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Manifesta 12 Cook and Talk w/ Masbedo
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Per il terzo Manifesta 12 Cook and Talk, i Masbedo realizzeranno il 7 marzo una performance che metterà gli altri commensali nella condizione di dover alternare la degustazione del cibo preparato nel corso dell’evento alla manipolazione di quella materia che tanto caratterizza le nostre giornate: l’immagine digitale. Mentre ci si dedica alla preparazione di una spaghettata di calamaretti a spillo, peperoncino e finocchietto selvatico, i partecipanti e commensali del M12 Cook and Talk osserveranno gli artisti registrare con due telecamere diverse immagini e discuteranno con loro le varie sequenze visive che saranno al contempo proiettate su schermo. Nel corso della serata, i Masbedo mostreranno anche alcuni fermi-immagine estratti da pellicola e da altri documentari, così da discutere insieme agli altri commensali alcune istantanee di vita che affrontano temi come potere, mistero, forma e status.

Vini e bevande saranno disponibili al Caffè Letterario Garibaldi.

Masbedo è un collettivo artistico nato a Milano nel 1999 e formato da Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni. Da quasi vent’anni Masbedo coniuga arti visive, pratiche performative, installazione e cinema attraverso un personale vocabolario artistico. Interessati al tema dell’incomunicabilità e alla relazione tra produzione dell’immagine e società della comunicazione, sviluppano una ricerca che ha prodotto sia opere dal sapore più intimistico, sia altre dall’esito socio-politico e antropologico-culturale. Il loro linguaggio artistico si è evoluto approfondendo gli aspetti pittorici del video ambendo al coinvolgimento dello spettatore negli ambienti che di volta in volta la loro arte plasma. Uno degli esiti di tale ricerca è la realizzazione di originali video-performance in grado di includere lo spettatore all’interno dello spazio-video e del gesto creativo. Gianfranco Maraniello descrive così il lavoro del duo: “Proprio nel tentativo di smascheramento delle spinte pulsionali si evidenzia la principale esigenza del lavorare in coppia, ossia la determinazione a sospendere il primato dell’ego consegnando alla logica della reciprocità la decostruzione delle proprie idee artistiche. L’individuo si spoglia dell’abitudine, del proprio habitat, della certezza mondana e trasferisce le fantasie nel condivisibile spazio dell’immaginario. La scrittura è la prima forma di alienazione e di emancipazione dalla fragilità della propria solitudine. Progettare diviene comunicazione e comunione nell’avventura artistica. Il video si offre come mezzo espressivo funzionale per tale esperienza di traslazione, dà ispirazione e rêverie alla costruzione di immagini in divenire. C’è poi una coincidenza tra il modo di lavorare di Iacopo e Nicolò e la condizione dei loro attori. Ciò che è vissuto dagli artisti viene messo in gioco nell’autoanalisi costituita dai loro progetti. L’ipotesi delle opere è la proiezione di impulsi che si esercitano e trovano forma solo nel mutuo riconoscimento e nell’accoglienza offerta dal proprio alter ego”. 

#Manifesta12 #Manifesta12Palermo #M12CookandTalk

5-9 ottobre Inaugurazione della Stagione Sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia K. Szymanowski | A. Pappano | Masbedo | Orchestra e Coro dell’Accademia di Santa Cecilia
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Inaugurazione della Stagione Sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
K. Szymanowski | A. Pappano | Masbedo | Orchestra e Coro dell’Accademia di Santa Cecilia

5 – 9 ottobre 2017

Auditorium Parco della Musica – Sala Santa Cecilia
h 19:30, h 18, h 20:30

Król Roger (Re Ruggero) Opera in forma semiscenica

Con l’opera Król Roger di Karol Szymanowski (1924), il Direttore Antonio Pappano ha scelto d’inaugurare la Stagione Sinfonica 2017 dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Per l’occasione, Romaeuropa Festival ha invitato MASBEDO a interagire con l’orchestra per realizzare un progetto visivo live di regia in presa diretta e proiezioni video. Più volte ospite del Festival, il duo artistico composto da Nicolò Massazza (1973) e Iacopo Bedogni (1970) torna a ragionare sulla relazione tra figura, suono e spazio. Al lavoro di ripresa e manipolazione in presa diretta di oggetti e immagini, disposti su un tavolo, si aggiungono la presenza e i movimenti di orchestra e cantanti. Proprio loro sono protagonisti dei video realizzati attraverso due telecamere poste in fondo alla sala e inseriti all’interno delle immagini più astratte costruite appositamente dagli artisti. Un modo per rivelare gli aspetti più appassionanti del Re Ruggero, accompagnando la narrazione del libretto ambientato in una Palermo normanna e noto per essere una sofisticata rivisitazione de Le Baccanti di Euripide.

ENJOY FORGETTING: Masbedo a Massa Palazzo Ducale sabato 18 marzo
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Liberamente ispirata ad una frase di David Byrne, a sua volta citata in una delle opere in mostra, Enjoy Forgetting presenta 7 lavori video di artisti internazionali tra più interessanti nel panorama contemporaneo tra cui il duo di videomaker MASBEDO.

MASBEDO Handle with care

Ognuna con le sue peculiarità, tecniche e contenutistiche, le opere sono velatamente accomunate dalla ricerca degli artisti di dare un senso alla storia, agli avvenimenti contemporanei o anche solo dalla riflessione sulla coscienza dello scorrere del tempo. Dalla denuncia alla amara presa coscienza, dall’ironia alla poetica disillusione, i sette artisti invitati generano ognuno a proprio modo delle forti emozioni nello spettatore.

http://www.lagazzettadimassaecarrara.it/cultura/2017/03/da-sabato-a-palazzo-ducale-la-mostra-enjoy-forgetting/

 

Gli artisti sono:

MASBEDO, Nicolò Massazza (Milano 1973) e Iacopo Bedogni (Sarzana 1970)

Eulalia Valldosera (Barcellona, Spagna 1963)

Raffaela Mariniello (Napoli 1961)

Nasan Tur (Offenbach Germania 1964)

Francesco Jodice (Napoli 1965)

Igor Grubic (Zagabria, Croazia 1969)

Filippo Berta (Bergamo 1977)

1 Filippo Berta, Homo Homini Lupus, 2011, 3’, Courtesy l’artista

In una desolata distesa dall’aspetto lunare un branco di lupi si contende una bandiera come fosse l’unica fonte vitale provocando una lotta dissennata e convulsa. Il feticcio centrale simbolo trasversale di identità e di potere viene eroso in pochi attimi dalla ferocia brutale delle fiere allegoria ancestrale di un’umanità irrazionale e violenta. Rifacendosi dichiaratamente alle teorie di Hobbes secondo cui a determinare le azioni dell’uomo sono soltanto l’istinto di sopravvivenza e di sopraffazione, Berta restituisce un quadro spietato dell’Italia di oggi.

Filippo Berta è nato a Treviglio (Bergamo) 1977, vive a Milano. Nel 2015 ha vinto il MIA Foundation Award, Bergamo, nel 2014 il Premio Maretti all’Avana, Cuba ed è stato finalista al Talent Price di Roma. Ha esposto al MOG Museo di Arte Contemporanea, Goa (2016, India), al MSU Museo di Arte Contemporanea, Zagabria (2016, HR), alla Galleria Civica di Danzica (2015, PL), Museo dell’Architettura e del Design della Slovenia, Ljubljana (2014, SI), Museo Jonkopings Lans (2013, SE), al Museo di Pori (2013, FI), alla Museo Civico di Brema (2013, DE), al Museo MADRE di Napoli (2012). Ha partecipato alla IV Biennale di Thessaloniki (2013, GR), alla III Biennale di Mosca – Young Art (2012, RU), Biennale di Praga V Edizione (2011, CZ). Residenze per artisti: Fondazione Ratti di Como (2012), Careof , Milano (2011), Fondazione Spinola Banna, Torino (2009). Nel 2008 è tra i vincitori della IV Edizione del Premio Internazionale della Performance, Galleria Civica di Trento.

2 MASBEDO tracce della performance del 18 Marzo

MASBEDO è un duo artistico basato a Milano composto da Nicolò Massazza (1973, Milano) e Jacopo Bedogni (1970, Sarzana). Il linguaggio privilegiato della video arte è frutto di un percorso artistico multidisciplinare e trasversale che li vede partecipi in differenti collaborazioni artistiche con scrittori, musicisti, attori di cinema e teatro tra cui Michel Houellebecq, Marlene Kuntz, Juliette Binoche. Tema centrale della ricerca dei MASBEDO è la natura: una natura primitiva, primordiale, inospitale in duetto continuo con l’uomo. L’unione tra grammatica estetica, onirica e raffinata, e un linguaggio narrativo iper reale sottolinea l’inesorabile incomunicabilità umana. Nel 2015 hanno realizzato il loro primo lungometraggio The Lack presentato al Festival del Cinema di Venezia. I loro lavori sono stati esposti in numerosi musei e festival italiani ed internazionali tra cui Leopold Museum di Vienna, il Castello di Rivoli e la Fondazione Merz di Torino, RomaEuropaFestival, Padiglione Italia 53°Biennale di Venezia e sono in importanti collezioni tra cui GAM di Torino, MACRO di Roma, DA2 Museo di Arte Contemporanea di Salamanca, CAAM Centro Atlantico di Arte Moderna di Las Palmas, Junta de Andalucia, Tel Aviv Art Museum.

3 Eulalia Valldosera, Dependencia mutua, 2009, 2 Video monocanale, 6’/4’30’’, Courtesy Studio Trisorio, Napoli

Nel doppio video Dependencia mutua l’artista, come spesso nella sua ricerca, indaga i rapporti dialettici tra servo e padrone, in questo caso interpretati da donna di origini ucraine, testimone di un triste fenomeno di umile immigrazione nel nostro paese, e da una scultura romana dell’Imperatore Claudio conservata nel Museo Archeologico di Napoli. Ad una lettura più approfondita scopriamo che la donna è la collaboratrice domestica della sua gallerista e che Valldosera invitandola quale protagonista del suo lavoro cortocircuita il rapporto di dipendenza tra le due donne catapultandola in un altro contenitore d’arte, il Museo appunto, in cui naturalmente non era mai entrata, ed affidandole il delicato compito di prendersi cura del passato.

Nelle sue installazioni multi-mediali l’artista esplora le relazioni tra identità, corpo e potere, con particolare riferimento alle rappresentazioni sociali che ne dipendono. Le opere dell’artista indagano le radici storiche, sociali, culturali e antropologiche che, nei secoli, hanno condizionato tanto la definizione dei ruoli sociali quanto la loro percezione collettiva. Ha esposto in diversi musei e gallerie internazionali fra cui il Reina Sofia di Madrid, il Museo d’Arte Contemporanea di Montreal e il PS1 di New York. Ha partecipato alla Biennale di Lione (2009), alla Biennale di San Paolo (2004), alla Biennale di Venezia (2001), alle Biennali di Johannesburg e Istanbul (1997), allo SkulpturProjects di Münster, alla Biennale di Sidney (1996).

4 Igor Grubic, Monumen,2015, 44’,Courtesy l’artista

Monument è un documentario poetico-sperimentale composto da una serie di nove ritratti di imponenti memoriali di cemento antifascisti commissionati dalla Ex Jugoslavia. Durate la guerra degli anni ’90 nei Balcani questi “guardiani della storia”, costruiti per onorare le vittime della II Guerra Mondiale, sono stati in parte distrutti perché percepiti come meri monoliti di un’ideologia comunista superata. Il tentativo di cancellare queste costruzioni è alla base di questo lavoro che punta dunque a rileggerne nella storia l’eco della questioni politiche nei Balcani. L’artista sottolinea l’inaspettata fragilità di queste strutture monumentali riprendendole in uno scenario naturale di passaggio, di cambio stagionale, evidenziando metaforicamente anche il ruolo e la ciclicità della natura che è stata testimone di una serie di traumi e di cambiamenti radicali. In una atmosfera quasi spirituale l’artista lascia che i monumenti si raccontino da soli innescando allo stesso tempo un interrogativo sul valore ed il senso del monumento oggi.

