzare una nuova esperienza spettatoriale, in parte anche cinematografica”.

Quello che è interessante negli spettacoli della Weems è la straordinaria capacità di teatralizzare alcuni concetti finora trattati in saggi di sociologia dei media o al cinema: il nuovo spazio pubblico, il panottico, la soggettività connettiva, la cultura della “virtualità reale” (De Kerchove), la nuova socialità elettronica. Concetti chiave come quello di dislocazione e deterritorializzazione, così come quelli di presenza e ubiquità prendono la forma di una mediaturgia che pone i protagonisti come “vettori” di un contenuto che altro non è, in sintesi, che la grande rete mondiale. 
Nel film-video Der Riese (1983)Michael Klier aveva raccontato la città attraverso immagini provenienti da telecamere di sorveglianza addossate ai palazzi in prossimità di banche e aeroporti per “afferrare, spogliare e pietrificare brandelli di spazio” individuando, come ricorda nella puntuale analisi del video Anna Lagorio, “la città generica, spersonalizzata e anonima”. La Weems in Supervision approda a simili conclusioni derivate dalla definitiva sussunzione dell’uomo all’interno di un meccanismo perverso di controllo capillare della sua vita che lo priva della propria identità. L’incubo mediatico descritto da Orwell in 1984 si materializza in un inquietante schermo gigantesco che trattiene, come un badge di identificazione da cui la scenografia prende forma, una traccia elettronica delle azioni e degli spostamenti dei personaggi; perseguitati da un invisibile occhio satellite che li raddoppia, prigionieri tra specchi e pareti trasparenti, in una proliferazione di corpi che contrasta con la loro solitudine, i personaggi incarnano l’incubo psicotico della videosorveglianza, Così la Weems:

We are surrounded by subtle and unseen forms of surveillance of the data we create as we move through our daily lives, and at the same time our identities seem increasingly to be constituted of data. What is the relationship between who we are and the cloud of data which surrounds each one of us? In post-9/11 daily life, we have come to accept, allow, and even encourage this new post-visual form of surveillance and its constant incursions into the realm of our “selves.“ What will the results of it be?

Siamo circondati da forme sottili e invisibili di sorveglianza dei dati che noi stessi creiamo come ci muoviamo nelle nostre vite e allo stesso tempo le nostre identità sembrano sempre più costituite di dati informatici. Qual è la relazione tra ciò che siamo e l’alone di dati che ci circonda? Dopo l’11 settembre abbiamo accettato, permesso e persino incoraggiato queste nuove forme di sorveglianza post-visuale e le sistematiche incursioni nel regno del sé”. Quale sarà il risultato di tutto questo?

Se in Supervision la Weems sembrava legarsi al pensiero di Paul Virilio e alla sua visione “catastrofica ma non catastrofista” della modernità tecnologica, in Continuous City sembra approdare a una pars costruens, a un’idea di tecnologia shaped, addomesticata e conformata alle nuove esigenze comunicative e connettive della società, accettando sostanzialmente le ben note tesi di Derrick De Kerchove: 

Il corpo, assistito dal computer, esce dai suoi limiti tradizionali, articolati attorno alla pelle. Allora è necessario un corpo a misura delle nuove potenzialità della nostra mente, così che anch’esso, assistito dal computer, possa godere di un accesso istantaneo a qualsiasi punto del globo. La nostra nuova pelle è l’atmosfera terrestre sensibilizzata dai satelliti.(..) L’intelligenza connettiva implica la possibilità di condividere il pensiero, l’intenzione, l’emozione e i progetti espressi da altri senza né cristallizzarli nel feticcio astratto di un collettivo, né conservarli nella privacy di un individuo.

Non più dunque la big optics di Virilio, che sovvertirebbe innaturalmente la nostra esperienza di distanza fisica e di vastità dello spazio naturale (“the progressive derealization of the terrestrial horizon… resulting in an impending primacy of real time perspective of undulatory optics over real space of the linear geometrical optics of the Quattrocento”), ma una mediatizzazione del mondo che produce come effetto, una “estensione dello spazio dell’immaginazione, delle pulsioni, dell’onirico”.

Qua una mia intervista a Marianne Weems su Digimag.

Architectural videomapping, Biblioteca Alexandrina (Alessandria D’Egitto)
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Si è svolto ad Alessandria in Egitto (3-6 Giugno 2013) presso la prestigiosa Biblioteca Alessandrina, il primo Workshop (in lingua inglese) su: “Architectural Video mapping & Interaction Design” nell’ambito del Progetto Europeo ENPI CBC MED “IAM” International Augmented Med.

Il corso è stato progettato e diretto da Enzo Gentile, Alain Baumann, Anna Maria Monteverdi e Rosa Sanchez con Paolo Servi a supporto della comunicazione. Un particolare ringraziamento va a Yasser Aref , Mohamed Hafez, ai partecipanti del workshop e a tutto lo staff della Biblioteca di Alessandria.

IAM NEWSLETTER

The Origins

In 2010, a group of italian multimedia experts proposed a project in the field of Augmented Reality. The Original Team of technicians developping it consisted of:

  • Lianne Ceelen-Montaleone (Expert in EU project development);
  • Enzo Gentile and Paolo Servi (Anughea Studios – IT and multimedia specialists and AR experts);
  • Anna Maria Monteverdi (University Professor, expert in new media and technologies for theatre);
  • Liliana Iadeluca (University Professor and expert in lighting techniques).

The Municipality of Alghero (Mayor S. Lubrano, Project manager P. AlfonsoG. Calaresu andM.G. Fara) supported their plan becoming Lead partner of the project.

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Che cosa è un teatro nazionale. Testo di Jeton Neziraj/Kosovo
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da Theatri dhe Nacionalizmi-Theatre and Nationalism, a cura di Jeton Neziraj e James Thompson, Prishtina 2011, Qendra Multimedia (testo raccolto e tradotto da Anna Maria Monteverdi e pubblicato su “Teatro e Storia” (Gennaio-marzo 2014)

Resistenza culturale nei teatri a Pristina (Kosovo): il Teatro Dodona

Le significative spaccature politiche degli anni Novanta e la repressione del regime di Milosevic hanno creato un clima sfavorevole per il teatro in Kosovo. La maggior parte dei teatri chiuse o si affiliò all’organizzazione di Milosevic. Il teatro Nazionale del Kosovo ebbe lo stesso destino. La maggior parte degli attori albanesi e registi furono espulsi. Per quasi dieci anni ci furono solo pochissime rappresentazioni in lingua albanese. Ovviamente tutti gli spettacoli prodotti dovevano passare dal filtro della censura imposta dalla nuova possente amministrazione serba (…). 

.(3)-1386843631La storia culturale del Kosovo nel periodo 1992-1998 ha il fulcro nel Teatro Dodona, un piccolo teatro per ragazzi e per bambini, fondato agli inizi degli anni Novanta e costruito in un’area periferica di Pristina. In quegli anni, fino al dopoguerra, rimase praticamente l’unico luogo in Kosovo a sviluppare attività culturali differenti in Albania. Questo teatrino di 162 posti a sedere sul suo piccolo palcoscenico programmò diverse attività giornaliere (fino a cinque) con tutto esaurito.
Dodona ha prodotto per lo più commedie e spesso testi di diversi autori stranieri. In un’insolita interpretazione diAspettando Godot (1995) di Beckett, apparve in scena un bidone metallico. Il Godot con la regia di Fadil Hysaj fu accolto come l’attesa di una libertà che non arrivava mai. Il bidone, così come altri elementi della rappresentazione, furono ispirati dall’oppressione e dalla violenza che il regime di Milosevic stava facendo subire agli albanesi. Lo stesso regista aveva messo in scena anche Le sedie di Ionesco, in un allestimento che si poteva leggere come una metafora del vuoto spirituale e dell’isolamento che aveva pervaso il Kosovo negli ultimi anni. Una delle commedie di maggior successo di quel tempo, Profesor, jam talent se jo mahi (Professore, sono un talento non uno scherzo) del regista e attore Faruk Begolli, fu rappresentato circa 360 volte. Di solito la sala del teatro si riempiva completamente. Spesso il pubblico finiva per buttare giù la porta per entrare, o si arrampicava strisciando sul tetto del teatro. Nell’atmosfera generale di violenza che dominava l’esterno, quel teatro era una specie di piccola oasi, uno spazio dove la gente poteva respirare liberamente e sentire il senso della dignità umana. Dodona diventò la “mela proibita”: il pubblico affrontava la paura della polizia serba e veniva a teatro per vedere gli spettacoli. Gli attori di solito dormivano dentro il teatro, perché uscire di notte e viaggiare era pericoloso. Una sera, dopo una replica, la polizia serba ordinò agli attori di bruciare la bandiera albanese che avevano tra gli oggetti di scena. Il balletto Odisea Shqiptare di Beckett (Odissea Albanese) del celebre coreografo Abi Nokshiqi fu proibito il giorno della prima perché “conteneva elementi nazionali albanesi”. Il Teatro Dodona continuò la sua attività fino a cinque giorni prima dei bombardamenti della Nato sulle truppe e sulla polizia serba.
Durante quei giorni alcuni criminali sconosciuti uccisero la giovane attrice del Teatro Dodona, Adriana Abdullahu, e ferirono altri membri della compagnia. Adriana era una delle attrici di maggior talento della sua generazione. Durante la guerra la maggior parte degli attori che lavorava al Teatro Dodona furono espulsi con forza da Pristina. Faruk Begolli fu uno dei pochi che riuscì a scampare rifugiandosi in casa della sorella, da qualche parte nella città di Pristina.

Il dopoguerra 

Durante la guerra in Kosovo l’edificio che oggi ospita il Teatro Nazionale del Kosovo (ex Teatro del Popolo) fu danneggiato dalle bombe cadute lì vicino. Anche la maggior parte degli altri teatri subì danni gravi. Finita la guerra, passò un lungo periodo prima che questi teatri potessero ricominciare a lavorare. Uno dei primi testi allestiti al Teatro Nazionale dopo la guerra in Kosovo fu l’Amleto di Shakespeare con la regia dell’inglese David Gothard: venne letto come uno spettacolo che sollevava il dilemma tra vendetta e perdono. 

teatronazionaleA un certo punto uno degli attori, a mezza scena, narrava la sua storia: durante la guerra era stato catturato dai soldati serbi; dopo averlo percosso gli chiesero di recitare qualcosa da Shakespeare. L’attore scelse il monologo “Essere o non essere” dell’Amleto. Il dilemma del principe di Danimarca corrispondeva certamente al suo: morire o restare in vita? Quell’Amleto fu lo spettacolo di maggior successo del dopoguerra in Kosovo: restò in cartellone per due anni, un destino toccato a ben pochi allestimenti.
Dopo la fine del conflitto, molti degli spettacoli kosovari che parlavano di guerra furono realizzati nello spirito del cosiddetto “teatro documentario”, in cui erano evocati con grande pathos momenti della guerra. Altri autori preferirono evitare tematiche di guerra o presentare la guerra in modo indiretto. Il regista Bekim Lumi portò in scena La lezione di Ionesco con il protagonista assomigliava a Hitler, con la stella di David cucita sulla sedia dove avveniva l’omicidio. L’intera rappresentazione era una metafora della tendenza umana a usare la violenza sugli altri.
I teatri e le compagnie indipendenti sono proprio quello che è mancato in questi anni nel teatro del Kosovo. Tranne l’Oda Teatro e Teatrit Te Babes, infatti, non ci sono altri teatri indipendenti in Kosovo. Molte delle compagnie e dei gruppi teatrali che si sono insediate in Kosovo dopo la guerra, a parte il Quendra Multimedia, non sono riusciti a sopravvivere.
Quendra Multimedia, fondato nel 2002, ha sviluppato decine di progetti teatrali. Nel 2007 presentò Darka e fundit(L’ultima cena), uno dei più ambiziosi progetti del dopoguerra. Un team congiunto di artisti svizzero-kosovaro lavorò per due mesi, producendo due “azioni teatrali” che furono rappresentate in spazi teatrali non convenzionali. Dopo un intenso lavoro preparatorio, lo spettacolo fu allestito un piano di un palazzo abbandonato dove aveva avuto sede il giornale in lingua albanese “Rilindja”, uno dei più famosi edifici in Pristina. Fu rappresentato tre volte di seguito di fronte a un grande pubblico: presentava con grande coraggio la situazione del dopoguerra in Kosovo e il dilemma tra vendetta o perdono.
Il riferimento era chiaro: lo spettacolo era per albanesi e serbi, ma il messaggio e le questioni che sollevava erano senza tempo e universali. Lo spazio scenico era pieno di organi di animali, cuori, teste, polmoni… In una scena, un’attrice spiegava come i serbi l’avevano violentata mentre tagliava un cuore di un animale con un coltello. Lo spettacolo aveva due livelli narrativi. Il primo consisteva dei racconti degli attori sulla loro esperienza della guerra in Kosovo. Alcune di queste storie erano vere, altre state create per lo spettacolo. Il secondo livello comprendeva dialoghi tra vittime e carnefici: era un piano immaginario, in cui la performance cercava di rispondere filosoficamente e politicamente a alcune domande su vendetta o perdono, in particolare nel contesto del Kosovo. Per esempio, è possibile il perdono? Come ottenerlo? E’ necessario che i carnefici chiedano perdono, perché il perdono venga loro concesso? Un assassino è più forte o più debole dopo che ha commesso un omicidio? Queste e altre domande diventarono tangibili e sembravano esser comprese nello stesso momento in cui le altre storie di guerra venivano rappresentate dagli attori in scena.

Il teatro in un nuovo stato 

Come nuovo stato, il Kosovo ha regolari attività teatrali regolate per legge. La legge spiega generalmente il ruolo e la funzione del Teatro Nazionale del Kosovo (Teatri Kombetar i Kosoves, TKK): la più importante istituzione teatrale del paese deve produrre spettacoli, portare il pubblico a teatro, far conoscere la migliore drammaturgia nazionale e mondiale. Nonostante questo, la fisionomia e il ruolo del teatro sono al centro di un processo di professionalizzazione ancora in atto. Si sta chiarendo lentamente la prospettiva di un Teatro Nazionale rispetto al pubblico, alla drammaturgia nazionale e allo stato. In particolare, la relazione con la drammaturgia nazionale e con lo stato sono diventati i due temi controversi nel dibattito sul teatro di questi anni.

