Della presenza invisibile della maschera: Theatre du Soleil e Dumb Type
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Voyage di Dumb Type e Le dernier caravansérail (Odyssées) del Théâtre du Soleil, di Erica Magris

Voyage di Dumb Type è il risultato scenico di un progetto artistico di lunga durata, nato all’indomani dell’11 settembre, nel cui ambito è stata realizzata anche una videoinstallazione intitolata Voyages. Lo spettacolo consiste in un’azione di poco più di un’ora, composta di diversi quadri fra loro indipendenti ed è fondato sull’interazione di tecnologie digitali all’avanguardia e movimenti di danzatori-attori. Dumb Type, infatti, è un collettivo giapponese di sperimentazione multimediale, nato a Tokyo nel 1984 e composto da artisti provenienti dalle arti plastiche, dalla danza, dalla musica, dalla videoarte e dall’informatica. Le dernier caravansérail del Théâtre du Soleil è il titolo di uno spettacolo composto da due parti: Le fleuve cruel e Origines et destins.  Insieme costituiscono un tutto unitario, che consta complessivamente di sei ore di rappresentazione. Il dittico richiede quindi agli spettatori un investimento di tempo, di energie (e di denaro!) molto forte e ne sconvolge l’intera giornata: nel periodo invernale capita di raggiungere il teatro verso mezzogiorno e mezza, quando il sole è alto, per poi uscirne a sera, avvolti dall’oscurità. Il Théâtre du Soleil è una troupe permanente guidata da Ariane Mnouchkine la cui ricerca, iniziata nel 1964, si fonda sul lavoro dell’attore, nella riscoperta e nella reinvenzione di forme teatrali occidentali e orientali, in un territorio di confine fra tradizione e avanguardia, fra internazionalità e radicamento nella società e nella cultura francese. Quest’ultima creazione si inserisce coerentemente nel percorso di Mnouchkine e del suo gruppo, da sempre impegnato nella realizzazione di un teatro storico e impegnato: tratta infatti del attuale e bruciante problema dei rifugiati, che fuggendo dai loro paesi devastati dalla guerra, si avventurano in cammini impervi e crudeli verso un Occidente sognato che in realtà non può o non vuole accoglierli.

Perché parlare insieme di due spettacoli all’apparenza così distanti ed eterogenei? Le forti emozioni suscitate dalle due rappresentazioni hanno sollecitato pensieri e interrogativi comuni. Le riflessioni sull’una e sull’altra opera si sono così intrecciate, costituendo un tessuto di questioni che coinvolge il teatro in generale, il suo valore e la sua funzione nel mondo contemporaneo. Una ragione profonda si trova al fondo della vicinanza di queste due creazioni, una rarissima presenza le unisce: la maschera.

Le dernier caravanserrail.

Mnouchkine ama spesso dire che nel Teatro con la T maiuscola la maschera c’è sempre, che può essere più o meno trasparente fino ad essere invisibile, ma c’è. Fernando Mastropasqua definisce la maschera un “grembo risonante”, il luogo di un “passaggio estremo” dal “tempo del vivere al tempo del morire”, che non è annullamento ma “assunzione di altre, irraggiungibili, desiderate identità” e “deifica potenza di creare enti, persone, mondi”. In ognuno di questi spettacoli la maschera c’è: maschera del digitale in un caso, maschera arcaica e tecnologica insieme della Babele dei luoghi e dei linguaggi nell’altro. Si tratta di una maschera che non si appoggia sul volto degli attori, ma che ingloba la scena intera. Il palcoscenico diventa uno spazio in movimento al servizio della metamorfosi dell’attore e dell’esperienza di rivelazione, liminale tra realtà e immaginario, vissuta dallo spettatore. Seguendo un percorso di comparazione critica delle due creazioni, tenterò di spiegare questo nodo, che è a mio avviso fondamentale nella comprensione del senso del teatro e che possiede una portata particolare per quel che concerne il rapporto dell’arte teatrale con le nuove tecnologie.

Voyage.Il viaggio: una corda tesa sul palcoscenico

La considerazione è sicuramente banale, ma entrambi gli spettacoli sono imperniati sul tema del viaggio, vale a dire dello spostamento, reale o metaforico, nello spazio e nel tempo. Essi condividono un’immagine scenica forte dell’attraversamento, del pericolo, del tramite che può unire un punto ad un altro: la corda tesa da un lato all’altro del palcoscenico. Nel secondo quadro di Voyage, due attori immersi nell’oscurità di una cavità sotterranea esplorano lo spazio buio con i loro caschi muniti di lampade.