Igor Grubić (Croazia 1969) è noto per il suo attivismo politico e morale e per le sue operazioni negli spazi pubblici, spesso nati in un’atmosfera misteriosa di anonimato, che mirano a generare nuovi significati come la serie 366 Liberation Rituals (2008) o Black Peristyle (1998). Attivo dagli anni 90 il suo lavoro include performance, fotografia e video e dal 2000 inizia a lavorare anche come produttore. I suoi lavori sono stati esposti in numerose rassegne ed istituzioni internazionali tra cui Manifesta 4, Francoforte; Tirana Biennale 2; 50.October Salon Belgrade; 11. Istanbul Biennial; Manifesta 9, Genk, Gwangju Biennale 20th; ‘Zero Tolerance’, Moma PS1, New York, Palais de Tokyo, Parigi. In Italia tra le altre ha partecipato a Present Future ad Artissima nel 2001 e alle mostre Il Piedistallo vuoto e Gradi di Libertà rispettivamente al Museo Civico Archeologico e al Mambo di Bologna in 2014 and 2015.

5 Raffaela Mariniello, Still in life, 2013, 13’, Courtesy Studio Trisorio, Napoli

Racconto silente e struggente girato pochi giorni dopo il disastroso incendio che devastò La Città della Scienza di Napoli, ubicata nella ex zona industriale di Bagnoli. Il video rappresenta il contributo dell’artista all’opera di ricomposizione delle immagini e dei simulacri di ciò che restava tra le macerie del Science Center napoletano, fiore all’occhiello della città ed oggi fardello inconcluso come tutta l’area limitrofa.

Raffaela Mariniello è nata a Napoli nel 1965. Tra le più note fotografe del nostro territorio, la sua ricerca è rivolta a tematiche sociali e culturali, con un’attenzione particolare alla trasformazione del paesaggio urbano e al rapporto tra l’uomo i luoghi che abita. Ha partecipato a numerose mostre collettive in Italia e all’estero, tra cui la XII Quadriennale d’arte di Roma, la VIII Biennale di Fotografia di Torino, la XI Biennale di Architettura di Venezia, il Festival della Fotografia di Roma, e ha esposto tra gli altri al MOCA di Shangai, Museo MAXXI di Roma, al Museo MADRE, Napoli.

6 Francesco Jodice, Atlante, 2015, film 9’, Courtesy Michela Rizzo Venezia

Con Atlante Francesco Jodice ci introduce in un percorso temporale del secolo breve costruito con un flusso di materiale di repertorio. La magnetica carrellata di immagini e citazioni, con la tecnica del found footage, è allo stesso tempo una riflessione sulla storia delle immagini in movimento, dalla pellicola al super8 al VHS. Ritraendo l’Atlante Farnese in un epico piano sequenza, l’artista erge a simbolo dello squilibrio il mitologico titano condannato a sorreggere sulle spalle per l’eternità il peso delle costellazioni e dunque della storia dell’umanità. Il video testimonia l’interesse dell’artista sulla “possibilità della durata di queste insostenibili sproporzioni dovute a un ineludibile perdurare delle disuguaglianze”. (F.J.).

Francesco Jodice è nato a Napoli nel 1967. Vive a Milano. La sua ricerca artistica indaga i mutamenti del paesaggio sociale contemporaneo, con particolare attenzione ai fenomeni di antropologia urbana e alla produzione di nuovi processi di partecipazione. I suoi progetti mirano alla costruzione di un terreno comune tra arte e geopolitica, proponendo la pratica artistica come poetica civile. Insegna al Biennio di Arti Visive e Studi Curatoriali e al Master in Photography and Visual Design presso NABA – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e alla Scuola Holden di Torino. È stato tra i fondatori dei collettivi Multiplicity e Zapruder. Ha partecipato a grandi mostre collettive come Documenta, la Biennale di Venezia, la Biennale di Sao Paulo, la Triennale dell’ICP di New York, e ha esposto al Castello di Rivoli, alla Tate Modern di Londra e al Prado di Madrid. Tra i suoi progetti principali ci sono l’atlante fotografico What We Want, l’archivio di pedinamenti urbani The Secret Traces e la trilogia di film sulle nuove forme di urbanesimo Citytellers. I suoi lavori più recenti – Atlante, American Recordings e Sunset Boulevard esplorano il futuro dell’Occidente.

7 Nasan Tur, Magic, 2013, Hd video, 14’, Courtesy Blain|Southern e l’artista

Con un plot narrativo di estrema semplicità, il primissimo piano della mani di un mago, Magic è un video ironico e amaro. L’artista, col magistrale sarcasmo che lo caratterizza, rappresenta con piglio ludico l’ignobile predisposizione dell’uomo all’illusione, al cedere alla propaganda, al voler affidare pigramente e acriticamente il proprio giudizio a quanto ci viene “magicamente” imboccato dai sistemi di potere tra cui in primis i media.

Nasan Tur è nato a Offenbach Germania nel 1974, vive a Berlino. Graffiante e a tratti ironico il suo lavoro di riflette il contesto sociale e geopolitico da cui nasce. L‘artista di origini turche realizza installazioni e video che indagano le ideologie politiche, i messaggi subliminali e i simboli del potere – come del dissenso – che trova direttamente nel paesaggio urbano e nel milieu antropologico che lo circonda. Con un linguaggio eclettico e ludico mette a nudo i limiti della comunicazione e la fragilità della percezione manipolando ciò che la realtà offre direttamente allo sguardo. Le più recenti mostri personali sono: Running Blind, Kunst Haus Wien, Vienna, Austria, (2016), Nasan Tur: L’ombra Della Luce, Musei di Villa Torlonia, Rome, Italy (2015); Kunstraum Innsbruck, Innsbruck, Austria (2014). I suoi lavori sono stati esposti in importanti mostre internazionali tra cui: ISTANBUL: PASSIONE, GIOIA, FURORE, Fondazione MAXXI, Rome (2015); Creating Common Good, Kunsthaus Wien, Vienna (2015); Gradi di Libertà, MAMbo, Museo d’Arte Moderna di Bologna, Bologna (2015), Martin-Gropius-Bau, Berlin, DE (2015); Stand Up!,Centre Pompidou, Paris, France (2015); 6th Taipei Biennial, Taiwan (2008); 10th Istanbul Biennial, Istanbul, Turkey (2007).

Torna DIGITALIFE 10 ottobre-6 dicembre
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11 installazioni e 3 live performance sotto il segno di ‪#‎Luminaria‬.
Dal 10 ottobre al 6 dicembre torna Digitalife, la ricerca tecnologica tra arte digitale e creatività che, quest’anno, mette la luce al primo posto. Con MASBEDO, BILL VORN -LOUIS-PHILIPPE DEMERS MYRIAM BLEAU MYRIAM BLEAU MARTIN MESSIER SAMUEL ST-AUBIN JOANIE LEMERCIER JEAN DUBOIS MAXIME DAMECOUR ALEXANDRA DEMENTIEVA NICOLAS BERNIER

Masbedo+Marlene Kuntz al MART di Rovereto
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I MASBEDO presentano al Mart di Rovereto Sinfonia di un’esecuzione un nuovo progetto che mescola le grammatiche linguistiche dell’arte, della musica e della performance. Il progetto è costituito da tre opere:

Sinfonia – video audio installazione prodotta dal Mart
Inaugurazione Sabato 10 ottobre, ore 18-21

Esecuzione – video audio performance con sonorizzazione live dei Marlene Kuntz
Sabato 10 ottobre, ore 21, Teatro Zandonai, Rovereto

Sinfonia di un’esecuzione – video audio scultura che, riunendo le due opere precedenti, completa il progetto espositivo e dà il titolo alla mostra.
Presentazione Domenica 18 ottobre, ore 12

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L’indagine dei MASBEDO parte dai boschi della Val di Fiemme, dove crescono gli abeti rossi da cui nascono i violini perfetti. Dalla morte dell’albero deriva la nascita di strumenti meravigliosi, nei quali il legno rivive.
Con Sinfonia di un’esecuzione gli artisti esplorano la relazione tra morte e vita, nel passaggio tra due complementarietà. La mostra è un progetto sulla rinascita, sull’atto in potenza; ma anche sulla natura, sui riti, sui gesti sapienti.
Per giungere alla creazione del sublime è necessario un gesto distruttivo, struggente, un’esecuzione. Giocando sull’ambivalenza linguistica del termine, i MASBEDO raccontano di come una condanna a morte si trasformi in musica, di come dalla distruzione si generi forma.

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A cura di Gianfranco Maraniello e di Denis Isaia, la mostra è realizzata grazie al fondamentale contributo dell’APT di Fiemme e della Magnifica Comunità di Fiemme, proprietaria del patrimonio boschivo della Valle.

L’opera Sinfonia e la performance Esecuzione saranno presentate il 10 ottobre 2015, rispettivamente alle 18 e alle 21, in occasione dell’undicesima Giornata del Contemporaneo. Istituita da AMACI (Associazione dei Musei di Arte Contemporanea Italiani, di cui Gianfranco Maraniello è presidente), coinvolge un migliaio di realtà italiane, istituzionali e non, favorendo la conoscenza, la formazione e la partecipazione dei visitatori.
L’ingresso alla performance Esecuzione è gratuito, fino a esaurimento posti. Prenotazione obbligatoriaonline o presso la biglietteria del Mart.
Con la video audio scultura Sinfonia di un’esecuzione dei MASBEDO, il Mart partecipa al progetto nazionale L’albero della Cuccagna. I nutrimenti dell’Arte, ideato da Achille Bonito Oliva, con il patrocinio di Expo 2015 e la collaborazione di Sensi Contemporanei, Programma sperimentale per la cultura dell’Agenzia per la Coesione Territoriale e del MiBACT. Al programma aderiscono musei, fondazioni, istituzioni pubbliche e private che, inaugurando installazioni ambientali, compongono una mostra diffusa sul territorio nazionale, dal 25 settembre al 31 ottobre.

La mostra Sinfonia di un’Esecuzione, durante la quale verrà esposta anche la video audio scultura realizzata a seguito della performance, sarà inaugurata in occasione di ArtVerona|Art Project Fair (16-19 ottobre 2015), la fiera d’arte moderna e contemporanea di Verona, con cui il Mart collabora. Aperitivo con l’artista, il talk mattutino durante il quale artisti e curatori incontreranno il pubblico, è inserito nel calendario degli eventi collaterali della Fiera e avrà luogo al Mart, domenica 18 ottobre, alle 11.

A conferma della commistione di linguaggi che sta alla base del lavoro dei MASBEDO, infine, dall’8 al 17 novembre, la Fondazione Arena di Verona metterà in scena al Teatro Filarmonico un nuovo allestimento de Il Flauto Magico (Die Zauberflöte) di Mozart, di cui i MASBEDO firmano il progetto scenico. Regia Mariano Furlani, direttore d’orchestra Philipp von Steinaecker.

Archivio: Glima:a performance by Masbedo
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GLIMA – A PERFORMANCE

 

We wanted to use this metaphor to describe the theme of desire, physical and psychological manipulation in human relationships. ”

In the center of the stage are the two actors Erna Omarsdottir and Damir Todorovic. A male and his female opponent face each other in a grueling fight without winners or losers. The male face is entirely hidden by an ominous headgear with long filamentous protrusions which are connected to the women’s blacks gloves: the two are inextricably linked by a swarm of black rope that prevents escape – like a deathtrap. The bodies of the actors, their faces, every movement is captured by a small camera placed on a mechanical object shaped like a spider. Those images are projected on two screens placed at the end of the stage. The stage is organized as follows: at two of the four sides of the square of the performance are the two video artists MASBEDO managing the images on the screens with a video mixer and a joystick that will control the movement of the object “spider” on which the camera is positioned, and on the other sides are the musicians.