Il nuovo stato finanzia il TKK e le sue altre attività perché rappresenta l’istituzione nazionale che identifica lo stato del Kosovo. Ma uno stato deve necessariamente avere un Teatro Nazionale?
A parte questa nazional-mania, lo stato non mostra un vero interesse per il teatro e per il suo sviluppo. Attraverso le sue strutture, cerca soprattutto di tenere il teatro nelle sue mani, mantenendone il controllo. Questo non avviene attraverso un controllo di tipo politico, o con la censura dei contenuti delle produzioni. Per prima cosa il controllo è esercitato attraverso restrizioni dei fondi o limitando l’accesso ad altre risorse, come l’uso della sala o di altri spazi interni. Le principali strutturale statali (il governo e la presidenza del Kosovo) continuano infatti a usare il teatro per differenti iniziative, soprattutto omaggi a eroi della storia passata o recente.
La gerarchia del potere (non quella ufficiale) sul TKK va dal Ministro della cultura, gioventù e sport (e risale fino al Primo ministro), all’ufficio del Presidente fino al Segretario, al direttore del dipartimento della Cultura, dell’Ufficio spettacoli, e infine all’ufficio organizzativo del Teatro. Questa catena illegale di comando è condizionala soprattutto dal fatto che TKK è finanziato con denaro pubblico. Ogni sforzo per tagliare queste reti di comando porta a conseguenze che vanno da pressioni che possono condurre a rimozioni dall’incarico o alla cancellazioni di fondi, passando per ricatti e pressioni burocratiche.
Subito dopo la dichiarazione d’indipendenza, una mattina, all’ingresso del teatro, alcuni funzionari pubblici issarono un cartello con scritte cubitali “Repubblica del Kosovo”, e poi “Ministero della Cultura, Gioventù e Sport” (in caratteri più piccoli) e più in basso ”Teatro Nazionale” (in caratteri decisamente più piccoli). Il cartello fu rimosso a seguito della pressione dei media e non è più stato rimesso, ma questo episodio, e le proporzioni delle lettere che indicavano le diverse istituzioni,i mostravano chiaramente la gerarchia di forze e anche la relativa autonomia del teatro in relazione alle altre strutture dello Stato.
Il rifiuto da parte dell’organizzazione del Teatro TKK nel 2009 di soddisfare una formale richiesta da parte dell’ufficio del Primo Ministro, che richiedeva di usare la sala per attività memoriali, causò uno scandalo mediatico e politico che portò quasi alle dimissioni del Direttore Generale. In effetti le dimissioni furono date molti mesi l’incidente, visto che il direttore non era più in grado di fronteggiare la pressione politica e la crescente burocrazia del Ministero della cultura.
Rispetto alla programmazione, negli ultimi anni il teatro ha sviluppato un repertorio “politicamente corretto”. In altre parole, il teatro non solo non fa niente senza lo stato ma contribuisce direttamente all’idea di “costruzione dello stato” attraverso la promozione dei “valori nazionali”. In sostanza, il teatro non ha alcun potere di creare o provocare opinione. A causa della continua crisi, provocata dalla scarsa affluenza del pubblico, il suo ruolo nella società è marginale. L’adozione di questo ruolo “opportunistico” è stata proprio una dei fattori chiave che ha portato il pubblico a rifiutarsi di andare a vedere quelle rappresentazioni.
Le circostanze create dopo la dichiarazione di indipendenza hanno sollevato un altro dibattito: quali sono i confini di una drammaturgia nazionale? L’ampia nozione di drammaturgia albanese (che include l’opus integrale della drammaturgia scritta da autori albanesi) ha cominciato a essere ridotta alla sola “drammaturgia kosovara”. La tendenza viene sostenuta principalmente dai drammaturghi interessati alla “riduzione quantitativa del mercato”. Più piccolo è il mercato, e più crescono le loro possibilità.
In queste nuove circostanze politiche, il teatro deve porsi alcune domande cruciali: 

Che cosa è un teatro nazionale? 

Quali testi della drammaturgia nazionale dovrebbero essere portati su un palcoscenico di un teatro nazionale?
Quali sono i “grandi temi nazionali” adatti a un teatro nazionale?
I testi nazionali fanno di un teatro nazionale un teatro ancora più nazionale?
Un teatro nazionale si denazionalizza quando porta in scena Shakespeare, Molière o altri autori contemporanei? 
E così via con altri dilemmi…
Il repertorio del TKK negli ultimi due anni ha avuto un rapporto di 4 a 2 tra drammaturgia straniera e drammaturgia nazionale: questa proporzione continua a essere il tema più discusso. I critici notano che “questo è un teatro nazionale” e quindi nel suo repertorio dovrebbero esserci testi nazionali in misura più massiccia. Seguendo questo ragionamento, gli autori locali sono diventati più consapevoli dei problemi della nostra società e, considerando che il teatro è “uno specchio dove la società proietta i suoi problemi”, l’idea di dare maggior spazio alla drammaturgia nazionale ha un senso. E’ un’idea giusta che ha basi fondate. Nonostante questo, sorgono alcuni problemi se prendiamo in esame la drammaturgia prodotta da autori albanesi e dal modo in cui questi ultimi affrontano la questione: in molti casi manca il senso critico, o il coraggio di affrontare diversi temi e tabù. Il passato viene affrontato in maniera parziale, evidenziando solo alcuni momenti ed eventi, all’interno di una cornice molto selettiva. Vengono così taciute debolezze, errori e colpe all’interno della società albanese, che magari vengano letti come la conseguenza di imposizioni esterne, come l’“influenza dei nostri nemici”. 

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Perché abbiamo creato questi schemi e perché questi schemi continuano a influenzare i drammaturghi? La ragione principale è certamente legata alle circostanze politiche e sociali. E’ ragionevole che il principale obiettivo di una nazione oppressa, politicamente non consolidata, fosse la libertà. E i lavori drammaturgici che non contribuivano a questo ideale, ma avevano a che fare con altri problemi (ritenuti marginali), erano di solito considerati pericolosi o responsabili del rallentamento del processo di avvicinamento a questo ideale. Nel mostrare i problemi interni del paese, ci fu la preoccupazione che si potessero dare messaggi negativi al mondo, suggerendo così che noi fossimo una nazione che non meritava la libertà. Dunque sulle nostre scene una madre albanese non poteva mai essere una puttana; un combattente per la causa nazionale non poteva mai diventare un traditore e i serbi erano quasi sempre soldati ubriachi che bestemmiavano e uccidevano a sangue freddo.
Anche i registi teatrali albanesi non sono ancora in grado di affrontare i testi albanesi. Dal momento che i loro interessi nel teatro sono spesso più vicini all’interesse del teatro in quanto istituzione, nella maggior parte dei casi preferiscono mettere in scena un testo riconosciuto dalla drammaturgia internazionale piuttosto che un testo nazionale. Comunque la minoranza, quelli che lavorano con testi nazionali, in genere portano in scena “codici teatrali” che si suppone rammentino al pubblico qualcosa di “storico”, “culturale”, “tradizionale” o “nazionale”. In queste circostanze, alla luce della discussa qualità della drammaturgia nazionale, è più facile e meno rischioso optare per testi stranieri, perché il successo del prodotto finale – lo spettacolo – è più importane dell’assenza della drammaturgia nazionale dal programma di un teatro.
In questa crisi di identità che il teatro del Kosovo vive in questo periodo, la domanda più importante sembra molto impegnativa: cosa è di fatto un valore nazionale e cosa dovrebbe affermare o contestare questi valori?
Se oggi lo stato (a causa del suo interesse nazionale) promuove la coesistenza tra serbi e albanesi, il teatro deve accettare questo valore come un dato di fatto, oppure opporsi, esaminando la realtà, dal momento che, per esempio, questo valore viene spesso negato e per nulla accettato? Questo valore (che lo stato promuove), per quanto importante, viene ampiamente contestato, ma opporsi a esso potrebbe significare sostenere il nazionalismo e mettere in pericolo il futuro del nuovo stato. Il compromesso – cioè evitare di affrontare temi come questi – può essere però considerato opportunismo e questo non porta alcun beneficio al teatro.
Ma quali sono oggi i temi nazionali importanti? Secondo un gruppo di pseudo-artisti, questi temi sono il frutto della storia e sono legati all’idea della formazione della nazione e dello stato e così via. Secondo questa logica, il Teatro Nazionale dev’essere un caposaldo di questi temi e la dicitura di “Teatro Nazionale” significa proprio questo.
L’approccio a questi argomenti in molti casi ha escluso ogni tipo di confronto con i “fatti storici” o con il possibile “lato oscuro” degli eventi storici, che potrebbero essere immediatamente etichettati come “antinazionali”. Questo approccio ha fatto in modo che il teatro diventasse il tramite di una storia “senza sangue”, proprio come i libri di storia. (…) Il teatro del Kosovo dovrebbe essere un teatro libero! 

Il tecnoartista Giacomo Verde
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Di Anna Monteverdi, dal catalogo Riccione TTV, 2004.

“Le tecnologie cambieranno in meglio il mondo ma solo se saranno usate secondo un’etica diversa da quella del profitto personale incondizionato”.Giacomo Verde

Giacomo Verde è videomaker, tecnoartista, mediattivista legato alla sperimentazione delle tecnologie povere con le quali mostra, nelle installazioni e a teatro, come la creatività non dipenda da un forte dispiegamento di mezzi.

Le sue oper’azioni sono variazioni sul tema della necessità di un uso politico delle immagini e di una riappropriazione-socializzazione dei saperi tecnologici. Verde riflette da tempo sulla possibilità di fondere l’esperienza estetica con la pratica comunicativa dell’arte in un’ottica di decentramento produttivo, esplorando anche attraverso i diversi media e il web, nuovi modi di “fare mondo” e “creare comunità” con l’obiettivo di agitare le acque dell’arte con la forza dell’attivismo e di creare eventi e contesti sempre più “partecipati”: dai laboratori per i bambini ai Giochi di autodifesa televisiva, fino alla creazione di Tv comunitarie interattive come la MinimalTV.

La pratica del teatro sperimentale, il legame strettissimo con le tradizioni popolari (Verde è stato suonatore di zampogna e artista di strada 1 ) lo hanno condotto “naturalmente” verso l’utilizzo del video in scena:

 Negli anni Ottanta ho scoperto la possibilità di usare i video in scena come elemento drammaturgico, oltre che scenografico. Così mi sono accorto che lo strumento video si adattava molto bene alle mie capacità artistiche, permettendomi di esprimere visioni difficilmente realizzabili con altri strumenti comunicativi e dato che mi occupavo di cultura popolare, mi è sembrato naturale fare i conti con la televisione e le comunicazioni elettroniche, che oggi hanno ereditato e modificato gli archetipi dell’immaginario popolare. Occuparmi di video e di televisione (che sono due cose ben diverse) ed ora di computer, è stato come decidere di vivere nel contemporaneo, superando vecchie e inutili ideologie di comportamento artistico, accettando il confronto creativo piuttosto che la fuga conservativa”. 2

 A teatro l’accento è posto sul live, sulla performatività dei media, per comprendere questa realtà tecnologicamente aumentata, come scrive in un suo testo Per un teatro tecno.logico vivente (in A. M. Monteverdi, La maschera volubile, 2000, Titivillus). Verde parla di una tecnonarrazione che possa rivitalizzare l’antica arte della narrazione orale con i nuovi strumenti comunicativi e faccia sentire lo spettatore necessario alla rappresentazione; la tecnologia deve essere un mezzo che amplifica il contatto, il tempo reale e non una gabbia che detta regole e ritmi preregistrati e immutabili. Verde è anche attore-narratore e autore di videocreazioni teatrali, e spesso mette al servizio di altri artisti le proprie competenze video-teatrali, collaborando con Babelia, Giallomare minimal teatro, Casa degli Alfieri, Teatro della Piccionaia, Luigi Cinque, Nanni Balestrini.

In questi ultimi anni ha sviluppato una propria tecnica per la creazione di videofondali live e/o interattivi per performance e reading poetico-musicali (tra cui Rap di fine millennio e Fast Blood, insieme con il poeta Lello Voce e il musicista Frank Nemola) che gli permette di creare ogni volta, quasi improvvisando, immagini suggestive e astratte, capaci di adattarsi a diverse situazioni artistiche. Nelle ultime versioni il dispositivo prevedeva anche l’inserimento di spezzoni di immagini videoregistrate ma manipolate in tempo reale attraverso un software utilizzato dai vj, ArKaos.

Il Teleracconto, ideato nel 1989 e inaugurato con la versione teatral televisiva di Hansel e Gretel (H & G Tv), coniuga narrazione teatrale realizzata con piccoli oggetti e macroripresa in diretta. Una telecamera inquadra in macro alcuni oggetti collocati vicinissimo alla telecamera; questi, attraverso la riproduzione televisiva e soprattutto attraverso la trama del racconto orale associata alla disponibilità immaginativa del pubblico, si trasfigurano fino a diventare quello che la storia ha necessità di raccontare: il guscio di una noce può sembrare il volto della strega, le dita alberi nodosi, un pomodoro un fuoco brillante!

Il performer gioca sullo spiazzamento percettivo. Lo studioso Antonio Attisani aveva parlato per il teleracconto di una originale “maschera elettronica“: il video è maschera, ovvero supporto che crea e impone una propria sintassi ma non elimina l’attore e con esso con il suo sapere, la sua tecnica e la sua responsabilità.

Coi Teleracconti Verde ci mostra come è facile attraverso una telecamera “far credere che le cose sono diverse da quelle che sono”, in altre parole, che le immagini trasmesse dalla televisione non sono quelle della realtà ma quelle di chi vuole fissare per noi un punto di vista sul mondo.

Le telecronache della Guerra del Golfo ma soprattutto quelle di Genova in occasione del meeting G8 ci hanno insegnato quanto potente sia la macchina spettacolare dell’informazione, la “gestione della catastrofe” e la simulazione-contraffazione degli eventi. Solo limoni (Documentazione videopoetica in 13 episodi, con Lello Voce, 2001, prod. Shake – SeStessiVideo – ReseT) utilizza modalità e tipologia narrativa antitelevisiva (utilizzando anche materiali girati da altri videomaker e considerati “non commerciabili”) per svelare i dietro le quinte e le efferate strategie di violenza e di offuscamento della verità di quel gran teatro del mondo che è stato Genova. A prevalere è il rumore di fondo: protagonisti sono l’anziano genovese che guarda gli scontri e le commenta, il proprietario della casa che ospita, suo malgrado, tre cecchini sul tetto, il corteo coloratissimo dei migranti, la gente affacciata dalle finestre che butta acqua ai manifestanti accaldati (e poi dopo, limoni per aiutarli a sopportare i lacrimogeni), il punto di ristoro, l’accampamento, il momento della vestizione e delle protezioni con armature di plastica e gomma, il clima generale di festa. Ma anche la città blindata, la violenza contro i manifestanti, la forza iconoclasta dei black block, il saccheggio di un supermercato, la risposta alle cariche della polizia. Non calpestate le aiuole testimonia l’episodio più tragico e più emblematico perché il cadavere di Carlo Giuliani, intravisto tra le gambe dei carabinieri e attraverso i loro scudi trasparenti appoggiati a terra, quel corpo coperto da un lenzuolo e la chiazza di sangue è ciò che non ci farà mai dimenticare quei tre giorni di Genova.

