Masbedo: dal video alla performance
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Pubblicato su Interactive-performance

Era a Prato, al Museo d’arte contemporanea in occasione della mostra “Nessuna paura”; mi colpì molto la modalità e la dimensione della installazione di Masbedo dal titolo 10 insects to feed (la multivisione, con tre pannelli incorniciati a formare un trittico di gigantesche proporzioni), la perfezione tecnica (la qualità della fotografia, la luce, le campiture cromatiche degli abiti, la scelta cinematografica delle inquadrature e delle immagini), e non ultima, l’interpretazione degli attori basata un’improvvisazione fisica estrema a raccontare panico improvviso, soffocamento e delirio: in sostanza, mi colpì la forza complessiva dell’opera video nel suo insieme.
L’impressione fu quella di avere di fronte artisti che, pur giovanissimi come Jacopo Bedogni e Niccolò Massazza, avevano già trovato la corretta grammatica per un’arte video di grande valore e sviluppato una conseguente sintassi coerente e originale. I loro lavori sono caratterizzati proprio, sin dagli esordi, da una fase di pre-produzione studiata nei dettagli, articolata e complessa, che mette in campo ogni volta, un vero staff cinematografico di professionisti della scrittura e dell’immagine e che produce come risultato finale, video opere di grande rigore stilistico e formale.

Il contenuto, sempre fortemente drammatico, della trama video, non è mai realistico: tende a mostrare, evocandoli, luoghi dell’interiorità, affrontando immaginari mentali che partono sì dalla realtà ma per trasfigurarla. Da qui l’accostamento a Bill Viola la cui arte video, su sua stessa ammissione, è volta a “oltrepassare una soglia, allontanarsi dal mondo fisico e entrare nel mondo metafisico” (Bill Viola, The Landscape within, Conferenza alla Scuola Normale Superiore, Pisa, 2001).

Le ambientazioni dei video dei Masbedo (Schegge d’incanto in fondo al dubbioTeorema d’incompletezzaGlima) grondano potenti metafore esistenziali: le vette impervie e le cime innevate del Monte Bianco, le grandi profondità marine, il mare in tempesta della Francia del Nord, il paesaggio glaciale e vulcanico dell’Islanda non sono altro che potenti e drammatiche istantanee interiori, un veritiero e scomodo specchio dell’anima; dentro questo panorama desolato un uomo e una donna nella solitudine più sfrenata ma anche nella resistenza più accanita, sono intenti in quella lotta quotidiana nel “gran mare dell’essere” (come scriveva Giacomo Leopardi).

 

Un “esistenzialismo tecnologico” in cui Masbedo si riconoscono e coltivano una loro estetica fortemente connotata e riconoscibile. Testi importanti accompagnano i loro story board, scritti da Aldo Nove o ispirati alla filosofia di Houellebecq; ma sono più importanti i sottotesti, suggeriti dalle atmosfere cupe e avverse che avvolgono un lui e una lei imprigionati, in eterno, vicendevole conflitto che approda a un temporaneo stato di tregua, fisica e mentale. Come Amleti irrequieti, vaganti nel vuoto pneumatico di una condizione tragica, evocata nella sua abissalità da una camera iperbarica o da interminabili silenzi, vivono distillandosi l’ossigeno per una rinascita, o almeno, per una via di fuga.

 

Masbedo, Leopardi e gli altri
Le tematiche comuni alla quasi totalità dei video dei Masbedo (Teorema di incompletezzaGlimaAutopsia del tralalaTogliendo tempesta al marePerson) sono il senso di vuoto, di disincanto e di precarietà esistenziale, l’incomunicabilità, l’isolamento volontario come rifugio ultimo, la custodia sisifica dei valori societari, l’arte che trattiene gli ultimi brandelli di umanità, la sterilità dei rapporti umani nel generale inaridimento e decadenza morale della società occidentale. Il bisogno di infinito.

