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Debutto del nuovo spettacolo di teatro-ragazzi del Tam Teatromusica “Fiabesca”
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Fiabesca

Martedì 5 dicembre 2017 alle ore 10
Martedì 5 dicembre 2017 alle ore 16.30 (inserito nel percorso formativo per insegnanti I LINGUAGGI DEL TEATRO con Mafra Gagliardi)
Mercoledì 6 dicembre 2017 alle ore 10
Giovedì 7 dicembre 2017 alle ore 10

Piccolo Teatro, Via Asolo 2 Padova
TEATRO RAGAZZI PADOVA 2017-2018

 

Ideazione e scrittura Flavia Bussolotto
con Flavia Bussolotto, Marco Tizianel
tecnico “raccontafiabe” Stefano Razzollini
voce narrante Mafra Gagliardi
scene Michele Sambin, Alessandro Martinello
costumi Claudia Fabris
disegno luci Stefano Razzolini
video Michele Sambin, Alessandro Martinello
suoni Michele Sambin
maschere e oggetti Michele Sambin e Alessandro Martinello

regia Flavia Bussolotto

Con la collaborazione di: Bel-Vedere Lab Progetto Partecipato tra artisti-operatori-cittadini a cura di Echidna e Comune di Mirano, Comitato Mura di Padova, Centro di Produzione Teatrale La Piccionaia, Theama Teatro, Fondazione Villa Benzi Zecchini/Teatro Maffioli di Caerano di San Marco (TV)

Età: dagli 8 anni

Fiabesca è un’intensa e colorata immersione nel mondo simbolico della fiaba, dove ogni personaggio è un archetipo e i luoghi sono paesaggi interiori universali.
Un moderno “raccontafiabe” fa emergere memorie di fiabe conosciute con le immagini di un videoproiettore e con parole e suoni registrati. I personaggi di Hansel e GretelCappuccetto RossoLa Bella e la Bestia irrompono in scena evocando storie e simboli, per poi tornare nel profondo da cui sono venuti, lasciando una traccia, l’eco di un sogno o di un mito.
In un regno suggestivo, di solito occupato dal racconto orale, dalla parola che evoca immagini, con la nostra ricerca proviamo, con leggerezza, a capovolgere il rapporto, raccontando soprattutto con immagini che evocano parole: simboli visivi scolpiti si condensano in un oggetto, in un segno di luce, contrappunto a un’ombra intensa e forte. In questo universo visivo anche la parola trova il suo spazio diventando segno essenziale.

Michele Sambin: da solo a molti. Dalle videoperformance solitarie al collettivo tecnoteatrale
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Saggio di AMM tratto dall’antologia critica Michele Sambin performance tra musica, pittura e video a cura di Lisa Parolo per Clued edizioni, 2014

L’artista plurale

Michele Sambin nei suoi quarant’anni di ricerca artistica ha attraversato linguaggi e formati, ha incarnato il passaggio dal video alla performance duettando con il Sony Portapack insieme ai suoi strumenti musicali, portandola a svolgere funzioni inusuali, forzando la ripresa a operazioni che erano ancora ben lontane da quella che sarebbe stata definita successivamente, arte elettronica (1). Ha portato la sua arte in molti altrove, in case del teatro e nel luogo negato (il carcere), in spazi all’aperto, facendo risuonare corpi, ambienti e oggetti. Ha trasmesso la sua arte polifonica (che si estende dalla musica all’arte visiva a quella digitale) a molti giovani, coinvolgendoli nella creazione e facendo comunità, ha contagiato pubblici diversi, ha costruito, cioè, intorno all’opera un dialogo a più voci. La sua è un’arte al plurale, connettiva e relazionale, come nella visione di un altro artista con cui Sambin ha condiviso percorsi estetici ed esperienze di vita: Paolo Rosa (2).

