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Lulu” di Berg con la regia di William Kentridge dal 19 maggio al Costanzi
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È  come un salto nel buio la Lulu di Alban Berg che va in scena al Costanzi dal 19 maggio, con la firma di uno straordinario artista alla regia, William Kentridge e con la co-regia di Luc De Wit.

La misteriosa e affascinante partitura di Berg è affidata alla bacchetta di Alejo Pérez specialista del repertorio contemporaneo, con un nuovo allestimento di eccellenza che vede la coproduzione di tre grandi Teatri: Metropolitan di New York, English National Opera e De Nationale Opera.

La storia di Lulu – che il compositore austriaco iniziò a scrivere nel 1928 e che si trascinò fino alla morte, lasciandola incompiuta e poi completata nel 1979 dal musicologo Friedrich Cerha (versione che va in scena al Costanzi) – trae spunto da due lavori del drammaturgo tedesco Frank Wedekind, Lo spirito della terra e Il vaso di Pandora e racconta di una giovane adolescente i cui turbamenti erotici si manifestano attraverso una serie di vicende dagli intrecci complessi, e di incontri con personaggi oscuri, emblema delle debolezze e delle paure dell’uomo. L’allestimento che il pubblico dell’Opera di Roma potrà applaudire trova il suo fulcro nell’universo visivo dell’artista sudafricano che nella sua ricerca inverte i codici culturali secondo cui la visione è sottomessa al giudizio: quest’opera rappresenta un invito ad abbandonarsi alla visione rinunciando all’idea di una comprensione razionale.

William Kentridge si misura con un capolavoro delle avanguardie del Novecento confrontando la propria cifra stilistica con l’immaginario figurativo dell’espressionismo tedesco, che ispira le prospettive sghembe della scena di Sabine Theunissen e i disegni dello stesso Kentridge. La potenza figurativa di questa Lulu, ispirata al cinema muto degli anni ’20 e accompagnata per tutta la sua durata dai video realizzati da Catherine Meyburgh, è tutta incentrata sulla protagonista dell’opera di Berg.

Lulu secondo Kentridge è una bambola succube che attraversa nel suo viaggio verso le profondità oscure dell’esistenza un mostruoso campionario di umanità, di cui sembra apparentemente esserne carnefice, ma di cui in realtà si rivelerà vittima.“L’oggetto del desiderio – spiega l’artista sudafricano – non ha niente a che fare con la nudità e la sensualità, ma ha a che fare con tutto ciò che scatena un’ossessione: a volte proprio l’indifferenza mostrata dall’oggetto del desiderio può diventare essa stessa la cosa più irresistibile. Che cosa si deve fare per cercare di sfondare quel muro? Ignorarla può essere tanto ossessivo ed eccitante quanto desiderarla”.

Ombre e tecnologie nelle performance contemporanee
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Rimediando il teatro-alla maniera di Kentridge

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Si sta facendo largo ultimamente un ambito di studi e ricerche storiche collegate a pratiche artistiche teatrali e installattive contemporanee che a dispetto delle tecnologie più sofisticate e interattive, si rivolgono all’indietro, al passato, alla tradizione o a macchine obsolete, a vecchie modalità artistiche e a dispositivi e programmi che “non ce l’hanno fatta”, mescolati con i nuovi formati digitali. Il principio è quello teorizzato da Bolter e Grusin che lo hanno definito remediation (che potremmo tradurre liberamente, ricordando Stanislawsky, come reviviscenza). Una garanzia di lunga vita per tecniche che oggi sembrerebbero obsolete e che invece vengono recuperate dall’oblio e dal banchetto del modernariato dando vita a un nuovo stile multimediale che “sa di antico”.

Prendendo spunto dal bellissimo testo di Roberto Casati potremmo effettivamente parlare di una recente “scoperta dell’ombra” da parte di artisti visivi e multimediali. Sarà l’effetto Kentridge quello che sta rinnovando all’indietro l’idea di teatro attuale riproponendo a un pubblico dotato di Kinet, Xbox e consolle di ogni genere, delle figurine ritagliate e animate con una vecchia macchina 16 mm, silhouette o effetti di luce artigianali? L’onda anomala di Kentridge inarrivabile e straordinario artista politico, con il suo repertorio di figure nere in processione e di cortei di ombre animate, simboli di azione, resistenza e riscatto in un Sudafrica “riconciliato” all’indomani dell’African National Congress di Mandela, sta generando proseliti anche in territori non strettamente teatrali. Le ombre come è noto, sono un motivo iconologico costante e un vero topos nel repertorio visivo di Kentridge, sviluppate nelle più diverse tecniche: dalle sculture in lamina nera di figure in sospensione tra le due e le tre dimensioni (addossate su muro o anamorfiche e disperse a frammenti nello spazio e persino rotanti su un perno o ripresi dalla telecamera/macchina da presa), alle processioni in silhouette di derelitti in marcia eseguite a collage con carta strappata (come in Portage, 2000), a sagome di figure nere di varie dimensioni inserite su arazzi, fino ai ciclorama di profili neri su bianco o su pagine di libri e su carte geografiche, e infine alle proiezioni animate (Shadow Procession, 1999; Stair Processing Vertical Painting, 2000; Procession or Anatomy of Vertebrates, 2000).

Un komos contemporaneo che si mostra all’interno di tutte le sue opere, nelle sue linee essenziali per raccontare un mondo sotterraneo e invisibile venuto improvvisamente alla luce, in grado di mutare la realtà in senso rivoluzionario. I video, le installazioni e le opere filmiche animate di William Kentridge a partire da disegni al carboncino sono creati quali forme espressive aperte che si espandono verso inedite traiettorie artistiche, in una felice “conflittualità relazionale” (il video come espansione del fatto grafico, diventa installazione, poi quadro scenico animato all’interno di uno spettacolo, come per il recente progetto ispirato al racconto Il naso di Gogol dal titolo I am not me, the horse is not mine, 2008). L’effetto di ombre in movimento nel suo teatro (con una eco non incidentale al teatro giavanese, il wajang) è combinato variamente con le proiezioni video o filmiche, tecniche che insieme creano un gioco e uno scambio ininterrotto tra la parte frontale e quella retrostante la scena, entrambe spazio d’azione live sia dell’attore (o della marionetta) che della macchina (e del suo manovratore).

Alle ombre è dedicata una delle più significative installazioni della giovane artista multimediale indiana Shilpa Gupta: in Shadows #1 e Shadows #3 (2007) le silhouette del visitatore, grazie a un sistema video interattivo, si mescolano alla folla inquietante di fantasmi in nero video proiettati.

Imparentato alla Gupta anche nella colonna di suggerimenti di you tube l’installazione video ludica interattiva
SHadows Monster di Philip Worthington

Impossibile non riconoscere in queste opere la mano (o l’ombra..) di Myron Kruger con la sua serie di installazioni videointerattive degli anni Ottanta Videoplaces in cui è proprio la silhouette del visitatore catturata dalla videocamera a giocare con le immagini video e piccoli oggetti animati e grafica colorata.

Il motivo kentridgiano della processione di figure nere a mo’ di ciclorama e i video animati con sagome di carta ma con protagonisti schiavi, madri stuprate, sottomesse, uomini torturati (che sembrano a prima vista, innocenti decorazioni che escono da lavori di découpage o dal cassetto di giochi dei bambini) sono al centro del lavoro della giovane artista afro-americana Kara Walker (attualmente in mostra alla Fondazione Merz di Torino). Il lessico dell’artista (quale si evince da tutte le sue opere nei più diversi formati e tecniche usati: acquarello, inchiostro o carboncino su carta, collage, figurine di carta su muro, o film in 16mm) connotato da un voluto primitivismo, è stato ben illustrato da Yasmil Raymond all’interno del catalogo dedicato alla Walker My complement, my enemy, my oppressor, my love. L’epopea della negritudine passa dalla tratta degli schiavi alla guerra tra sudisti e nordisti, al colonialismo, dal racconto dello Zio Tom alla proclamazione dell’emancipazione femminile.
L’aspetto multimediale è legato alla creazione di alcuni video come piccoli teatrini realizzati attraverso l’animazione manuale servendosi di piccoli bastoncini, delle figurine nere ritagliate a raccontare schiavitù infinite e oppressioni millenarie.

