Nel cuore verde del Crystal Palace Park a Londra, dal 2 al 4 maggio 2025 si è tenuto Polygon Live
LDN, il più ambizioso festival di spatial audio mai realizzato all’aperto nel Regno Unito.
Dopo il successo degli eventi realizzati in contesti internazionali come TOKEN2049
(Singapore), ADE (Amsterdam Dance Event) e Wonderfruit (Thailandia), Polygon ha portato
a Londra un’esperienza che non è solo musicale, ma culturale, immersiva e radicalmente
umana. Ci siamo ritrovati per vivere qualcosa che va oltre il suono: un’esperienza immersiva
totale, in cui la musica è diventata struttura, respiro, mondo.

Artisti visionari, un sistema audio immersivo a 360° e visual architettonici capaci di
trasformare lo spazio in un organismo vivente hanno ridefinito la relazione tra corpo, suono e
ambiente. Il movimento è diventato linguaggio, la musica un’esperienza collettiva.
Il festival è stato presentato in collaborazione con Full Fat 360 e OpenLab. Al centro della
proposta, la prima mondiale del palco a doppia cupola di Polygon: due strutture emisferiche
dotate di un impressionante sistema 12.1.4 di speaker L-Acoustics, con dodici array attorno
al pubblico, sub-wall da festival e quattro array sospesi per una diffusione verticale totale.
Quasi cento speaker per cupola: cinque volte la dotazione tipica per un palco di queste
dimensioni. A tutto ciò si è aggiunta una rete estesa di luci LED perfettamente sincronizzate
con la musica, a creare un ambiente avvolgente e multidimensionale.
Gli artisti hanno lavorato a stretto contatto con i sound engineer di Polygon per disassemblare
e distribuire ogni brano nei suoi elementi costitutivi, utilizzando la tecnologia L-ISA Processor
di L-Acoustics. Questo ha permesso di spostare suoni, frequenze, ritmi e voci nello spazio,
sopra e attorno al pubblico, generando un coinvolgimento tridimensionale e immersivo.

La line-up come percorso esperienziale
Ho partecipato alla giornata di sabato 3 maggio, che si è articolata come un vero e proprio rito
in più fasi.
Ha aperto Earth Echo x Robot Koch con il loro Phonosphere Sound Bath: onde vibrazionali
delicate, avvolgenti, pensate più per aprire il corpo che per attivare la mente.
A seguire, Photay, con un set ricco di groove organici e percussioni sincopate, ha costruito un
ponte tra ritmo tribale e sofisticazione elettronica.
Con Jon Hopkins e il suo Ritual 360° l’esperienza è entrata in una nuova dimensione: non più
solo suono, ma architettura sensoriale. Un rituale sonoro che ha riscritto il rapporto con il
tempo e lo spazio.
Halina Rice ha offerto un set ipnotico, in cui ogni elemento emergeva nello spazio come
materia viva.
Con Kaitlyn Aurelia Smith, la componente spirituale e meditativa ha preso il sopravvento: un
paesaggio astratto di sintesi modulare e voce eterea.
Weval ha riportato il corpo al centro, con la loro inconfondibile miscela di malinconia
melodica e forza ritmica.

Poi è stato il turno di “Pink Floyd’s Great Gig in the Sky”, rielaborato in chiave immersiva
e data-driven: un omaggio visionario, sospeso tra memoria e trascendenza.
A chiudere, Max Cooper, che ha trasformato il suono in geometria emotiva. Una sinfonia
visiva e acustica capace di unire rigore scientifico ed estasi sensoriale.
Un linguaggio immersivo per molte voci
Il festival, negli altri due giorni, ha ospitato artisti straordinari come Arooj Aftab, Gold
Panda, Nitin Sawhney e Tinariwen. Una line-up che ha abbracciato non solo l’elettronica,
ma anche il jazz, music world e le forme più sperimentali, dimostrando la volontà di Polygon
di aprire il proprio linguaggio immersivo a una pluralità di visioni artistiche.
Il rito, il corpo, il suono
In un’epoca di individualismo iperconnesso e frammentazione del tempo collettivo, persiste un
desiderio silenzioso di ritualità. La musica elettronica dal vivo risponde a questo bisogno: crea
stati di trance culturale in cui il tempo si espande, le identità si allentano, e si genera una forma
di unione temporanea, intensa, orizzontale.
Polygon Live ha offerto un varco. Un’esperienza liminale in chiave contemporanea, dove
l’individuo non assiste ma partecipa, immerso in un campo vibratorio. Il tempo non scorre: si
dilata, si piega, si trasforma. Il corpo non esegue: si lascia attraversare.
Qui si abbandonano ruoli e narrazioni. La percezione si espande. Si torna a essere parte di una
communitas.
Non è solo estetica: è un ritorno al rito. Connesso, sensoriale, digitale, condiviso. Un luogo
dove il linguaggio è somatico, dove il suono non accompagna: struttura.
Per qualche ora, si è parte di qualcosa di più grande. E si ricorda che essere umani è anche
questo: entrare, insieme, nel mistero.
Articolo di ILEANA FALCONE

PH: ILEANA FALCONE
Regista e insegnante di teatro, si è laureata al D.A.M.S. presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, dove si è specializzata in teatro e disagio mentale, Ileana ha integrato la sua formazione teorica con esperienze pratiche in scuole come il Teatro dell’Argine, la Scuola Nazionale di Drammaturgia diretta da Dacia Maraini, l’Accademia di Teatro Internazionale di Markus Zohner in Svizzera, la Royal Central School of Speech and Drama a Londra. Ha approfondito tecniche che spaziano dalla Commedia dell’Arte alla danza butō, fino a workshop con l’Odin Teatret. Ileana ha fatto del teatro uno strumento di esplorazione profonda dell’animo umano e di trasformazione sociale, considerandolo uno spazio di indagine privilegiato. Il suo lavoro si intreccia con l’impegno sociale attraverso laboratori rivolti ad adulti, bambini, ragazzi e persone con disabilità, perché per lei il teatro è molto più di un’arte: è un luogo di incontro e riflessione, dove l’individuo può confrontarsi con le proprie fragilità e aspirazioni, scoprendo nuove possibilità di sé e della comunità. A Massa si è dedicata in particolar modo a Pelle Moras, una scuola di teatro concepita come un laboratorio di ricerca e sperimentazione artistica. Attraverso un approccio visceralmente creativo, ha guidato gli studenti in un percorso di esplorazione emotiva e fisica, lavorando sull’intensità delle relazioni sceniche e sull’espressione profonda del sé. La scuola ha rappresentato uno spazio per l’indagine teatrale e la crescita personale, integrando il teatro come mezzo di trasformazione individuale e collettiva.Oggi vive a Londra e continua a dedicarsi al teatro come mezzo per costruire ponti tra le persone, integrando il suo lavoro artistico con un impegno costante nel sociale.