Ad un certo punto iniziano a percorrer uno stretto cammino all’orlo dell’abisso, reso da una sottile striscia di sassi parallela alla linea del proscenio. In questo percorso obbligato, si tengono ad una corda tirata da un lato all’altro del palco, posta sulla verticale della striscia pietrosa. I due si incoraggiano e si rincuorano reciprocamente, si aiutano per superare il precipizio: ma uno di essi cade, la corda non l’ha salvato, e il sopravvissuto cerca invano di riportarlo alla vita con la sua danza. Le fleuve cruel si apre con una scena intitolata “Un passage”: i personaggi, devono traversare un fiume impetuoso, reso acusticamente da un frastuono di acque e visivamente da un telo plumbeo mosso da alcuni attori, che copre interamente la scena. Qualcuno è già passato, qualcuno è rimasto dall’altra parte. Il passaggio si fa attraverso una piccola imbarcazione appesa ad corda tesa da una parte all’altra. La scelta è di separarsi o di correre il rischio di essere inghiottiti dai flutti, e cadere in una separazione irrimediabile.

Per Dumb Type, il viaggio, come suggerisce l’indeterminatezza del titolo dello spettacolo, è una metafora della condizione umana contemporanea ed è affrontato da differenti punti di vista: da situazioni concrete, come il sistema delle comunicazioni aree, con le sue hostess militarmente e ridicolmente sorridenti, le esplorazione, le missione militare, fino ai viaggi della mente nei sogni e nella memoria fino al “viaggio” per eccellenza, il passaggio dalla vita alla morte e al distacco netto ed irreversibile che esso genera fra “chi è andato” e “chi resta”.

Le dernier caravanserrail.

Il Soleil si concentra, come abbiamo visto, su un volto particolare del viaggiare, trattando dei viaggi dei profughi. Ma come indica già la scelta del termine “odissee” nel sottotitolo, il Soleil non ha inteso costruire una cronaca né un documentario, ma di dare una voce poetica alle testimonianze raccolte da Ariane Mnouchkine, elevandole alla dimensione di “mito” della contemporaneità. Le vicende dei personaggi in scena, pur delineati con estrema precisione e concretezza, diventano il luogo di esperienze e di questioni che coinvolgono l’umanità nella sua dimensione esistenziale e sociale.

Il tema del viaggio si combina nelle due creazioni con la rottura della linearità dell’azione teatrale a vantaggio di una forma esplosa che renda conto del movimento caotico e dello spaesamento: scene separate in cui lo spettatore deve trovare un proprio orientamento personale, i propri fili conduttori, il proprio percorso. Il viaggio diventa quindi metafora a sua volta del teatro, dello spostamento insieme fisico e mentale che costituisce lo spettacolo teatrale per attori e spettatori. Viaggio percettivo dal cosmo all’inconscio nel caso dei Dumb Type, un viaggio nella memoria degli individui dimenticati e persi nelle strade del mondo per il Théâtre du Soleil. Il teatro si qualifica quindi come esperienza e come conoscenza. Torna alla mente il saggio di Walter Benjamin Il narratore e riaffiorano queste parole, a proposito della trasmissione dell’esperienza nella narrazione:

Il narratore prende ciò che narra dall’esperienza – dalla propria o da quella che gli è stata riferita -; e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia. Questa caratteristica della narrazione secondo Benjamin scaturisce dalla capacità del narratore di svolgere il suo racconto lasciando all’ascoltatore-lettore-spettatore il compito di relazionare gli eventi e la libertà di spiegarseli attraverso il filtro del proprio intelletto e della propria sensibilità:

Se l’arte di narrare si è fatta sempre più rara, la diffusione dell’informazione ha in ciò una parte decisiva. Ogni mattino ci informa delle novità di tutto il pianeta. E con tutto ciò difettiamo di storie singolari e significative. Ciò accade perché non ci raggiunge più alcun evento che non sia già farcito di spiegazioni. In altri termini: quasi più nulla di ciò che avviene torna a vantaggio della narrazione, quasi tutto a vantaggio dell’informazione. È, infatti, già la metà dell’arte del narrare, lasciare libera una storia, nell’atto di riprodurla, da ogni sorta di spiegazioni. Lo straordinario, il meraviglioso, è riferito con estrema precisione, ma il nesso psicologico degli eventi non è imposto al lettore. Che rimane libero di interpretare la cosa come preferisce; e con ciò il narrato acquista un’ampiezza di vibrazioni che manca all’informazione.