Terminiamo questa prima carrellata sull’arte teatrale e tecnologica che si ispira alle ombre con lo spettacolo musicale SADE SONG di Jean Lambert-wild, direttore artistico della Comédie di Caen. Lo spettacolo a sua regia tratto liberamente dal marchese De Sade è impostato su silouhette e straordinari giochi d’ombre in un’atmosfera di musica dal vivo di fortissimo impatto.

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Rimediando il teatro di Beckett con il video
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Pubblicato in Atti del convegno dell’ADI (Associazione Docenti di Italianistica), Università di Sassari, 2012.

Come hanno trattato o interpretato la materia e le visioni beckettiane gli artisti multimediali nelle loro installazioni, videoperformance e spettacoli tecnologici? E’ opinione comune che sia la stessa poetica di Samuel Beckett, così radicalmente altra rispetto ad una scrittura drammaturgica tradizionale, oscillante e sospesa in un tempo a-dimensionale, nella rinuncia all’illusione della comunicazione, nella negazione della possibilità di un raccontare, nell’inutilità di ogni agire, ad aprirsi ad apporti creativi altri, offerti dalla specificità del mezzo video e filmico.

Ersilia D’Alessandro ha parlato di una loro “vocazione cinematografica”, Avantaggiato di un Beckett “ultramediale”[1]. Non è solo il Beckett filmico e tele teatrale (da Film con Buster Keaton ai tele play ai radiodrammi: Ghost trio, Quad, But the clouds, Di’Joe) ad aver offerto notevoli spunti ad artisti video, quanto alcuni testi brevi che hanno avuto rarissime rappresentazioni teatrali per l’oggettiva impossibilità di messa in scena.

Si può parlare effettivamente, di una “vocazione all’immagine” di alcuni testi corti di Beckett (scritti dal 1963 al 1982) che, più ancora della nota produzione teatrale (Finale di partita, Aspettando Godot, Giorni felici) hanno offerto un ambito straordinario di sperimentazione video artistica (video creativa o video teatrale).

Si tratta di prose e testi teatrali dal minimo ingombro che si offrono quali rapide illuminazioni, pennellate di spessore concettuale e di  esasperata bellezza. Per queste densissime miniature, di fulminante respiro, Beckett creò il neologismo di dramaticules a sottolineare la compressione drammatica che le sostanzia e la decaduta pretesa di qualsiasi io autoriale: PlayCome and GoBreath, Catastrophe.

Dello stesso periodo (dal 1963 al 1972) sono alcune prose brevi in cui lo scrittore irlandese abbandona definitivamente la forma narrativa dei romanzi “adulti”, ritorna in parte al francese degli esordi, e imprime alla scrittura una vera e propria torsione sottrattiva (Trilogy, Not I, Comment c’est, All the strange away).

Pensiamo a Non io, monologo torrentizio dell’unico personaggio Bocca, in cui la testa della protagonista, come decollata, illuminata da un violento fascio di luce, secondo le indicazioni dell’autore, si staglia su un fondale di fitta e impenetrabile oscurità. Nei brandelli sconnessi del veloce monologo, affiorano frasi di una memoria drammatica che la protagonista assicura non appartenerle. Il passato che la donna maledice, spesso con toni di oscena e blasfema ferocia, è il ricordo di un dolore cosmico senza rimedio.

Pensiamo, poi, alla assenza pressoché assoluta di azione contenuta in Come and Go (la versione breve e al femminile di Aspettando Godot, in cui tre donne anziane sedute in una panca, sono in attesa di qualcosa da moltissimi anni e mantengono dei segreti che si sussurrano alternativamente all’orecchio) in cui emergono solo gli sgargianti colori precisamente individuati da Beckett per le vesti delle donne. In Breath Beckett arriva a immaginare una sola situazione scenica della durata programmata di 35 secondi.

Testi quindi, quasi refrattari alla scena, persino restii anche alla forma libro e che prevedono sotterraneamente, un linguaggio altro rispetto alla letteratura e al teatro. Mi riferisco per esempio, a Play e alla dinamica convulsa del racconto di un tradimento, scritto per tre personaggi secondo una logica da montaggio alternato. Il racconto prevede non “non stop”, un circuito infinito di parole (Repeat again è l’indicazione di Beckett per gli attori, quando ciascuna delle loro versioni termina).

E’ evidente quindi, un processo di definitiva spoliazione poetica, di scarnificazione linguistica in cui la parola sopravvive come reperto estremo, come elemento residuale di una comunicazione di per sé lacunosa e intermittente: questa è stata la fonte di ispirazione per un gruppo nutrito di artisti legati al video teatro, per la “nuova ondata anni Novanta” e per la nuovissima generazione di artisti multimediali che usano il video per produzioni creative autonome.

Il video sembra offrire una sorta di rimedio, un risarcimento, una soluzione creativa alternativa per visualizzare in forma di immagine, quell’universo beckettiano fatto di sintetiche o scarnificate partiture che hanno la densità e la forza della parabola. Si tratta talvolta di pochi  suggerimenti scritti da Beckett più che di trame con indicazioni di movimento  che implicano, sul piano della regia video, inquadrature e montaggio di grande precisione, costruite sull’attesa e sull’assenza, lunghi piani sequenza in cui la macchina da presa, sempre presente come “occhio belva” incarna un ruolo: quello della coscienza o della morte che incombe.

 Anche in questi testi presi in esame, come nella più ampia produzione teatrale matura, le figure di Beckett sono in una condizione di immobilità (in Play dentro urne), di scacco, di prigionia soffocante autoindotta (All the strange away), in silenzio, in attesa, protesi verso il nulla. Atterrano nel fango (Come è), si rialzano ogni volta per riprendere l’andatura vacillante, inforcano le stampelle, si spostano su sedie a rotelle o sedie a dondolo (Passi), strisciano, annaspano, si osservano invecchiare e marcire (Come and go), si guardano andare in pezzi, tragici testimoni di un vuoto mai definitivo, mai risolutorio (“la morte stenta ad arrivare”).

Il corpo umano è accecato dalla luce abbagliante (All the strange away) imprigionato in una scatola di cui si danno ossessivamente le dimensioni, o di un sacco dove condividere vita e punizioni reciproche (Come è). Trasposte sul monitor queste partiture visuali accentuano i ruoli dei personaggi nella loro fissità spaziale e esasperano la condizione di ripetitività della loro esistenza senza via di fuga (Play) grazie a loop  e ralenti, piani sequenza silenziosi e incombenti, primi piani soffocanti.

Breath, sorta di grado zero della scrittura, testo-lampo della durata obbligata di 35 secondi, con luce intermittente e null’altro in scena se non cumuli di spazzatura, si ispira l’artista greco Nikos Navridis per l’omonima installazione video esposta alla 51a Biennale di Venezia e Damien Hirsh. David Mamet e William Kentridge guardano invece, a Catastrophe (1982, dedicato al drammaturgo ceco Vaclav Havel) per il loro omaggio video a Beckett. Un attore (Protagonista) è in piedi su un podio mentre, con l’aiuto di un Assistente, un Regista lo prepara per uno spettacolo teatrale che sembra non consistere in null’altro che nella sua stessa apparizione fisica. Viene trattato come un oggetto, spogliato, messo in posa. Della sua volontà non si tiene conto ed è a tutti gli effetti un manichino nelle loro mani, trattato come una vittima degradata e umiliata. Ma la fine è particolare: il regista chiede di illuminarlo per avere la sua “catastrofe” o conclusione. Mentre la luce è tutta su di lui, anziché rimanere immobile come da copione, l’Attore alza la testa spegnendo lo scroscio di applausi. Proprio con questo gesto finale egli riafferma, a un passa dal baratro, la sua dignità. I tre personaggi corrispondono ai tre ruoli nel potere di uno Stato: un dittatore, un servo che obbedisce ed esegue gli ordini, il popolo che subisce e poi si ribella. Il teatro svela la gerarchia della società.

 Il cortometraggio di Mamet con l’interpretazione di Harold Pinter (Director), Rebecca Pidgeon (Director’s Assistant) e con l’ultima toccante apparizione di John Gielguld (Protagonist) fa parte del progetto Beckett on film (2000) prodotto da RTE, Channel 4 e Irish Film Board, presentato al 57° Festival del Cinema di Venezia nella sezione Nuovi Territori. La storia si svolge dentro un teatro tra ombre inquietanti e fari di scena. L’anziano attore ha ancora la forza, nel finale, di ribellarsi.