The viewer is faced with two dimensions, a more natural and dramatic one as a witness of the primitive and obsessive fight of the two actors and a more “visual” or more related to fiction, through the pictures and details projected on the two screens in the back. The audio is captured in a very neat way to give the viewer the feeling of  every vibration, noise, pull of the skin and each breath of the two actors. The show is about 50 minutes. The music produced live will alternate with moments of more experimental electronic nature, the video will alternate between live shoots of the performing artists, and other pictures following a precise script.

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ASH opera vincitrice del Premio CAIRO 2010

http://romaeuropa.net/videoart/web-contest/opera/1739/


Schegge d’incanto in fondo al dubbio, installazione e live a doppio schermo

Teorema di incompletezza

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Festival della letteratura di Massenzio

Indeependance

Indeependance

Distante un padre

http://video.ilsole24ore.com/SoleOnLine5/Video/Cultura/Arte/2010/respiro-distante-un-padre/distante-un-padre.php

I nuovi formati del teatro mediale
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Nuove frontiere per il teatro si aprono grazie alle caratteristiche di immersione, integrazione,ipermedialità, interattività, narratività non lineare propri del sistema digitale: dall’evoluzione nel web delle performance alla creazione di ambienti interattivi, all’elaborazione di una nuova scrittura e drammaturgia multimediale.

I nuovi media di oggi non equivalgono ai nuovi media di ieri per le caratteristiche tecniche innovative, per i meccanismi sociali che innescano e per l’impatto comunicativo che determinano, ma di una comunicazione di nuova generazione, ramificata, orientata all’immediatezza, all’interattività, allo scambio, alla creazione di reti di relazioni, proiettata cioè, al network.

Emerge una nozione di scena aumentata (enhanced theatre è la definizione di teatro digitale data da Dan Zellner) che ha a che fare con il trattamento/processamento in tempo reale di informazioni multimediali, con il coinvolgimento sensoriale del pubblico e con la mediazione tra performer e computer. Una scena aumentata negli effetti e animazioni tridimensionali, nelle immagini in movimento, nella scena interattiva e in quella virtuale che sostituisce quella reale, negli attori sintetici che recitano in una live action insieme ai loro doppi in carne ed ossa, nella percezione del pubblico sollecitato a una visione multipla, a una compresenza di punti di vista. La scena diventa caleidoscopica e le immagini sono frammentate, simultanee, proiettate su più schermi, su superfici curve o su oggetti in movimento, e lo spettacolo diventa ‟polivisuale e sembra che siano convocati tutti gli stadi della storia del nostro sguardo”1.

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Uno stile ambivalente e mimetico per il teatro tecnologico: Masbedo.

Teatro e digitale, per usare una terminologia cara a Marshall McLuhan, si stanno ibridando, anzi forse oggi siamo già alla seconda generazione tecnologica che sta dando vita a quello che si può definire, prendendo a prestito un termine dalla biologia, un teatro-chimera, un teatro dal doppio codice genetico caretterizzato da un libero nomadismo e mimetismo dei linguaggi.

Le immagini in movimento, le animazioni, i sistemi interattivi, i programmi informatici per una gestione live del materiale audiovisuale sono stati già da tempo assorbiti nella materia teatrale inaugurando un nuovo genere al confine con le altre arti (installazioni, concerti, film, opere video).

L’ibridazione, ovvero per usare l’esatta definizione mcluhiana, ‟l’interpenetrazione di un medium nell’altro” in questa generalizzata computerizzazione della cultura, produce una fenomenologia artistica mutante derivante dal web, dal fumetto, dal videoclip, dalla videoarte, dal vjing, dallamotion graphics, al passo con le tecnologie digitali, altrettanto metamorfiche e “mimetiche”.

“L’arte digitale è arte dell’ibridazione” afferma Edmond Couchot, una elaborazione interna alla scrittura, alla composizione, alla visione, alla forma della creazione d’arte di cui sarebbe responsabile proprio la natura “mutevole” dell’oggetto artistico multimedializzato. Le cross-ibridazioni tra sistemi di informazione, scritture, dispositivi di visione e di ascolto, complice il comune codice digitale, sono potenzialmente infinite: dai radiodrammi alle video performance, dalle installazioni performative, ai live set fino alla drammaturgia ipertestuale e on line in un’evoluzione continua e in una serie pressoché infinita di possibilità trasformative. Il testo, o meglio l’ipertesto drammaturgico, il progetto scenico, la partitura sonora-musicale, l’installazione, il video, il software, lo spettacolo, non appartengono più a generi diversi ma divengono fasi di un processo aperto, tassello di un mosaico spaziale e temporale mutante, flessibile e comunicativamente forte.

Se Rosalind Krauss proponeva in Art in the age of the post modern condition (2005) di tracciare una riga definitiva per eliminare la parola medium “così da seppellirla come tanti altri rifiuti tossici della critica e procedere nel mondo della libertà lessicale”, Zygmunt Bauman in Modernità e ambivalenza (2010) individua nel concetto di “ambivalenza” che romperebbe la pratica del modello strutturale normativo, dell’ordine classificatorio delle categorie estetiche, uno dei temi chiave del postmoderno:

La situazione si fa ambivalente se gli strumenti di strutturazione linguistica si rivelano inadeguati: o il caso in questione non appartiene a nessuna delle categorie individuate dalla linguistica, oppure si colloca in più classi contemporaneamente. In una situazione ambivalente nessuno dei modelli appresi è quello giusto ovvero se ne potrebbe applicare più di uno (…) L’ideale che la funzione nominatrice/classificatrice si sforza di raggiungere è una sorta di ampio archivio che contenga tutte le cartelle che contengono tutti gli oggetti che il mondo contiene: ogni cartella e ogni oggetto sono però confinati in un loro posto distinto. E’ l’impossibilità di realizzare un simile archivio che rende inevitabile l’ambivalenza (…) Classificare consiste negli atti di includere e escludere. Ogni volta che diamo un nome a qualcosa, dividiamo il mondo in due: da un lato le entità che rispondono a quel nome; dall’altro tutte quelle che non lo fanno (…) L’ambivalenza è un effetto collaterale del lavoro di classificazione (…) Quella all’ambivalenza è una guerra suicida.5

Ambivalenza delle tecnologie in atto quale potenzialità di scambio: Masbedo, Big Art Group, Dumb Type, Tam Teatromusica e Motus sono emblematici di questa “tendenza ambivalente” del teatro. Privilegiano infatti, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno-artistico affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo e derivante indistintamente dal videoclip, dalle installazioni, dai concerti, dal vjing, dalla graphic art, fino al cinema di animazione e persino allavideogame art. Nelle performance dei giapponesi Dumb Type la partecipazione dello spettatore è di natura immersiva, ricca cioè, di stimolazioni sensoriali multiple (dalle sub frequenze al noise, dalle immagini distorte, velocizzate ai video multipli), come se fosse un’installazione audiovisiva sperimentale.

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Motus sperimenta da sempre la contemporaneità di teatro-cinema in scena (da Twin rooms a X-racconti crudeli della giovinezza) e introduce anche la grafica animata (Rumore rosa); gli statunitensi Big Art Group con il ciclo di spettacoli definito “real time film”(Flicker, House of no more) ricreano un vero set cinematografico (usando un green screen) con la messa in mostra degli effetti da truquage. Approda a teatro una “composizione digitale” che unisce in una continuità senza cesura, televisione, cinema e teatro secondo una nuova estetica – seguendo Lev Manovich – “anti-montaggio” ovvero, “una creazione di spazi contigui in cui interagiscono diversi elementi (…)Nella composizione digitale gli elementi non sono più contrapposti ma miscelati; i loro confini vengono cancellati più che enfatizzati”.

Masbedo (i video-maker Bedogni-Masazza) provano nuove forme di performatività trasversale, traslocando dal video al teatro tematiche esistenziali profonde. In Teorema di incompletezza,Glima, Autopsia del tralala, Togliendo tempesta al mare, Person, protagonista è il senso di vuoto, di disincanto e di precarietà esistenziale, l’incomunicabilità, l’isolamento volontario come rifugio ultimo, la custodia sisifica dei valori societari, l’arte che trattiene gli ultimi brandelli di umanità, la sterilità dei rapporti umani nel generale inaridimento e decadenza morale della società occidentale, il bisogno di infinito. Come Amleti irrequieti, vaganti nel vuoto pneumatico di una condizione tragica, evocata nella sua abissalità da una camera iperbarica o da interminabili silenzi, i protagonisti vivono distillandosi l’ossigeno per una rinascita, o almeno, per una via di fuga. La loro è un’arte intermediale in cui la musica il cinema, il video e la performance sono sempre strettamente collegati. Il riferimento principe per Masbedo è il territorio multidisciplinare dell’arte video della metà degli anni Sessanta, fecondo terreno per sperimentazioni di incroci, attraversamenti e transizioni. In quel contesto di effervescenza creativa e sperimentale, il medium video ha vissuto in perfetta promiscuità con le altre arti con le quali si è intrecciato, mescolato, confrontato. Citando le pionieristiche esperienze video performative di Nam June Paik, ma anche quelle successive di Laurie Anderson, Peter Gabriel e Metamkine, Masbedo allestiscono le loro performance a partire da originarie videocreazioni per poi arricchirle ed espanderle –alterandole radicalmente- con una componente musicale live (Schegge d’incanto in fondo al dubbio, Glima).

Schegge d’incanto in fondo al dubbio di MASBEDO è nata come videoinstallazione per due schermi sincronizzati per la Biennale di Venezia (2009) ed è successivamente diventata una performance di live video con musica suonata sul palco da Lagash dei Marlene Kuntz.ArtBasel2009_Masbedo400

La donna, novella Antigone, opponendosi all’omologazione del mondo, alla vita umiliata, compie un gesto impetuoso e solenne di ribellione: trascina nell’acqua a fatica, oggetti che rappresentano la vita vissuta e il quotidiano; infine, si immobilizza come statua, su un piedistallo in mezzo al mare, con gesti ricchi di pathos evocando miti tragici e archetipi del femminile che raccontano come la vita umana, pur nelle difficoltà e nel dolore, lasci dietro di sé schegge di bellezza. La donna mostra una maschera tragica del dolore, un urlo muto che porta con sé tutto il lamento dell’esistere. Il video trasmette proprio quel senso profondo e necessario di purificazione e metamorfosi dell’essere e quel bisogno di rivelazione da cui nasce la tragedia attica antica e che ci è stato trasmesso dalle pitture vascolari greche e dai frammenti orfici: “desistere dal ciclo prendere fiato dalle miserie” (frammento da Proclo cit. da G. Colli, La sapienza greca).

Il video Glima, nato dall’esposizione di una proposizione base, sviluppata dagli attori senza indicazioni registiche dettagliate, come una performance corporea di enorme fisicità e di grande impatto, si è incarnato prima in un’installazione monocanale, poi in uno spettacolo vero e proprio con attori che interagivano in una scena video live con doppia proiezione. Da un formato video di breve durata si genera, stretchandosi, lo spettacolo. Un uomo e una donna lottano legati da vincoli di lacci in pelle come un’appendice organica che rimanda a un rito di possessioni sadomasochistiche e afflizioni autoindotte; intorno a loro una terra vulcanica, un paesaggio video-esistenziale: l’Islanda con la sua particolare orogenesi, con la sua attività vulcanica e la presenza della dorsale media-atlantica il cui processo tettonico sta spezzandola in due tronconi alla velocità di due centimetri l’anno, va a definire coordinate geoestetiche potentissime. Questi paesaggi fisici raccontano simbolicamente la distanza tra uomo e donna, ma anche il desiderio di riscatto, il disperato tentativo di opporsi a una deriva di rapporti umani e sociali basati su banalità e prevaricazione.