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Nel video Teorema di incompletezza è assente, esattamente come nelle Operette morali di Leopardi, la figura umana: il paesaggio intorno quasi agli estremi confini della terra, è di una alterità spiazzante. La camera è pressoché fissa, registra con pochi cambi di inquadratura, ciò che ha davanti come se non ci fosse nessuno a comandarla; del resto non c’è neanche un vero soggetto ma solo un gioco tra un sorvegliante impersonale e forse automatico e un sorvegliato altrettanto inanimato (ricordando questo l’occhio della macchina elettronica di Der Riese di Michael Klier e il famoso video e relativa installazione di Michael Snow La Région Centrale creato con un dispositivo di ripresa automatico che registrò per 5 giorni in tutte le possibili angolazioni, il paesaggio montuoso del Québec). La scena è composta infatti da un’insolita “natura morta”: una tavola di legno con due sedie, apparecchiata con una serie di bottiglie e bicchieri vuoti che vengono frantumati da una pallottola sparata con grande conflagrazione in un paesaggio lavico sconfinato e lontano da ogni socialità. Quello che era un rassicurante paesaggio di oggetti della più pura quotidianità, fatto di contenitori trasparenti integri e lucidi, diventa un attimo dopo lo sparo dell’invisibile cecchino, un universo di vetri acuminati, taglienti mentre il rivolo d’acqua continua, testimone indifferente, a scorrere sotto la tavola. InSchegge d’incanto in fondo al dubbio un uomo e una donna sono intenti in una lotta di proporzioni titaniche: da una parte l’uomo si trascina faticosamente nella neve con un paracadute aperto e tenta ostinatamente di opporsi alla violenza elementale, dall’altra la donna si accinge a salvare suppellettili domestiche impregnate di riferimenti psicologici e simboli di sesso e di fede. Nuota a fatica nella marea fangosa dell’esistenza inumana che l’ha travolta, portando se stessa e i propri oggetti di affezione e memoria lontano, al riparo dalla civiltà, o tutto quello che ne rimane. In entrambi i casi Masbedo usa un linguaggio figurato, fatto di pregnanti metafore visive: l’ordinario e lo straordinario convivono insieme. La deriva esistenziale dei video di Masbedo ha sempre un suo correlativo oggettivo in una natura matrigna che ha già dimenticato l’uomo.                                                 

Come nel quadro di Caspar David Friedrich Il mare di ghiaccio la cui ispirazione gli fu offerta dalle spedizioni al Polo Nord avvenute per nave nel 1819 e nel 1824 o nei quadri di Ruskin, qua si annulla il succedersi dei giorni e delle stagioni, tutto è eterno e quest’eternità è di ghiaccio; non si può non vedere nei video di Masbedo un riflesso del “pensiero poetante” di Leopardi (da una definizione di Benedetto Croce). In Dialogo della Natura e di un Islandese o ne La ginestra la natura non è mai confortante. E’ nemica o almeno è ostile:

“(L’Islandese si rivolge alla Natura: A questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria… tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi).”

Valgono anche per Masbedo le parole di Asor Rosa sulla Ginestra di Leopardi:

“Leopardi esprime con estrema forza il valore morale di un comportamento che non s’illude di trovare a questa infelicità un risarcimento spirituale ma nella resistenza disillusa e pur fiera alle avversità della natura crede di assolvere al compito naturale assegnato alla ragione dell’uomo e su questa matura consapevolezza, senza speranza alcuna ma anche senza vigliaccheria, fonda il rapporto uomo-natura, che è ormai un rapporto antagonistico e agonistico, di lotta reciproca e senza cedimenti.”

Indeepandance: o del meticciare linguaggi 
E’ del 2008 il concerto video live Indeependance (Arena Civica di Milano) in cui Masbedo provano a mescolare in una dimensione da grande palco, formati e generi artistici in un potente e spettacolare live electronics. Un progetto pilota che voleva unire video live, teatro, poesia e musica grazie a collaborazioni con etichette e artisti internazionali (dalla Real World di Peter Gabriel a Bjork a Steward Copeland a Howie B) in un format a metà tra il palcoscenico dei concerti rock e le installazioni multimediali e in un coinvolgimento sensoriale potente e ipnotico: il pubblico era collocato al centro di una piattaforma da cui erano governati suoni e immagini live mentre il perimetro dell’arena era delimitato da quattro schermi avvolgenti di grandi dimensioni.