ETICA HACKER:

La medesima “attitudine politica” sta dietro a tutte le creazioni di Verde, una “attitudine hacker” che se non si esprime direttamente nei contenuti, si materializza nell’elaborazione di dispositivi “low-tech” che dimostrano un uso creativo ma a basso costo e alternativo a quello proposto dal mercato, dei media elettronici. Nel sito www.verdegiac.org si possono trovare le istruzioni per rifare da casa l’installazione del videoloop interattivo. Possiamo considerare una sorta di mixaggio tra teleracconto e videofondali-live lo spettacolo oVMMO dalle Metamorfosi di Ovidio con Xear.org. L’attore Marco Sodini declama con parole, azioni e coreografie gli antichi miti di trasformazione. Sullo sfondo, immagini create in diretta da Verde con oggetti prelevati dal quotidiano e “metamorfosati” fino a diventare puro colore. Presente e visibile in scena, il tecnoartista mette in atto un doppio dispositivo di ripresa, la webcam che riprende sia lo spazio con l’attore che le videoproiezioni, e la videocamera che riprende sullo schermo del computer le immagini della webcam sulle quali vengono sovrapposti piccoli oggetti, materiali e riflessi.

Anche la musica e i suoni curati dai musicisti Mauro Lupone e Massimo Magrini, rispondono al principio del live: suoni campionati che creano un tappeto sonoro continuo vengono trasformati in diretta con variazioni di intensità, sovrapposizioni ed echi della voce del protagonista.

Nel 1998 Giacomo Verde e il drammaturgo e critico Andrea Balzola pongono per la prima volta mano ad un progetto di narrazione teatrale con uso di tecnologia interattiva ispirandosi, per la stesura dei testi, alla forma e al significato del Mandala, guida della meditazione e simbolo della trasformazione spirituale dell’individuo. Nasce Storie mandaliche insieme con l’associazione ZoneGemma. Sono sette storie di trasformazioni nei diversi regni: umano, minerale, vegetale, animale e divino, ovvero sette iperracconti di personaggi “linkati” tra loro a formare una rete e un labirinto: il bambino-uomo, il mandorlo, la principessa nera, il corvo, il cane bianco, la pietra del parco, l’ermafrodita.

 Ogni storia e ogni personaggio è associato a un colore, ad un elemento e ad un punto cardinale e conducono al centro, esattamente come il mandala. Ma ogni sera il percorso è diverso e la strada-racconto che porta al centro viene decisa ogni volta assieme agli spettatori. Lo spettacolo ha attraversato diverse fasi ed è stata inaugurata al Teatro Fabbrichino di Prato nel febbraio 2004 una sua ulteriore metamorfosi con le animazioni create da Lucia Paolini in FlashMX (programma per animazioni audiovisive 2D usato in Internet) per un’ipotesi di futura fruizione Web con le sonorità digitali avvolgenti ed evocative di Mauro Lupone. Le immagini e i suoni hanno la funzione di memorizzazione del percorso e di immersione nel tema e nelle caratteristiche dei personaggi, e ci introducono in una geometria narrativa esplosa oltre la pura linearità diegetica.

Il cyber contastorie (la definizione è di Giacomo Verde, che ci tiene a definire il suo ruolo di tecnonarratore sulla base dell’immagine del tradizionale raccontastorie) anziché la tela disegnata, ha davanti a lui immagini animate in videoproiezione che seguono il ritmo in tempo reale del suo racconto.

Storie mandaliche, luogo politonale di ricerca di un teatro della parola, è la possibilità di giocare una parola differente, che prende corpo, suono e immagine potendo sdoppiarsi, metamorfosarsi e riconvertirsi in nuovo significato conferendo allo spettacolo mobilità di identità e di senso, come era nell’originaria natura della maschera. Possiamo notare il grande paradosso italiano per il quale quello che viene considerato da tutti uno degli esempi più emblematici del teatro multimediale, non ha ancora avuto possibilità di circuitare regolarmente nelle sale e nei Festival teatrali

Nel teatro globale di Connessione remota, uno dei primissimi esperimenti italiani di webcam theatre, andato contemporaneamente in scena e in diretta web per la prima volta dal Museo d’arte contemporanea di Prato nel maggio 2001, gli spettatori potevano assistere alla performance dal web, incontrarsi in rete, chattare tra loro e dialogare e scrivere in tempo reale con lo stesso narratore-performer: “Questi esperimenti mi hanno confermato l’intuizione di poter fare un teatro con/per la rete tenendo conto del senso di comunità che spesso si attiva in Internet in maniera più convincente di tanti altri luoghi materiali”.

Tra le installazioni di argomento teatrale: Inconsapevole Macchina Poetica ispirata a Julian Beck e al Living theatre, uno dei primi risultati del progetto di creazioni artistiche EutopiE, sulle nuove utopie possibili (www.eutopie.net). Nella Inconsapevole Macchina Poetica (2003) Verde insieme con Lupone e Magrini predispone un programma in cui il visitatore, sollecitato da suoni e immagini, deve rispondere a domande sulla percezione soggettiva e interpersonale della vita e del mondo.

Le risposte si mescolano come in un gioco dada, ai pensieri e alla visione anarco-rivoluzionaria di Beck che con il Living Theatre ha fatto dell’Utopia un luogo praticabile nella vita e nell’arte. Si diventa così, inconsapevolmente creatori, perché “Ognuno è un artista sublime” (J. Beck, La vita del teatro). Verde ha documentato, inoltre, molte situazioni teatrali; tra i suoi più recenti lavori: un’intervista a Judith Malina sullo spettacolo Resistence e un’intervista (con Antonio Caronia) a Marcel.ì Antunez  in occasione del Malafestival di Torino.

Pillole di spettacolo per T.V.P#000. Cercando Utopie prima documentazione video del progetto EutopiE che unisce grazie al lettering la performance realizzata al Politeama di Cascina (2003) alle linee teoriche e ai testi del Sub Comandante Marcos e di Edoardo Galeano.

La faccia nascosta del teatro. Conversazione con Robert Lepage (2001) è il video creato a partire dalle riprese del back stage de La face cachée de la lune a Montréal e dall’intervista in italiano al regista canadese Robert Lepage in occasione del Festival dei Teatri delle Americhe. Il video racconta il teatro tecnologico di Lepage attraverso una doppia (e contemporanea) narrazione visiva: quella della straordinaria scena trasformista creata per La face cachée de la lune con il suo affollamento nel dietro le quinte e quella dell’intervista al regista attraverso la semplice tecnica mixer della dissolvenza continua. Verde documenta il setting dello spettacolo e mostra quell’equilibrio necessario al teatro – di cui parla l’artista canadese – tra la parte in ombra e la parte in luce dello spettacolo, ovvero tra la parte artistica e quella tecnica. Il video contiene tutta l’estetica di Verde: l’antitelevisività, l’inciampo, l’errore, l’imprevisto, l’informalità, per privilegiare come sempre, al di là e oltre l’arte, la comunicazione diretta.

Note 1 Sulla prima esperienza di artista di strada Verde ha scritto il diario Frantumando generi in Arte immateriale, arte vivente (1990); ed anche Strada-Internet in E. Quinz, Digital performance, Parigi, Anomos, 2001: dall’esperienza del teatro di strada al web con la stessa logica di ricerca di un’aggregazione collettiva, inseguendo sempre una reale “connessione emotiva”. Sulle diverse “formazioni” artistiche di Verde vedi anche A. M. Monteverdi Vita in tempo di sport. La Bandamagnetica di Giacomo Verde in Catalogo Teatri dello sport, a cura di A. Calbi, Milano, 2002. 2 Intervista a Giacomo Verde a cura di R.Vidali, “Juliet”, n. 71, febbraio-marzo 1995, p.35

Mandala’s tales: an interactive performance
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 Proceedings of the conference The Embodiment of Authority: Perspectives on Performances10–12 September 2010, at the Department of Doctoral Studies in Musical Performance and Research, Sibelius Academy, Helsinki, Finland.

Mandala’s Tales is an emblematic example of digital performance created by Xlabfactory, an Italian multimedia group composed of researchers, sound designers, interactive designers: Andrea Balzola, Mauro Lupone, Anna Maria Monteverdi.

 Xlabfactory was founded in 2004 to promote a performance art as near as possible to the digital themes: immediacy, hypermediality, and interactivity. The authors define this experimental project as a techno recitar cantando: it concerns the conjunction of interactive systems with live performance in which computer technologies play a key role rather than a subsidiary one in content, techniques, and aesthetics.

The computer has become nowadays a significant tool and agent of performative action and creation: cyber theatre is also a metaphor for an anthropological evolution of the body in which the machine and the human can co-exist, and for the theme of the Fleeting Identities of today: machines as theatrical masks. As a matter of fact the sense of technology has transformed or destabilized notions of liveness, presence and the real; digital performances could define a turning point for theatre, can invent new narrative forms [1].

 Interactive technologies enable the arts to regain that famous unique aura, that hic et nunc cancelled in the passage to the means of communication and reproduction, as Walter Benjamin explained in The Work of Art in the Age of mechanical Reproduction(1936). Performance art, unlike cinema and photography which were born as reproducible media, is a unique production which is different and unrepeatable each time, based on the interrelation between audience and public and based on a synthesis of various languages [2].

 Immediacy, interactivity intermediality are theatrical themes and they come up renewed in a digital and virtual perspective because the media arts establish a new age of the real: the notions of environment, interaction between agents and event unite digital multimedia and live performance [3].

 Mandala’s Tales is a special live theater that incorporates videos and sounds, animations and text in form of hypertext that have been digitally created, processed or manipulated, and it also introduces interactive systems. Mandala’s Tales is a pioneering artistic project born in 2000; it has changed technologies and modality of interactivity three times since then.

We took the very powerful image of the Mandala as a guide line: the interior concentration, the process of consciousness, the possibility of transformation of the self. The theme of the performance and the plot is the idea of transformation and there are three effective transformation of the scenic elements in this new techno performance:

the transformation of dramaturgy

the transformation of the actor

the transformation of the scene

We wanted to unite the most ancient narrative form, that oral story telling spoken in the ancient days in a circle around a fire, by the representative of the collective consciousness, the person who took care of the imaginary, of the memory, of the tradition of the community with the most up-to-date art form: the technological one. The author tried to mix the mythological and technological.

 The symbolism of mandala was ideal to represent this union and also the necessity of a guide in an era like ours, full of confusion of identity. Mandala is a Sanskrit word and it means sacred or magic circle; Carl Gustav Jung studied it and explained the archetypal and universal significance of mandala. In synthesis, the plot which is rich of an oniric and fabulous atmosphere, is this: Karl is a child who live in a metropolitan city, he has magic powers, is a video game master; he loves a negro princess Riza from a noble African family. From their union a hermaphrodite was born, half a male half a female, half a human half a divine being in which the opposites unite together, the differences coexist.

 The actor becomes a shamanistic figure, has a magic role to guide the audience inside the collective imaginary, inside archetypal symbols; a guide role nowadays occupied by the mass media, unfortunately. The authors wanted to immerse the audience in a tale based on sounds, words, and images in constant transformations thanks to the digital technologies; the performers become digital storytellers or cyber-rhapsodists. We wanted, in fact, to create a synthesis of languages and this is possible with the digital system, ie, it’s possible to achieve the ultimate utopia of the avant guard from Wagner to Kandinski, the concept of the total art work.

 Mandala’s Tales is based on hypertext written by Andrea Balzola [4] with seven stories that are interlinked; every story touches the other characters in different moments and ways; it’s the first Italian theatrical hypertext, created in the first version, more than ten years ago. We have calculated that 5.040 stories are possible in a new combinatorial narration, no longer linear but simultaneous and labyrinthic. In the vertical sense you can see the chronological story of the seven characters but there are several links that join one to another in a horizontal sense that produce a sense of infinity.

 In the first version of the show the choice of the path, the choice of the character’s point of view was given to the audience and the interactivity system was Mandala System created in the 80’s by the Canadian group Vivid; it’s one of the first experiences of non immersive virtual reality, an archaic motion capture system which allows the digitalizing of objects shot by a video camera in real time such as a lumakee, and the objects come onto the laptop screen becoming interactive, generating sounds, and graphic signs. The digital story teller was Giacomo Verde. Here is one of the first exhibition:

 From Mandala System to a new up to date version: in 2008 we decided to convert the interactive modality and the performer was a singer, a contemporary soprano, Francesca Della Monica. In this new version, Mandala’s Tales is an interactive technological play, in which digital signals blend with an all embracing environment where a score composed of words, sounds, gestures and images form an hypnotic mandala. The vocals and body gestures of the “metamorphing” performer Francesca Della Monica trigger a flow of images and sounds that are activated and transformed to illustrate the hypertext written by Andrea Balzola.

A data suit is the digital costume for the actress: composed of sensors is at the centre of the generation of the digital audiovisual actions, which are based around an interactive score created by the composer and electronic sound designer Mauro Lupone. Video Artist Theo Eshetu has created visuals that illustrate and counterpoint the abstract narrative of the play. With a style that combines an original singing recital with the language of mythology, the play deals with the themes of Time in the technological age, of an interior quest, of generation and death through the narration of characters, the body and stories with powerful symbolic connections.

 Francesca Della Monica activates video and audio sequences directly controlling all the scene via an array of arm, and body sensors attached by wireless to an offstage computer. See photostream.

 

 Thanks to data suite with sensors, she activates the screen video imagery, controls video camera effects by ARKAOS software, processes and modifies in real time her voice and the sound electronic environment via MIDI through MAX MSP programme. All by shaking her body, by gesturing with her arms (wrist, elbow, shoulder) to create a mandalic animated universe.

 The performer must have many memories: memory of cantos, memory of score, memory of the texts, memory of the gestures, memory of sounds, memory of images around her. But she can improvise inside these structures freely. Sensors reading the movement of her arm, the variation of parameters, send wireless electronic signals which an analogical-digital conversion card transforms into midi signals. They also allow real-time sound and image modification with a processing of her voice. She becomes a kind of orchestral conductor, a kind of “synthetic actor” or “hyperactor”.

 In Mandala’ tales one arm makes the videos play, generates effects real time by Arkaos, an open source software used by Vjing for live media concert. The other arm triggers the sounds in three ways through MIDI system, via patch MAX MSX, creating this way the ideal electronic universe and artificial environment for the story:

 –activates audio files, sound texture,

modifies her voice, altering spectrum and morphology,

creates synthesis sounds

Francesca Della Monica underlines that the show works in two different vocal range: the one linked to myth, the other to the story telling. They are two parallel planes to interpret. In fact when she sings as a story teller she uses a restricted vocal range, from the point of view of the frequency, of the harmonic research; on the other hand for the mythological section the vocal range becomes wider, reaching paradoxical frequencies, disharmony, noises, without harmony or intonation: it was suitable for interpreting the realm of the not human, as you can see in the birth of hermapfrodite.