Il paesaggio non è estraneo, entra nella violenza perpetrata nei corpi dove alternativamente uno diventa carnefice e l’altro vittima; in questo rituale della coercizione sotto cui si può leggere la generale volontà a non integrarsi, a non piegarsi e a non sottomettersi alle regole del mondo e la generale riluttanza ad obbedire all’ordine sociale, i protagonisti hanno abbandonato la civiltà ma non la disponibilità a combattere magari in nome di un’ipotetica causa comune che presuppone l’unirsi degli uomini in una catena umana a difesa del proprio patrimonio di valori. La performance con due schermi e una pedana ad altezza del pubblico proposta al Festival DRO e a ROMAEUROPA (2010), ripropone l’identica performance ma il paesaggio reale dove agivano i personaggi nel video, in teatro viene evocato dall’elettronica7.

Gigantismo e video mapping architettonico: Urban screen

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Caratterizza la scena degli ultimi anni il fenomeno del gigantismo: enormi superfici schermiche sono presenti in Voyage di Dumb type, in By Gorky di New Riga Theater, in Madre assassina di Teatrino clandestino, in Ta’ziyé di Abbas Kiarostami che recupera un antico rito iraniano; multipli e giganteschi sono i dispositivi per le proiezioni dell’Ospite di Motus, claustrofobico è il cubo di schermi per (a+b)3 di Mutaimago, enorme è il cilindro a specchi per la Damnation de Faust e la gabbia di plexiglass in Metamorphosis della Fura dels Baus.

Oggi sta prendendo campo una nuova arte media-performativa che usa come fondale scenografico le ipersuperfici urbane e le gigantesche facciate dei palazzi già adoperate per la pubblicità di grande formato: animating space o architectural mapping è la tecnica che fa interagire la realtà architettonica e la sua ricostruzione digitale e ne modifica la percezione visiva sovrapponendosi ad essa, inserendo personaggi digitali che si arrampicano virtualmente su edifici e finestre a ritmo di musica. Ne sono artefici: Urban screen, AntiVJ, Rose Bond, NuFormer, Apparati effimeri, Claudio Sinatti e Giacomo Verde, fondatore con Enzo Gentile di White Doors Vj.

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Sulla base di questi esperimenti di realtà aumentata, sono state create opere video artistichesite specific di grandi dimensioni e persino spettacoli teatrali con scenografia/attore virtuale che prevede una mappatura (mapping) 2 e 3D. Spettacoli che si adattano alla superficie e che imitano le modalità di impatto della pubblicità a grande formato e del digital signage. Urban Screen, architetti specializzati in allestimenti digitali e installazioni anche in aree urbane, nascono come gruppo nel 2008 (ma già attivi sin dal 2004) con sede a Brema, in Germania: lavorano nel campo dell’intrattenimento, della pubblicità e dello spettacolo usando i nuovi media digitali e le videoproiezioni. Aperti alla collaborazione con artisti che lavorano nell’ambito della motion graphicse del video, hanno creato un nuovo genere di arte pubblica rigorosamente digitale. L’operazione artistica che loro inaugurano con tecniche e programmi creati appositamente, è quella che prevede un preciso mapping della superficie da proiettare (la problematica riguarda proprio la precisa rilevazione omografica) e la proiezione di un fondale digitale video o animato, perfettamente sagomato sullo sfondo architettonico; questo procedimento dà vita a straordinari eventi ed effetti tridimensionali, improbabili quanto fantasmagorici. L’illusione percettiva, nei casi più riusciti, è quella di una “architettura liquida”, mobile, che aderisce come pellicola o si stacca improvvisamente dalla superficie vera a creare un’ illusione ottica di forte impatto, il tutto sotto gli occhi del pubblico inconsapevole o del passante il quale non distingue più tra la trama architettonica vera e propria e quella virtuale.

Subito acquisita dai grandi marchi internazionali per la pubblicità e il lancio di nuovi prodotti, la tecnica del video mapping fa intravedere anche un possibile utilizzo performativo digitale che unirebbe definitivamente video art, installazioni, graphic art, light design e teatro dal vivo. Facciate di case e chiese con i singoli elementi architettonici coperti da un rivestimento digitale, tale da rispecchiare perfettamente i volumi esistenti e alterare la percezione dell’oggetto statico da parte del pubblico diventano quadri/pitture in movimento, arricchiti di macchie di luci e di colore che si modificano a ritmo di musica, con personaggi digitali che si arrampicano virtualmente su finestre, portoni, tetti in questa nuova arte mediale, arte media- performativa. I confini del teatro si sono così allargati: l’ambiente non è più lo sfondo, è l’opera.

Bibliografia:

A.M.Monteverdi, Nuovi media, nuovo teatro, FrancoAngeli, Milano, 2010

A.M.Monteverdi, A.Balzola, Le arti multimediali digitali, Garzanti, Milano, 2005 (3ed.; anche in e-book).

A.M.Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage, Pisa, BFS, 2005

A.M.Monteverdi, Per un teatro tecnologico internazionale, DOSSIER « Teatro e nuovi media », Hystrio gennaio 2011.

1B. Picon-Vallin, Un stock d’images pour le théâtre. Photo, cinema, video, in B. Picon-Vallin (a cura di), La scène et les images, Parigi, CNRS éditions, 2001, p. 21.

2R.Krauss, Reinventare il medium, Milano, Mondadori, 2006.

3E.Quinz, Tekno-teatro-logie, in A.M.Monteverdi, O.Ponte di Pino, Il meglio di ateatro, Milano, Il principe costante, 2004, p.267.

4Prendo in prestito il termine da Derrick de Kerchove (“Perform Arts”, estate 2006).

5 Z. Bauman Modernità e ambivalenza, Torino, Bollati e Boringhieri, 2010 p.12.

6Nel capitolo Composizione da Il linguaggio dei nuovi media, Lev Manovich sottolinea come nella composizione digitale si oggettivi quell’estetica della continuità tipica della cultura dei computer e opposta all’estetica del montaggio cinematografico: ‟Il montaggio mira a creare una dissonanza visiva, stilistica, semantica ed emotiva tra i vari elementi, invece la composizione digitale tende a miscelarli in un tutto integrato, un’unica gestalt”. L.Manovich, Il Linguaggio dei nuovi media, Milano, Olivares, 2001, p.187.

7 Su Masbedo vedi : A.M.Monteverdi: Per un’estetica dell’ambivalenza, ateatro.it agosto 2010.

8Per Motion Capture o Mocap si intende precisamente un programma che rende possibile la rappresentazione 3D di corpi in movimento o la traduzione in forme digitali diverse, attraverso sistemi di tracciamento in tempo reale con telecamere o particolari sensori detti marcatori che forniscono le informazioni al software. Come è noto, la motion capture è soprattutto applicata al cinema degli effetti speciali, permettendo la continuità tra personaggio reale e personaggio virtuale. La storia della mocap che è stata sperimentata pionieristicamente nell’ambito della coreografia da Merce Cunningham e Bill Jones, dovrebbe includere Etienne-Jules Marey e Muybridge, padri della registrazione fotografica del movimento. Vedi a questo proposito S. Delahunta, Coreografie in bit e byte: motion capture, animazioni e software per la danza, in E. Quinz, A.Menicacci, La scena digitale, cit. pp.88-89.

Inaugura dal 20 febbraio il progetto AREAVIDEO by MASBEDO
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Si chiama AREAVIDEO ed è un progetto ideato dal duo di videomaker MASBEDO per promuovere l’attività di artisti video, emergenti e affermati. E’ pensato come luogo fisico e come piattaforma che crea comunicazione, offre spazi di visibilità, diffonde e mette in rete gruppi, contesti, ambiti di lavoro per contrastare -si legge nel comunicato- l’arida e superata idea di arte in Italia.

AREAVIDEO è una associazione che fa capo al curatore LUCA BRADAMANTE. Tra gli obiettivi dichiarati, c’è l’organizzazione di seminari, festival, incontri e la produzione di opere d’arte. E’ possibile iscriversi all’associazione sostenendo in questo modo, l’attività di AREAVIDEO. Un’occasione imperdibile per

La prima artista che esporrà dall’imbrunire a mezzanotte del 20 febbraio all’interno di AREAVIDEO è la giovane fotografa e videomaker svizzera ESTHER MATHIS in via Gentilino 6 a Milano

Info Luca Bradamante at +39.349.1200724

 areavideo.assculturale@gmail.org

www.masbedo.org

 

English versions:

AreaVideo is a video art project.

AreaVideo is a container, offering space and visibility to the language of contemporaneity.

AreaVideo is a response to the outdated and provincial idea of art in Italy, according to which video is not accepted as a visual art language.

AreaVideo is a political act: by investing their personal resources, the founders are in fact replacing the institutions, denouncing their inaction, immobility and myopia in the field of artistic research.

AreaVideo is open to video artists of any generation and any origin.

AreaVideo is a space with a shop window facing the street, a movie theater open to anyone who walks by. The program begins at dusk and ends at midnight.

The creators are MASBEDO, video artists, and Luca Bradamante, curator.

AreaVideo supports video art:

– by displaying videos of established and emerging artists;

– by raising funds for the production of new videos;

– by constituting itself as a very specialized production house;

– by promoting contests and events (festivals, conferences, seminars, screenings in cinemas and other places);

– by producing works of art in limited edition;

– by developing a network of contacts and professionals.

AreaVideo is a not-for-profit company, it is a collective project that aims to involve in its developing process artists, professionals and public. With a little or more substantial contribution it is possible to join the company to support the activities of AreaVideo.

Subscribers will get a personal card, will always be informed about all the initiatives, will receive promotional material. Furthermore, based on the membership fee, members will receive for free a limited edition work of art.

AreaVideo is in via Gentilino nr. 6 in Milan.

For information and to join, please write to:

areavideo.ass.culturale@gmail.com

or call Luca Bradamante at +39.349.1200724

 

Masbedo firma la prima copertina video del Corriere della Sera_La lettura
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Si intitola THE WORKERS l’ultima opera video del duo MASBEDO, acronimo dal nome dello spezzino Jacopo Bedogni  e Nicolò Masazza ed è la prima copertina multimediale per l’inserto LA LETTURA del Corriere della Sera.

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http://video.corriere.it/the-workers/d8c8b288-8a90-11e3-aecc-b2fa07970b97

Un’opera intensa e senza interpreti in carne ed ossa, girato come già Glima, Kreppa Babies, Teorema di Incompletezza e Ash, in Islanda. Due tute da operai collocate dietro un furgoncino, svuotate di corpi, quindi senza contenuto, sono in balia dell’aria che viene soffiata dentro. Sullo sfondo, i monti innevati e desolanti dell’Islanda. Dura meno di tre minuti e come per altre opere di Masbedo per il MAxxi di Roma o per la Biennale di Venezia, raccontano una storia senza parole, nell’evidenza di una metafora precisa e dura. Il significato lo spiegano proprio gli autori: è l’immagine degli artisti nella precarietà degli eventi, nel dramma di trovarsi in una condizione di instabilità permanente.

Al centro dell’umanesimo tecnologico dei Masbedo tematiche universali, drammi esistenziali: atmosfere cupe e avverse avvolgono uomo e donna in eterno conflitto. Come Amleti irrequieti, vaganti nel vuoto pneumatico di una condizione tragica, evocata nella sua abissalità da una camera iperbarica o da interminabili silenzi, i protagonisti vivono distillandosi l’ossigeno per una rinascita, o almeno, per una via di fuga. Le ambientazioni dei video dei Masbedo (Schegge d’incanto in fondo al dubbioTogliendo tempesta al mare, Distante un padre) grondano potenti metafore esistenziali: le vette impervie e le cime innevate del Monte Bianco, le grandi profondità marine, il mare in tempesta della Francia del Nord, il paesaggio glaciale e vulcanico dell’Islanda non sono altro che potenti e drammatiche istantanee interiori, un veritiero e scomodo specchio dell’anima; dentro questo panorama desolato un uomo e una donna nella solitudine più sfrenata ma anche nella resistenza più accanita, sono intenti in quella lotta quotidiana nel “gran mare dell’essere” (come scriveva Giacomo Leopardi).