Masbedo con questo progetto incarna il concetto prettamente postmoderno esposto da Frederic Jameson di “saturazione estetica”, una saturazione totale e complessiva dello spazio culturale da parte dell’immagine, una permeazione dell’immagine nella vita sociale e quotidiana. Masbedo si muovono proprio in un libero e ambivalente universo cross mediale e amano definire i loro interventi un “meticciare i linguaggi”, o creare “un’arte bicefala” poiché privilegiano allo specifico del medium, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno artistico dal doppio codice genetico, affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo per espandersi tra territori diversi oltre al video: teatro, cinema e pittura. Un’arte intermediale, un’arte espansa. Come ricorda Bruno Di Marino citando le esperienze di Nam June Paik ma anche quelle successive di Laurie Anderson, Peter Gabriel, Metamkine nei cui concerti la componente sia visuale che multimediale “arricchiva notevolmente il loro immaginario musicale in direzione spettacolare” la musica il cinema, il video e la performance sono sempre stati strettamente collegati. (B. Di Marino, Interferenze dello sguardo. sperimentazione audiovisiva tra analogico e digitale, 2002).

E’ quindi un naturale territorio multidisciplinare quello in cui si muove il video sin dal suo esordio dalla metà degli anni Sessanta (dai protagonisti del movimento Fluxus a Paik a Cage), come ricorda Simonetta Cargioli “fecondo terreno per sperimentazioni di incroci attraversamenti e transizioni. In questo contesto di effervescenza creativa e sperimentale il medium video ha vissuto in perfetta promiscuità con le altre arti con le quali si intreccia, si mescola, si confronta, che ingloba, di cui prende a prestito qualche cosa provocandone alterazioni radicali. La performance, la danza, la poesia, il cinema, tra gli esempi numerosi, diventano altra cosa dopo il video o perlomeno, dopo averne assorbito il contatto” (S. Cargioli, Introduzione a Le arti del video, 2004).
Così Masbedo ripropongono in chiave attuale una modalità video dialogica e intermediale ampiamente sperimentata proprio dai pionieri dell’art vidéo. I loro video traggono ispirazione dalle pitture antiche (i loro personaggi assomigliano nelle pose e nei sembianti a figure mitologiche, ricordano pitture prerinascimentali o preraffaellite e sculture tardo romane) e assorbono credito vitale dall’improvvisazione teatrale degli attori privati di sceneggiatura e posti di fronte a canovacci con poche battute; la performatività di alcuni loro video è talmente evidente che lo sfociare nel teatro vero, fatto di palcoscenico come “arena degli attori” diventa (come lo è stato alla fine degli anni Ottanta per Studio Azzurro a coronamento della loro attività video artistica con Camera astratta) quasi una necessità o uno sconfinamento naturale.

Glima.

Il video Glima nato dall’esposizione di una proposizione base, sviluppata dagli attori senza indicazioni registiche dettagliate, è diventato performance video-corporea di enorme fisicità e di grande impatto (grazie anche alla musica live di Lagash e Gianni Moroccolo) in occasione del Festival di Dro nel luglio 2010.

Un uomo e una donna lottano legati da vincoli di lacci in pelle come un’appendice organica che rimanda a un rito di possessioni sadomasochistico e afflizioni autoindotte (intensa l’interpretazione diErna Ómarsdóttir e Damir Todorovic come si vede dalle fotografie di Iris Stefansdottir); intorno a loro una terra vulcanica, l’Islanda, paese che sta subendo un processo di erosione millenario.