Assoli

Pioniere della video-performance Sambin ha usato il loop come modalità stilistica che ha contraddistinto la sua personalissima arte concettuale, visibile in gallerie d’arte e spazi non convenzionali e non teatrali negli anni Settanta. La solitudine del performer in queste situazioni era bilanciata dai suoi numerosi doppi elettronici, generati live all’infinito in una moltiplicazione d’immagini in movimento (e in una proliferazione di schermi) che hanno mostrato precocemente le potenzialità espressive del mezzo tecnologico nelle mani dell’artista. Altri esploravano da tempo questo aspetto e le loro ricerche solo in seguito sono state recuperate e studiate per formare una storia coerente e inaspettatamente anticipatoria e originale. E’ ormai accertata, infatti, una nuova cronologia della videoarte in Italia e una periodizzazione che anticipa addirittura al 1953 i primi esperimenti del gruppo di artisti visivi italiani del Movimento spaziale per la televisione (tra cui Fontana) alla Rai, la qual cosa scipperebbe, come ricordano Marco Maria Gazzano e Silvia Bordini, il primato della nascita dell’electronic art al mitico padre fondatore, Nam June Paik (3). Ma a parte il primo episodio assai sperimentale di registrazione, negli studi Rai di Milano, di un programma televisivo (di cui non si hanno, però, testimonianze scritte), il tape d’artista assume diverse configurazioni in relazione al suo utilizzo e scopo, come risulta anche dalla famosa classificazione del 1972 di Luciano Giaccari. Ed è proprio in quell’ambito, definito da Giaccari, della “performance in video” che s’inserisce la performance solitaria di Michele Sambin, alla ricerca di una drammaturgia dei media ante litteram. Le prime esperienze di videorecording e di videoinstallazioni vanno in direzione di un naturale sviluppo performativo, tendendo sempre più a esplodere oltre la cornice-schermo-galleria e a diventare puro evento, accadimento in tempo reale e, per il pubblico, condizione di esperienza, un insediarsi direttamente all’interno del flusso presente-continuo delle immagini. In Ripercorrersi (1978, Produzione Centro video Palazzo dei Diamanti, Ferrara) protagonista è il pubblico che percorre uno stretto corridoio che conduce a un luogo dove sono visibili su monitor, attraverso il sistema di video a loop e un gioco di ritardi di visione, rimandi ciclici del suo corpo. Dice Sambin: «Le videoinstallazioni sono un elemento fondamentale del mio passaggio al teatro: il pubblico assiste a un processo che non è solo elettronico ma anche fisico». L’artista registra, a intervalli, suoni e gesti; il nastro scorre, va alla testina di lettura che rimanda l’immagine con un breve scarto al monitor; l’artista in carne ed ossa diventa a questo punto l’interlocutore del suo se stesso elettronico con cui affronta un dialogo infinito. Prendendo a prestito termini cari a Marshall McLuhan de The Gutenberg Galaxy (1962) e Understanding Media (1964), il video diventa protesi, prolungamento di una sua funzione:

«Era una dimensione concettuale, più che attenzione all’immagine, perché il senso di quest’operazione era quello di usare il video come possibilità di estensione espressiva di un corpo. Parlavo con me stesso, suonavo con me stesso, mi intervistavo, facevo cose che senza questi supporti non potevo fare. Il video come amplificazione, come protesi, è da intendere come strumento che non ferma un processo, ma che lo amplifica, lo moltiplica». (4)

Nelle performance e nelle video installazioni realizzate con il videoloop l’artista continua all’infinito a suonare, parlare e a (cor)rispondersi, vocalmente, musicalmente e visualmente. L’artista dà un’efficace spiegazione (e dimostrazione pratica) in Vtr and I  (1978), in cui viene isolato e investigato questo specifico funzionamento autoriflettente del Video Tape Recorder. Si tratta di una vera esposizione autoanalitica del proprio lavoro d’artista, un’operazione video-linguistica, perché il dispositivo video è tematizzato e preso come oggetto d’indagine. L’azione performativa è della macchina, prima ancora che del corpo: il gesto mimico-facciale e sonoro ripetuto a intervalli davanti a una telecamera, attraverso un videorecording e un feedback causato dal posizionamento della telecamera davanti al televisore, innesca un meccanismo a catena. Il corpo incontra se stesso nello spazio del monitor e si mescola alle forme astratte autogeneratesi dal video, dando vita a un effetto di sovrimpressione delle immagini con il loop e a una loro rinascita (e metamorfosi) ciclica. La riproducibilità è (ossimoricamente) generativa. Dall’unicità della performance alla performatività dei media di riproduzione.