Per un approfondimento vedi qua

Masbedo: dal video alla performance
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Pubblicato su Interactive-performance

Era a Prato, al Museo d’arte contemporanea in occasione della mostra “Nessuna paura”; mi colpì molto la modalità e la dimensione della installazione di Masbedo dal titolo 10 insects to feed (la multivisione, con tre pannelli incorniciati a formare un trittico di gigantesche proporzioni), la perfezione tecnica (la qualità della fotografia, la luce, le campiture cromatiche degli abiti, la scelta cinematografica delle inquadrature e delle immagini), e non ultima, l’interpretazione degli attori basata un’improvvisazione fisica estrema a raccontare panico improvviso, soffocamento e delirio: in sostanza, mi colpì la forza complessiva dell’opera video nel suo insieme.
L’impressione fu quella di avere di fronte artisti che, pur giovanissimi come Jacopo Bedogni e Niccolò Massazza, avevano già trovato la corretta grammatica per un’arte video di grande valore e sviluppato una conseguente sintassi coerente e originale. I loro lavori sono caratterizzati proprio, sin dagli esordi, da una fase di pre-produzione studiata nei dettagli, articolata e complessa, che mette in campo ogni volta, un vero staff cinematografico di professionisti della scrittura e dell’immagine e che produce come risultato finale, video opere di grande rigore stilistico e formale.

Il contenuto, sempre fortemente drammatico, della trama video, non è mai realistico: tende a mostrare, evocandoli, luoghi dell’interiorità, affrontando immaginari mentali che partono sì dalla realtà ma per trasfigurarla. Da qui l’accostamento a Bill Viola la cui arte video, su sua stessa ammissione, è volta a “oltrepassare una soglia, allontanarsi dal mondo fisico e entrare nel mondo metafisico” (Bill Viola, The Landscape within, Conferenza alla Scuola Normale Superiore, Pisa, 2001).

Le ambientazioni dei video dei Masbedo (Schegge d’incanto in fondo al dubbioTeorema d’incompletezzaGlima) grondano potenti metafore esistenziali: le vette impervie e le cime innevate del Monte Bianco, le grandi profondità marine, il mare in tempesta della Francia del Nord, il paesaggio glaciale e vulcanico dell’Islanda non sono altro che potenti e drammatiche istantanee interiori, un veritiero e scomodo specchio dell’anima; dentro questo panorama desolato un uomo e una donna nella solitudine più sfrenata ma anche nella resistenza più accanita, sono intenti in quella lotta quotidiana nel “gran mare dell’essere” (come scriveva Giacomo Leopardi).

 

Un “esistenzialismo tecnologico” in cui Masbedo si riconoscono e coltivano una loro estetica fortemente connotata e riconoscibile. Testi importanti accompagnano i loro story board, scritti da Aldo Nove o ispirati alla filosofia di Houellebecq; ma sono più importanti i sottotesti, suggeriti dalle atmosfere cupe e avverse che avvolgono un lui e una lei imprigionati, in eterno, vicendevole conflitto che approda a un temporaneo stato di tregua, fisica e mentale. Come Amleti irrequieti, vaganti nel vuoto pneumatico di una condizione tragica, evocata nella sua abissalità da una camera iperbarica o da interminabili silenzi, vivono distillandosi l’ossigeno per una rinascita, o almeno, per una via di fuga.

 

Masbedo, Leopardi e gli altri
Le tematiche comuni alla quasi totalità dei video dei Masbedo (Teorema di incompletezzaGlimaAutopsia del tralalaTogliendo tempesta al marePerson) sono il senso di vuoto, di disincanto e di precarietà esistenziale, l’incomunicabilità, l’isolamento volontario come rifugio ultimo, la custodia sisifica dei valori societari, l’arte che trattiene gli ultimi brandelli di umanità, la sterilità dei rapporti umani nel generale inaridimento e decadenza morale della società occidentale. Il bisogno di infinito.

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Nel video Teorema di incompletezza è assente, esattamente come nelle Operette morali di Leopardi, la figura umana: il paesaggio intorno quasi agli estremi confini della terra, è di una alterità spiazzante. La camera è pressoché fissa, registra con pochi cambi di inquadratura, ciò che ha davanti come se non ci fosse nessuno a comandarla; del resto non c’è neanche un vero soggetto ma solo un gioco tra un sorvegliante impersonale e forse automatico e un sorvegliato altrettanto inanimato (ricordando questo l’occhio della macchina elettronica di Der Riese di Michael Klier e il famoso video e relativa installazione di Michael Snow La Région Centrale creato con un dispositivo di ripresa automatico che registrò per 5 giorni in tutte le possibili angolazioni, il paesaggio montuoso del Québec). La scena è composta infatti da un’insolita “natura morta”: una tavola di legno con due sedie, apparecchiata con una serie di bottiglie e bicchieri vuoti che vengono frantumati da una pallottola sparata con grande conflagrazione in un paesaggio lavico sconfinato e lontano da ogni socialità. Quello che era un rassicurante paesaggio di oggetti della più pura quotidianità, fatto di contenitori trasparenti integri e lucidi, diventa un attimo dopo lo sparo dell’invisibile cecchino, un universo di vetri acuminati, taglienti mentre il rivolo d’acqua continua, testimone indifferente, a scorrere sotto la tavola. InSchegge d’incanto in fondo al dubbio un uomo e una donna sono intenti in una lotta di proporzioni titaniche: da una parte l’uomo si trascina faticosamente nella neve con un paracadute aperto e tenta ostinatamente di opporsi alla violenza elementale, dall’altra la donna si accinge a salvare suppellettili domestiche impregnate di riferimenti psicologici e simboli di sesso e di fede. Nuota a fatica nella marea fangosa dell’esistenza inumana che l’ha travolta, portando se stessa e i propri oggetti di affezione e memoria lontano, al riparo dalla civiltà, o tutto quello che ne rimane. In entrambi i casi Masbedo usa un linguaggio figurato, fatto di pregnanti metafore visive: l’ordinario e lo straordinario convivono insieme. La deriva esistenziale dei video di Masbedo ha sempre un suo correlativo oggettivo in una natura matrigna che ha già dimenticato l’uomo.                                                 

Come nel quadro di Caspar David Friedrich Il mare di ghiaccio la cui ispirazione gli fu offerta dalle spedizioni al Polo Nord avvenute per nave nel 1819 e nel 1824 o nei quadri di Ruskin, qua si annulla il succedersi dei giorni e delle stagioni, tutto è eterno e quest’eternità è di ghiaccio; non si può non vedere nei video di Masbedo un riflesso del “pensiero poetante” di Leopardi (da una definizione di Benedetto Croce). In Dialogo della Natura e di un Islandese o ne La ginestra la natura non è mai confortante. E’ nemica o almeno è ostile:

“(L’Islandese si rivolge alla Natura: A questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria… tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi).”

Valgono anche per Masbedo le parole di Asor Rosa sulla Ginestra di Leopardi:

“Leopardi esprime con estrema forza il valore morale di un comportamento che non s’illude di trovare a questa infelicità un risarcimento spirituale ma nella resistenza disillusa e pur fiera alle avversità della natura crede di assolvere al compito naturale assegnato alla ragione dell’uomo e su questa matura consapevolezza, senza speranza alcuna ma anche senza vigliaccheria, fonda il rapporto uomo-natura, che è ormai un rapporto antagonistico e agonistico, di lotta reciproca e senza cedimenti.”

Indeepandance: o del meticciare linguaggi 
E’ del 2008 il concerto video live Indeependance (Arena Civica di Milano) in cui Masbedo provano a mescolare in una dimensione da grande palco, formati e generi artistici in un potente e spettacolare live electronics. Un progetto pilota che voleva unire video live, teatro, poesia e musica grazie a collaborazioni con etichette e artisti internazionali (dalla Real World di Peter Gabriel a Bjork a Steward Copeland a Howie B) in un format a metà tra il palcoscenico dei concerti rock e le installazioni multimediali e in un coinvolgimento sensoriale potente e ipnotico: il pubblico era collocato al centro di una piattaforma da cui erano governati suoni e immagini live mentre il perimetro dell’arena era delimitato da quattro schermi avvolgenti di grandi dimensioni.

Masbedo con questo progetto incarna il concetto prettamente postmoderno esposto da Frederic Jameson di “saturazione estetica”, una saturazione totale e complessiva dello spazio culturale da parte dell’immagine, una permeazione dell’immagine nella vita sociale e quotidiana. Masbedo si muovono proprio in un libero e ambivalente universo cross mediale e amano definire i loro interventi un “meticciare i linguaggi”, o creare “un’arte bicefala” poiché privilegiano allo specifico del medium, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno artistico dal doppio codice genetico, affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo per espandersi tra territori diversi oltre al video: teatro, cinema e pittura. Un’arte intermediale, un’arte espansa. Come ricorda Bruno Di Marino citando le esperienze di Nam June Paik ma anche quelle successive di Laurie Anderson, Peter Gabriel, Metamkine nei cui concerti la componente sia visuale che multimediale “arricchiva notevolmente il loro immaginario musicale in direzione spettacolare” la musica il cinema, il video e la performance sono sempre stati strettamente collegati. (B. Di Marino, Interferenze dello sguardo. sperimentazione audiovisiva tra analogico e digitale, 2002).

E’ quindi un naturale territorio multidisciplinare quello in cui si muove il video sin dal suo esordio dalla metà degli anni Sessanta (dai protagonisti del movimento Fluxus a Paik a Cage), come ricorda Simonetta Cargioli “fecondo terreno per sperimentazioni di incroci attraversamenti e transizioni. In questo contesto di effervescenza creativa e sperimentale il medium video ha vissuto in perfetta promiscuità con le altre arti con le quali si intreccia, si mescola, si confronta, che ingloba, di cui prende a prestito qualche cosa provocandone alterazioni radicali. La performance, la danza, la poesia, il cinema, tra gli esempi numerosi, diventano altra cosa dopo il video o perlomeno, dopo averne assorbito il contatto” (S. Cargioli, Introduzione a Le arti del video, 2004).
Così Masbedo ripropongono in chiave attuale una modalità video dialogica e intermediale ampiamente sperimentata proprio dai pionieri dell’art vidéo. I loro video traggono ispirazione dalle pitture antiche (i loro personaggi assomigliano nelle pose e nei sembianti a figure mitologiche, ricordano pitture prerinascimentali o preraffaellite e sculture tardo romane) e assorbono credito vitale dall’improvvisazione teatrale degli attori privati di sceneggiatura e posti di fronte a canovacci con poche battute; la performatività di alcuni loro video è talmente evidente che lo sfociare nel teatro vero, fatto di palcoscenico come “arena degli attori” diventa (come lo è stato alla fine degli anni Ottanta per Studio Azzurro a coronamento della loro attività video artistica con Camera astratta) quasi una necessità o uno sconfinamento naturale.

Glima.

Il video Glima nato dall’esposizione di una proposizione base, sviluppata dagli attori senza indicazioni registiche dettagliate, è diventato performance video-corporea di enorme fisicità e di grande impatto (grazie anche alla musica live di Lagash e Gianni Moroccolo) in occasione del Festival di Dro nel luglio 2010.

Un uomo e una donna lottano legati da vincoli di lacci in pelle come un’appendice organica che rimanda a un rito di possessioni sadomasochistico e afflizioni autoindotte (intensa l’interpretazione diErna Ómarsdóttir e Damir Todorovic come si vede dalle fotografie di Iris Stefansdottir); intorno a loro una terra vulcanica, l’Islanda, paese che sta subendo un processo di erosione millenario.