Il Soleil e Dumb Type hanno quindi costruito due forme di narrazione che, nella trasmissione dell’esperienza, hanno la capacità di coinvolgere sia la dimensione individuale che la dimensione collettiva degli spettatori, di coinvolgerne le corde più intime e di indurre degli interrogativi di portata sociale e politica. Nell’incontro dell’umanità trasfigurata della scena e dell’umanità comunitaria della sala riposa l’essenza dell’evento teatrale. Come afferma in una frase illuminante Elie Konigson, lo spettatore è uno sciamano, investito dalla società a percorrere il cammino di conoscenza del teatro: “Lo spettatore si trova in posizione intermedia fra la città e la scena, fra la società civile e la società teatrale (cioè scenica). Il ruolo propriamente sciamanico dello spettatore, questo delegato della città, verso i mondi impossibili dell’aldilà scenico, si esprime anche attraverso questi corpi in apparenza assopiti, immobili, presenza pesante del retro-teatro urbano, attento alle ombre mobili della scena“. Entrambi gli spettacoli agiscono in questo campo di intersezione di pubblico e privato, e fanno della scena il luogo altro in cui interrogarsi sulla vita e sul mondo.

Il teatro faccia a faccia con il mondo contemporaneo

Voyage e Le dernier caravansérail nascono entrambi dalla volontà di interrogare il ruolo dell’arte teatrale di fonte agli avvenimenti del mondo contemporaneo. Interessante a questo proposito è comparare i programmi redatti dal gruppo giapponese e da quello francese. Dumb Type scrive:

Un’atmosfera di opaca incertezza senza precedenti ci circonda. Addormentati o svegli, se cercate di dimenticarla e di paralizzare il vostro spirito, essa non vi lascia, come una seconda pelle di ansia e di paura. Simulate indifferenza, non resisterete a lungo, non ci metterete una croce sopra, come se si trattasse di problemi altrui o di eventi separati da voi dallo schermo della televisione. Molte più persone di quante possiamo immaginare si confrontano con un sentimento di crisi, lottando per trovare un nome per questa condizione. In queste circostanze, cosa potrebbe risultare più ridicolo e derisorio che delle innocenti “attività artistiche”? Dobbiamo chiederci incessantemente perché proviamo ancora ad esprimerci attraverso le arti dello spettacolo, perché perseveriamo nella nostra attività creativa. Abbiamo deciso deliberatamente di non ricorrere al linguaggio né di commentare in altro modo le circostanze che ci circondano attualmente. Cerchiamo di ritrovare una comunicazione reale senza utilizzare le parole. È possibile? Ancora una volta dobbiamo rimettere in questione l’essenza stessa dello spettacolo.

Hélène Cixous, la scrittrice da anni legata al Théâtre du Soleil, scrive nella premessa che apre il libretto-programma:

Oggi, nuove guerre gettano sul nostro pianeta centinaia di migliaia di nuovi fuggitivi, frammenti di mondi disgregati, brandelli tremanti di paesi devastati i cui nomi non significano più rifugi-riparo natali, ma rovine o prigioni: Afghanistan, Iran, Irak, Kurdistan…, la lista dei paesi avvelenati aumenta ogni anno. Ma come raccontare queste innumerevoli odissee? Quanti nuovi piccoli teatri bisognerebbe inventare per dare a ogni destino impazzito il suo effimero asilo? Come non sostituire la tua lingua straniera con la nostra lingua francese? Come conservare la tua lingua senza mancare di gentilezza e di ospitalità nei confronti del pubblico, il nostro ospite nel teatro? Come comprendersi col cuore senza comprendersi a parole? Come non appropriarsi dell’angoscia altrui facendone del teatro? Come non sbagliare per illusione o per paura di comprensione? Come dire tutto senza una parola? E se non ci riusciamo? È la domanda del rifugiato nel suo viaggio.