Queste esperienze pionieristiche degli anni Settanta (tra i protagonisti internazionali citiamo Joan Jonas, Bruce Nauman, Vito Acconci) (5), come ricorda Simonetta Cargioli, sono un «fecondo terreno per sperimentazioni d’incroci, attraversamenti e transizioni (…) In questo contesto di effervescenza creativa e sperimentale, il medium video ha vissuto in perfetta promiscuità con le altre arti con le quali s’intreccia, si mescola, si confronta, che ingloba, di cui prende a prestito qualche cosa provocandone alterazioni radicali. La performance, la danza, la poesia, il cinema, tra gli esempi numerosi, diventano altra cosa dopo il video, o perlomeno, dopo averne assorbito il contatto» (6). E’ quindi un naturale territorio multidisciplinare quello in cui si muove il video sin dal suo esordio, afferma Bruno Di Marino (7): citando le esperienze video performative di Nam June Paik, ma anche quelle successive di Laurie Anderson, oggi gruppi come Metamkine, OtoLab e Masbedo (8) allestiscono i loro live a partire da una forte componente musicale riproponendo, in chiave attuale, una modalità video performativa ampiamente sperimentata proprio dai pionieri dell’art vidéo.

 michele sambin

Contagio: da solo da tre .

Dal 1980 Michele Sambin si apre a una dimensione di co-creazione e nasce il Tam Teatromusica con Pierangela Allegro e Laurent Dupont. L’artista che espande la propria idea di arte, che ne fa un corto circuito collettivo, è un’utopia che implica un’idea di teatro, di linguaggio condiviso, di arte come primaria funzione sociale. Performance come modo di vita. L’idea di contagio (da solo a molti) di cui parla Michele Sambin è l’idea di un virus artistico che si espande ad altri esecutori e ad altri corpi attivi, siano essi co-autori o spettatori. Implica un ripensare alle modalità di creazione anche in relazione al pubblico sempre più partecipe. L’allargamento ad altri collaboratori inizia proprio con la fine degli anni Settanta: è un allargamento emotivo ed espressivo:

.Il primo contagio avviene con Pierangela e Laurent che aderiscono a una mia idea e così ha inizio  l’avventura di tre artisti che si mettono in gioco. Siamo nel 1980. Inizia la dimensione di sperimentazione teatrale. In seguito ci sarà un lungo periodo di nomadismo. Passavamo dal teatro alla Scala ai piccoli teatri alle scuole di provincia, con la nostra utopia di un teatro senza distinzione, senza gerarchie un teatro aperto a tutti i luoghi e a tutte le età