 Monument (3’,1990) di William Kentridge è il secondo cortometraggio della saga di Soho Eckstein. La tecnica di animazione usata è quella usuale di Kentridge, lo stop motion, ovvero una successione di immagini filmiche di fasi diverse del disegno a carboncino realizzato appositamente per raccontare la storia. In questa come in altri episodi della saga, la tematica affrontata è quella della storia postcoloniale del Sudafrica, degli orrori del capitalismo e dell’apartheid, complice questa volta, la simbolica trama beckettiana della relazione di potere tra Regista-Attore-Assistente. Monument è stata esposta come installazione alla Tate Gallery.

Nel 1968 Bruce Nauman, esponente dell’area concettuale americana e tra i pionieri della videoarte statunitense insieme con Dan Graham e Peter Campus, crea Beckett Walk o Slow Angle Walk.  Si tratta di un’opera video-performativa che mostra il dispositivo video nella duplice funzione di processo e immagine spazializzata. In Beckett walk una telecamera fissa collegata a un monitor per ciascun lato di uno spazio architettonico quadrato che si sviluppa in altezza, riprende dall’alto la persona che ne percorre il perimetro. I suoi movimenti non sono naturali: Nauman realizza una sorta di happening o performance mediatica ripetitiva, a loop: il performer con le mani dietro la schiena alza una gamba a 45 gradi e la lascia poi ricadere a terra con grande rumore.

Comportamenti bizzarri, rovesciamenti del corpo che vengono ritagliati nella scatola del monitor e che contrastano con quel geometrico percorso obbligato che regolamenta il suo tracciato nello spazio. Come ricorda Valentina Valentini: “Non è gratuito il riferimento a Beckett, che è stato un incontro importante per Nauman, perché in entrambi il linguaggio è un elemento che trova in se stesso il proprio fondamento, non sta al posto di…, non è uno strumento espressivo legato alla dimensione soggettiva e intersoggettiva di locutori e perlocutori”[2].

Natalia Antonioli regista teatrale toscana con un background di studi filosofici, ha percorso per un’occasione specifica nel 1999 (il Premio Autore Donna) l’itinerario beckettiano con una serie di installazioni video e sonore che risultarono vincitrici della sezione Nuove Proposte. L’autrice nel catalogo curato da Marina Corgnati, le definisce “microregie”, concertazioni installattive dalla durata minima, quasi istantanea, seguendo scrupolosamente le indicazioni beckettiane per i suoi dramaticules.

Passi è realizzato come un tracciato di scritte bianche con correttore (frasi dal testo stesso di Beckett) su materiale plastico scuro posto a terra a formare gli otto numeri del gioco infantile della campana. Il gioco  non termina mai perché ricomincia sempre, e così è per la voce registrata associata all’installazione: un cadenzato ripetere delle parole beckettiane per bocca di bimba.  Tra le installazioni spicca senz’altro la resa video-letterale di Ohio Impromptu. Il tavolo con due sedie e due monitor propone un dialogo impossibile e infinito tra Ascoltatore e Lettore, tra Io e Non io: un interlocutore assente – simboleggiato dalla neve del televisore non sintonizzato – e un video-braccio che comanda ma dà regole non ascoltate.

In tutte le installazioni i frammenti del testo originario sono sparsi in forma di sasso o cemento inciso (Giorni felici III), di carta ghiacciata (Quella volta), accartocciata, di ritagli di singole minuscole lettere ricomponibili a scelta da chiunque secondo il meccanismo della casualità. Il teatro è dietro un’unica immagine che condensa, “ghiaccia” quell’istante, “quella volta” e si concede ma per tracce fossili, all’archeologo-visitatore. Metronomi a battere il tempo per nessun strumento, voci inabissate che si disperdono dentro coni metallici, vetri che accolgono bocche afone, corpi smembrati dall’occhio della telecamera, dondoli dal movimento inarrestabile, giochi della morte e giochi dell’infanzia.

I monitor isolati, gli oggetti casuali, le sequenze narrative monche sono lì a sostituire attori e trama e a testimoniare un’assenza imprecisata o un’attesa infinita. L’installazione è infatti, una scena provvisoriamente abbandonata, laddove una presenza umana si è dileguata e ha lasciato ombre elettroniche e guanti in lattice, borsetta, ombrellino e collana di perle. Nella dimensione irricostruibile e indecifrabile del luogo e della storia, nella negazione del tempo e contemporaneamente nella resa di “creature in fuga”, il senso di un Beckett messo per una volta in mostra e non in scena.

Studio azzurro nel 2004 ha firmato le scenografie digitali per Neither. All’opera musicale per soprano e orchestra concepita da Morton Feldman nel 1976, Beckett aggiunse su commissione dello stesso compositore, il libretto. Feldman chiese infatti a Beckett per l’opera, la “quintessenza” della sua poetica, che fu prontamente consegnata in forma di un pugno di righe come una sorta di suprema astrazione o distillato del suo pensiero, intorno al tema universale dello stare al mondo, in una condizione sempre oscillante tra l’io e il non io.

Studio Azzurro sceglie una dimensione evocativa quasi surreale, sorretta da pochi oggetti in formato video digitale, che rimandano al mondo beckettiano: un dondolo, l’uccello in gabbia, un uomo nel letto, l’albero, le scale, una porta semiaperta che non è retta da alcun muro, una lama di luce in un palcoscenico vuoto, quel teatro secondo le stesse parole di Paolo Rosa, simbolo di nessun luogo e insieme crogiuolo di tutti i luoghi possibili.

Waiting for Godot sbarca su Internet nel 1997. Presentato al Digital Story Telling Festival. Waiting for Go.com è uno spettacolo di teatro on line con uso delle chat room e con personaggi interpretati da utenti collegati in quel momento; icone grafiche rappresentano non solo Didi e Gogo (Estragone e Vladimiro) ma anche altri personaggi improbabili come Mister Muscle, che si inseriscono ogni qual volta entra un nuovo utente; Waiting for Go.com ha un suo ambiente visivo offerto dalla piattaforma Palace.com che non è altro che il palcoscenico virtuale della rappresentazione. Del testo non rimane pressoché nulla se non alcune suggestioni dei personaggi. Il pubblico era costituito anche dagli spettatori reali del festival grazie a video-proiezioni. Nel resoconto on line sul sito della compagnia, dal titolo Clicking for Godot l’autore Scott Rosenberg esalta la nascita di un genere, il digital puppet theatre in un nuovo teatro on line, le cui modalità di (non) comunicazione rimanderebbe proprio al tema dell’assenza in Beckett:

 IIn Aspettando Godot nulla accade per due volte in ciascuno degli atti. Nelle chat rooms nulla accade la maggior parte delle volte, le persone si ritrovano ogni sera e aspettano per lo più che accada qualcosa, che qualcuno dica qualcosa di interessante, che un diversivo gli aiuti a passare il tempo. 

 L’artista multimediale e musicista Roberto Paci Dalò creatore della compagnia Giardini Pensili si è dedicato a Beckett in un paio di occasioni: la prima volta con l’installazione visiva e sonora Beck/ett realizzata a Castel Sant’Elmo per la grande mostra dedicata al Living Theatre e curata dalla Fondazione Morra, con la voce campionata di Julian Beck. Nel 2006 ha dato vita a uno spettacolo videopoetico (altrimenti definito dall’autore “esecuzione scenica”) di notevole valore a partire dall’ultima produzione poetica di Beckett e interpretato da Gabriele Frasca e Patrizia Valduga, a loro volta poeti (e traduttori) in scena insieme a una giovane attrice francese, Caroline Michel. Qual è la parola si regge su atmosfere rarefatte, trasparenze, voci sussurrate o disperse, parole inanellate a suoni e immagini evocative, in una composizione fragilissima e intensa, sottoposta a un trattamento digitale in diretta. Proprio il digital live è quella modalità – più volte sperimentata da Giardini Pensili – che rende la tecnologia stessa significativo evento poetico in sé.

Un originale omaggio in video ispirato a Not I, monologo del 1972 di Beckett, è quello di Mald’è, giovane compagnia campana video/teatrale di Matilde de Feo e Mario Savinio. Il video di 11’ (che ha una forte pregnanza visiva, e aderenza alla poetica beckettiana e un’ottima realizzazione tecnica), è una cascata ininterrotta di parole dallo strano personaggio di Bocca (interpretata dalla stessa De Feo). Bocca va a occupare un angolo di un ambiente elettronico caratterizzato da un biancore abbagliante e da cui emergono a tratti, segni grafici esplosi e frammentati, fonemi vomitati, risucchiati e poi sparsi ancora nel vuoto elettronico. Dalla bocca “reale” ma isolata dal contesto corporeo, si passa a quella digitale, una macchia rossa che mentre parla si sfalda, si sdoppia, si sovrappone in un’infinita metamorfosi elettronica. Riconoscibile sempre più a stento come un organo fisico scompare affogato nel bianco, quel bianco accecante che domina molta parte della produzione beckettiana.