Il faccia a faccia con il mondo contemporaneo ha quindi costituito per entrambi i gruppi la scintilla che ha innescato il processo della creazione teatrale. L’imperativo della realtà pone al teatro il problema cruciale di trovare nuove forme di spettacolo, che le corrispondano e che sappiano dare un senso all’attività artistica. Come affermava Mejerchold agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso “il fattore principale che dalla scena influenza lo spettatore, la carica interna che noi gli dobbiamo fornire, il nucleo centrale di cui abbiamo voluto parlare è senz’altro il pensiero, l’idea, il contenuto è quel che passa da un cervello all’altro […]. Ma il fatto è che quando desideriamo che il nostro pensiero si travasi nella sala teatrale, che l’idea giunga allo spettatore e questi ne afferri il contenuto, dobbiamo perfezionare, affilare, rendere duttili e veramente efficaci i mezzi di espressione. […] La preoccupazione del “che cosa” implica la preoccupazione per il “come” “.

Sia Dumb Type sia il Soleil nel loro confronto fra “cosa” e “come” partono dalla constatazione dall’inadeguatezza del corrente linguaggio verbale. Tale punto di partenza esclude sia ovviamente la messa in scena di un testo teatrale preesistente sia una scrittura drammaturgica testuale appositamente messa a punto per lo spettacolo. È la scrittura scenica nel suo insieme a dover essere inventata, avendo sempre presente la necessità di rispondere adeguatamente al mondo. Le risposte date dal Théâtre du Soleil e da Dumb Type sono chiaramente diverse. Nonostante ciò, mi pare fondamentale che esse scaturiscano da un’esigenza forte e comune.

Dumb Type, proseguendo nel suo particolare percorso di ricerca, risponde con l’immersione, tanto del performer quanto dello spettatore, in un universo teatrale che si serve delle nuove tecnologie, per esplorare la nostra mente in reazione alla realtà. A livello spaziale, questo universo è determinato da uno schermo gigante, che ricopre il fondo scena e che viene duplicato dal pavimento a specchio, in un gioco di doppi e di inganni percettivi che riverbera nella sala fino ad immergerla nello spazio-tempo dello spettacolo. Il suono e la sua amplificazione sono altrettanto importanti nella definizione dell’ambiente teatrale, che viene a coincidere con il territorio di confine fra il dentro di noi stessi e il fuori del mondo. Lo schermo, su cui sono proiettate immagini ad altissima definizione o luci colorate nettissime, riflette la visione mediatizzata e digitalizzata del mondo che caratterizza la nostra epoca. La percezione digitale della realtà si trasforma sulla scena in organismo poetico, in cui la presenza dei performer ne innesca le vibrazioni. La compenetrazione dell’umano e del tecnologico è totale.

Nel quinto quadro una ragazza distesa al centro di un tappeto verde circolare posto al centro del palco, immobile, come se stesse dormendo, enumera con la formula “I wish I was” una serie di sogni, aspirazioni, desideri. La voce ci giunge mediata dall’impianto di amplificazione. Sul fondo dello schermo scorrono immagini bellissime di elementi naturali, probabilmente anche di sintesi, in cui i cambiamenti dell’inquadratura non sono più i movimenti della macchina da presa cinematografica, ma gli spostamenti propri del digitale. Queste visioni digitali acquistano un senso profondo nel momento in cui diventano la manifestazione dell’inconscio della figura umana sul palco (e delle figure umane nella sala), che, a sua volta, riceve il senso della sua presenza dall’ambiente tecnologico in cui è immersa. La stessa sinergia è evidente nel settimo quadro: gli attori si avvicendano in un ritmo lento al centro del palcoscenico con il viso rivolto al pubblico. Rimangono fermi, in piedi ed il loro corpo viene attraversato da parole: la pronuncia della parola genera un segno scritto fatto di luce, che scorre dall’alto verso il basso passando sugli attori. Le parole (“per sempre”, “adesso”, “una volta”, “ogni momento”, ecc.)evocano la temporalità della vita ed il suo inesorabile trascorrere in ogni istante: ogni attore, con essenziali gesti e espressioni minime, dà un vissuto a queste parole, la carica con le sue emozioni, le sue contraddizioni, le sue paure, i suoi interrogativi senza risposta e le sue incertezze.