Il Tam si apre a un lavoro di rifondazione del linguaggio scenico. I componenti approdano infatti ad una reinterpretazione originalissima e concettuale dell’oggetto-strumento, soprattutto il violoncello, in un gioco ironico ed erotico insieme, di similitudini, che porta a uno sdoppiamento, a una corporeità sonora, a una umanizzazione dello strumento musicale e delle sue forme sinuose che sarebbe piaciuto a Nam June Paik che proprio all’umanizzazione dell’elettronica aveva dedicato la serie di Tv Bra for Living Sculpture (1969) con Charlotte Moorman al violoncello con piccoli monitor come reggiseno. Il gioco di rimandi tra corpo e strumento raggiunge il suo apice con Perdutamente (1989), ispirato al Le Violon d’Ingres (1924) di Man Ray e Se San Sebastiano sapesse (1984) ispirato all’iconografia del martirio di San Sebastiano dove a essere trafitto, ma dagli archetti[LP9] , è il violoncello e il corpo maschile che lo replica, insieme vittima e carnefice. Il percorso continua nel segno di una drammaturgia sonora: con l’allestimento per il Teatro alla Scala dell’opera in musica Barbablù (2000) e, prima, di Children’s corner (1986) il Tam si misura con una dimensione diversa da quella degli inizi, legata soprattutto a gallerie d’arte: [LP10] (Il percorso continua nel segno di una drammaturgia sonora: con l’allestimento di Ages su musica di Bruno Maderna una commissione RAI di Milano(1990) e prima Children’s corner (1986) per il Teatro alla Scala il Tam si misura con una dimensione diversa da quella degli inizi, legata soprattutto a gallerie d’arte: ) il repertorio del teatro musicale e le commissioni da parte delle grandi istituzioni teatrali o la stessa Rai, il grande pubblico e i grandi palcoscenici danno loro la possibilità di confrontarsi con una tecnologia (audio, video, e luci) adeguata alle proprie esigenze, permettendogli di raffinare e sperimentare tecniche sempre nuove, grazie anche a giovani collaboratori che cominciano a partecipare all’avventura Tam. Studiate spazializzazioni sonore, straordinari progetti luce, grafica accurata e video animazioni a effetto pittorico in scena (come in Anima Blu del 2007, ispirata al mondo pittorico di Chagall) diventano sempre più la cifra dominante della loro estetica teatral-musicale.

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 Verso molti: dal nastro magnetico come supporto allo spettatore-supporto.

Il passaggio al teatro, ad altri spazi e ad altri sguardi avviene nel momento in cui l’artista non affida più solo al nastro, al monitor, alla tela le proprie suggestioni concettuali ma le passa letteralmente all’«altro» che registra nella propria mente i segni di un’esperienza indelebile: questo passaggio dal privato al pubblico, dalla dimensione singolare a quella agita al plurale produce immaginario e drammatizzazione e presuppone performer e pubblico. L’occasione di questo passaggio al teatro avviene nel 1978 quando la performance sonoro-corporea 12 animali, concepita per illustrare alcuni disegni di Sambin per volumi per l’infanzia esposti in mostra alla Galleria del Cavallino di Venezia[LP11] , Vale la pena qui ricordare  come avviene il passaggio al teatro. L’occasione si offre nel 1978 quando Sambin concepisce la performance 12 animali e la realizza alla Galleria del Cavallino di  Cardazzo a Venezia . La performance viene notata e viene apprezzata dalle istituzioni culturali cittadine che gli propongono di farne uno spettacolo per bambini. Qua si salda l’esperienza di arti visive con la pratica di musicista e nasce una performance interattiva (così preferisce definirla Sambin stesso) in cui i bambini giocavano e interagivano con l’artista.

 Molti spazi da occupare e da riempire. Dalla galleria al carcere alla casa del teatro.

Sambin si apre a una relazione diretta con il pubblico, entrando in una nuova dimensione di spazi, dalla galleria ai teatri, in un momento ben preciso, all’epoca della Transavanguardia. La Sala Polivalente del Centro di Video Arte di Palazzo dei Diamanti di Ferrara continua a essere una fucina di tante esperienze performative ma l’epoca spinge fuori da questi spazi. I primi lavori con il Tam sono ancora ospitati nel Centro, che diventa il luogo scenico di Armoniche (1980), Opmet (1981)

Occupiamo lo spazio teatrale per necessità, i nostri primi lavori con il Tam richiedevano uno spazio scenico, all’inizio il luogo che ci può accogliere è il teatro. Fino al 1993 la nostra è un’esperienza di tre artisti che si muovono senza un luogo preciso a Padova e la stanzialità è determinata dal rapporto con il carcere Due Palazzi. E’ quello il motivo che ci ferma. [LP12]  Fino al 1993 la nostra è un’esperienza di tre artisti nomadi che si muovono molto all’estero e che per produrre applicano il concetto di residenza ante litteram. I lavori, fino a quella data sono creati o all’interno di Festival come Micro Macro, Santarcangelo, Polverigi o presso strutture amiche, mentre a Padova non esiste per  noi un luogo in cui creare i nostri lavori. Ma nel 93 inizia il progetto teatrocarcere al Due Palazzi E’ quello il motivo che ci ferma.