Atto senza parole I di Carlo Caprioli e regia di Enrico Maria Lamann è stato presentato a Film Maker di Milano e al Lodi Film Festival del 2005. Carlo, figlio di Vittorio Caprioli interpreta col video quell’invisibile potere che regge i fili, guida gli oggetti della sopravvivenza e quindi il destino dell’uomo nel deserto in cerca dell’acqua continuamente sottratta. E’ un’entità lontana che governa gli eventi muovendoli virtualmente da un non meglio precisato mondo parallelo fantascientifico, indossando data glove e virtual eyes. I limiti spaziali non oltrepassabili dall’uomo sono dati dal campo stesso dell’inquadratura. L’uomo è prigioniero dentro il video, dentro la scatola quadrata del monitor. Da lì il protagonista non può uscire, prigioniero senza scampo in un deserto bianchissimo e in uno schermo al plasma.

La luce bianca torna ancora a infierire e annulla i contorni delle cose, disintegrando qualsiasi apparenza antropomorfa nel muto deserto siderale materializzato da Beckett in All strange away. A questo si ispira il video di Motus A place (that again). La compagnia si cimenta in un tratteggio di corpi evanescenti come ectoplasmi che nella loro liquefazione di fronte al bianco totale, diventano figure simili alle pitture di Bacon. E’ in scena e in video l’ossessione della fine descritta esemplarmente con un minimalismo d’immagine agghiacciante. Dalle note della produzione video di MOTUS:

 Azione. Un luogo, ancora quello. Mai un’altra domanda. Un luogo. Poi qualcuno, ancora quello. Ancora le sue scarne parole che ci perseguitano come quella luce abbagliante che invade e folgora. Ovunque. Ancora quello spazio vuoto. Bianco assoluto. Dove tutto si vede. In cui tutto precipita. Senza alternative. All strange away. Diabolico tentativo di fermare il tempo, di dilatare l’istante del trapasso, definitivo, verso il momento in cui “nessun rumore di respiro è percepibile”. Immagina solo carne silenziosa. Mangiata dallo sguardo. Occhio belva. Che cerca negli angoli senza ombra. Il video indaga nelle pieghe della pelle. Con rigore scientifico. Espone. Così è la morte o meglio, così è la caduta secondo BECKETT.

Il bianco elettronico è il non luogo beckettiano. Dove affogano i pensieri sessuali, le memorie del personaggio. Come ricorda Mussapi  nell’antinferno beckettiano non c’è grido, non c’è richiesta di ascolto, perché tutto avviene dopo il corso del tempo, di cui sussistono illusorie dilatazioni dell’istante, spasimi molecolari della durata, movimenti microscopici di una immobilità ormai in fase di definitivo assestamento come lava ormai solidificata”[3].


[1] L. Avantaggiato, MultiBeckett. Samuel Beckett tra vecchi e nuovi media, in “Biblioteca teatrale”, n. 81-82, 2007.

[2] V. Valentini, Corridoi, labirinti, soglie: come mettere in gioco lo spettatore, in Dal vivo, Roma, Graffiti , 1996.

[3] L. Mussapi, Postfazione a Beckett, S. ,Quello che è strano via

The nose di William Kentridge.
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La Rivoluzione è un naso a cavallo.

Il progetto di William Kentridge per un allestimento teatrale basato sul racconto di Gogol’ del 1836 Il naso (Nos), tratto dai Racconti di Pietroburgo, risale al 2008, quando l’artista sudafricano si imbatté per caso nel racconto dello scrittore russo nella libreria di un aeroporto, come racconta nel programma di sala.

Non una commissione da parte di un teatro, dunque, ma un’idea che Kentridge decise di condividere con il produttore Bernard Focroulle, allargando successivamente il progetto alla regia di un’opera musicale: quella composta da Šostakovič[3] nel 1930, al suo giovane esordio operistico, ispirandosi proprio al racconto di Gogol’. Il debutto di The Nose, con la direzione musicale del giapponese Kazushi Ono e con le scene animate di Kentridge, risale al 2010 al Metropolitan di New York. Il baritono russoVladimir Samsonov interpreta la parte del protagonista.

Kentridge, si trova perfettamente a suo agio negli allestimenti d’opera, vedi le mirabili scenografie per Il flauto magico di Mozart e per Il ritorno di Ulisse in patria (da Monteverdi): le sue stesse opere animate (i famosi Drawings for Projection) e le videoinstallazioni prevedono nella maggior parte dei casi, più che dialoghi, montaggi sonori da musiche da camera o operistiche.  Kentridge “reinventa” il medium cinematografico attraverso un’insolita riscrittura del linguaggio che unisce l’arte del disegno a obsolete tecniche di animazione passo uno, allontanandosi dagli automatismi del mezzo tecnico e dai mirabolanti effetti della postproduzione computerizzata più attuale, guardando a Mélies più che a Walt Disney.

L’opera di Šostakovič prevede più di sessanta personaggi in dieci quadri scenici divisi in tre atti, un intermezzo e un epilogo. Sono quaranta i musicisti nella fossa orchestrale e quasi altrettanti i cantanti (ventisette solo per la scena settima). Come riportato dal programma, il musicista russo, sodale di Vsevolod Mejerchol’d all’epoca del teatro sperimentale di Mosca, “immagina una forma costituita da scene corte ma numerose, incatenate secondo una logica quasi cinematografica, portandoci nei diversi luoghi di San Pietroburgo“. Cinematografica, nel senso che molte scene sono giocate quasi simultaneamente in diversi punti del palcoscenico, come in un frenetico montaggio (associativo o contrastivo) di situazioni.  Cinematografica anche nella costante giustapposizione di elementi sonori anche contraddittori, dissonanti. Tutta la scena, in verticale e in orizzontale, in esterno e in interno, in profondità e in superficie, con palchetti sopraelevati, scale, piattaforme e praticabili di legno (che ricorda la scena costruttivista di Ljubov Popova per Le cocu magnifique di Crommelynck con la regia di Mejerchol’d, 1922), è impegnata a raccontare una vicenda che sembra scaturita dalla fantasia di qualche proto-surrealista. Sono invenzioni originali di Šostakovič le frenetiche e folcloristiche atmosfere da spettacolo di massa, il balagan (nel XVIII e XIX secolo l’arte dei menestrelli, saltimbanchi e venditori ambulanti, parte della cultura popolare russa) che fanno di quest’opera lirica poco rappresentata, un capolavoro di quello che viene chiamato lo style russe.

La trama, che sembra anticipare tanto il teatro dell’assurdo di Ionesco quanto le metamorfosi kafkiane, vede un assessore del collegio, Kovaliov, coinvolto in una vicenda paradossale ma descritta in modo assolutamente realistico: una mattina l’uomo si trova senza il naso mentre il suo barbiere se lo ritrova dentro un panino. L’uomo si precipita a fare un’inserzione sul giornale, che gli viene però rifiutata, vista l’assurdità della richiesta. Kovaliov inizia a cercare la parte del suo corpo che si era allontanata: senza di essa si si sente depauperato del proprio potere e della propria dignità, caduto nel ridicolo, e perciò impossibilitato a frequentare “la società”.

Finché un giorno l’Assessore del Collegio Kovaliov non si imbatte nel proprio naso, che nel frattempo è diventato Consigliere di Stato con tanto di divisa sgargiante, cappello con piume e bottoni d’oro. Lo ritrova prima in atteggiamento devoto in chiesa, poi acclamato dal popolo in una parata ufficiale, trionfante a cavallo. Ma non può fare nulla, nemmeno avvicinarsi perché in fondo, rispetto al suo naso, lui è pur sempre di rango inferiore! Il problema, così come è nato, scompare all’improvviso: inaspettatamente una mattina il naso viene ritrovato da un funzionario di polizia mentre stava prendendo la diligenza per Riga. Così il naso ritorna al suo posto. Alla fine del racconto, Gogol’ spiega che “simili fatti accadono nel mondo, raramente ma accadono”. 