 One of the most emblematic sections for the use of gesture, voice, sensors, electronic environment is the impossible dialog between Karl and Riza.

 

 The performer is solo but not alone: she can trigger video effects (for example, fading effect) making the characters appear or disappear with a single gesture of the elbow: significantly at this point, the voice of the performer becomes double, the male and female together. This backwards and forwards movement of the arm changes the sense of the actorial signal deeply. A specific movement of the elbow unmistakably indicates one character or the other, but it is also very expressive, near the heart, emotively connotative. Also the Italian playwright and director Dario Fo in the very famous monologue Mistero Buffo, uses a gestural code to indicate different characters. But here the movement is necessary to activate the visual and audio effects also.

 Therefore, we can consider that the actorial gestures of Francesca Della Monica have

a physical value (the dance of the body on the space),

a psychological value (the expression of a sentiment)

a code value (it activate an audiovideo system)

A vocal researcher like Francesca Della Monica has been inspired by this synesthesia made possible by new digital media, from all different input from audio and video; it helps to amplify the vocal universe, to enlarge the sense of artistic identity. As the data suit becomes a second skin, a real body extension, the performer can improvise with it as with a musical instrument.

 The Canadian director and actor Robert Lepage said that the actor who plays in a technological environment must have a “peripheral vision but also a global consciousness: Man is the centre of the tecnology” [5]. The digital presence in this emblematic case study enhances the potentiality of the theatrical human action in which technology has become one of the languages of the complex dramaturgy, and is not a pure parameter controlled by a machine only.

 The story telling leads to the birth of a hermaphrodite, an alchemic perfect being which unites the female and male principle. The result of this performance is also a hybrid, something ambivalent, to use a definition of Zygmunt Bauman [6], something that unites the liveness of the theatrical event and the potentiality of the digital media, the corporeity of theatre and the immateriality of the digital.

 

Notes

A. M. Monteverdi (2011), Nuovi media, nuovo teatro, Milano: FrancoAngeli.

T. Kowzan (1975). Littérature et spectacle, Mouton: The Hague; M. De Marinis (1982). Semiotica del teatro. Milano: Bompiani.

S. Dixon, Digital Performance (2007). Mit Press: Cambridge-Massachusetts.

A. Balzola (2004). Racconti del Mandala. Pisa, Nistri-Lischi.

A. M. Monteverdi (2004). Il teatro di Robert Lepage. Pisa. Bfs.

Z. Bauman (2010). Modernità e ambivalenza. Torino: Bollati e Boringhieri

Il sito www.samuelbeckett.it di Federico Platania
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Il sito italiano dedicato a Samuel Beckett

Nel Mumonkan (una raccolta di quarantotto koan scritta dal monaco Mumon, 1183-1260) si trova una frase che mi ha sempre incuriosito: “Se incontri il Buddha sulla tua strada uccidilo”. Io non sono un esperto di zen, anzi. Però so che tutto ciò che è zen si presta a molteplici interpretazioni. La mia interpretazione di questa frase è la seguente: “Se incontri un maestro nella tua vita sbarazzatene appena puoi, altrimenti ti impedirà di proseguire”.

Quando ho iniziato ad appassionarmi ai lavori di Beckett mi sono reso conto di trovarmi di fronte ad un autore che stava occupando tutto il mio immaginario artistico. Non riuscivo più a leggere un libro o ad andare a teatro senza valutare – spesso inconsciamente – le affinità e le divergenze con l’opera del maestro. Bisognava sbarazzarsi di questo ingombrante Buddha-Beckett…
Come si può uccidere qualcuno che è già morto? Se è un artista – mi sono detto – forse è possibile: esaurendo la conoscenza della sua opera. Allora anziché limitarmi a “leggere” Beckett ho iniziato a “studiarlo”: leggendo saggi, biografie, cercando notizie su Internet, scrivendo piccole schede critiche di ogni suo lavoro, cercando ogni volta fonti, collegamenti e interpretazioni.
www.samuelbeckett.it, in rete dall’agosto del 2003, è il frutto di tutto questo. Non so a che punto del lavoro mi trovo, ma questo sito può considerarsi davvero il risultato del lento omicidio che sto compiendo.

Federico Platania

In copertina Federico Platania e Samuel Beckett mentre osservano due scimmie che giocano a scacchi (nel caso ve lo stiate chiedendo: sì, è un fotomontaggio).

Klaus Obermaier: digital arts
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Pubblicato su Digimag

Klaus Obermaier è musicista elettronico e artista digitale austriaco, ideatore di numerose opere multimediali e crossmediali (dalla video art ai progetti web, dalle installazioni interattive, alla computer music).

Klaus Obermaier ha realizzato sin dagli anni Ottanta opere innovative nei campi della danza, della musica, del teatro, dei nuovi media; ha partecipato ai maggiori festival internazionali (Ars Electronica di Linz, Intermedium/ZkM, Singapore Arts) e ha collaborato con i danzatori del Nederlands Dans Theatrer, Chris Haring, DV8, con gruppi musicali come i Kronos Quartet, l’Art Ensemble of Chicago, il Balanescu Quartet, e con musicisti del calibro di Ornette Coleman, John Scofield, Peter Erskine.

D.A.V.E.spettacolo di video-danza, è stato presentato a Villette Numerique a Parigi nel 2002Apparition, coreografia interattiva, ad Ars electronica 2004. L’ultima produzione allestita per il Bruckner Fest di Linz nel 2006 davanti a diecimila persone è Le Sacre Du Printemps da Igor Stravinsky, concerto per orchestra, danza interattiva e immagini 3D stereoscopiche prodotto da Ars Electronica Futurelab (http://www.aec.at/futurelab/en/). Attualmente l’artista insegna e collabora con varie Università e prestigiosi istituti culturali internazionali e da alcuni anni è direttore del Master in Interactive Arts allo IUAV di Venezia per la materia di “Nuovi media nella danza, musica e performance teatrali”. La riflessione di Klaus Obermaier inizia da un chiarimento del valore culturale della tecnologia, della “normalità” della sua applicazione nel mondo dell’arte, ma sottolinea anche la necessità di un’integrazione narrativa di tutti i linguaggi scenici, incluse appunto le nuove tecnologie

“Per me è assolutamente naturale l’uso delle tecnologie digitali nei miei progetti e nelle mie performance perché la componente tecnologica fa ormai parte della cultura di ogni giorno, non c’è nulla di straordinario in questo. Personalmente la uso semplicemente perché sono abituato a farlo, sono abituato a usare tecnologia per i miei lavori ormai da vent’anni e non mi domando più perché lo faccio. Come per la luce, nessuno si domanda più quale tipo di contributo possa dare alla narrazione teatrale, ma è evidente che sia così! Allo stesso modo per me la tecnologia è parte integrante della performance, a volte addirittura il punto di partenza e non soltanto un oggetto aggiunto”.

A questo punto Obermaier si sofferma a spiegare come la progettazione tecnologica debba svilupparsi in parallelo con il concept stesso e non materializzarsi durante l’ultima fase. Individuare la tecnologia preventivamente è fondamentale perché questa, come ogni altro elemento della composizione scenica, modifica l’assetto stesso della creazione. Il paragone proposto dall’artista è particolarmente pregnante: come è fondamentale individuare sin dall’inizio il costume per un performer, perché questo cambia radicalmente il suo modo di prepararsi, di recitare e di stare in scena. Così deve essere per le tecnologie! Ma le logiche della produzione teatrale impongono troppo spesso delle gerarchie tra i materiali impiegati per l’allestimento, nonchè delle priorità.

“I registi teatrali tradizionali lavorano prima di tutto su testi drammatici così per i primi mesi si danno da fare sul palco con il copione, la gente parla, cammina in scena, insomma quel genere di cose lì. Solo alla fine, ma proprio alla fine, aggiungono la tecnologia e giusto per essere adeguati ai tempi, ai nostri tempi. E’ un grosso problema perché bisognerebbe aggiungere la tecnologia sin dall’inizio: solo così questa cambierà completamente il significato dell’opera! Se tu la aggiungi tardi, cioè alla fine del processo creativo rimarrà una semplice appendice, non un elemento veramente sostanziale di un allestimento”.

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Annamaria Monteverdi: Klaus, come cambia l’approccio alle tecnologie con il tempo?

Klaus Obermaier: L’approccio alle tecnologie muta con il passare del tempo così come la tecnologia stessa cambia e dunque cambiano anche le possibilità creative; fino a quindici anni fa non era possibile fare alcun lavoro interattivo veramente significativo, per esempio. Personalmente non vado alla ricerca della tecnologia più nuova né voglio essere il primo a usarla, insomma, non è la cosa che cerco. Se questa non mi dà stimoli per qualche performance, non ha alcun valore per me, non mi interessa. Nella mia esperienza ho sempre dovuto aspettare molto tempo per poter applicare la tecnologia nel modo adeguato, fino a quando per esempio non ci fosse stato un livello di potenza di calcolo e di sofisticazione tale che mi permettesse di usarla come volevo.

Ricordo quando ho cominciato a lavorare con il video: il mio primo vero strumento professionale fu un Mac che comprai agli inizi degli anni Novanta perché a quel tempo il Mac era appunto l’unico computer con cui era possibile fare manipolazione delle immagini video. In questo senso cambiano le possibilità creative perché cambiano le tecnologie. Forse ricorderete alcuni pionieristici lavori interattivi all’interno di performance di danza con musica, cose molto semplici in realtà, un movimento fatto da un danzatore che generava e controllava il suono…questo impressionava molto il pubblico! Personalmente quando voglio fare qualcosa con le tecnologie è perché è arrivato il momento giusto per il lavoro a cui sto pensando, perché significa qualcosa, perché è realmente comunicativo, e non soltanto di effetto! Non lavoro solo per mostrare cosa può fare la tecnologia!

Annamaria Monteverdi: L’artista deve avere un’adeguata competenza tecnica per comprendere le possibilità di un suo sviluppo creativo in relazione con gli altri media in scena

Klaus Obermaier: Immagina un regista teatrale che chieda agli attori: “Che cosa possiamo fare in scena?”. No, il regista sa cosa può fare l’attore! Così io voglio sempre essere in grado di sapere cosa può fare la tecnologia, poi posso cambiare i margini di azione con i tecnici, con i programmatori e arrivare magari a nuove soluzioni. Questo significa che voglio provarci da solo! D.A.V.E. (Digital Amplified Video Engine) è uno spettacolo di danza interpretato da Chris Haring sul tema dell’ibridazione, clonazione e manipolazione del corpo umano in epoca di riproducibilità biotecnologica. La tecnologia interviene sugli organi: strati di immagini video vanno a depositarsi direttamente sul corpo del danzatore (quasi come un “innesto”), apportando membra, occhi e bocche che lo deformano virtualmente senza però intaccarlo fisicamente. Il corpo diventa figura mitologica: metà uomo e metà animale, metà donna e metà uomo, ma anche metà uomo e metà macchina.

Per un momento lo spettatore rimane spiazzato: il dubbio è se quello che sta vedendo in scena sia un ologramma o un essere umano in carne ed ossa poiché il corpo si trasforma continuamente sotto i suoi occhi senza che abbia la percezione del mutamento di stato. Mutazione come seconda natura, “felice” alienazione dell’uomo nella sfera tecnologica, passaggio indolore ad una nuova realtà, a una nuova “artificialità naturale”. Il video fa parte del corpo, o meglio, il danzatore fa parte del video. La difficoltà nell’affrontare spettacoli come D.A.V.E., in cui l’intenzione è quella di riuscire a coniugare la danza performativa con le nuove tecnologie, sta proprio nel riuscire ad ottenere una perfetta integrazione tra le diverse componenti: proiezioni video, danzatore, musica, spettatore.

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Annamaria Monteverdi: Parlamo della diversa complessità nella parte di programmazione dei vari spettacoli…

Klaus Obermaier: Se parliamo di programmazione il primo problema che si incontra è legato ai limiti del software; per ovviare a questo inconveniente, ne utilizzo diversi. Ne è un esempio D.A.V.E., completamente realizzato da me in Mac con diversi tipi di programmi: editing, video cutting, compositing, 3D programme, e sempre “learning by doing”. In progetti come Apparition o in Le Sacre du Printemps, in cui il livello di interattività è maggiore, collaboro con un programmatore. Da un lato programmare significa avere molta libertà, ma a me non interessa veramente programmare, bensì capire cosa posso ottenere con questi programmi.

Annamaria Monteverdi: Qual è il rapporto tra performer e tecnologia?

Klaus Obermaier: In D.A.V.E e in Vivisector i performer sono costretti a reagire in relazione al video, essendo le parti programmate in stretta relazione con la forma dei loro corpi; per questo la progettazione del software deve seguire dei parametri molto precisi. La transizione tra i due status, tra immagine e corpo, è fondamentale: una segue l’altra armonicamente, anche se il limite è dato dall’impossibilità di improvvisazione da parte del danzatore. Il movimento del corpo reale diventa un attimo dopo una proiezione video, e ci si interroga se siamo di fronte al corpo reale o al corpo virtuale!

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Vivisector è basato sul concept video-tecnologico della proiezione sul corpo in movimento come D.A.V.E. ma va oltre : la differenza sta nella proiezione video come unica fonte di luce, senza l’utilizzo di altre luci teatrali. Il corpo appare così molto strano, provoca un sentimento molto speciale: questa combinazione di immagine video, corpo, spazio acustico produce inoltre un effetto scenico di grande unità. Un altro tipo di luce utilizzata è quella del flash, completamente programmabile e in queste parti dello spettacolo il performer è più libero. In Apparition la tecnologia è completamente interattiva, le immagini e i suoni sono generati real time: il motion detection permette di percepire gli spostamenti dei danzatori i quali non essendo più vincolati alla posizione del proiettore, sono liberi di improvvisare. Lo scopo era quello di creare un sistema interattivo che fosse qualcosa di più di una semplice estensione del performer, addirittura un suo partner. Tre sono i parametri fondamentali nell’interazione dei danzatori: la vicinanza, la velocità e l’ampiezza del movimento.

Per Le Sacre du Printemps lo spazio è concepito come immersivo grazie agli occhialetti polarizzati indossati dal pubblico: immagini stereoscopiche sono generate real time da telecamere stereo poste sul palco e un complesso sistema computerizzato permette di trasferire il corpo della danzatrice Julia Mach all’interno di uno spazio virtuale tridimensionale: Il corpo umano è ancora una volta un’interfaccia tra realtà e virtualità.