 Il Teatro carcere apre una delle stagioni più fortunate e pionieristiche del cosiddetto teatro sociale in Italia, il cui livello di qualità e di umanità oltre l’arte, ampiamente riconosciuto, è stato oggetto di dibattiti, libri, incontri; il contagio con un altro artista indipendente, il videomaker Giacomo Verde, porterà a uno degli esempi-faro del videoteatro italiano, la produzione di Tutto quello che rimane. Così Sambin sintetizza, con nostalgia[LP13] , quei momenti di creazione dentro il carcere, oggi finiti:

Io e Pierangela abbiamo vissuto questa esperienza come stravolgimento dell’arte e della vita, perché all’interno del rifiuto della società abbiamo trovato un mondo, una bellezza, una forza. Avevamo trovato una giusta dimensione: quando hai a che fare con il carcere la comunicazione deve essere non colta. Per il progetto Medt’azioni abbiamo usato le tavole di Giotto dall’affresco degli Scrovegni e poi Pinocchio; si trattava di trovare degli elementi di riflessione condivisa molto chiari. Per Otello (a seguito del quale è stato realizzato VideoOtello, ndr) abbiamo cominciato portando dei film. I ragazzi hanno visto l’episodio di Pasolini con Totò, Ninetto Davoli che sono marionette, si sono sentiti coinvolti quando stanno per ammazzare Desdemona e il pubblico impedisce la morte. Da qui è partito un percorso, ci siamo rivisti Shakespeare, abbiamo parlato del personaggio del Moro, il diverso, della giustizia, ed è molto significativo l’atto conclusivo realizzato da loro: ha ragione lui o l’altro? Chi ha commesso il fatto? E parte questa euforia di volti di cui siamo tutti responsabili, non c’è, alla fine, una colpa. La cosa incredibile vissuta con loro è che hanno assunto queste figure emblematiche e se ne sono impossessati, si sono immedesimati e confondevano le storie, quella di Otello con le loro. Da un punto di vista scenico abbiamo, come spesso facciamo, negato il luogo da dove vengono fatte le riprese, giocando questo lavoro sui primissimi piani e questo sguardo in macchina che ti tira dentro. Sono percorsi di vita dentro questi volti. [LP14]

Io e Pierangela abbiamo vissuto questa esperienza di teatro fuori del teatro  come stravolgimento dell’arte e della vita, perché all’interno del rifiuto della società del carcere abbiamo trovato un mondo altro, una bellezza, una forza.che fuori non riuscivamo più a vedere. Avevamo trovato una giusta dimensione: quando hai a che fare con il carcere la comunicazione deve essere non colta. Per il progetto Medt’Azioni abbiamo usato  le tavole di Giotto dall’affresco degli Scrovegni e poi Pinocchio; Per elaborare insieme ai detenuti un progetto artistico si trattava di trovare degli elementi di riflessione condivisa molto chiari. Una volta abbiamo portato dentro riproduzioni degli  affreschi di Giotto per la Cappella Scrovegni , un’altra volta la favola di Pinocchio  Per Otello (a seguito del quale è stato realizzato VideoOtello, ndr) abbiamo cominciato portando dei film da guardare assieme. I ragazzi detenuti hanno visto l’episodio di Pasolini che cosa sono le nuvole? con Totò, e Ninetto Davoli che sono  recitano come marionette, si sono sentiti coinvolti quando stanno per ammazzare Desdemona nel film e il pubblico ribellandosi ne impedisce la morte  di Desdemona. Da qui è partito un il percorso,. Ci siamo rivisti Shakespeare, aAbbiamo parlato del personaggio del Moro, il diverso, della giustizia, ed è e a questo proposito è molto significativo l’atto conclusivo, il loro domandarsi realizzato da loro: ha ragione lui o l’altro? Chi ha commesso il fatto? E nel video parte questa euforia di volti di in cui  appare che siamo tutti egualmente responsabili, non c’è, alla fine, una colpa un unico colpevole. La cosa incredibile vissuta con loro è che hanno assunto queste figure emblematiche e se ne sono impossessati, si sono immedesimati e confondevano le storie, quella di Otello  e degli altri personaggi con le loro. Da un punto di vista scenico abbiamo, come spesso facciamo ci è capitato di fare, negato il luogo carcere da dove vengono fatte le riprese, giocando questo lavoro tutto sui primissimi piani, e è questo  sguardo in macchina che ti tira dentro. Ci sono percorsi di vita dentro questi ai loro volti.