Al racconto di Gogol’, Šostakovič aggiunge personaggi originali, come il servo di Kovaliov che nell’opera lirica ha una sua autonomia espressiva musicale popolare (suona la balalaica); o la figura grottesca del Dottore, che prima di riattaccare il naso a Kovaliov tenta di comprarlo. Inserisce anche situazioni corali, come le concitate scene della caccia al naso e quella degli avvistamenti di nasi in piazza, in cui troviamo una folla di ambulanti, affittasedie, una venditrice di dolci molestata da militari, e una sfilata di personaggi appartenenti ai più diversi strati della società russa: studenti, poliziotti, cocchieri, colonnelli… Ogni personaggio è associato a uno strumento: il Naso (tenore) a un flauto, Kovaliov (baritono) al corno e allo xilofono, il barbiere al contrabbasso.

Molte sono state nel tempo, le interpretazioni del racconto gogol’iano: oltre a quella freudiana, centrata sulla virile paura dell’evirazione, la più convincente rimane quella della satira grottesca della società zarista che l’autore mette alla berlina raccontando l’ascesa e la caduta del potere di Kovaliov: è forse questo il motivo per cui un autore dalla forte consapevolezza politica come Kentridge non poteva che guardare con interesse ai risvolti attuali del racconto di Gogol’, scritto alla metà dell’Ottocento. Anche la biografia di Šostakovič ha sicuramente giocato un ruolo chiave per Kentridge: la sua opera Lady Macbeth di Minsk fu messa sotto processo da Stalin, ritirata per quasi mezzo secolo e l’autore condannato. Passate le purghe staliniane, Il naso ricompare sulle scene solo nel 1974, a un anno dalla morte del musicista, quale parziale risarcimento morale.

   Kentridge inizia a lavorare ai due maggiori temi visivi ricavati dal racconto di Gogol’ (con l’aggiunta di altre interpolazioni letterarie) e al modo in cui renderli in scena: il naso e il cavallo. Un motivo ricorrente è la scala; elemento che nasce, come raccontato da Kentridge, dopo la visione del film d’avanguardia del 1930 The Life and Death of a Hollywood extra dove una comparsa cerca con tutte le sue forze di far carriera a Hollywood. Così Kentridge:

 La comparsa sale i gradini di una scala e precipita ritrovandosi di nuovo all’inizio della scala, riprova la salita e ottiene ancora lo stesso risultato, una sorta di fatica di Sisifo.Allo stesso modo io ho setacciato tutta Johannesburg cercando una scala adatta per le riprese di una particolare scena senza ottenere risultati e finendo per utilizzare la scala del mio atelier. Questa soluzione di ripiego si è rivelata poi perfetta e adatta allo spettacolo per la sua somiglianza con il podio di Lenin. Arrivato a un certo punto della lavorazione di quest’opera, non sono più riuscito a capire quello che ho utilizzato per lo spettacolo e quello che è diventato spettacolo[4].

Il naso gigantesco ha una sua dignità, un suo portamento, una sua autorevolezza. La sua massa informe ricorda quella disegnata da Alfred Jarry per il suo Ubu. La sua strana e ingombrante forma di cartapesta viene calzata in scena dal cantante-interprete (il tenore Alexandre Kravets) come fosse una maschera.  Anche il cavallo è stato oggetto di numerosi studi preparatori da parte di Kentridge, che ha lavorato in particolare sul tema iconografico del cavallo quale simbolo di autorità e potere (come si ritrova nelle varie statue equestri di condottieri dal Rinascimento in poi). Pur ispirandosi al monumento equestre di San Pietroburgo, però, l’artista sudafricano raffigura un cavallo anti-eroico che compie il suo dovere senza rubare la scena al naso con la sua imponenza. Sugli schizzi per il cavallo, spiega Kentridge:

 Quanto specifici devono essere dei pezzi di cartoncino affinché noi possiamo riconoscere ciò che vediamo? Una testa, una curva per il collo, qualche linea dritta per le gambe ed un ghirigoro per la coda è tutto ciò di cui abbiamo bisogno non solo per convincerci che stiamo vedendo un cavallo, ma per impregnare il cavallo degli attributi dell’animale vivente e delle immagini associate. Così mentre tentavo di fare cavalli minimali o residuali, cercavo anche di fare cavalli anti-eroici. Dei cavalli che avrebbero avuto il diritto minore possibile di essere sui monumenti[5]

 Durante i vari anni di progettazione dell’opera, Kentridge ha dato vita a un mondo abitato da disegni e incisioni di nasi a cavallo, seduti al caffè, nasi con gambe, nasi che stanno in piedi su compassi, nasi come condottieri o come teste in corpi di donna, e poi ancora teste di cavallo come quelle disegnate da Leonardo o come ronzini donchisciotteschi, inseriti in contesti molteplici. Kentridge infatti li colloca in arazzi ricamati a mano, in forma di collage sopra carte geografiche, li realizza in metallo a guisa di sculture tridimensionali anamorfiche, come ombre, o disarticolati nei singoli pezzi del corpo e poi riversati in filmati video animati. Questo universo di progetti, bozzetti, disegni, acquerelli, carboncini dei protagonisti e dei diversi personaggi del racconto, sono testimoniati nel catalogo della mostra Kentridge: 5 Themes: in questi anni, hanno alimentato diverse situazioni artistiche ed esposizioni che non hanno più nulla del lavoro preparatorio per la scena, ma sono già opere compiute a sé.

Tipica è la modalità artistica di Kentridge, aperta a integrare diverse tecniche ed espansa verso nuove e ulteriori traiettorie espressive: un universo di creazione che anche per The Nose, andrà ad abitare indifferentemente le installazioni, le mostre, le performance, le conferenze-spettacolo. Come per la piéce da camera Telegrams from The Nose, l’installazione videoFragments round The Nose o quella su quattro pareti contigue I am not me the Horse is not mine, in cui Kentridge non si sottrae al divertissement di animare i cavalli con la tecnica dello stop motion e di inserire sé stesso nelle animazioni, nonché di “trattare” spezzoni di film russi con l’aggiunta di scritte e colori[6]. Kentridge parla di uno spettacolo in forma di collage che aveva in mente di realizzare dopo aver letto il racconto di Gogol’:

 Avevo visto una produzione di The Nose, eccellente sul piano musicale, al Teatro Marinsky di San Pietroburgo, ma, durante la seconda parte, quando lo spettacolo entra nel vivo, ho notato che gran parte degli spettatori si è addormentata, come per proteggersi dal caos. In quel momento mi sono reso conto che la prima regola, per mettere in scena quest’opera è quella di seguire la storia: sapere dove siamo concretamente in qualunque cambio di scena, chi è la persona che canta, chi è il suo personaggio e cosa canta.[7]

Qua il trailer con intervista a Kentridge.

 In realtà di tratta di un vero cine-montaggio di sequenze agite dagli attori e di quadri visivi e animati senza soluzione di continuità; un esempio straordinario sono le scene realizzate contemporaneamente con scenografie materiali e ombre bidimensionali: il Naso entra nella diligenza ma il cavallo che lo traina è un’ombra. Oppure, nella casa di Kovaliov formata da un letto e un armadio, appare uno squarcio di luci e di panorami da una finestra che altro non sono che proiezioni in prospettiva sghemba. La scena è un gioco di scatole cinesi che contengono i diversi ambienti: gli interni e gli esterni del racconto, la Prospettiva Nevski e l’interno della casa del maggiore o la barberia; Gogol’ infatti non privilegia un solo aspetto e un solo personaggio, ma mostra una varia umanità inserita in un contesto urbano rumoroso, con le idiosincrasia dei soggetti tipici, i burocrati, i militari, il popolo.

Kentridge non disdegna un’incursione nell’arte d’avanguardia primo novecentesca: a imporsi come cifra stilistica dello spettacolo sono più l’atmosfera storica e il contesto rivoluzionario legato a Šostakovič che non all’epoca di Gogol’. C’è la Russia del Costruttivismo, del Suprematismo, del Transmentalismo, del Cubofuturismo, con citazioni quasi letterali da El Lissitzky (il quadro Colpisci i bianchi con il cuneoLa tribuna di Lenin), dai manifesti pubblicitari realizzati con la tecnica del fotomontaggio alla Rodčenko, da Tatlin (Il monumento per la terza internazionale) e soprattutto dalla scena cineteatrale di Mejerchol’d (La terra capovolta, 1928). Guardare a Mejerch’old significa guardare a quel teatro che ha realizzato per la prima volta nella storia l’utopia della “sintesi delle arti”. Bellissimo il sipario: insieme con la set designer Sabine Theunissen, Kentridge ha realizzato con minuziosa dovizia di dettagli un enorme collage fatto di ritagli di giornali, mappe geografiche, scritte in cirillico, figure di politici mutilati curiosamente del naso e macchine dell’epoca. La maquette è stata successivamente realizzata in stampa a dimensioni appropriate in uno studio professionale, il quale però ha mantenuto il più possibile una “modalità artigianale”.