La parola, con il suo duplice valore di segno sonoro e grafico, ha una fondamentale importanza anche nello spettacolo del Théâtre du Soleil. La maledizione biblica di Babele e la frammentazione dell’umanità in centinaia di lingue e di culture è uno dei fulcri su cui ruota la forma de Le dernier caravansérail. Gli attori si esprimono non solo in francese, ma anche in inglese, persiano, bulgaro, russo, e altre lingue che non sono stata in grado di riconoscere, e si muovono nell’impasto sonoro creato da Jean-Jacques Lemêtre, composto da musiche originali, da canti di altri popoli, dalle voci reali di chi ha raccontato la sua storia a Mnouchkine, e dai rumori a volte assordanti del mondo. La tecnologia rende virtualmente possibile il dialogo fra le parti eterogenee di questo magma linguistico: il passaggio dal suono al segno proiettato sul fondo del palco è infatti il passaggio da un idioma all’altro. La sincronia fra scritto e orale è il simbolo della possibilità dell’incontro.

Nella griglia costituita da questo insieme di suoni e parole, gli attori entrano ed escono dalla scena su carrelli mobili senza mai toccare col proprio corpo la superficie del palcoscenico: si tratta di piccole scenografie praticabili, il cui movimento sul palcoscenico vuoto induce lo spettatore ad una percezione multipla dell’azione teatrale, di ispirazione cinematografica. Il riferimento al cinema, ed in particolare al cinema muto, è molto forte, evidente anche nell’uso dei titoli proiettati sul fondo grigio ad introdurre ogni scena. Inoltre, i media entrano direttamente in scena in due sequenze che raccontano gli assurdi interrogatori subiti da un rifugiato kurdo in un campo di detenzione in Australia. L’interrogatore e l’interrogato comunicano attraverso una telecamera a circuito chiuso che trasmette in diretta da un set nascosto: noi vediamo il funzionario del governo australiano a mezzo busto su un carrello al centro del palco. Nella parete del carrello di fronte al pubblico è incastrato un monitor, su cui è trasmessa l’immagine del rifugiato. L’immagine elettronica e lo schermo diventano un’altra figurazione delle griglie e delle barriere, che trionfano nella realtà, ma che il teatro ha il potere di annientare temporaneamente proprio nell’atto di metterle in scena.

Voyage.

Dietro queste soluzioni complesse non c’è una mente unica, ma un lavoro collettivo. La valutazione dell’unione di “cosa” e “come” di cui stiamo parlando non può prescindere dall’esame del processo creativo. La dialettica fra mondo e teatro, fra individuale e collettivo che sono alla base del contenuto degli spettacoli e del loro rapporto con gli spettatori, si rispecchiano nei procedimenti della creazione. La creazione collettiva dietro una perfetta concertazione

Voyage, è il risultato del lavoro di sei sotto-gruppi della compagnia: ognuno di essi ha elaborato a suo modo il tema comune del viaggio. Ne è sortito un mosaico di scene, dai toni e dalle atmosfere molto diverse, che però stupisce per la coesione e per la perfetta sincronizzazione nella composizione dei diversi materiali utilizzati. Corpo, immagine e suono non sono posti l’uno accanto all’altro, ma sembrano scaturire contemporaneamente dalla stessa fonte di energia. Traspare inoltre l’urgenza dell’opera teatrale, un bisogno che si incarna ugualmente in ogni elemento dello spettacolo e che secondo me ne fa l’intensità. Anche il lavoro del Soleil è una “creazione collettiva”, portata al suo estremo. Un segno di questa radicalizzazione: se negli anni Settanta, nel periodo d’oro della creazione collettiva al Soleil, Mnouchkine poneva ancora il suo nome in locandina all’ultimo posto, ma sotto la dicitura “mise en scène”, in questo caso, tutti, attori, aiutanti, musicista e regista, sono ugualmente ritenuti responsabili della creazione ed inseriti in un lungo elenco in ordine alfabetico sotto la dicitura “Odissee raccontate, ascoltate e comprese, improvvisate e messe in scena da”. Nello spettacolo, lascia a bocca aperta come tutte le azioni e tutti gli elementi scenici siano perfettamente coordinati in un concertato in cui la troupe teatrale si trasforma in un’orchestra perfettamente accordata.

Mi sembra che entrambi gli spettacoli, posseggano quella organizzazione musicale del teatro di cui erano alla ricerca Appia, Craig, Meyerchold per creare la “nuova scena” del Ventesimo secolo. proprio grazie alla responsabilità comune del processo creativo, la sintonia musicale degli elementi dello spettacolo dà origine ad una partitura “calda”, in cui individuale e collettivo si fondono in un’intensa fonte di energia emozionale.