Il paesaggio non è estraneo, entra nella violenza perpetrata nei corpi dove alternativamente uno diventa carnefice e l’altro vittima; in questo rituale della coercizione sotto cui si può leggere la generale volontà a non integrarsi, a non piegarsi e a non sottomettersi alle regole del mondo e la generale riluttanza ad obbedire all’ordine sociale i protagonisti hanno abbandonato la civiltà ma non la disponibilità a combattere magari in nome di un’ipotetica causa comune che presuppone l’unirsi degli uomini in una catena umana a difesa del proprio patrimonio di valori. La performance con due schermi e una pedana ad altezza del pubblico, prevedeva anche un’interazione degli attori con una webcam montata su un robot dalla forma aracnoide telecomandato che catturava i dettagli dei volti.

Pathei Mathos (Apprendo dalla sofferenza)

Il video Schegge d’incanto in fondo al dubbio è ricchissimo di riferimenti iconografici alla classicità e alla mitologia greca, e numerose sono anche le citazioni al codice di stile della pittura fiorentina trecentista rivolta alla concretezza dei contenuti umani delle immagini sacre (per la figura femminile la raffigurazione drammatica della Madonna in pietà o della Maddalena sotto la croce, per l’uomo l’immagine titanica del Prometeo incatenato: “ritto”, “insonne”, “temerario”).
La donna, novella Antigone, opponendosi all’omologazione del mondo, alla vita umiliata, compie un gesto impetuoso e solenne di ribellione: fugge e trascina dietro di sé gli oggetti che sono inseparabili dal suo corpo perché ne rappresentano la vita vissuta; infine, ferma immobile su un piedistallo in mezzo al mare, con gesti plastici e una torsione del corpo ricchi di pathos – come nella raffigurazione scultorea ellenistica del Galata morente – accende un fuoco come a chiedere aiuto.

In questo gesto plastico l’attrice evoca miti tragici e archetipi del femminile che raccontano come la vita umana, pur nelle difficoltà e nel dolore, lasci dietro di sé schegge di bellezza. Se l’uomo incarna il motivo dell’audacia di chi ha osato ribellarsi e andare oltre il limite estremo (“Io, invece, che avrei dovuto saper morire, per essere andato oltre la parte a me assegnata, vivrò una vita infelice”, Euripide, Alcesti) la donna mostra una maschera del dolore, un urlo muto che porta con sé tutto il lamento dell’esistere.

Il video trasmette proprio quel senso profondo e necessario di purificazione e metamorfosi dell’essere e quel bisogno di rivelazione da cui nasce la tragedia attica antica e che ci è stato trasmesso dalle pitture vascolari greche: “desistere dal ciclo prendere fiato dalle miserie” (frammento orfico da Proclo, cit. da G. Colli, La sapienza greca).

“Nello sperimentare il tragico a teatro, gli spettatori si trovano di fronte al colmo dell’orrore, a crisi di instabilità e a prove di resistenza, ovvero di fronte a esperienze che nessuno si augurerebbe mai di dover affrontare nella vita reale. Ma poi alla fine dello spettacolo, nessuno ne esce morto o traumatizzato. L’esperienza dell’abisso, il viaggio nell’instabilità a teatro sono vissuti – visti, ascoltati – in una forma che ha bellezza. La poesia, la danza, la musica, i costumi e le voci, l’armonia di suono e azione collaborano a rendere l’esperienza teatrale un momento da cui l’uomo può trarre non abbattimento e debolezza, ma energia. Quello che fanno questi splendidi vasi è di distillare bellezza dalla confusione di tutta questa nostra vita umana. Le pitture vascolari, le tragedie, i vasi e gli spettacoli interagiscono al fine di rinnovare nell’uomo la forza di resistere alla morsa delle tenebre.
(Oliver Taplin, Professore di Lingue e Letterature Classiche e Direttore dell’Archive of Performances of Greek and Roman Drama all’Università di Oxford, testo della conferenza tenuta all’Università di Catania, 18 gennaio 2010).

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