 La stanzialità vera sarà data dalla nascita del luogo dove creare: il Teatro Maddalene a Padova, ex chiesa, che diventerà per molti la casa del teatro, officina vera di contagio artistico a diversi livelli, per chi vuol vedere o vuol fare esperienza diretta del teatro: giovani, anziani, bambini, detenuti. In questo luogo alternativo di produzione artistica nascono i progetti che si espandono per altri territori, qua vengono ospitati i detenuti per le prove e nel momento in cui escono dal carcere ci sono incontri importanti, momenti di socializzazione. Si genera una libera e ispirata circolazione di attori diversi, ospitando nuove compagnie giovani di ricerca che verranno definite la terza ondata del teatro italiano: «Il teatro Maddalene diventa il luogo dove possiamo ospitare, oltreché produrre i nostri lavori, ci sono le stagioni da programmare e quindi cerchiamo artisti che ci interessino, siamo attenti ai (alle giovani formazioni e anche alla danza) [LP15] giovani (Fanny&Alexander, Teatrino clandestino[LP16] ). Uscivano i detenuti, entravano i bambini: un’attività frenetica».


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Da tre a molti

I fondatori del Tam ricercano altre e proficue collaborazioni stabili con l’esterno. I giovani che frequentano il loro teatro e i loro corsi sono affascinati dal lavoro artistico del Tam e del Sambin pre-Tam e si crea un rapporto affiatato allievi-maestro che darà vita a nuove formazioni, nuove cellule auto-organizzate sempre legate però, alla navicella madre, Tam Teatromusica. Un passaggio generazionale in cui lo scambio di saperi genera nuove visioni e nuovi immaginari e in cui diventa fondamentale il tema del teatro come organismo plurale, come organica relazione vivente in cui l’opera è connessa sia con l’ambiente sia con un sistema sociale e culturale:

Il Tam si era allargato, proprio nell’esperienza di stanzialità nel momento in cui non siamo più i tre soci e diventa fondamentale allargare le collaborazioni e le prime figure sono Flavia Bussolotto e Cinzia Zanellato che erano state coinvolte nel lavoro con i detenuti e loro diventano attive collaboratrici rispetto alla gestione del teatro. La ricaduta artistica di questa grande apertura è l’esperienza con il carcere ma anche questa bellissima esperienza con le giovani generazioni, fondamentale rapporto con Oikos, laboratorio permanente e da lì alcuni giovani iniziano a far parte dell’esperienza artistica e nasce il collettivo Tam Tam Oikos e East Rodeo. Mi sono trovato più a mio agio con dei musicisti prestati alla dimensione teatrale, che non ad attori veri e propri, e con questo gruppo di giovani che mi hanno chiesto di lavorare, dopo aver visto Barbablù è partita questa relazione bellissima perché evidentemente, il nucleo fondante del mio lavoro è musicale e loro capivano subito, come musicisti, quello di cui avevo bisogno. In questo senso parlo di molti che va a sostituire il solo: con loro condividevo una matrice comune, era una vera scuola di scambio perché io li portavo nel mio teatro e loro nei centri sociali[LP17] .