Districarsi nell’universo dell’opera realizzata da Kentridge non è facile, ma è possibile rintracciare una serie ininterrotta di segni inconfondibili del suo lavoro: le parate, le processioni in nero, le ombre animate, contestualizzate nella Russia staliniana, abitano la scena di The Nose, riempita dalla musica a tratti privata del canto e della parola. Il tema visivo della processione e del corteo è un vero topos nel repertorio di Kentridge (le famose Shadow Processions), sviluppato nelle diverse tecniche e spesso associato all’ombra o a figure nere, simboli di azione, resistenza, riscatto. Anche in The Nose la scena della “processione nera” in chiesa è una delle più toccanti e potenti, ma questa volta si tratta di corpi di attori in carne e ossa che vengono mischiati a proiezioni animate di ombre e di silhouette di corpi in preghiera: è un komos contemporaneo che racconta un mondo sotterraneo e invisibile venuto alla luce, in grado di mutare la realtà in senso rivoluzionario.


[1] William Kentridge, artista visivo contemporaneo, nasce il 28 aprile 1955 a Johannesburg, Sudafrica.  Cresce in una famiglia di origine lituana ed ebreo-tedesca, in uno Stato diviso dall’apartheid. Dal 1973 frequenta l’University of the Witwatersrand, dove, nel 1976 consegue la laurea in Politica e Studi africani. Nel 1976 s’iscrive alla Johannesburg Art Foundation, specializzandosi nelle varie tecniche d’incisione e, contemporaneamente, inizia a lavorare come attore, regista e scenografo nella Johannesburg’s Junction Avenue Theatre Company. Nel 1981, lascia Johannesburg e si trasferisce a Parigi, dove studia mimo e teatro all’École Internationale de Théâtre Jacques Lecoq fino al 1982. Tornato in Sudafrica, abbandona la carriera da attore per dedicarsi completamente alla regia cinematografica, televisiva e al disegno. Il 1989 è l’anno del suo primo video d’animazione: Johannesburg, 2nd Greatest City After Paris, primo dei suoi celebri Drawings for Projections. Sono nove film animati e muti che raccontano le condizioni del Sudafrica durante la segregazione; animazioni create con uno stile inventato da Kentridge stesso basato sulla tecnica dello stop motion. Nel 1992 per la prima volta Kentridge collabora con l’Handspring Puppet Company all’opera Woyzeck on the Highveld. In quest’opera attori in carne e ossa sono affiancati da marionette di dimensioni umane inventate da Kentridge e gestite sul palco dalla Handspring Puppet Company. Nel 1995 collabora di nuovo con la Handspring Puppet Company allo spettacolo Faustus in Africa! di cui Kentridge stesso è l’autore. Nel 1994, in concomitanza con le prime elezioni generali sudafricane, che segnano la fine dell’apartheid, Kentridge realizza il film Felix in Exile; film che sarà esposto nel 1997 a Documenta X a Kassel insieme aHistory of the Main Complaint. L’attenzione da parte di un pubblico internazionale per Kentridge arriva proprio a Kassel e, nel 1998 a Bruxelles, viene allestita la sua prima retrospettiva europea. Tra il 1998 e 1999 ripropone l’opera teatrale di Jane Taylor Ubu and the Truth Commission lavorando ancora una volta con la Handspring Puppet Company, con la quale realizzerà anche Il Ritorno di Ulisse in patria. Nel 2005 reinterpreta il capolavoro musicale di Mozart, il flauto magico. Nel 2008 Kentridge presenta presso il Teatro La Fenice di Venezia l’installazione (Repeat) From the Beginning, dove viene trattato il rapporto tra teatro e musica. Nel 2009 il Time inserisce Kentridge tra le 100 persone più influenti del mondo. Tra il 2010 e il 2011 sono organizzate due sue grandi mostre itineranti che viaggeranno in tutto il mondo, la prima organizzata dal National Museum of Modern Art di Tokyo e l’altra: William Kentridge: Five Themes, organizzata dal Museum of Modern Art di New York.

[2] C.Alemani, William Kentridge, Milano, Electa, 2006, p.32.

[3] Dmitri Šostakovič nacque a San Pietroburgo il 25 ottobre del 1906 ma visse a Leningrado (il nome della città dopo il 1917) e morì a Mosca il 10 agosto del 1975. Importante personalità della musica moderna russa, si formò artisticamente nel clima politicamente e culturalmente acceso della rivoluzione sovietica diplomandosi nel 1923 in pianoforte e nel 1925 in composizione. Il clima familiare nel quale cresce il piccolo Mitja (come veniva chiamato dai parenti e dagli amici più intimi) risentì molto delle idee leniniste e contribuirà non poco a stimolare il suo spirito progressista, fino a coinvolgerlo di persona. Il suo linguaggio si rifà alla tradizione e alla cultura russa, mischiandola a una propria e originalissima visione artistica. Brillante, rapida e intensa, la carriera artistica di Šostakovič culmina con le opere Il naso (1930) e Ladv Macbeth di Mcensk(1934), fra cui si inserirono alcune felici composizioni come il Concerto per pianoforte, tromba e orchestra d’archi (1933) e la Quarta Sinfonia (1936). Soprattutto in queste composizioni il musicista rivela il suo stile tagliente, la forza di un’ironia spesso drammatica e la smagliante sapienza della tecnica, che contribuì a collocare Šostakovič non ancora trentenne, fra le figure più rappresentative della cultura musicale moderna. Dal 1936 la parabola artistica di Šostakovič si scontra con dure critiche politiche. Cresciuto con la Rivoluzione di Ottobre, credeva nel socialismo sovietico, e aderì  agli ideali del nuovo potere politico che aveva rovesciato l’ultimo zar. Ma nel 1935, la Pravda pubblicò un articolo sulla sua Lady Machbeth, dal titolo: “Caos anziché musica” a cui seguì il marchio definitivo di “formalismo” apposto dal regime alla sua Quarta Sinfonia.

[4] Dall’intervista in video contenuta nel documentario del Met.

[5] Intervista a Lepage per il documentario del Met.

[6] Molti dei materiali relativi alla produzione di The Nose e l’installazione I am not me the Horse is not mine erano in mostra alla Galleria Lia Rumma di Milano, in occasione dell’allestimento dedicato a Kentridge a Palazzo Reale e alle repliche del Flauto magico con scenografie di Kentridge alla Scala (2011).

[7] Intervista video per il documentario del Met.

Cinematography Of The Stone Age: William Kentridge
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The South African artist William Kentridge is one of the most renowned contemporary visual artists and proposes a poetic view on ancient taste where art and technique come together in the original value and significance of techné: the shows are based on his original filmed animations and recalls those theatres from the beginning of the century that experimented with the rudimental techniques of luminous animation (drawings on pieces of mobile glass, projected thanks to a Magic Lantern), promoting a primitive form of optical art.

William Kentridge’s biography is rich with events and experiences connected to the theatre: he frequented the Ecole Jacques Lecoq in Paris, he became a set designer, actor and director of the Junction Avenue Theatre Companyand the Handspring Puppet Company in Johannesburg and he put on shows by writers Tom Stoppard and Alfred Jarry; he later became the director of short animation films shot on 16mm as well as an author of drawings and incisions: in their anxious-ridden black comedy where there is a harsh social critique of the South African government before the democratic elections of 1994 in South Africa and before the creation of the Nelson Mandela’s African National Congress, and his pictorial allusions to Goya, Bacon, Grosz and Weimar artists that coexist with the atmospheres of the theatre of the Gran Guignol and Beckett-like dramas.