Grazie a 32 microfoni, inoltre, l’intera orchestra è integrata nel processo interattivo perché sia i motivi musicali sia le voci individuali e gli strumenti influenzano la forma, il movimento e la complessità sia delle proiezioni 3D dello spazio virtuale sia quelle della danzatrice. La musica non è più solo un punto di partenza ma anche un completamento stesso della coreografia.

Annamaria Monteverdi: Come si realizza il giusto equilibrio tra libertà creativa del danzatore e programmazione?

Klaus Obermaier: All’interno della libertà creativa bisogna anteporre una struttura di base, che si modifica durante il lavoro; il sistema digitale diventa il terzo elemento della performance e ha gli stessi limiti e le stesse potenzialità di una drammaturgia teatrale o di una coreografia. Il primo pensiero è comunque quello di lavorare nel modo più semplice, ed è proprio quando non pensi di creare qualcosa di nuovo, che crei invece elementi innovativi!

https://vimeo.com/62275012

Integrazione cinematografica nel teatro di Robert Lepage: Le Polygraphe
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Atti del convegno dell'Università di Roma su Cinema e intermedialità a cura di M.M.Gazzano

 

La scena di Robert Lepage, attore, regista teatrale cinematografico e d’opera, creatore di scenografie multimediali per concerti rock (1), è costellata da una vera polifonia di linguaggi e di immagini (fotografiche, video e in grafica 3D). L’effetto di ombre nel suo teatro è combinato variamente con le proiezioni video in diretta, tecniche che insieme creano un gioco e uno scambio ininterrotto tra la parte frontale e quella retrostante la scena, entrambe spazio d’azione live sia dell’attore che della macchina. Per questo motivo Iréne Perelli-Contos e Chantal Hébert affermano che il “medium di Robert Lepage è l’immagine” (2), mentre Ludovic Fouquet sostiene che nei suoi spettacoli Lepage fa della scena “una piazza forte dell’immagine” (3).

La sua originale drammaturgia gioca su più livelli narrativi: in un’architettura stratificata fatta di trame visionarie si intrecciano storie di esplorazioni simboliche, di perdite e di riconciliazioni; vicende lontane nel tempo e nello spazio si incastrano come scatole cinesi offrendo sguardi speculari, percorsi obliqui di memoria, investigazioni introspettive che relazionano la Storia al quotidiano. La scena – un vero trionfo di mechané e techne antica, commista a tematiche e tecniche postmoderne di appropriazione e citazione dai linguaggi della comunicazione mass mediatica – in costante divenire per mezzo del movimento e della luce come nell’utopia craighiana, diventa “maschera” per l’attore, ovvero corpo espanso e insieme luogo metamorfico dell’essere che si rivela, in ultima analisi, multiforme e illuminante macchina della verità.

Nel lavoro artistico di Lepage dove “non è il teatro che si meccanizza ma è la macchina che si teatralizza” (4), la tecnica è metafora di una condizione esistenziale di mutabilità perenne, di un processo di memoria e di conoscenza (dell’Io, della Storia), di un nuovo sguardo inteso come illuminante esperienza interiore; la scena è concepita come materia viva e palpabile, suscettibile di innumerevoli trasformazioni, pulsante all’unisono con il corpo dell’attore del quale è suo naturale riflesso, articolazione, appendice. Le tecnologie dell’immagine diventano metaforiche lenti addizionali per vedere il piccolissimo o ingigantire, oppure costituiscono uno specchio interiore. Producono una sorta di occhio supplementare, una protesi che ci protegge, ci fortifica e contemporaneamente ci permette di “vedere oltre“, oltre la visione binoculare umana. Producono una visione stereoscopica o addirittura a raggi X (come in Elseneur, spettacolo definito dallo stesso Lepage un encefalogramma del protagonista Amleto, ovvero “una timida esplorazione dei meandri dei suoi pensieri” 5).

Il procedimento di racconto per immagini è evidente soprattutto in Les aiguilles et l’opium (1990). Un senso di angoscia esistenziale, di impossibilità di fuga pervade lo spettacolo che parla attraverso le figure di Jean Cocteau e Miles Davis, di dipendenze (dalla droga e dall’amore). Su un pannello-lavagna rivestito di spandex sopra il quale l’attore si muove e danza appeso con un cavo all’alto del proscenio, vengono proiettate immagini che creano lo “sfondo” drammaturgicamente adeguato: il vortice dei Rotorelief di Marcel Duchamp (o la spirale nella scena dell’Ermafrodita in Le sang d’un poète di Cocteau, 1930) (6), che crea l’illusione di un uomo risucchiato dentro le sue spirali. Di particolare intensità le immagini proiettate sullo schermo di piccoli oggetti posti su una lavagna luminosa (due tazzine di caffé a tradurre sinteticamente un incontro al bar; una piantina di Parigi, delle chiavi) o l’ombra dell’uomo che offre il suo minuscolo braccio alla gigantesca siringa (azione composta da oggetti collocati in realtà a distanza: la siringa posta su una lavagna luminosa e l’uomo posto dietro lo schermo-lavagna). L’effetto di composizione dell’immagine e di “incrostazione” (ovvero “intarsio” tra ombre di oggetti di dimensioni diverse ma senza un vero lumakey) tra corpo reale e immagine in proiezione è senz’altro la caratteristica di questo spettacolo. L’uso della tecnologia delle immagini come metafora della memoria è esemplificato in Les sept branches de la rivière Ota, spettacolo, commissionato dal governo giapponese tra le attività di commemorazione del cinquantesimo anniversario della bomba atomica su Hiroshima. La tecnologia video – che nello spettacolo racconta attraverso immagini in movimento le storie orientali e occidentali che cominciano o finiscono a Hiroshima – associata all’antica tradizione del teatro d’ombre, diventa metafora stessa del processo di memorazione.  La scena, strutturata come una tradizionale casa giapponese, bassa e lunga, opaca e trasparente, diventa una lastra “fotosensibile”, o piuttosto un muto teatro d’ombre.

Il cinema è un riferimento fondamentale per Robert Lepage, il quale spesso ha dichiarato che la cultura audiovisiva, cinematografica e televisiva ha da sempre influenzato il suo teatro portandolo a “réinventer le vocabulaire narratif“. In quanto canadese, anzi in quanto québecois:

In Québec non c’è tradizione letteraria. Il nostro Molière è ancora in vita, ha cinquant’anni e si chiama Michel Tremblay. La tradizione letteraria non è presente come in Europa. La nostra tecnica di scrittura deriva effettivamente dalla televisione o dal cinema. Il teatro non è ufficializzato dalla scrittura: non si parla di scrittura teatrale ma piuttosto di uno spazio di scrittura cinematografica affiliata al teatro. Per quanto mi riguarda trovo la scrittura cinematografica più teatrale del teatro, risponde veramente alle regole della tragedia greca: le sceneggiature sono strutturate, sono dei sistemi shakespeariani. Mi stupisco dunque molto che la gente di teatro rifiuti questa scrittura. Con lo zapping, ciascuno può seguire una storia senza che venga raccontata in maniera lineare. Davanti al suo televisore uno spettatore può guardare contemporaneamente il calcio e un dibattito. E finisce per trovare il filo di ciò che guarda. E’ come a teatro, è in grado di trovare il filo tutto da solo, sa che questo è un flashback (…) Troppa gente considera il teatro qualcosa di superato.

Più che usare immagini cinematografiche, Lepage struttura la scena stessa come un grande schermo (i sette pannelli che compongono la casa giapponese in Les sept branches de la rivière Ota, il muro in Le polygraphe, la parete scorrevole in La face cachée de la lune, l’enorme cornice televisiva in Apasionada). La trama è spesso suddivisa in sequenze e “quadri” che ritagliano e isolano la scena letteralmente “incorniciandola”, ricreando vere e proprie inquadrature e movimenti della macchina da presa, mentre la storia procede attraverso originali raccordi imitando le modalità e le tecniche del film secondo un procedimento narrativo non lineare, con distorsioni temporali in forma di analessi (flashback) e prolessi (flashforward), che mettono in crisi la cronologia stessa del racconto.

La citazione al cinema è presente anche nella finzione teatrale: in Les sept branches de la rivière Ota un’équipe di cineasti americani sta filmando un documentario su Hiroshima; in Les aiguilles et l’opium il protagonista è a Parigi per un lavoro di postproduzione di un film; in Le polygraphe la protagonista è un’attrice che dopo molti provini, è stata scelta per girare un film. L’universo teatrale di Lepage è inoltre costellato di scritte proiettate in scena che segnalano la separazione da una sequenza all’altra oppure servono a dare indicazioni di luogo e di tempo, o a indicare i “credits” come i titoli di coda dei film.

LE POLYGRAPHE O LA RICERCA DELLA VERITA’

Le polygraphe, spettacolo creato con un lungo work-in-progress nel 1987-88 (ma con una prima ufficiale a Londra nel febbraio 1989) ed interpretato inizialmente dallo stesso Lepage insieme con l’attrice Marie Brassard (che fu anche co-autrice del testo) e con Pierre-Philippe Guay, ha avuto nel 1996 una versione giapponese e nel 2000 una versione italiana. Da una tragica vicenda autobiografica (l’omicidio di un’ amica nel 1980 all’epoca in cui Lepage frequentava il Conservatoire d’Art Dramatique di Québec) il regista trae gli elementi per un allestimento che gioca a confondere teatro e cinema, il racconto teatrale con la suspense del thriller e del film poliziesco (con echi da certa filmografia hitchcockiana) e con le tecniche cinematografiche. Il tema dello spettacolo, ambientato in parte a Québec e Montréal e in parte a Berlino il cui Muro è una simbolica presenza (soprattutto a partire dal 1989, anno della sua caduta) ma anche pratica parete di proiezione, è la verità. O meglio, la ricerca di una verità che, simile a una Matrioska, come si racconta nello spettacolo, sembra contenerne molte altre. Una donna è stata uccisa in circostanze misteriose e alcune persone a lei vicine vengono sospettate; tra di esse il suo ragazzo, François, uno studente di scienze politiche di venticinque anni che sta svolgendo una ricerca sul muro di Berlino. Dopo sei anni un regista decide di farne un film e per il ruolo della vittima sceglie una giovane attrice, Lucie, che abita porta a porta con François, il maggior sospettato dell’omicidio e sottoposto alla macchina della verità (poligraphe in francese). Questi, poiché non era mai stato informato dal medico Christof circa il risultato del test in quanto omicidio non risolto, cade in uno stato di angoscia e di ossessione che lo porta ad atti estremi di autodistruzione. Lucie (attrice teatrale dilettante alle prese con l’emblematico monologo amletico) conosce anche il criminologo incaricato delle indagini nel Metro di Montréal casualmente perché entrambi assistono al suicidio di un ragazzo, e in seguito hanno una relazione. Christof le rivela l’esito della macchina della verità; Lucie, a conoscenza dell’innocenza di François non potrà però rivelargliela. La vicenda termina con il suicidio di François sotto un metro. Sesso, sangue e morte sono strettamente collegati nello spettacolo, in un contrasto che ricorda le vicende e l’atmosfera che animeranno, sette anni dopo Les sept branches de la riviére Ota: la morte e la devastazione della bomba atomica si mescolano alla sensualità e all’invito alla “rigenerazione”. Come afferma lo stesso Lepage:

In Le Polygraphe la morte è un importante tema costantemente legato alla sessualità. Uno dei personaggi è un medico legale. Mentre seziona un cadavere, spiega come è fatta la carne, come circola il sangue, come funzionano o non funzionano più i vari organi. I dettagli sono insignificanti. Ciò che è importante è che egli ha entrambe le mani immerse fisicamente in un corpo. Quando vuoi far risaltare il giallo in un quadro usi il nero. Quando vuoi esaltare un tema musicale usi il contrappunto. Lo stesso vale per i temi di un dramma. Se vuoi rivelare la vita e vuoi che gli istinti sopravvivano e si riproducano, spesso devi avvicinarti ad essi attraverso la morte“.

 I rapporti, con risvolti sessuali espliciti, tra Christof, Lucie e François il principale indiziato, sono alla base dello spettacolo suddiviso in ventidue brevi sequenze frammentate con soluzioni di vera “cineficazione”: dissolvenze, flashback, primi piani, proiezioni, slow motion, accelerazioni, alternate scenes, con richiami espliciti al linguaggio cinematografico e alle convenzioni che regolano la comunicazione audiovisiva. La narrazione, costituita da una successione di quadri (alcuni dei quali esclusivamente visivi) solo apparentemente slegati tra loro e aventi continui spostamenti di tempi e di luoghi, mette il pubblico teatrale nella condizione di dover indagarne il senso, ricostruendo l’enigmatica vicenda: la macchina da presa – come ricordava André Bazin a proposito dei film di Cocteau – è lo spettatore.

Con Le Polygraphe si preannuncia l’interesse di Lepage verso una scena “integrata”, che attinga con grande disinvoltura al linguaggio e alla cultura dei vari media, dal cinema alla televisione. Questo libero e spregiudicato uso dei linguaggi in scena non significa però confusione tra le diverse arti, come precisa Lepage:

Il cinema, anche quello visto su grande schermo e in Dolby stereo, non potrà mai dare quello che dà il teatro. Non lo dico perché sono un purista. Lo dico perché il cinema è un’esperienza individuale mentre il teatro è un’esperienza collettiva” .

Gli oggetti e lo spazio

Pochi oggetti concreti “a funzionamento simbolico”, richiamano immediatamente – tra tensione verso il realismo e gusto metafisico – una storia drammatica di incomunicabilità, di solitudini, di drammatiche esplorazioni interiori, di silenzi, violenze, separazioni e morti: il muro, lo scheletro, lo specchio.