Il paesaggio non è estraneo, entra nella violenza perpetrata nei corpi dove alternativamente uno diventa carnefice e l’altro vittima; in questo rituale della coercizione sotto cui si può leggere la generale volontà a non integrarsi, a non piegarsi e a non sottomettersi alle regole del mondo e la generale riluttanza ad obbedire all’ordine sociale i protagonisti hanno abbandonato la civiltà ma non la disponibilità a combattere magari in nome di un’ipotetica causa comune che presuppone l’unirsi degli uomini in una catena umana a difesa del proprio patrimonio di valori. La performance con due schermi e una pedana ad altezza del pubblico, prevedeva anche un’interazione degli attori con una webcam montata su un robot dalla forma aracnoide telecomandato che catturava i dettagli dei volti.

Pathei Mathos (Apprendo dalla sofferenza)

Il video Schegge d’incanto in fondo al dubbio è ricchissimo di riferimenti iconografici alla classicità e alla mitologia greca, e numerose sono anche le citazioni al codice di stile della pittura fiorentina trecentista rivolta alla concretezza dei contenuti umani delle immagini sacre (per la figura femminile la raffigurazione drammatica della Madonna in pietà o della Maddalena sotto la croce, per l’uomo l’immagine titanica del Prometeo incatenato: “ritto”, “insonne”, “temerario”).
La donna, novella Antigone, opponendosi all’omologazione del mondo, alla vita umiliata, compie un gesto impetuoso e solenne di ribellione: fugge e trascina dietro di sé gli oggetti che sono inseparabili dal suo corpo perché ne rappresentano la vita vissuta; infine, ferma immobile su un piedistallo in mezzo al mare, con gesti plastici e una torsione del corpo ricchi di pathos – come nella raffigurazione scultorea ellenistica del Galata morente – accende un fuoco come a chiedere aiuto.

In questo gesto plastico l’attrice evoca miti tragici e archetipi del femminile che raccontano come la vita umana, pur nelle difficoltà e nel dolore, lasci dietro di sé schegge di bellezza. Se l’uomo incarna il motivo dell’audacia di chi ha osato ribellarsi e andare oltre il limite estremo (“Io, invece, che avrei dovuto saper morire, per essere andato oltre la parte a me assegnata, vivrò una vita infelice”, Euripide, Alcesti) la donna mostra una maschera del dolore, un urlo muto che porta con sé tutto il lamento dell’esistere.

Il video trasmette proprio quel senso profondo e necessario di purificazione e metamorfosi dell’essere e quel bisogno di rivelazione da cui nasce la tragedia attica antica e che ci è stato trasmesso dalle pitture vascolari greche: “desistere dal ciclo prendere fiato dalle miserie” (frammento orfico da Proclo, cit. da G. Colli, La sapienza greca).

“Nello sperimentare il tragico a teatro, gli spettatori si trovano di fronte al colmo dell’orrore, a crisi di instabilità e a prove di resistenza, ovvero di fronte a esperienze che nessuno si augurerebbe mai di dover affrontare nella vita reale. Ma poi alla fine dello spettacolo, nessuno ne esce morto o traumatizzato. L’esperienza dell’abisso, il viaggio nell’instabilità a teatro sono vissuti – visti, ascoltati – in una forma che ha bellezza. La poesia, la danza, la musica, i costumi e le voci, l’armonia di suono e azione collaborano a rendere l’esperienza teatrale un momento da cui l’uomo può trarre non abbattimento e debolezza, ma energia. Quello che fanno questi splendidi vasi è di distillare bellezza dalla confusione di tutta questa nostra vita umana. Le pitture vascolari, le tragedie, i vasi e gli spettacoli interagiscono al fine di rinnovare nell’uomo la forza di resistere alla morsa delle tenebre.
(Oliver Taplin, Professore di Lingue e Letterature Classiche e Direttore dell’Archive of Performances of Greek and Roman Drama all’Università di Oxford, testo della conferenza tenuta all’Università di Catania, 18 gennaio 2010).

TRA REMEDIATION, AMBIVALENZA E INTERTESTUALITÀ, ALCUNE PREMESSE TEORICHE AL TECNO-TEATRO.
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Da alcuni anni mi occupo di autori e registi teatrali contemporanei il cui lavoro viene associato alle tecnologie e alla multimedialità: da una parte Robert Lepage, William Kentridge, Heiner Goebbels, e dall’altra gruppi come Masbedo, Urban Screen, Motus, Konic thtr.Analizzandone il processo creativo e indagando le ragioni profonde dei loro allestimenti teatrali ho trovato, per i primi, alcuni richiami espliciti a motivi che appartengono più al teatro dell’origine che non a quello della videocultura digitale: dalle ombre (viventi e animate) alle macchine (dispositivi scenici o congegni prospettici). Sono questi ad adattarsi al mutato ambiente teatrale digitale e alle rinnovate esigenze della scena contemporanea e non viceversa. Lepage, Kentridge e Goebbels accettano la sfida del contemporaneo mascherando il vecchio con il nuovo, mostrando l’innovazione tecnologica come la naturale evoluzione di un sapere tecnico antico che appartiene “geneticamente” al teatro.

Se Edward Gordon Craig brevettava nel 1910 a Londra i suoi celebri screen (“le mille scene in una”)[1]contenenti un richiamo alle scene del cinquecentista Sebastiano Serlio (autore del trattato Il secondo libro di Perspettiva,1545 e dei Libri di architettura, 1560)[2], il canadese Robert Lepage ripropone (sia nei suoi “one-man-show” che negli allestimenti per la lirica e per eventi per il grande pubblico) apparati macchinici e scene girevoli di stampo rinascimentale[3].

Il compositore e regista tedesco Heiner Goebbelsper la sua scena auto funzionante, sonora e macchinica, senza attori o manovratori, si rifà piuttosto, agli automata[5].

Nel secondo gruppo di giovani artisti e gruppi tecnoteatrali, è bene evidenziata un’altra singolare “concrezione”: l’adeguamento del nuovo teatro ai principi portanti dei new media e conseguente evoluzione dalla ormai storica “scena intermediale” (in cui avveniva uno scambio alla pari dei media) a quella ambivalente (in cui prevale il “formato mediale” di singoli supporti indipendenti sull’integrazione degli stessi), in una inedita formulazione di spettacolazione totale. Concetto quest’ultimo, bene espresso proprio dal regista e compositore tedesco Heiner Goebbels che specifica quanto i suoi lavori teatrali –che contengono elementi sia musicali che multimediali- non siano affatto finalizzati ad una “opera d’arte totale wagneriana”:

 “Non miro al Gesamtkunstwerk, al contrario. In Wagner ogni cosa tende e opera verso lo stesso fine. Ciò che vedi è esattamente ciò che senti. Nei miei lavori la luce, la parola, la musica e i suoni sono tutte forme a sé. Quello che cerco di fare è una polifonia di elementi in cui ogni cosa mantiene la sua integrità, come una voce in un brano di musica polifonica. Il mio ruolo è quello di comporre queste voci in qualcosa di nuovo”[6]

 Alcuni concetti (provenienti sia dalla critica letteraria e linguistica che dai media studies) ci vengono in aiuto per inserire nella più corretta cornice estetica, da una parte, questo strano connubio tra arcaismo e contemporaneità tecnologica, e dall’altro il mimetismo o trasformismo delle nuove performance ad alto tasso di multimedialità: primi fra tutti, l’intertestualità (il testo come “mosaico di citazioni”, secondo la Kristeva) e la “remediation”.

La remediation è una modalità tecnica e linguistica che sta prendendo campo negli ultimi anni, configurandosi come un vero e proprio “nuovo stile”, approdando anche a teatro. Termine difficile da tradurre, la remediation (in italiano “ri-mediazione”) è entrato nel linguaggio comune grazie alla teorizzazione che ne hanno fatto nel 1999 Jay Davis Bolter e Richard Grusin (Remediation: Understanding New Media); in sostanza, nel momento in cui un nuovo mezzo di comunicazione appare sul mercato, questo si manifesta anche attraverso un’appropriazione o negoziazione (da parte sia dei media vecchi che di quelli nuovi), delle modalità, dei segni distintivi, dei codici artistici ed estetici dei mezzi che lo hanno preceduto, in una sorta di riorganizzazione delle forme comunicative. Per questo motivo un medium non scompare mai del tutto.

La remediation altro non è altro, quindi, che la competizione tra vecchi e nuovi media, ma anche il “rimodellamento” di tutti i media (o di alcune caratteristiche di essi) solo apparentemente tra loro inconciliabili o incompatibili: come ricordano gli stessi autori: “Un medium si appropria di tecniche forme e significati sociali di altri media e cerca di competere con loro o rimodellarli[7]”.

Jay Davis Bolter e Richard Grusin affermano che i nuovi media, ben lontani dall’essere entità indipendenti dai processi sociali ovvero, “agenti esterni che intervengono a scompaginare una cultura che sembra ignara di loro”, emergono dagli stessi contesti sociali, economici, culturali operando sui vecchi media un processo da loro definito appunto, di remediation che porta cioè, un “rimedio” all’incapacità dei vecchi media di rispondere alle mutate esigenze della società dell’informazione. Secondo Bolter e Grusin, i media digitali hanno messo in crisi i vecchi media costringendoli a “reinventare” se stessi, in sostanza ad attualizzarsi, a rimodellarsi e a scendere a compromessi con le richieste di un mercato sempre più attratto dalle tecnologie avanzate. Queste “rimediazioni” continuerebbero a succedersi dal Rinascimento ad oggi: nei tempi moderni la fotografia ha operato una rimediazione sulla pittura, la televisione ha fatto altrettanto con il cinema e con il teatro. Bolter e Grusin non parlano espressamente di teatro, anche se identificano e isolano tra i principi propri dei nuovi media proprio l’immediatezza e l’ipermedialità, elementi evidentemente non estranei alla grammatica del teatro (teatro come compresenza fisica di emittente e destinatario, secondo la definizione data dalla semiotica teatrale; teatro come “insieme di rapporti interagenti”, primo assioma del teatro ambientale di Richard Schechner[8]).

Remediation è quindi la possibilità di una reviviscenza per vecchie tecniche che hanno la possibilità di riemergere dal dimenticatoio o dall’obsoleto, restando così, al passo con la contemporaneità multimediale e contribuendo alla formulazione di una nuova estetica rétro-digitale. La più logica interpretazione della rimediazione, seguendo le intuizioni di Bolter e Grusin e confrontandole con le riflessioni estetiche di Rosalind Krauss[9], sarebbe la reinvenzione di un dato linguaggio all’interno di una grammatica e di una tecnica assai distante ma resa meno estranea grazie alle caratteristiche proprie del digitale, che ricongiunge gli opposti e determina le mescolanze più impensabili.

La contemporaneità artistica è fatta di innesti paradossali e di produzioni miste, di complessi progetti che vagano indifferentemente nel web, nelle gallerie d’arte e nei teatri provenendo dai mondi più distanti. In questa generalizzata computerizzazione della cultura (seguendo Lev Manovich[10]), la rimediazione produrrebbe una fenomenologia artistica aperta, mimetica e mutante.

Si privilegia infatti, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno-artistico affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo e derivante indistintamente dal videoclip, dalle installazioni, dai concerti, dal vjing, dalla graphic art, fino al cinema di animazione e persino alla videogame art. Non mescolanza, maintertestualità: è l’intertestualità la logica prevalente delle nuove produzioni mediali, ricorda Giovanni Boccia Artieri: 

Ci troviamo cioè entro una logica di produzione di testi che echeggiano testi precedenti, incedono sul gioco delle citazioni, evocano e suggeriscono, sono autoreferenti, e allo stesso tempo si aprono al remake, producendo uno stato di particolare eccitazione per la forma[11].