He worked for Ubu tells the truth (1996-1997), doing drawings and graphics that make up the visual corpus of the successive filmed animations created for the show that went on stage with puppets entitled Ubu and the Commission of the Truth; he then worked on the drawings for the show Faustus in Africa (1995), on the scenes forConfessions of Zeno (2002), on the musical opera The return of Ulysses (1998) from Monteverdi; Preparing the flute on the other hand is a little theatrical model with two animated films in 35mm where Kentridge reinvents his work for the sets of the Magic Flute by Mozart.

 The Drawings for Projections make up the heart of Kentridge’s artistic elaborations and is extended to the theatrical sets: these are animated films and mute films created from carbon drawings and inaugurated at the end of the 80’s with masterpieces such as Monument (1990) based on Beckett’s Catastrophe. His work behind the Boles 16mm is difficult and particular, where he creates animated sequences, without a script or storyboard: the sequence is composed of minimal variations and erasures of a few carbon and monochrome pastel drawings on paper, which conserve the evident traces of their own metamorphosis, an action that goes back to the origins of cinema, the first photographic studies of the Marey and Muybridge movement.

The coffee maker becomes a mine through animation, the stethoscope a telephone: the outside landscape absorbs the dramatic memories and social happenings that it went through; the automation of the medium used by Kentridge counter opposes, according to Rosalind Krauss, the “luck” and free interpretation of the technique that modifies and at times contradicts the conditions and nature of the support: from the flow of images of film to the immobility of drawings.

As Carolyn Christov-Bakargiey recalls, Kentridge has deep interest in different techniques, but does not appreciate the “innovative practices per se, nor the historical evolutions of art, style and technique and prefers obsolesce”, and underlines the deep meaning of this open modality, expanded and processed through the recording of the drawing for its projection, which contains the imperfections but also the layers of memory, against the “dulling” of society: “In his art an erasure – counter opposed to the distinct lines – is also a healthy metaphor for the protest against certainty and preconceptions at the base of human and social relationships in the world that only appears to be more interactive and democratic than the digital era. The erasure puts into questions any definitive affirmation that is possible”.

Kentridge talks about a pre-cinematographic technique or rather, a “cinematography of the stone age”, and the criticRosalind Krauss underlines the “reinvention of the cinematographic medium” through the re-writing of a new linguistic code and the recuperation of a craft-like practice that was lost forever in the era of computerized programming: Kentridge, although he uses the technique of stop-motion animation that records the phases of drawing, “does not pursue the cinema as such but instead builds a new medium on the technical support of a common cinematic practice of mass culture”. In other words, according to Krauss, Kentridge’s animations would be more similar to a flicker book, to a rotating cylinder of a Phenakistoscope, the taumatrope, in other words those instruments that are obsolete today and that primitively and rudimentally anticipated the recording of images in motion

This is Kentridge’s direct testimony: “the technique that I take on to make these films is primitive. Traditional animation takes thousands of different drawings that are recorded in sequence to make a film. This generally implies the work of a team of animators and consequently the fact that the whole film must be projected beforehand. The images are drawn by the main animator and the intermediate phases are completed by the assistant animators, whereas the others work on going over lines and colouring. The technique I use consists of a sheet of paper stuck to a wall in a studio, I put in the camera in the middle of the room, usually an old Bolex. I sketch a drawing on a sheet of paper and then I go to the camera, I take one or two frames, I (marginally) modify the drawing, I go back to the camera then to the drawing, then to the camera and so on. In this way every sequence, compared to every frame of the film, is one unique drawing. In all there will be about 20 drawings per film instead of the thousands that you would expect. It’s a similar procedure to doing a drawing, more than to doing a film. Once the film has been elaborated by the camera, the completion, the editing, is the addition of sound, music and the rest works as for any other film”.

The graphic and film works of William Kentridge cannot be separated from the recent political struggles of South Africa, the theme of the Apartheid which he dedicates a long saga to, Soho Eckstein, the story of a greedy and cynical capitalist who is a symbol of the corruption and depravation of Johannesburg that is under pressure from constant racial injustice and the exploitation of workers in mines. A character that is opposed to Soho Eckstein is the solitary and sad Felix Teitlebaum. History of the Main Complaint was created in 1995, Felix in Exile, in 1994, the year of the first democratic elections in South Africa.

When Kentridge is asked to collaborate in the form of a exhibition on his incisions made for the graphical series Ubu tells the truth he adds a naked human figure as a narrative element placed inside the white profile of a shapeless mass of King Ubu who takes all the forms of power, with his pointed head and his spiral stomach on the black-slate background of a blackboard. Ubu, the emblem of institutionalised cruelty becomes the “grey area” inside us and the system (“The structure” as Julian Beck would have said…) which we are responsible for. These drawings and these incisions have become the central nucleus of animation for the show Ubu and the commission of the truth in collaboration with the Handspring Puppet Company (1995); it is a violent protest against the events and racial conflicts of South Africa before the elections.

The animation technique in this case, compared to the experimental mode of the other drawing for projection on Soho Eckstein, is different as it enriches the rudimental cut outs of newspapers, the processions of dark silhouettes like glued-on shadows and metallic parts onto paper, white chalk drawings on dark paper and films of other archive material that are a testimony to the violence and repression, as well as that of the police armed with whips that attacks the crowd in Cato Manor in 1960 or attacks a group of students at Witz University during a state of emergency in 1980 and that of the revolt in Soweto in 1976. The theatrical viewpoint began from the disturbing revelations that came out of the courts of the Commissions for the enquiry into the truth and reconciliation of South Africa. The Commission was created with the purpose of recording the witnesses of the horrors, the abuse and violations of human rights.

 Woyzeck on the Highveld 

 Even William Kentridge works on Woyzeck as Robert Wilson had done in the Theatre (with music by Tom Waits) and William Herzog in the cinema with Klaus Kinski in 1979; the drama was written by Buchner in 1837 and was incomplete because of the death of the author, and so is a fragmented text, as it has been defined, in “stations”. It talks of the unhappy story of the soldier Franz Woyzeck, who dies humble jobs to support his companion Marie and their son who has not yet been baptised. To make more money he does everything for the captain and is a human guinea pig for a doctor for some experiments; Marie betrays him. Woyzeck finds Marie had his rival at a dance in a tavern, and madness and hallucinations bring him to kill the woman.

Kentridge had put on Buchner’s Woyzeck in 1992; in the program notes of the show Kentridge wrote that he was close to this drama as he had seen it as an emblem of conflict (social, political and emotional) after a show in the 70’s and since then he tired to imagine a different context from that of Prussia of the 19th century.

The new context could be none other than the South Africa of today. The second aspect that pushed him to the representation was the desire to work with the company Handspring Puppet Company in a mixed performance where the drawing could be united with the general frame of the representation where the actors were taken away and replaced by puppets where other ways to transmit the emotional depth where not guided by the face of the actor. The third reason was the desire to put an animated film onto the stage that would have a dynamic rapport with the movement of the puppets on stage and that would update the ancient culture of the theatre of figures and the shadow theatre.

Today’s work seen at the Eliseo Theatre during the Romaeuropa festival kept an extraordinary force thanks to the presence of the wooden puppets of human proportions that were guided efficiently by stagehands that were not wearing hoods that awaken an ancient curiosity, and the able animated work of Kentridge.

This takes us, without words, into Woyzeck’s head, exploited, overwhelmed, offended, persecuted by the powerful and betrayed, he who thinks differently, who is the emblem of the persecuted and the humble ill-treated man who at the end succumbs to his own nightmares, goes mad and kills the woman he loves as a definitive act of self annihilation and rebellion. Woyzeck’s mind races between objects, processions of shadows and desires that are not expressed, dreams, psychological disturbances, and enchanting wonders. The sky is a forest of stars and is the only ray of light in an impossible happiness. The technique Kentridge uses is extraordinary as is that of the stagehands of the puppets: in both cases the hand that gives the soul tot eh object. The spectator can be considered the sum of the artistic work of William Kentridge, also because of the theme that is dealt with, that has the South African Apartheid as its foundation.

Kentridge e la cinematografia dell’età della pietra
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Il sudafricano William Kentridge, uno dei massimi artisti visivi contemporanei, propone una poetica dal gusto antico in cui arte e tecnica si ricongiungono nel valore e nel significato originario di techné: gli spettacoli basati sulle sue originalissime animazioni filmate ricordano infatti i teatri d’ombre orientali e quei teatri di inizio secolo che sperimentavano le rudimentali tecniche dell’animazione luminosa (disegni su pezzi di vetro mobili, proiettati grazie alla lanterna magica), promuovendo una primordiale forma di teatro ottico.