 Le proiezioni di diapositive e l’aggiunta di pochi altri oggetti di arredo (un rubinetto, un tavolo) permettono di trasformare il muro in stazione del metro, interno di discoteca, ristorante e appartamento; l’immagine fotografica è anche usata per evocare lo spettro della morte: nella scena iniziale al corpo di Lucie si sovrappone in proiezione l’immagine spettrale di uno scheletro che ha il suo corrispettivo nella scena finale: il corpo nudo di François diventa uno scheletro con un eguale gioco di specchi e di proiezioni. Lo scheletro come presenza funesta anticipatrice di eventi tragici (come nella scena della Danse macabre di Saint-Saens presente ne La règle du jeu di Jean Renoir, 1939) non può che richiamare sia le iconografie delle medioevali danze macabri o i Trionfi della Morte che raccontano – come ricorda M. L. Testi Cristiani – “l’umana Commedia o la moralité”, che le pitture surrealiste di Dalì e gli inquientanti manichini dei quadri metafisici di De Chirico. Come nel surrealismo e nella metafisica lo scheletro funziona quale dépaysage, oggetto insolito ed estraneo alla generale collocazione della storia inserito per associazione illogica e psichica, a metà strada tra visionarietà onirica e proiezione inconscia dei personaggi. Proprio il quadro metafisico Piazza d’Italia (1913) di De Chirico presenta un lungo portico lungo l’asse prospettico centrale e soprattutto, in posizione avanzata rispetto ad esso e completamente frontale a tagliare la metà del quadro, un lungo muro di mattoni che può vagamente ricordare l’ambientazione scelta per Le polygraphe. Il muro permette lo svolgimento di azioni davanti e dietro di esso, stabilendo così, anche una distanza fisica tra gli eventi spazialmente distanti, narrati. Tale procedimento verrà perfezionato proprio ne Les sept branches de la rivière Ota in cui è usata dagli attori tutta la profondità del palco grazie all’espediente della presenza di una parete orizzontale divisoria fatta di schermi trasparenti – a ricordare la facciata di una casa giapponese. Questi attraverso l’uso particolare di luci e proiezioni di video e di ombre permettono una narrazione che disloca eventi temporalmente e spazialmente lontanissimi tra loro (dal 1945 al 1985 e dall’Oriente all’Occidente) in luoghi diversi della scena ma tutti raccolti, esattamente come in Le Polygraphe, intorno a un unico ambiente avente una forte pregnanza simbolica. Scheletro e muro, inoltre sono strettamente collegati insieme nel racconto teatrale: così come l’innalzamento del muro di Berlino nel 1961 che delimitava il confine tra Est e Ovest ha significato la morte per centinaia di persone che dalla Repubblica democratica volevano entrare nella Repubblica federale, così il cadavere sezionato prelude a quel suicidio finale la cui motivazione sarà proprio la consapevolezza da parte di François di una prigionia all’interno di un muro di silenzio, associato all’impossibilità di comunicare la propria innocenza. Lo specchio è, inoltre, una costante presenza negli spettacoli di Lepage: solitamente simbolo nel suo teatro, di un necessario percorso di indagine autoanalitica dei protagonisti generato da una frattura o una perdita, in questo caso diventa porta verso un altro mondo (come nel film di Jean Cocteau Le sang du poète, 1930) e oggetto di scambio fra la realtà e il mondo interiore. Lo specchio – oggetto orfico per eccellenza – registra, secondo una famosa frase di Cocteau che è anche presente nella conversazione tra Lucie e Christof al ristorante, “la mort au travail”:

 “Les miroirs sont le portes par lesquelles la mort vient et va. Du rest, regardez-vous toute votre vie dans une glace et vous verrez la mort travailler comme les abeilles dans une ruche de verre.

Cinema o teatro?

Nella prima scena denominata Il filtro (Québec, 1983) abbiamo una simultaneità di situazioni: sulla destra il criminologo Christof Haussmann legge un rapporto di autopsia di un cadavere servendosi per indicare le ferite sulla vittima, di uno scheletro in posizione fetale. Sulla sinistra François Tremblay illustra ai suoi compagni universitari una relazione sul muro di Berlino. La connessione tra i due discorsi è evidente: il taglio sul corpo ha inferto un blocco al passaggio del sangue ossigenato, il muro di Berlino ha impedito la libera circolazione di persone e di idee. Si parla di un omicidio e contemporaneamente della Storia. La metafora anatomica e il procedimento di montaggio parallelo (alla Griffith) o anche l’effetto a “doppia finestra” video contigua e comunicante, che prevede un passaggio di parole e intrecci di frasi tra i due personaggi, fanno slittare continuamente il discorso dal teatro al cinema alla denuncia politica e sociale. Il muro di Berlino (che nella scena 7 arriverà letteralmente a sanguinare perché “...la Storia è scritta con il sangue“) ha inciso profondamente sul corpo della collettività abitante la zona Ovest così come profonda è la ferita da arma di taglio del cadavere sottoposto all’autopsia del criminologo tedesco:

 François: ….I sovietici, da parte loro, hanno costruito un muro di più di quaranta chilometri che l’ha tagliata in due.

Christof: L’avevano tagliata alla mano sinistra, al braccio destro, colpita alla cassa toracica con un proiettile perforandole il polmone e si può supporre che il colpo fatale sia stato inferto qui

François e Christof: …In pieno cuore

François….della città

Christof.…tra la quinta e la sesta costola

François: Il muro della vergogna, come lo chiamano i tedeschi dell’Ovest, venne eretto allo scopo di bloccare….

François e Christof.…l’emorragia….

François…di berlinesi…

Christof….che è seguita

François..passando da Est a Ovest…

Christof: …è stata occasionata dal sezionamento del setto.

L’incipit che simula il montaggio parallelo con conseguente ritmo sostenuto, risponde anche alla classica funzione di tale procedimento nei film, ovvero di presentazione sintetica al pubblico dei personaggi e delle vicende della storia. In questo caso il montaggio parallelo prelude anche all’intreccio drammaturgicamente significante tra muro e cadavere, le cui immagini diventano un vero leit motiv visivo, facendo precipitare il racconto continuamente dal piano realistico a quello simbolico e viceversa.

Lo stesso espediente della contemporanea doppia colonna narrativa (il cui corrispondente filmico è appunto, il montaggio parallelo) viene riproposta nella scena 19: durante il trasloco Lucie trova una cintura borchiata: François dice di usarla per alcune pratiche omosessuali sadiche. Dietro il muro grazie a uno specchio appare Christof che sta parlando a una conferenza sugli effetti devastanti provocati dalla macchina della verità: mentre spiega i danni permanenti che può causare psicologicamente a una persona che si dichiara innocente, François descrive a Lucie come si stringono con forza i lacci e come si benda la persona per renderla maggiormente vulnerabile, racconto che lo riporta con la memoria all’episodio della macchina della verità, in un vortice di ricordi in soggettiva, violenti e drammatici, in bilico tra innocenza e colpevolezza, tra verità e menzogna:

Christof: In primo luogo, la macchina della verità registra la minima variazione della velocità e del palpito del cuore, indicando anche, con un disegno nel grafico, se c’è un aumento, oppure nel caso di certe persone, una diminuzione della pressione arteriosa.

François: Stringo un poco

Christof: La respirazione del soggetto interrogato offre un’altra lettura delle modificazioni fisiche provocate dai nervi. L’apparecchio poi controlla il livello di sudore della persona interrogata. La macchina della verità può rivelare la minima variazione dello stato fisico e psichico prodotta durante l’interrogatorio

François: (Benda gli occhi di Lucie) Così hai realmente la sensazione di essere vulnerabile…

 Nella scena 4 (François; interno, notte) François, cameriere in un ristorante di Montréal, apparecchia, sparecchia e dialoga con clienti immaginari a velocità sostenuta in una specie di accelerazione mediatica e recita con la stessa accelerazione il testo della scena successiva. Con una frequenza ossessiva fanno poi la loro comparsa nella mente di François, come un incubo incancellabile, l’immagine del lie-detector e la voce del criminologo che gli rivolge la solita domanda:

 “François mi sente?…Ma non può vedermi vero? François stiamo per procedere a un test… Siamo o no in Canada? Siamo o no in estate? Lei ha assassinato o no Marie-Claude Légarè?”.

 In questo caso si unisce anche il motivo del flashback diegetico che, più che far tornare indietro il racconto, crea una pausa sostenuta la cui funzione è quella di focalizzare l’attenzione sulla psicologia del personaggio.

Nella Scena 5 (Audizione, interno, giorno) Lucie fa il provino per un film; le viene chiesto di improvvisare una scena drammatica. Nella scena successiva (Metrò, Interno notte) Lucie assiste al suicidio di un ragazzo e in stato di choc, viene soccorsa dal crominologo Christof. Alla fine della scena Lucie è ancora dentro la sala cinematografica per il provino. La scena del metro non è altro dunque, che un flashback che Lucie ha richiamato alla sua mente volontariamente (quasi stanislawskianamente) per ritrovarsi in una condizione emotiva drammatica come richiestole per il provino ed essere così più realistica nella sua interpretazione. Nella scena 13 (La ferita; interno, notte) Lucie e Christof sono a tavola al ristorante serviti da François quando in un’azione esasperatamente rallentata quasi come un fermo fotogramma, viene accidentalmente rovesciato sulla tovaglia il vino rosso che sembra ricoprirsi di sangue e richiama l’omicidio in cui a vario titolo tutti e tre sono coinvolti e introduce con un climax estremamente significativo, la tensione tipica del thriller cinematografico. Lo slow motion che produce un effetto di estensione temporale, enfatizza infatti un evento diegetico di breve durata per creare un crescente effetto di suspense.

Se Le Polygraphe è costruito interamente attraverso una sequenza a episodi con “effetto cinema”, appropriandosi dello “spazio-tempo filmico” ed in base ad un ordine del racconto non lineare, ricco di passaggi al passato, il finale addirittura arriva a “mostrare” al pubblico teatrale i personaggi non solo frontalmente ma da punti di vista insoliti, con una visione dall’alto, per esempio, come se si trattasse di un movimento della macchina da presa rispetto al soggetto, giocando sullo spostamento radicale verso il linguaggio cinematografico (e che ancora una volta ricorda Le sang d’une poète di Cocteau, scena “La leçon de vol, la petit fille au mur”).

 Gli attori, per mostrare questo insolito punto di vista, sono atleticamente posizionati in maniera da stare in bilico sul muro in posizione antigravitazionale, mentre nella scena 16 si ripropone una sorta di coreografia come riassunto visivo in forma di corti flash, ovvero in avanzamento veloce (il line up). In questo scorrere finale della vicenda, i personaggi si muovono velocemente con gesti essenziali e sono completamente nudi (è la resa davvero letterale della ricerca della “nuda verità”).

Le polygraphe, thriller metafisico, corre sul filo di un doppio cammino di verità: mentre si cerca il vero assassino attraverso vari indizi, ricostruendo ciò che accadde grazie alla macchina della verità, si rivela che il cinema è illusione (Lucie usa un liquido irritante per piangere sul set). Se la verità passa per una menzogna (l’innocente François sottoposto al lie-detector alla fine non è più sicuro di essere tale), la finzione cinematografica gioca ad apparire terribilmente reale (“A volte bisogna soffrire quando vuoi far sembrare che stai davvero soffrendo”). Come il bisturi seziona il corpo dell’assassinata per scoprirne la causa della morte, così l’occhio della cinepresa incombe minaccioso sull’attrice, rovesciando inaspettatamente la vicenda tragica e la rappresentazione del dolore (è cinéma-verité o la realtà?) e giocando un macabro gioco la cui posta è la vita stessa: “Il regista mi pare un po’ insistente, voglio dire, con l’occhio della sua camera… Oggi abbiamo girato una scena in soggettiva, sa, come se si vedesse l’azione attraverso gli occhi di un assassino che guarda la sua vittima attraverso un lampo di luce. Ma durante la ripresa (…) avevo l’impressione di essere guardata (…) Mi è sembrato di essere fatta a pezzi (…). Sì… sai com’è… un piano della bocca che urla, primo piano del coltello nella schiena, la mano che gratta il pavimento”. Se la reazione spontanea dell’indiziato è secondo la polizia, la prova dell’innocenza e la macchina l’unico strumento in grado di registrare le alterazioni di emozioni e di afferrare quindi, la verità al di là e oltre ogni simulazione, lo spettacolo afferma con decisione il contrario: l’impossibilità di approdare ad una verità unica e definitiva che appare al contrario sempre più inafferrabile. La presenza di Amleto interpretato da Lucie sul palcoscenico, contribuisce a fornire la visione di una gravosa e sofferta ricerca interiore: le storie di tutti i personaggi, dal criminologo Christof a Lucie Champagne a François nello spettacolo non sono altro che le storie degli Amleti che hanno gettato uno sguardo sulle cose del mondo, ne hanno visto l’orrore e sono stati colpiti da un dolore insopportabile. In questo senso è esemplare la scena 2 completamente muta e ambientata all’istituto medico-legale: di fronte alla macchina della verità Christof, tormentato da apocalittici dubbi di innocenza e colpevolezza, sta maneggiando un teschio. Queste le indicazioni del copione:

“Christof sta terminando la redazione di un rapporto sopra un test del poligrafo. Chiude il detector, sistema le sue carte, tira fuori di tasca una sigaretta e l’accende, poi sempre dalla tasca cava una lettera che rilegge con emozione, si direbbe per la centesima volta. Prima di uscire, dopo aver indossato il cappotto incrocia lo scheletro che ora è in piedi e ne prende con dolcezza la testa in mano, imitando inconsapevolmente la posizione tipo di Amleto”.

 Le Polygraphe (di cui Lepage firma anche una regia cinematografica nel 1996 tiepidamente accolta dalla critica) condivide con Le Confessionnal (suo successivo film ispirato esplicitamente a I Confess di Hitchcock) il tema della ricerca di una verità che attraversa labirinticamente meandri nascosti della vita dei personaggi mettendone in luce drammi interiori inespressi o rimossi e relazioni irrisolte.

NOTE

 (1) Vedi A.M.Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage, Pisa, Bfs, 2004, La tecnologia è la reinvenzione del fuoco in E.Quinz (a cura di) Digital performance, Paris, Anomos, 2002; Attore-specchio-macchina, in A. M. Monteverdi, O.Ponte di Pino, Il meglio di ateatro, Milano, Il principe costante, 2004; A.M.Monteverdi, La scena trasformista di Lepage in “Teatro e storia” n.25, 2005.

(2) “E’ chiaro che la pertinenza dell’immagine come medium risiede meno nella sua capacità di rappresentazione che nei suoi effetti metaforici sullo sguardo, incitando lo spettatore a vedere ‘altrimenti’ e più lontano di quanto l’occhio non veda. Se in generale ‘i media sono cambiati e hanno cambiato la nostra maniera di pensare, sia sul piano della forma che del contenuto’ quello che l’immagine teatrale sta cambiando in quanto medium, è in modo particolare, la nostra maniera secolare di vedere, interrogando e esplorando in scena quello sguardo nuovo che la nostra epoca posa sul mondo“. I. Perelli-Contos, C. Hébert, L’oeuvre de R. Lepage, cit., p. 277. La frase tra virgolette è di Robert Lepage ed è tratta da I. Perelli-Contos, C. Hébert, La tempête Robert Lepage, cit., p. 64.

(3) L. Fouquet, Clins d’oeil cinématographiques dans le théâtre de R. Lepage, “Jeu”, n. 88, 1998.

(4) Irène Perelli-Contos e Chantal Hébert si sono soffermate a lungo sull’uso metaforico delle tecnologie nel nuovo “teatro immagine” secondo Lepage. Rimandiamo senz’altro all’importante saggio (riferito in particolare agli spettacoli Circulation e Les sept branches de la rivière Ota) L’écran de la pensée ou les écrans dans le théatre de Robert Lepage, in B. Picon-Vallin (a cura di), Les écrans sur la scène, Lausanne, L’Age d’Homme, 1998.