L’opera d’arte totale: composizione scenica e posizione dello spettatore

Per le complessità degli elementi messi in gioco sulla scena teatrale, per i modi della loro combinazione e per la loro perfetta concertazione musicale, Voyage e Le dernier carvansérail possono essere inseriti nella scia delle sperimentazioni imperniate sul concetto di “opera d’arte totale”, che ha suscitato le più interessanti ricerche del secolo scorso, come mostra il fondamentale volume curato da Elie Konigson L’oeuvre d’art totale (Paris, Editions du CNRS, 1995). La riflessione sulle possibilità e sulle modalità di realizzazione dell’opera d’arte totale portano gli sperimentatori più innovativi a superare la sintesi delle arti propugnata da Richard Wagner, perseguendo un distacco dalla mimesi della realtà ed il raggiungimento di una nuova teatralità. Fondamentale a questo proposito risulta il breve scritto Kandinski La composizione scenica del 1912, che, potremmo dire, esprime non solo le idee del pittore sull’arte scenica, ma anche le esigenze comuni e le aspirazioni che animavano i tentativi di riforma e rinnovamento dell’arte teatrale degli uomini di teatro della stessa epoca. Kandinski propugna una composizione scenica sinestetica, in cui a coordinare gli elementi della scena, il suono, la visione, l’azione non è un insieme di dati esteriori, quali ad esempio la trama e l’ambientazione, ma una serie di connessioni interiori. libertà di trasformazione continua dettata da una rete di connessioni interiori. Questa composizione astratta complessa, costruita su una libertà totale di trasformazione, attraverso l’utilizzazione di assonanze e dissonanze, di cooperazioni e di reazioni, non rappresenta la realtà, ma costituisce un evento spirituale di vibrazioni condivise dagli spettatori. L’attenzione allo spettatore e la sua inclusione nell’evento spettacolare, costituisce un altro aspetto caratterizzante della tensione all’opera d’arte totale fin dalle origini rinascimentali del teatro moderno, come ha sottolineato Elie Konigson. Egli riscontra due tendenze generali nell’arte teatrale occidentale: l’una riposta sul rapporto dell’attore con il testo, l’altra fondata su “uno spazio di azione teatrale che attinge le sue strutture fra i resti recuperati e riaggiustati della ritualità”.

Guardando storicamente a questa tendenza, Konigson afferma che “a partire dal Rinascimento, unitamente alla classificazione delle arti […] si verifica l’inclusione determinante dell’architettura come contesto e attore della collaborazione fra le arti. L’architetto, superando il ruolo assegnatoli, diventa regista e organizzatore della festa nell’edificio ecclesiastico, nel palazzo e in seguito, nel XVIII secolo nel monumento teatrale. In questo modo, l’apparato include per la prima volta anche il partecipante, fedele, cortigiano o spettatore, come elemento costitutivo dello spettacolo […]. Ciò che ci interessa è che nel seguito delle arti riunite, lo spettatore sia alla fine incluso”.

In Voyage e in Le dernier caravansérail l’inserimento dello spettatore nell’apparato scenico e la sua messa in vibrazione con la scena, si intrecciano alla scelta degli elementi di composizione utilizzati. Sia Dumb Type che il Soleil si preoccupano di costruire nello spettacolo la percezione dello spettatore attraverso l’integrazione sulla scena di elementi che costituiscono la realtà tecnologica attuale. Dumb Type, servendosi della proiezione di immagini digitali ad altissima definizione, di un sistema di illuminazione complesso e di un impianto di diffusione del suono estremamente potente, crea un ambiente immersivo, in cui la sala e la scena sono investite dalle medesime vibrazioni acustiche e visive. Significativo è il quadro in cui una danzatrice si muove in maniera scarmigliata davanti allo schermo su cui sono proiettati dei segnali elettronici impazziti, cui corrispondono dei fortissimi segnali acustici. Lo spettatore, coinvolto in questo delirio sensoriale, diventa il doppio immobile della danzatrice sul palco: uno stato di emozione e di ansia pervade la scena e la sala; la rappresentazione diventa una discesa nelle profondità travagliate e lacerate dell’interiorità umana. Il quadro conclusivo dello spettacolo, che chiude circolarmente lo spettacolo, perviene invece ad una diretta implicazione del pubblico nell’azione. Nella scena di apertura infatti, lo spettatore si trova davanti al palcoscenico scuro in cui spiccano tra sfere di luce al centro delle quali una ballerina compie pochi gesti lenti e ieratici. Tuoni, rumori di bombardamenti accompagnano i suoi movimenti in un crescendo del volume. Si diffonde una condizione di irrequietudine, di attesa, un’evocazione di cose terribili ma ancora lontane. Agli spettatori viene dato di guardare la terra dall’alto dell’universo. Questa distanza, alla fine del “viaggio-spettacolo” è irrecuperabile. Torna sul palco la stessa ballerina, a compiere i medesimi gesti sui medesimi suoni; ma questa volta sullo schermo e rfilesso nello specchio appare l’immagine di un mirino digitale, di quelli utilizzati dai moderni bombardieri per compiere “attacchi intelligenti”. Il mirino ruota su se stesso, punta strade, edifici, in un movimento circolare multiplo che ipnotizza lo spettatore. Spettatore che diventa ora carnefice, e la cui responsabilità nella storia viene invocata da un percorso visivo e uditivo vertiginoso.