L’ambivalenza indica un oggetto che ha una doppia proprietà o funzione, che si presenta sotto due aspetti diversi (non necessariamente in opposizione): in queste nuove produzioni tecnologiche il teatro non nasce dal teatro e soprattutto non si esaurisce nell’atto teatrale, ma acquista una vitalità infinita grazie al digitale potendo espandersi in forma di film, installazione, opera d’arte autonoma. Da una parte ritroviamo una storica poetica di intreccio di linguaggi, dall’altra una proposta estetica più vicina alla tematica del digitale che considera i singoli elementi di un progetto artistico come oggetti (o testi) multimediali[12] come interscambiabili, aperti alle più diverse incarnazioni e tali da poter sperimentare tutti i possibili incastri mediali, in un nomadismo tecnologico senza precedenti. Ogni format può essere, così, considerato alternativamente realizzazione artistica autonoma o tappa di un ulteriore processo di elaborazione – virtualmente infinito e rigorosamente aperto.

 Il principio di variabilità permette di avere a disposizione numerose opzioni per modificare la performance di un programma o di un oggetto mediale: un videogioco, un sito, un browser o lo stesso sistema operativo. […] Se noi applicassimo questo principio alla cultura tout court significherebbe che tutte le opzioni utilizzabili per dare a un oggetto culturale una sua identità specifica potrebbero in teoria, restare sempre aperte.[13]

 Ne risulta una indeterminatezza di genere che è la caratteristica dei nuovi formati digitali, apparentemente privi di un modello strutturale classificatorio. Si tratta, come osserva acutamente Laura Gemini di

 performance liminoidi e intermedie che mettono in luce la propria ambivalenza rendendosi difficilmente classificabili. È un’arte della performance che ha fatto propria la consapevolezza postmoderna, che ha riconosciuto l’esistenza di una rete complessa di flussi comunicativi e l’idea della conoscenza come partecipazione creativa dell’oggetto conosciuto. […] Parlare della performance artistica oggi significa non pensare né allo spettacolo come testo distinto (teatrale, televisivo, cinematografico o sportivo che sia) né allo spettacolare come categoria puramente estetica. Si deve piuttosto porre come condizione prioritaria la fluidità del mélange e rinvenire in quelle pratiche spettacolari che non si prestano ad essere classificate secondo rigide convenzioni formali. La stessa messa in scena va intesa come organizzazione di testi (cinema, teatro, televisione) che tendono alla progressiva indistinzione, a una dinamica di flusso che rende miglior merito alle forme comunicative contemporanee[14].

 Se Kentridge e Lepage sono emblematici di una tendenza alla rimediazione dei vecchi media che sta sempre più facendo scuola (dal mercato tornato in auge dell’analogico, al collezionismo delle tecnologie che “non ce l’hanno fatta”, ad artisti che mescolano deliberatamente vecchie tecniche, macchine e televisori a tubo catodico dentro installazioni interattive), dobbiamo riconoscere che numerosi sono i ricorsi, anche all’interno di ambiti di spettacolo commerciale (per esempi i concerti rock o i grandi eventi negli spazi pubblici), a dispositivi e invenzioni ottiche di fine Ottocento.

L’estetica del meraviglioso ovvero quella che Andrew Darley definisce l’estetica della superficie, è alla base delle forme spettacolari legate al videomapping[15]: la proiezione su enormi superfici architettoniche reclama uno sguardo panoramico e avvolgente nei lavori di Urban screen, Nuform, Apparati effimeri:

Urban screens

E’ così che l’intreccio tra la forma della spettacolarizzazione e realtà tecnologica del medium riprende le forme del meraviglioso presenti nelle modalità ottocentesche di intrattenimento di massa consentendone anche una ridefinizione dello spazio urbano: effetti speciali visivi ed immersivi dove talvolta la forma conta più del contenuto, dove sono i giochi di superficie ad essere rilevanti[16].

 Estetica che ha un gran debito nei confronti di panorama e diorama e delle diverse fantasmagorie della cultura popolare ottocentesca[17] ma anche nei confronti degli studi sugli scorci prospettici in pittura, sul quadraturismo, sull’effetto pittorico illusorio di sfondamento volumetrico. Si può dire allora che il video mapping e l’architectural mapping sono la prosecuzione ideale, in epoca di realtà aumentata e di dispositivi immersivi, delle macchine ottiche e degli esperimenti anamorfici[18] del Seicento.

Come ci ricorda Thomas Maldonado, la civiltà occidentale è diventata una produttrice e consumatrice ditrompe-l’œil, il quale si è svincolato dal virtuosismo fine a se stesso per avvalersi di tecnologie che tendono ad un iperrealismo:

 “La nostra è stata definita una civiltà delle immagini. (…) Questa definizione sarebbe più vera, se aggiungessimo che la nostra è una civiltà in cui un particolare tipo di immagini, le immagini trompe-l’œil, raggiungono, grazie al contributo di nuove tecnologie di produzione e di diffusione iconica, una prodigiosa resa veristica. Ciò appare chiaro con l’invenzione della fotografia e poi, in modo più evidente, con quella della cinematografia e della televisione. La conferma più incisiva viene, oggi, dall’avvento della grafica computerizzata, soprattutto se si pensa ai suoi ultimi sviluppi finalizzati alla produzione di realtà virtuali.”[19].

Per approfondimenti vedi: A.M. Monteverdi, Nuovi media, nuovo teatro, Milano, FrancoAngeli 2011



[1] Il brevetto degli screen, pannelli semoventi monocromi simbolo del suo teatro antirealista (Patent n.1771) viene depositato da Gordon Craig (che si firma  Stage-manager), il 24 gennaio del 1910. Nel documento Craig ne specifica caratteristiche tecniche, il funzionamento e i benefici per il nuovo teatro:

The object of my invention is to provide a device which shall present the aesthetic advantages of the plain curtain but shall further be capable of a multitude of effects which although not intend to produce an illusion shall nevertheless assist the imagination of the spectator by suggestion. My invention consists in the use of a series of double jointed folding screens standing on the stage and painted n monochrome –preferable white or pale yellow. The screens may be used as background and in addition to this use, may be so arranged as to project into the foreground at various angles of perspective so as to suggest various physical conditions such as, for example, the corner of a street – or the interior of a building”. Documento proveniente dalla Collezione Arnold Rood e pubblicato in occasione della mostra Exploding Tradition: Gordon Craig 1872-1966 (Victoria & Albert Museum, Londra, 1998)

[2] M.I.Aliverti, History and histories in Edward Gordon Craig’s written and graphic work.in Wagner E., Dieter-Ernst W. (a cura di) Performing the Matrix: Mediating Cultural Performance, Epodium, Monaco, 2008. La Aliverti partendo dalla Collezione di libri storici di teatro di Craig ora conservata alla Bibliothèque Nationale di Parigi (Départment des Arts du Spectacle) prende in esame l’influenza proveniente dallo studio dei Libri di Architettura del Serlio nel periodo tra il 1906 e il 1909, anni in cui Craig realizza la regia del Rosmerholm di Ibsen con Eleonora Duse e Hamlet (Mosca, 1908).

Franco Mancini afferma che lo stimolo per la sua idea di palcoscenico mobile era, effettivamente, venuta proprio dalla lettura del trattato del Serlio “che illustrava, tra l’altro, uno schema di teatro dalla superficie scenica sezionata a scacchiera. Costituito da volumi geometrici a forma di parallelepipedo ripetuti anche nella zona della soffitta e lambiti lateralmente da paraventi con il compito di modificare lo spazio scenico in rapporto alla necessità dell’azione, il palcoscenico di Craig, pur presentando pressappoco le stesse caratteristiche descritte da Serlio. Se ne distaccava per la mobilità, in quanto ogni quadrato poteva sollevarsi a piacere. F. Mancini L’evoluzione dello spazio scenico dal Naturalismo al teatro epico, Bari, Dedalo, 1986, p.57.

[3] La scena teatrale tra il Quattrocento e gli inizi del Seicento, in cui la prospettiva con scorcio aveva definitivamente sostituito le mansions paratattiche delle sacre rappresentazioni, viene a trasformarsi progressivamente proprio grazie all’introduzione di macchine e argani, congegni che permettevano trasformazioni rapide, cambi automatici oltre che voli, apparizioni di cieli e soli, demoni e angeli annuncianti o discendenti progettati da Brunelleschi, Vasari, Sangallo, Buontalenti in occasione delle feste di nozze farnese o medicea, per naumachie e contrasti. E’ negli “intermezzi” che lo spazio della scena è tutto per la macchina. Anche Leonardo si era cimentato come “apparatore” in occasione dell’Orfeo di Poliziano, come è testimoniato dagli studi e dai progetti datati 1506-1508 presenti nel codice Arundel conservato al British Museum di Londra. Vedi C. Molinari,Brunelleschi, Leonardo e la tradizione scenotecnica, in “Quaderni di teatro”, anno III, n. 10, 1980, p.6. Ed inoltre: C. Molinari, La scena vuota in E.G.Zorzi (a cura di) Teatro e spettacolo nella Firenze dei Medici. Modelli dei luoghi teatrali, Firenze, Leo S. Olschki, 2001

[4] Il teatro d’ombre muto era utilizzato ampiamente per i Sacri Misteri. Sul tema vedi M. Rak, L’arte dei fuochi, comunicazione al convegno Bernini e l’universo meccanico, in “Quaderni di teatro” anno IV, n. 13, pp.46-59.

[5] Automata è il titolo del volume di Erone di Alessandria, matematico che visse nel II sec. a.C. e tratta la meccanica dei corpi solidi. Erone descrive, tra gli altri, anche il famoso “teatro meccanico” con statue con sembianze umane che si muovevano , uccelli che cantavano, porte che si aprivano o chiudevano mossi dall’azione dell’acqua o del vapore.

[6] Intervista a H.Goebbels a cura di I.Hewett, “The Telegraph” (GB),  22 giugno 2012.

[7] J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation: competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini, 2003.

[8] R.Schechner, La cavità teatrale, De Donato, Bari, 1968, pp. 23-72.

[9] R.Krauss, Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte di oggi, Bruno Mondadori, Milano, 2006.

[10]Lev Manovich in Il linguaggio dei nuovi media (Milano, Olivars, 2001) parla del principio ditranscodifica culturale che caratterizzerebbe la società permeata dai nuovi media. In sostanza, la computerizzazione trasforma tutti i media in dati informatici e questo ha un riflesso immediato sul piano delle azioni e dei comportamenti umani, sui processi cognitivi, sulla cultura:  “Le modalità con cui il computer modella il mondo, rappresenta i dati e ci consente di operare su di essi, le operazioni tipiche di tutti i programmi (ricerca, comparazione, ordinamento sequenziale e filtrazione), le convenzioni di funzionamento delle interfacce – in sintesi, ciò che si potrebbe chiamare ontologia, epistemologia e pragmatica del computer – influenzano il livello culturale, l’organizzazione, i generi e i contenuti dei nuovi media.”( p. 69).

[11] G.Boccia Artieri, La sostanza materiale dei media: video culture digitali tra virtuale e performance, Pref. a A. Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006, p.12.

[12] Un oggetto mediale è, secondo Manovich “qualcosa che può essere declinato in versioni molto diverse tra loro ”, L. Manovich, cit, p. 57.

[13] Ibidem.

[14]L.Gemini, L’incertezza creativa. I percorsi sociali e comunicativi delle performance artistiche, FrancoAngeli, Milano, 2003, pp. 69-70.

[15] Si tratta di una tecnica video che fa interagire la realtà e la sua ricostruzione digitale e ne modifica la percezione visiva sovrapponendosi ad essa sino a stravolgerla. Sono esperimenti diaugmented reality applicati a spettacoli e eventi negli spazi all’aperto o in teatri, con proiezioni su enormi superfici (edifici o fondali teatrali).