La biografia di William Kentridge è costellata di eventi ed esperienze legate al teatro: iscritto alla “Ecole Jacques Lecoq” di Parigi, diventa scenografo, attore e regista della Junction Avenue Theater Company e della Handspring Puppet Company di Johannesburg e allestisce testi di Tom Stoppard e Alfred Jarry; diventa in seguito anche regista di corti in animazione girati in 16mm, oltre che autore di disegni a matita, a pastello, a gessetto e a carboncino su carta, e di incisioni: nella loro angosciante commedia nera si palesa una dura critica sociale al governo sudafricano prima delle elezioni democratiche del 1994 in Sudafrica e prima della fondazione dell’African National Congress da parte di Nelson Mandela.

Lavora ai disegni per lo spettacolo Faustus in Africa (1995), e per Ubu Tells the Truth(1996-1997): i suoi disegni e lavori grafici costituiscono il corpus visivo delle successive animazioni filmate realizzate per lo spettacolo andato in scena con marionette dal titolo Ubu and the Commission of the Truth; alle scene per Confessions of Zeno (2002), all’opera in musica Il ritorno di Ulisse in patria (1998) da Monteverdi; Preparing the Flute è invece un modellino teatrale con due film animati in 35mm con cui Kentridge reinventa il suo lavoro per le scenografie per Il flauto magico da Mozart.
Drawings for Projections costituiscono il cuore dell’elaborazione artistica di Kentridge estesa anche alle scenografie teatrali: sono film animati e muti realizzati a partire da disegni a carboncino e inaugurati alla fine degli anni Ottanta con capolavori come Monument (1990). liberamente ispirato a Catastrophe di Beckett, Sobriety, Obesity and Growing Old (1991), Felix in Exile (1994), History of the Main Complaint (1996).
Travagliato e singolare il lavoro dell’artista davanti alla macchina da presa Bolex 16mm per creare sequenze animate, senza sceneggiatura o storyboard: la sequenza è composta da minime variazioni e cancellature dai pochi disegni a carboncino e pastello monocromo su carta, che conservano tracce evidenti della propria metamorfosi, azione questa che ci riporta al cinema delle origini, ai primi studi fotografici del movimento di Marey e Muybridge. La caffettiera diventa nell’animazione una miniera, lo stetoscopio un telefono: il paesaggio esterno assorbe le memorie, anche drammatiche, e le vicende sociali che lo hanno attraversato.

All’automatismo del medium utilizzato, Kentridge contrappone, secondo Rosalind Krauss, la “fortuna” e la libera interpretazione della tecnica che modifica, e per certi aspetti contraddice, le condizioni e la natura stessa del supporto: dal flusso di immagini del film alla staticità del disegno. Come ha ricordato Carolyn Christov-Bakargiev, Kentridge — pur avendo interessi nelle più diverse tecniche — non apprezza “le pratiche innovative per sé, né le evoluzioni storiche nell’arte, nello stile o nella tecnica e preferisce l’obsolescenza”, e sottolinea il profondo significato di questa modalità aperta, espansa e processuale di ripresa del disegno per proiezione, che contiene le imperfezioni ma anche gli strati della memoria, contro l’“ottundimento” della società:

Nella sua arte la cancellatura è una metafora della perdita della memoria storica – dell’amnesia che inghiotte a livello sociale, ingiustizia, razzismo e brutalità. (…) Tuttavia la cancellatura – in contrapposizione al nitido tratto — è anche una metafora della sana contestazione delle certezze e dei preconcetti alla base dei rapporti umani e sociali nel mondo solo apparentemente più interattivo e democratico dell’èra digitale. La cancellatura mette in dubbio che qualsiasi affermazione definitiva sia in assoluto possibile.

Kentridge parla significativamente di una tecnica pre-cinematografica. O meglio, di una “cinematografia dell’età della pietra”, e il critico Rosalind Krauss sottolinea la “reinvenzione del medium cinematografico” attraverso la riscrittura di un nuovo codice linguistico e il recupero di una pratica artigianale perduta per sempre in epoca di programmazione computerizzata: Kentridge infatti, pur usando la tecnica di animazione fotogramma per fotogramma che registra le fasi successive del disegno, “non persegue il cinema come tale ma piuttosto costruisce un nuovo medium sul supporto tecnico di una pratica cinematica diffusa e di cultura di massa”.

In sostanza, secondo la Krauss, le animazioni di Kentridge sarebbero più affini ai flicker book, al cilindro rotante del fenachistoscopio, al taumatropio, cioè a quegli strumenti ottici oggi obsoleti che hanno primitivamente e rudimentalmente anticipato la registrazione di immagini-movimento. Questa la testimonianza diretta dello stesso Kentridge:

“La tecnica che adotto per realizzare questi film è alquanto primitiva. L’animazione tradizionale si avvale di migliaia di disegni diversi ripresi in sequenza per realizzare il film. Questo generalmente implica lavoro per una squadra di animatori e di conseguenza il fatto che tutto il film debba essere progettato in anticipo. Le immagini di base sono disegnate dall’animatore principale e le fasi intermedie sono completate dai disegnatori assistenti, mentre altri provvedono ai ripassi delle linee e alla colorazione. La tecnica che uso io consiste in un foglio di carta attaccata alla parete dello studio, mentre in mezzo alla stanza piazzo la macchina da presa, in genere una vecchia Bolex. Abbozzo un disegno sul foglio poi vado alla macchina da presa, scatto uno o due fotogrammi, modifico (marginalmente) il disegno, torno alla macchina poi al disegno, poi alla macchina e così via. In questo modo ogni sequenza, rispetto a ogni fotogramma del film, è un unico disegno. In tutto ci saranno in un film circa venti disegni invece delle migliaia che ci si aspetta. E’ una procedura più simile al fare un disegno, che al girare un film. Una volta elaborato il film nella macchina, il completamento, cioè l’editing, l’aggiunta di suoni, musiche e il resto funziona come per qualunque altro film”.
Le opere filmiche e grafiche di William Kentridge sono inscindibili dalla storia politica recente del Sudafrica: dal tema dell’apartheid, a cui dedica la lunga saga di Soho Eckstein, storia di un avido e cinico capitalista simbolo stesso della corruzione e della depravazione in una Johannesburg colpita dalle ingiustizie razziali e dallo sfruttamento del lavoro operaio nelle miniere.

downloadIl personaggio che si contrappone a Soho Eckstein è il solitario e triste Felix Teitlebaum. Felix in Exile è stato realizzato nel 1994, anno delle prime elezioni democratiche in Sudafrica. Quando a Kentridge viene chiesto di elaborare in forma di esposizione le sue incisioni realizzate per la serie grafica Ubu Tells the Truth, aggiunge come elemento narrativo una figura umana nuda collocata dentro il profilo in bianco dell’ammasso informe del Re Ubu che si impossessa di tutte le forme di potere, con la testa a punta e pancia a spirale nello sfondo nero-ardesia di una lavagna. Ubu, emblema della crudeltà istituzionalizzata, diventa la “zona d’ombra” dentro di noi e dentro il Sistema (“la Struttura” avrebbe detto Julian Beck…) e di cui noi stessi siamo responsabili.
Questi disegni e queste incisioni sono diventati il nucleo centrale delle animazioni per lo spettacolo Ubu and the Commission of the Truth, in collaborazione con l’Handspring Puppet Company (1995). Si tratta di una violenta denuncia contro la situazione poliica e gli scontri razziali del Sudafrica prima delle elezioni.

La tecnica di animazione in questo caso, a differenza della modalità sperimentata per gli altri drawings for projection su Soho Eckstein, si arricchisce di ritagli grossolani di giornale, processioni di sagome scure come ombre applicate con colla e parti metalliche ai fogli, di disegni a gessetto bianco su carta scura e anche di filmati e altro materiali d’archivio che testimoniano violenze e repressioni, tra le altre quelle della polizia che munita di frusta, attacca la folla a Cato Manor nel 1960 o che assale un gruppo di studenti alla Witz University durante lo stato di emergenza nel 1980 e quelle della rivolta di Soweto nel 1976. La riflessione teatrale partiva dalle sconvolgenti rivelazioni emerse dalle udienze della Commissione d’inchiesta per la verità e la Riconciliazione in Sudafrica, creata con lo scopo di registrare le testimonianze degli orrori, degli abusi e delle violazioni dei diritti umani nel paese ai tempi dell’apartheid