(5) Nota di Robert Lepage allo spettacolo Elseneur, datata settembre 1995 e consultabile al sito http://www.cicv.fr/reseau/epidemic/geo/art/lepage/prj/els.html

(6) Il riferimento visivo immediato è alle semisfere rotanti di Anemic cinema (1925-1926, 7′, 35mm), film muto realizzato da Marcel Duchamp in collaborazione con Man Ray.

I giocattoli di Dioniso, di Fernando Mastropasqua
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Sul mito dell’invenzione del teatro

 

Cratere di Prònomos, 410 a.C. circa, Napoli, Museo Archeologico Nazionale. 

Il mito della invenzione del teatro ci è tramandato dalla tradizione orfica.
Clemente, vissuto nel II secolo dopo Cristo ad Alessandria, ma probabilmente ateniese e certamente di cultura greca, allievo e forse a un certo punto direttore della scuola cristiana, ci informa sul nucleo centrale dei misteri dionisiaci. La fonte è molto attendibile, dato che, prima di convertirsi al Cristianesimo, Clemente è stato iniziato ai misteri. Clemente ci dice che i misteri erano basati sulla storia di un piccolo dio ammazzato e su quella di una donnetta piagnucolosa. Allude evidentemente al mito di Dioniso fanciullo sorpreso e fatto a pezzi dai Titani e a quello di Demetra in lutto alla ricerca della figlia Persefone, rapita sottoterra da Ade. Il mito di Dioniso ci è pure conservato da Clemente che cita i versi di Orfeo in cui il mitico cantore, fondatore delle iniziazioni e delle rappresentazioni drammatiche, come attesta un passo di Nonno di Panopoli, elenca i giocattoli con cui si trastullava il piccolo dio. Essi rappresentano l’apprendistato di Dioniso a un particolare gioco. Dalla citazione di Orfeo veniamo a conoscenza di quattro giocattoli, altri quattro sono menzionati da Clemente nel commento del passo:

«ma i Titani si insinuano con l’astuzia: dopo di averlo ingannato con giocattoli fanciulleschi, ecco che questi Titani lo sbranarono, sebbene fosse ancora un bambino, come dice il poeta dell’iniziazione, Orfeo il Tracio: “la trottola, il giocattolo rotante e rombante, le bambole pieghevoli e le belle mele d’oro delle Esperidi dalla voce sonante”. E non è inutile menzionarvi come oggetto di biasimo i simboli inutili di questa iniziazione: l’astragalo, la palla, la trottola, le mele, il giocattolo rotante e rombante, lo specchio, il vello». 

Affresco dalla Villa dei Misteri, Pompei.

Gli otto giocattoli rimandano tutti alle arti e alle tecniche teatrali. La trottola – il termine greco è più esattamente «pigna», con cui veniva adornata la punta del tirso dionisiaco ­ richiama la danza rotatoria su se stessi per procurarsi uno stato di estasi. Accompagnata dal suono del giocattolo rotante e rombante, ossia il rombo, costituito di una tavoletta a forma di pesce fissata a una corda che si faceva roteare. Secondo la lunghezza della corda, la velocità di rotazione, la grandezza della tavoletta si potevano ottenere infiniti suoni, che erano connessi con Dioniso: il muggito taurino, il sibilo del vento, il rombo del tuono, ecc. In questo totale abbandono al ruotare su se stessi e contemporaneamente roteando il rombo, si provocava uno stato allucinatorio che produceva visioni, forme, figure. Sono le immagini in azione: marionette, automi semoventi, come quelli costruiti da Dedalo, maschere. Fino all’attore.
La trance provoca azioni e suoni, mentre dalle figure emergono canti ricchi di sapienza e di verità nascoste. Esse sono contenute nell’ultimo giocattolo citato da Orfeo: le mele d’oro. Il viaggio allucinatorio infatti trasporta nel giardino delle Esperidi, ai confini del mondo occidentale, in quel «tramonto» (Nietzsche in Così parlò Zarathustra lo fa parlare al tramonto, quando Zarathustra è così pieno di sapienza che non può più trattenerla e trabocca da lui) in cui tre ninfe-serpenti cantano dolcissimi canti. Sono le custodi dell’albero delle mele d’oro che sorge al centro del giardino. I suoi frutti sono dorati perché generati dai semi del gregge (il vello d’oro) sepolto sotto l’albero. Il termine greco mélon permette infatti l’ambiguità tra frutto (mela, pera, arancia) e pecora. Il frutto non somiglia poi molto a una mela, ma secondo Erodoto somiglia alle nespole o alle olive, insomma un frutto più vicino al grappolo d’uva che non alla mela. Tanto più che spremuto dà un succo dolcissimo che inebria e dona l’oblio. Il quarto giocattolo dunque allude all’ebbrezza dionisiaca che dà un canto sapiente, un logos poetico e divino.
Le immagini scaturite dal delirio allucinatorio della danza e del rombo rotanti conoscono le tecniche del canto e della declamazione, la possibilità di riprodurre infiniti suoni e melodiose parole piene di saggezza. Degli altri giocattoli ricordati da Clemente, alcuni sono ripetuti, come la trottola, il rombo, le mele, altri sono assimilabili, dunque ripetizioni chiarificatrici, come la palla che evoca il gioco della palla, gioco costituito di danza e canto, come quello cui sono intente Nausicaa e le sue ancelle quando Ulisse emerge dinanzi a loro, e che amplia la danza rotatoria a un altro movimento che somiglia a quello degli astri. Se la palla dunque si connette alla trottola, il vello si connette alla mela, sottolineando il rapporto del frutto con il suo seme. Rimangono l’astragalo e lo specchio. L’astragalo, il gioco dei dadi in relazione con la divinazione, richiama il tempo («Il Tempo è un fanciullo che gioca a dadi», Eraclito). La trottola che oltre a girare su se stessa per effetto della palla si abbandona a una danza degli astri dichiara la costruzione di un altro universo e dunque di un nuovo tempo. Il teatro vive nella visione di immagini che portano a un altro spazio e a un altro tempo. Il teatro si fa distruttore dell’ordine, come il corteo dionisiaco che costituito di menadi e amazzoni sovverte e rovescia ogni cosa che incontri: rischio e sapienza (astragalo e specchio).
La funzione distruttiva in base a una più profonda conoscenza, instillata dalle mele d’oro, porta a contemplare nello specchio verità sconosciute. L’atto è pericoloso e porta lo smembramento di sé, come il piccolo Dioniso fatto a pezzi dai Titani, proprio mentre gioca con l’ultimo giocattolo, lo specchio. Nella interpretazione orfica l’arte del teatro si denuncia come la suprema visione dell’altro, dello sconosciuto, ma insieme rivela il carattere di illusione. La potenza sta nella coscienza che l’illusione crea.

Affresco dalla Villa dei Misteri, Pompei.

Lo specchio (presente nella cesta mistica, come nel rituale affrescato nella Villa dei Misteri di Pompei) fonte di conoscenza, condizione della trasfigurazione che la maschera impone all’iniziando come all’attore, infinito contenitore di immagini ma fugaci, porta il gioco al supremo piacere e insieme ne rivela la precarietà e i limiti. E che il gioco sia quello del teatro troviamo conferma sul cratere di Prònomos, un vaso del V sec. a.C., in cui emerge nella illustrazione dell’arte teatrale la figura allegorica di Paidià, il Gioco, che proietta verso lo spettatore nel gesto di onore presso i Greci (il braccio proteso verso l’altro) una maschera, i cui lineamenti in stucco dovevano creare l’illusione in chi guardava del suo affiorare dalla superficie del vaso per essere accolta dall’osservatore.

Cratere di Prònomos, 410 a.C. circa, Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Cinematography Of The Stone Age: William Kentridge
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Pubblicato su Digimag.

The South African artist William Kentridge is one of the most renowned contemporary visual artists and proposes a poetic view on ancient taste where art and technique come together in the original value and significance of techné: the shows are based on his original filmed animations and recalls those theatres from the beginning of the century that experimented with the rudimental techniques of luminous animation (drawings on pieces of mobile glass, projected thanks to a Magic Lantern), promoting a primitive form of optical art.

William Kentridge’s biography is rich with events and experiences connected to the theatre: he frequented the Ecole Jacques Lecoq in Paris, he became a set designer, actor and director of the Junction Avenue Theatre Companyand the Handspring Puppet Company in Johannesburg and he put on shows by writers Tom Stoppard and Alfred Jarry; he later became the director of short animation films shot on 16mm as well as an author of drawings and incisions: in their anxious-ridden black comedy where there is a harsh social critique of the South African government before the democratic elections of 1994 in South Africa and before the creation of the Nelson Mandela’s African National Congress, and his pictorial allusions to Goya, Bacon, Grosz and Weimar artists that coexist with the atmospheres of the theatre of the Gran Guignol and Beckett-like dramas.

He worked for Ubu tells the truth (1996-1997), doing drawings and graphics that make up the visual corpus of the successive filmed animations created for the show that went on stage with puppets entitled Ubu and the Commission of the Truth; he then worked on the drawings for the show Faustus in Africa (1995), on the scenes forConfessions of Zeno (2002), on the musical opera The return of Ulysses (1998) from Monteverdi; Preparing the flute on the other hand is a little theatrical model with two animated films in 35mm where Kentridge reinvents his work for the sets of the Magic Flute by Mozart.

 The Drawings for Projections make up the heart of Kentridge’s artistic elaborations and is extended to the theatrical sets: these are animated films and mute films created from carbon drawings and inaugurated at the end of the 80’s with masterpieces such as Monument (1990) based on Beckett’s Catastrophe. His work behind the Boles 16mm is difficult and particular, where he creates animated sequences, without a script or storyboard: the sequence is composed of minimal variations and erasures of a few carbon and monochrome pastel drawings on paper, which conserve the evident traces of their own metamorphosis, an action that goes back to the origins of cinema, the first photographic studies of the Marey and Muybridge movement.

The coffee maker becomes a mine through animation, the stethoscope a telephone: the outside landscape absorbs the dramatic memories and social happenings that it went through; the automation of the medium used by Kentridge counter opposes, according to Rosalind Krauss, the “luck” and free interpretation of the technique that modifies and at times contradicts the conditions and nature of the support: from the flow of images of film to the immobility of drawings.

As Carolyn Christov-Bakargiey recalls, Kentridge has deep interest in different techniques, but does not appreciate the “innovative practices per se, nor the historical evolutions of art, style and technique and prefers obsolesce”, and underlines the deep meaning of this open modality, expanded and processed through the recording of the drawing for its projection, which contains the imperfections but also the layers of memory, against the “dulling” of society: “In his art an erasure – counter opposed to the distinct lines – is also a healthy metaphor for the protest against certainty and preconceptions at the base of human and social relationships in the world that only appears to be more interactive and democratic than the digital era. The erasure puts into questions any definitive affirmation that is possible”.

Kentridge talks about a pre-cinematographic technique or rather, a “cinematography of the stone age”, and the criticRosalind Krauss underlines the “reinvention of the cinematographic medium” through the re-writing of a new linguistic code and the recuperation of a craft-like practice that was lost forever in the era of computerized programming: Kentridge, although he uses the technique of stop-motion animation that records the phases of drawing, “does not pursue the cinema as such but instead builds a new medium on the technical support of a common cinematic practice of mass culture”. In other words, according to Krauss, Kentridge’s animations would be more similar to a flicker book, to a rotating cylinder of a Phenakistoscope, the taumatrope, in other words those instruments that are obsolete today and that primitively and rudimentally anticipated the recording of images in motion

This is Kentridge’s direct testimony: “the technique that I take on to make these films is primitive. Traditional animation takes thousands of different drawings that are recorded in sequence to make a film. This generally implies the work of a team of animators and consequently the fact that the whole film must be projected beforehand. The images are drawn by the main animator and the intermediate phases are completed by the assistant animators, whereas the others work on going over lines and colouring. The technique I use consists of a sheet of paper stuck to a wall in a studio, I put in the camera in the middle of the room, usually an old Bolex. I sketch a drawing on a sheet of paper and then I go to the camera, I take one or two frames, I (marginally) modify the drawing, I go back to the camera then to the drawing, then to the camera and so on. In this way every sequence, compared to every frame of the film, is one unique drawing. In all there will be about 20 drawings per film instead of the thousands that you would expect. It’s a similar procedure to doing a drawing, more than to doing a film. Once the film has been elaborated by the camera, the completion, the editing, is the addition of sound, music and the rest works as for any other film”.

The graphic and film works of William Kentridge cannot be separated from the recent political struggles of South Africa, the theme of the Apartheid which he dedicates a long saga to, Soho Eckstein, the story of a greedy and cynical capitalist who is a symbol of the corruption and depravation of Johannesburg that is under pressure from constant racial injustice and the exploitation of workers in mines. A character that is opposed to Soho Eckstein is the solitary and sad Felix Teitlebaum. History of the Main Complaint was created in 1995, Felix in Exile, in 1994, the year of the first democratic elections in South Africa.

When Kentridge is asked to collaborate in the form of a exhibition on his incisions made for the graphical series Ubu tells the truth he adds a naked human figure as a narrative element placed inside the white profile of a shapeless mass of King Ubu who takes all the forms of power, with his pointed head and his spiral stomach on the black-slate background of a blackboard. Ubu, the emblem of institutionalised cruelty becomes the “grey area” inside us and the system (“The structure” as Julian Beck would have said…) which we are responsible for. These drawings and these incisions have become the central nucleus of animation for the show Ubu and the commission of the truth in collaboration with the Handspring Puppet Company (1995); it is a violent protest against the events and racial conflicts of South Africa before the elections.

The animation technique in this case, compared to the experimental mode of the other drawing for projection on Soho Eckstein, is different as it enriches the rudimental cut outs of newspapers, the processions of dark silhouettes like glued-on shadows and metallic parts onto paper, white chalk drawings on dark paper and films of other archive material that are a testimony to the violence and repression, as well as that of the police armed with whips that attacks the crowd in Cato Manor in 1960 or attacks a group of students at Witz University during a state of emergency in 1980 and that of the revolt in Soweto in 1976. The theatrical viewpoint began from the disturbing revelations that came out of the courts of the Commissions for the enquiry into the truth and reconciliation of South Africa. The Commission was created with the purpose of recording the witnesses of the horrors, the abuse and violations of human rights.