[16] G.Boccia Artieri, La sostanza materiale dei media: video culture digitali tra virtuale e performance, Pref. a A. Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006, p.12.

[17] A. Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006, pp.71-74

[18] L’anamorfosi è una rappresentazione in prospettiva realizzata su un piano o su una superficie curva, la cui visione è possibile solo da un punto di vista non perpendicolare al piano su cui si trova l’oggetto, pena la visione deformata di quest’ultimo. Come ci ricorda Jurgis Baltrušaitis: “L’anamorfosi – parola che compare nel Seicento, benché si riferisca a combinazioni già note a tempo – ne [della prospettiva, N.d.A.] inverte elementi e princìpi: essa proietta le forme fuori di se stesse invece di ridurle ai loro limiti visibili, e le disgrega perché si ricompongano in un secondo tempo, quando siano viste da un punto determinato. Il procedimento si afferma come curiosità tecnica, ma contiene una poetica dell’astrazione, un meccanismo potente di illusione ottica e una filosofia della realtà artificiosa.” J. Baltrušatis, Anamorfosi o magia artificiale degli effetti meravigliosi, Milano, Adelphi, 1969, p. 13.

[19] T. Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 48.d

I nuovi formati del teatro mediale
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Pubblicato su Interactive-performance.it

Nuove frontiere per il teatro si aprono grazie alle caratteristiche di immersione, integrazione,ipermedialità, interattività, narratività non lineare propri del sistema digitale: dall’evoluzione nel web delle performance alla creazione di ambienti interattivi, all’elaborazione di una nuova scrittura e drammaturgia multimediale. I nuovi media di oggi non equivalgono ai nuovi media di ieri per le caratteristiche tecniche innovative, per i meccanismi sociali che innescano e per l’impatto comunicativo che determinano, ma di una comunicazione di nuova generazione, ramificata, orientata all’immediatezza, all’interattività, allo scambio, alla creazione di reti di relazioni, proiettata cioè, al network.

Emerge una nozione di scena aumentata (enhanced theatre è la definizione di teatro digitale data da Dan Zellner) che ha a che fare con il trattamento/processamento in tempo reale di informazioni multimediali, con il coinvolgimento sensoriale del pubblico e con la mediazione tra performer e computer. Una scena aumentata negli effetti e animazioni tridimensionali, nelle immagini in movimento, nella scena interattiva e in quella virtuale che sostituisce quella reale, negli attori sintetici che recitano in una live action insieme ai loro doppi in carne ed ossa, nella percezione del pubblico sollecitato a una visione multipla, a una compresenza di punti di vista.

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Uno stile ambivalente e mimetico per il teatro tecnologico: Dumb Type e Masbedo.

Teatro e digitale, per usare una terminologia cara a Marshall McLuhan, si stanno ibridando, anzi forse oggi siamo già alla seconda generazione tecnologica che sta dando vita a quello che si può definire, prendendo a prestito un termine dalla biologia, un teatro-chimera, un teatro dal doppio codice genetico caretterizzato da un libero nomadismo e mimetismo dei linguaggi.

Le immagini in movimento, le animazioni, i sistemi interattivi, i programmi informatici per una gestione live del materiale audiovisuale sono stati già da tempo assorbiti nella materia teatrale inaugurando un nuovo genere al confine con le altre arti (installazioni, concerti, film, opere video). L’ibridazione, ovvero per usare l’esatta definizione mcluhiana, ‟l’interpenetrazione di un medium nell’altro” in questa generalizzata computerizzazione della cultura, produce una fenomenologia artistica mutante derivante dal web, dal fumetto, dal videoclip, dalla videoarte, dal vjing, dalla motion graphics, al passo con le tecnologie digitali, altrettanto metamorfiche e “mimetiche”.

L’arte digitale è arte dell’ibridazione” afferma Edmond Couchot, una elaborazione interna alla scrittura, alla composizione, alla visione, alla forma della creazione d’arte di cui sarebbe responsabile proprio la natura “mutevole” dell’oggetto artistico multimedializzato. Le cross-ibridazioni tra sistemi di informazione, scritture, dispositivi di visione e di ascolto, complice il comune codice digitale, sono potenzialmente infinite: dai radiodrammi alle video performance, dalle installazioni performative, ai live set fino alla drammaturgia ipertestuale e on line in un’evoluzione continua e in una serie pressoché infinita di possibilità trasformative. Il testo, o meglio l’ipertesto drammaturgico, il progetto scenico, la partitura sonora-musicale, l’installazione, il video, il software, lo spettacolo, non appartengono più a generi diversi ma divengono fasi di un processo aperto, tassello di un mosaico spaziale e temporale mutante, flessibile e comunicativamente forte (A. Balzola).

Se Rosalind Krauss proponeva in Art in the age of the post modern condition (2005) di tracciare una riga definitiva per eliminare la parola medium “così da seppellirla come tanti altri rifiuti tossici della critica e procedere nel mondo della libertà lessicale”, Zygmunt Bauman in Modernità e ambivalenza (2010) individua nel concetto di “ambivalenza” che romperebbe la pratica del modello strutturale normativo, dell’ordine classificatorio delle categorie estetiche, uno dei temi chiave del postmoderno:

La situazione si fa ambivalente se gli strumenti di strutturazione linguistica si rivelano inadeguati: o il caso in questione non appartiene a nessuna delle categorie individuate dalla linguistica, oppure si colloca in più classi contemporaneamente. In una situazione ambivalente nessuno dei modelli appresi è quello giusto ovvero se ne potrebbe applicare più di uno (…) L’ideale che la funzione nominatrice/classificatrice si sforza di raggiungere è una sorta di ampio archivio che contenga tutte le cartelle che contengono tutti gli oggetti che il mondo contiene: ogni cartella e ogni oggetto sono però confinati in un loro posto distinto. E’ l’impossibilità di realizzare un simile archivio che rende inevitabile l’ambivalenza (…) Classificare consiste negli atti di includere e escludere. Ogni volta che diamo un nome a qualcosa, dividiamo il mondo in due: da un lato le entità che rispondono a quel nome; dall’altro tutte quelle che non lo fanno (…) L’ambivalenza è un effetto collaterale del lavoro di classificazione (…) Quella all’ambivalenza è una guerra suicida.5

 Ambivalenza delle tecnologie in atto quale potenzialità di scambio: Dumb Type, Motus, Masbedosono emblematici di questa “tendenza ambivalente” del teatro. Privilegiano infatti, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno-artistico affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo e derivante indistintamente dal videoclip, dalle installazioni, dai concerti, dal vjing, dalla graphic art, fino al cinema di animazione e persino alla videogame art.

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Nelle performance dei giapponesi Dumb Type la partecipazione dello spettatore è di natura immersiva, ricca cioè, di stimolazioni sensoriali multiple (dalle sub frequenze al noise, dalle immagini distorte, velocizzate ai video multipli), come se fosse un’installazione audiovisiva sperimentale.

Il video Glima di Masbedo, nato dall’esposizione di una proposizione base, sviluppata dagli attori senza indicazioni registiche dettagliate, come una performance corporea di enorme fisicità e di grande impatto, si è incarnato prima in un’installazione monocanale, poi in uno spettacolo vero e proprio con attori che interagivano in una scena video live con doppia proiezione. Da un formato video di breve durata si genera, stretchandosi, lo spettacolo. Un uomo e una donna lottano legati da vincoli di lacci in pelle come un’appendice organica che rimanda a un rito di possessioni sadomasochistiche e afflizioni autoindotte; intorno a loro una terra vulcanica, un paesaggio video-esistenziale: l’Islanda con la sua particolare orogenesi, con la sua attività vulcanica e la presenza della dorsale media-atlantica il cui processo tettonico sta spezzandola in due tronconi alla velocità di due centimetri l’anno, va a definire coordinate geoestetiche potentissime. Questi paesaggi fisici raccontano simbolicamente la distanza tra uomo e donna, ma anche il desiderio di riscatto, il disperato tentativo di opporsi a una deriva di rapporti umani e sociali basati su banalità e prevaricazione.
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Il paesaggio non è estraneo, entra nella violenza perpetrata nei corpi dove alternativamente uno diventa carnefice e l’altro vittima; in questo rituale della coercizione sotto cui si può leggere la generale volontà a non integrarsi, a non piegarsi e a non sottomettersi alle regole del mondo e la generale riluttanza ad obbedire all’ordine sociale, i protagonisti hanno abbandonato la civiltà ma non la disponibilità a combattere magari in nome di un’ipotetica causa comune che presuppone l’unirsi degli uomini in una catena umana a difesa del proprio patrimonio di valori. La performance con due schermi e una pedana ad altezza del pubblico proposta al Festival DRO e a ROMAEUROPA (2010), ripropone l’identica performance ma il paesaggio reale dove agivano i personaggi nel video, in teatro viene evocato dall’elettronica7.

 Motus sperimenta da sempre la contemporaneità di teatro-cinema in scena (da Twin rooms a X-racconti crudeli della giovinezza) e introduce anche la grafica animata (Rumore rosa); gli statunitensi Big Art Groupcon il ciclo di spettacoli definito “real time film”(Flicker, House of no more) ricreano un vero set cinematografico (usando un green screen) con la messa in mostra degli effetti da truquage. Approda a teatro una “composizione digitale” che unisce in una continuità senza cesura, televisione, cinema e teatro secondo una nuova estetica – seguendo Lev Manovich – “anti-montaggio” ovvero, “una creazione di spazi contigui in cui interagiscono diversi elementi (…)Nella composizione digitale gli elementi non sono più contrapposti ma miscelati; i loro confini vengono cancellati più che enfatizzati”.

Come Amleti irrequieti, vaganti nel vuoto pneumatico di una condizione tragica, evocata nella sua abissalità da una camera iperbarica o da interminabili silenzi, i protagonisti vivono distillandosi l’ossigeno per una rinascita, o almeno, per una via di fuga.

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La loro è un’arte intermediale in cui la musica il cinema, il video e la performance sono sempre strettamente collegati. Il riferimento principe per Masbedo è il territorio multidisciplinare dell’arte video della metà degli anni Sessanta, fecondo terreno per sperimentazioni di incroci, attraversamenti e transizioni. In quel contesto di effervescenza creativa e sperimentale, il medium video ha vissuto in perfetta promiscuità con le altre arti con le quali si è intrecciato, mescolato, confrontato. Citando le pionieristiche esperienze video performative di Nam June Paik, ma anche quelle successive di Laurie Anderson, Peter Gabriel e Metamkine, Masbedo allestiscono le loro performance a partire da originarie videocreazioni per poi arricchirle ed espanderle –alterandole radicalmente- con una componente musicale live (Schegge d’incanto in fondo al dubbio, Glima). Schegge d’incanto in fondo al dubbio di MASBEDO è nata come videoinstallazione per due schermi sincronizzati per la Biennale di Venezia (2009) ed è diventata una performance di live video con musica suonata sul palco da Lagash dei Marlene Kuntz.

La donna, novella Antigone, opponendosi all’omologazione del mondo, alla vita umiliata, compie un gesto impetuoso e solenne di ribellione: trascina nell’acqua a fatica, oggetti che rappresentano la vita vissuta e il quotidiano; infine, si immobilizza come statua, su un piedistallo in mezzo al mare, con gesti ricchi di pathos evocando miti tragici e archetipi del femminile che raccontano come la vita umana, pur nelle difficoltà e nel dolore, lasci dietro di sé schegge di bellezza. La donna mostra una maschera tragica del dolore, un urlo muto che porta con sé tutto il lamento dell’esistere. Il video trasmette proprio quel senso profondo e necessario di purificazione e metamorfosi dell’essere e quel bisogno di rivelazione da cui nasce la tragedia attica antica e che ci è stato trasmesso dalle pitture vascolari greche e dai frammenti orfici: “desistere dal ciclo prendere fiato dalle miserie”(frammento da Proclo cit. da G. Colli, La sapienza greca).