Nel lavoro del Soleil, il punto di vista dello spettatore diventa una componente fondamentale della composizione scenica: esso è introdotto e moltiplicato sulla scena in una duplice maniera. Da un lato grazie ai carrelli mobile, al loro movimento, alle loro “finestre”, l’occhio dello spettatore acquista la molteplicità di prospettive della macchina da presa o della videocamera, e la capacità di concentrarsi ora sull’insieme ora sul dettaglio. Inoltre l’entrata e l’uscita dei carrelli per ogni singola azione, sottolinea il valore di “apparizioni” di questi brandelli di vita, che tornano a scorrere per brevi tratti sulla scena. Dall’altro, l’utilizzazione delle proiezioni di sottotitoli per la traduzione dei dialoghi e delle testimonianze registrate, genera una partizione dell’attenzione spettatoriale, che si divide fra parola scritta e parola detta, fra azione e scrittura. Infine la presenza del complesso impasto sonoro creato da Jean-Jacques Lemêtre genera un’ulteriore complicazione percettiva.

Per entrambi gli spettacoli le nuove tecnologie con i loro linguaggi e con i modi di percezione cui esse danno luogo, sono un punto di riferimento imprescindibile per creare una composizione scenica che tocchi il vivo della contemporaneità. La questione cruciale che essi pongono è però un’altra: il valore di maschera che le tecnologie devono assumere sulla scena per dare luogo ad una valida creazione teatrale.

Maschera e tecnologia

Voyage e Le dernier caravansérail mostrano che non è la quantità e la qualità delle tecnologie utilizzate sul palcoscenico ad essere fondamentale, ma il fatto che le tecnologie diventino un mezzo per dare respiro alla scena, per offrire all’attore una nuova base all’azione e alla trasformazione, per coinvolgere gli spettatori nell’esperienza teatrale.

Abbiamo parlato della maschera come cavità risonante e strumento di metamorfosi. Questa cavità, negli spettacoli di Dumb Type e del Soleil, diventa la scena intera, che da fissa diventa mobile, al contrario del volto che con la maschera da mobile diventa fisso. La maschera rende possibile un ribaltamento e un superamento della realtà nell’invenzione di un nuovo universo. Nel caso del Soleil, i carrelli diventano insieme l’essenza dei personaggi e l’occhio degli spettatori. Essi portano ad una trasfigurazione degli attori e ed evocano suggestioni profonde. I profughi, sempre in movimento, non sono in realtà liberi di costruirsi il percorso della propria vita. Le lingue parlate dai personaggi non sono un elemento di realismo, ma anch’esse sono una parte di questa maschera: nella loro presenza caotica sul palcoscenico e nel loro divenire scrittura francese sono l’emblema dell’incomunicabilità, della differenza, che il teatro può trasformare in un’effimera ma preziosa occasione di incontro e comprensione, facendo risuonare queste parole nel suo ventre ed trasformandole in scie di scrittura luminosa. In Dumb Type la visione digitalizzata del mondo diventa la maschera degli attori, che si muovono in quest’universo ove tutto è mediato dall’artificiale. Lo schermo e il palco, il gioco di riflessioni e di doppi percettivi, acquistano il loro senso nel momento in cui sono agiti dagli attori e condivisi dagli spettatori. Questi spettacoli hanno quindi creato delle maschere contemporanee che abitano la scena e invadono la sala, coinvolgendo gli spettatori in una partecipazione profonda, individuale e collettiva, agli eventi e alle lacerazione del mondo contemporaneo.

DUMB TYPE – VOYAGE