 Woyzeck on the Highveld 

 Even William Kentridge works on Woyzeck as Robert Wilson had done in the Theatre (with music by Tom Waits) and William Herzog in the cinema with Klaus Kinski in 1979; the drama was written by Buchner in 1837 and was incomplete because of the death of the author, and so is a fragmented text, as it has been defined, in “stations”. It talks of the unhappy story of the soldier Franz Woyzeck, who dies humble jobs to support his companion Marie and their son who has not yet been baptised. To make more money he does everything for the captain and is a human guinea pig for a doctor for some experiments; Marie betrays him. Woyzeck finds Marie had his rival at a dance in a tavern, and madness and hallucinations bring him to kill the woman.

Kentridge had put on Buchner’s Woyzeck in 1992; in the program notes of the show Kentridge wrote that he was close to this drama as he had seen it as an emblem of conflict (social, political and emotional) after a show in the 70’s and since then he tired to imagine a different context from that of Prussia of the 19th century.

The new context could be none other than the South Africa of today. The second aspect that pushed him to the representation was the desire to work with the company Handspring Puppet Company in a mixed performance where the drawing could be united with the general frame of the representation where the actors were taken away and replaced by puppets where other ways to transmit the emotional depth where not guided by the face of the actor. The third reason was the desire to put an animated film onto the stage that would have a dynamic rapport with the movement of the puppets on stage and that would update the ancient culture of the theatre of figures and the shadow theatre.

Today’s work seen at the Eliseo Theatre during the Romaeuropa festival kept an extraordinary force thanks to the presence of the wooden puppets of human proportions that were guided efficiently by stagehands that were not wearing hoods that awaken an ancient curiosity, and the able animated work of Kentridge.

This takes us, without words, into Woyzeck’s head, exploited, overwhelmed, offended, persecuted by the powerful and betrayed, he who thinks differently, who is the emblem of the persecuted and the humble ill-treated man who at the end succumbs to his own nightmares, goes mad and kills the woman he loves as a definitive act of self annihilation and rebellion. Woyzeck’s mind races between objects, processions of shadows and desires that are not expressed, dreams, psychological disturbances, and enchanting wonders. The sky is a forest of stars and is the only ray of light in an impossible happiness. The technique Kentridge uses is extraordinary as is that of the stagehands of the puppets: in both cases the hand that gives the soul tot eh object. The spectator can be considered the sum of the artistic work of William Kentridge, also because of the theme that is dealt with, that has the South African Apartheid as its foundation.

Kentridge e la cinematografia dell’età della pietra
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Il sudafricano William Kentridge, uno dei massimi artisti visivi contemporanei, propone una poetica dal gusto antico in cui arte e tecnica si ricongiungono nel valore e nel significato originario di techné: gli spettacoli basati sulle sue originalissime animazioni filmate ricordano infatti i teatri d’ombre orientali e quei teatri di inizio secolo che sperimentavano le rudimentali tecniche dell’animazione luminosa (disegni su pezzi di vetro mobili, proiettati grazie alla lanterna magica), promuovendo una primordiale forma di teatro ottico.

La biografia di William Kentridge è costellata di eventi ed esperienze legate al teatro: iscritto alla “Ecole Jacques Lecoq” di Parigi, diventa scenografo, attore e regista della Junction Avenue Theater Company e della Handspring Puppet Company di Johannesburg e allestisce testi di Tom Stoppard e Alfred Jarry; diventa in seguito anche regista di corti in animazione girati in 16mm, oltre che autore di disegni a matita, a pastello, a gessetto e a carboncino su carta, e di incisioni: nella loro angosciante commedia nera si palesa una dura critica sociale al governo sudafricano prima delle elezioni democratiche del 1994 in Sudafrica e prima della fondazione dell’African National Congress da parte di Nelson Mandela.

Lavora ai disegni per lo spettacolo Faustus in Africa (1995), e per Ubu Tells the Truth(1996-1997): i suoi disegni e lavori grafici costituiscono il corpus visivo delle successive animazioni filmate realizzate per lo spettacolo andato in scena con marionette dal titolo Ubu and the Commission of the Truth; alle scene per Confessions of Zeno (2002), all’opera in musica Il ritorno di Ulisse in patria (1998) da Monteverdi; Preparing the Flute è invece un modellino teatrale con due film animati in 35mm con cui Kentridge reinventa il suo lavoro per le scenografie per Il flauto magico da Mozart.
Drawings for Projections costituiscono il cuore dell’elaborazione artistica di Kentridge estesa anche alle scenografie teatrali: sono film animati e muti realizzati a partire da disegni a carboncino e inaugurati alla fine degli anni Ottanta con capolavori come Monument (1990). liberamente ispirato a Catastrophe di Beckett, Sobriety, Obesity and Growing Old (1991), Felix in Exile (1994), History of the Main Complaint (1996).
Travagliato e singolare il lavoro dell’artista davanti alla macchina da presa Bolex 16mm per creare sequenze animate, senza sceneggiatura o storyboard: la sequenza è composta da minime variazioni e cancellature dai pochi disegni a carboncino e pastello monocromo su carta, che conservano tracce evidenti della propria metamorfosi, azione questa che ci riporta al cinema delle origini, ai primi studi fotografici del movimento di Marey e Muybridge. La caffettiera diventa nell’animazione una miniera, lo stetoscopio un telefono: il paesaggio esterno assorbe le memorie, anche drammatiche, e le vicende sociali che lo hanno attraversato.

All’automatismo del medium utilizzato, Kentridge contrappone, secondo Rosalind Krauss, la “fortuna” e la libera interpretazione della tecnica che modifica, e per certi aspetti contraddice, le condizioni e la natura stessa del supporto: dal flusso di immagini del film alla staticità del disegno. Come ha ricordato Carolyn Christov-Bakargiev, Kentridge — pur avendo interessi nelle più diverse tecniche — non apprezza “le pratiche innovative per sé, né le evoluzioni storiche nell’arte, nello stile o nella tecnica e preferisce l’obsolescenza”, e sottolinea il profondo significato di questa modalità aperta, espansa e processuale di ripresa del disegno per proiezione, che contiene le imperfezioni ma anche gli strati della memoria, contro l’“ottundimento” della società:

Nella sua arte la cancellatura è una metafora della perdita della memoria storica – dell’amnesia che inghiotte a livello sociale, ingiustizia, razzismo e brutalità. (…) Tuttavia la cancellatura – in contrapposizione al nitido tratto — è anche una metafora della sana contestazione delle certezze e dei preconcetti alla base dei rapporti umani e sociali nel mondo solo apparentemente più interattivo e democratico dell’èra digitale. La cancellatura mette in dubbio che qualsiasi affermazione definitiva sia in assoluto possibile.

Kentridge parla significativamente di una tecnica pre-cinematografica. O meglio, di una “cinematografia dell’età della pietra”, e il critico Rosalind Krauss sottolinea la “reinvenzione del medium cinematografico” attraverso la riscrittura di un nuovo codice linguistico e il recupero di una pratica artigianale perduta per sempre in epoca di programmazione computerizzata: Kentridge infatti, pur usando la tecnica di animazione fotogramma per fotogramma che registra le fasi successive del disegno, “non persegue il cinema come tale ma piuttosto costruisce un nuovo medium sul supporto tecnico di una pratica cinematica diffusa e di cultura di massa”.

In sostanza, secondo la Krauss, le animazioni di Kentridge sarebbero più affini ai flicker book, al cilindro rotante del fenachistoscopio, al taumatropio, cioè a quegli strumenti ottici oggi obsoleti che hanno primitivamente e rudimentalmente anticipato la registrazione di immagini-movimento. Questa la testimonianza diretta dello stesso Kentridge:

“La tecnica che adotto per realizzare questi film è alquanto primitiva. L’animazione tradizionale si avvale di migliaia di disegni diversi ripresi in sequenza per realizzare il film. Questo generalmente implica lavoro per una squadra di animatori e di conseguenza il fatto che tutto il film debba essere progettato in anticipo. Le immagini di base sono disegnate dall’animatore principale e le fasi intermedie sono completate dai disegnatori assistenti, mentre altri provvedono ai ripassi delle linee e alla colorazione. La tecnica che uso io consiste in un foglio di carta attaccata alla parete dello studio, mentre in mezzo alla stanza piazzo la macchina da presa, in genere una vecchia Bolex. Abbozzo un disegno sul foglio poi vado alla macchina da presa, scatto uno o due fotogrammi, modifico (marginalmente) il disegno, torno alla macchina poi al disegno, poi alla macchina e così via. In questo modo ogni sequenza, rispetto a ogni fotogramma del film, è un unico disegno. In tutto ci saranno in un film circa venti disegni invece delle migliaia che ci si aspetta. E’ una procedura più simile al fare un disegno, che al girare un film. Una volta elaborato il film nella macchina, il completamento, cioè l’editing, l’aggiunta di suoni, musiche e il resto funziona come per qualunque altro film”.
Le opere filmiche e grafiche di William Kentridge sono inscindibili dalla storia politica recente del Sudafrica: dal tema dell’apartheid, a cui dedica la lunga saga di Soho Eckstein, storia di un avido e cinico capitalista simbolo stesso della corruzione e della depravazione in una Johannesburg colpita dalle ingiustizie razziali e dallo sfruttamento del lavoro operaio nelle miniere.

downloadIl personaggio che si contrappone a Soho Eckstein è il solitario e triste Felix Teitlebaum. Felix in Exile è stato realizzato nel 1994, anno delle prime elezioni democratiche in Sudafrica. Quando a Kentridge viene chiesto di elaborare in forma di esposizione le sue incisioni realizzate per la serie grafica Ubu Tells the Truth, aggiunge come elemento narrativo una figura umana nuda collocata dentro il profilo in bianco dell’ammasso informe del Re Ubu che si impossessa di tutte le forme di potere, con la testa a punta e pancia a spirale nello sfondo nero-ardesia di una lavagna. Ubu, emblema della crudeltà istituzionalizzata, diventa la “zona d’ombra” dentro di noi e dentro il Sistema (“la Struttura” avrebbe detto Julian Beck…) e di cui noi stessi siamo responsabili.
Questi disegni e queste incisioni sono diventati il nucleo centrale delle animazioni per lo spettacolo Ubu and the Commission of the Truth, in collaborazione con l’Handspring Puppet Company (1995). Si tratta di una violenta denuncia contro la situazione poliica e gli scontri razziali del Sudafrica prima delle elezioni.

La tecnica di animazione in questo caso, a differenza della modalità sperimentata per gli altri drawings for projection su Soho Eckstein, si arricchisce di ritagli grossolani di giornale, processioni di sagome scure come ombre applicate con colla e parti metalliche ai fogli, di disegni a gessetto bianco su carta scura e anche di filmati e altro materiali d’archivio che testimoniano violenze e repressioni, tra le altre quelle della polizia che munita di frusta, attacca la folla a Cato Manor nel 1960 o che assale un gruppo di studenti alla Witz University durante lo stato di emergenza nel 1980 e quelle della rivolta di Soweto nel 1976. La riflessione teatrale partiva dalle sconvolgenti rivelazioni emerse dalle udienze della Commissione d’inchiesta per la verità e la Riconciliazione in Sudafrica, creata con lo scopo di registrare le testimonianze degli orrori, degli abusi e delle violazioni dei diritti umani nel paese ai tempi dell’apartheid

Robert Lepage, The Buskers Opera
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Un (video)teatro in fuga dalla cornice…
Pubblicato su Exibart
The Busker’s opera liberamente tratto da L’opera da tre soldi di Brecht, mette in campo l’abilità di “gioco” del geniale e poliedrico Robert Lepage che usa Brecht per ironizzare (e accusare) i mass media e immaginario collegato, usando con grande disinvoltura le tecnologie video della diretta e permettendosi anche un formidabile corto circuito tra musica e spettacolo teatrale vero e proprio.
Brecht aveva concepito L’opera da tre soldi con “ballate da leggere e da cantare” e Lepage celebra a suo modo l’attualità del drammaturgo regista tedesco e del suo dramma di un mondo votato alla perdizione, in cui ladri e sfruttatori sono vittime dello stesso sistema e dove si dimostra il fondamentale assunto politico secondo cui i metodi della malavita e quelli dei gentiluomini si equivalgono.
Lepage usa un grande schermo al plasma telecomandato in grado di muoversi su guide per tutta la profondità e in tutta l’altezza del palco, libero da supporti a terra. Lo schermo nasconde al suo interno una telecamera, e il dispositivo complessivo (occhio che riprende, schermo che diffonde) diventa ironico correlativo oggettivo di stati d’animo; il dispositivo video sorveglia e insegue i personaggi che all’istante vengono televisivizzati, incorniciati, diventando personaggi di una reality tv, ospiti di un talk show, attori di una soap, protagonisti luccicanti di un video clip.
Dà l’avvio alla storia il giovane artista di strada, percussionista di piatti, legnetti, bicchieri e latte di benzina, impegnato in un concerto povero quanto straordinario per raccogliere i soldi per la sopravvivenza quotidiana. La storia tra la giovane e virtuosa Polly (che si esercita allo scratching disco) e il bandito Macheath (un cantante alla Beach Boys) nel mascheramento spettacolare, diventa una fiction dalle tinte forti, mentre il signore e la signora Peachum sono l’uno il cantante easy listening e l’altra una specie di Ivana Trump che si esprime con vocalizzi alla Callas.
Tutta la trama dell’opera è spostata sui nuovi luoghi di potere a cui l’arte si svende (l’industria musicale e i media, e tra tutti il tubo catodico) per necessità o per sete di successo. Un solo elemento scenografico caratterizza lo spettacolo, una cabina telefonica che aprendosi, srotolandosi, può diventare qualunque luogo, da un interno domestico, a locale a luci rosse, alla galera. L’orchestra è ben visibile e ampio spazio è lasciato ai “solo” dei musicisti-attori che incarnano le diverse personalità dell’opera brechtiana rivisitati e interpretati alla luce dei “generi” musicali che incarnano al meglio la loro personalità: jazz, rock, ska, disco, melodico, rap, classica.
Il messaggio è chiaro: quando l’arte viene inglobata cannibalicamente dentro la cornice, insomma nel triturarifiuti dello show business, non c’è più scampo, tutto diventa commestibile. Unica salvezza per la libertà creativa dell’artista, l’uscita dalla finzione spettacolar-televisiva che fa ritornare i protagonisti sulla strada. Come buskers.
Gallery:  Trailervideo
bio
Robert Lepage (Quebec City, 1957) è attore e regista teatrale, cinematografico e d’opera. La sua biografia è costellata di una serie di successi internazionali Vinci, Geometry of miracle, The seven streams of the river Ota, The Needle and the Opium, La face cachée de la lune con musiche originali di Laurie Anderson e Apasionada. Strabilianti le macchine sceniche dei suoi spettacoli che prevedono l’uso del video, ideate dallo stage designer Carl Fillion. Ha fondato Ex machina, struttura teatrale e multimediale che ha sede a Québec e In extremis images, società di produzione cinematografica.