Il Tam si era allargato, si allarga in coincidenza con la stanzialità e l’apertura del teatro proprio nell’esperienza di stanzialità nel momento in cui non siamo più i tre soci e diventa fondamentale allargare le collaborazioni e le prime figure di questo ampliamento sono Flavia (Bussolotto) e Cinzia (Zanellato) che erano state coinvolte nel lavoro con i detenuti e che ora  loro diventavano attive collaboratrici rispetto  alla per la gestione del teatro. La ricaduta artistica di questa grande apertura è oltre all’esperienza con il carcere ma anche questa la bellissima esperienza con le giovani generazioni, fondamentale rapporto con attraverso Oikos, laboratorio permanente, avviato da Pierangela nel 1996, e da lì alcuni giovani iniziano a far parte dell’esperienza artistica e nasce il collettivo Tam Tam/ Oikos e East Rodeo, tre giovani musicisti dell’area Balcanica. Mi sono trovato più a mio agio con dei musicisti prestati alla dimensione teatrale, che non  ad  con attori veri e propri, e con questo gruppo di 3 giovani  che dopo aver visto Barbablù mi hanno chiesto di lavorare , è partita questa relazione bellissima perché evidentemente,  perché il nucleo fondante del mio lavoro è musicale e loro capivano subito,   in quanto musicisti, quello di cui avevo bisogno. In questo senso parlo di molti che va a sostituire il solo:; con loro, così come era stato con Pierangela e Laurent agli inizi  condividevo una matrice comune, era  è stata una vera scuola esperienza di scambio perché  : io li portavo nel mio teatro e loro nei centri sociali.

 

Altri luoghi di contagio: verso un’ecologia (e una drammaturgia) dello spazio

Il teatro fuori dai teatri, la definizione di una drammaturgia degli spazi è un’utopia che si fa largo già dalla fine degli anni Cinquanta con gli happening di Allan Kaprow e poi negli anni Sessanta e Settanta con il Living Theatre, con il Bread and Puppet, con The Performance Group, con Peter Brook, con Jerzy Grotowsky. Verrà teorizzato da Richard Schechner il cosiddetto environmental theatre. Sua funzione è dare un significato drammaturgicamente attivo alla collocazione ambientale degli spettacoli. Per spiegarlo con le parole di Lorenzo Mango:

 Lo spazio scenico è visto come una struttura variabile, che si modifica a seconda delle condizioni dell’ambiente e modifica, a sua volta, la struttura e le altre scritture dello spettacolo. Lo spazio, nella logica dell’environment, non è un dato di fatto ma un elemento problematico. Diciamo ancora meglio che è il frutto di rapporti di relazione e di interazione: tra gli attori, tra attori e pubblico, tra le persone del pubblico tra loro, e tra gli elementi della rappresentazione, lo spazio e il pubblico. E’ il risultato di una dinamica di relazione che definisce lo spazio del teatro come spazio di rapporti (10).

Nelle opere teatrali che mettono insieme le esperienze dei giovani con gli allievi (Là on son stato io me, 2003 e Stupor mundi, 2004), si sperimenta anche l’uso degli spazi esterni, con un pubblico mobile e coinvolto in accadimenti sonori, visivi e fisici. Il cammino del teatro insieme al Tam porta a scorci, luci, passaggi, suoni e colori in cui si organizza l’architettura di un panorama. Una vera ecologia del teatro. Come ricorda Valentina Valentini: «A partire dalla performance art, lo spazio era inteso come il luogo dove si sprigionava l’energia del performer, in uno scambio tra spirito del luogo e sensibilità del soggetto; lo spettacolo è un evento che accade in risonanza e in armonia con il luogo scelto» (11).

Sambin esalta l’aspetto visuale degli spettacoli con un’immagine generata (e proiettata) live su superfici inconsuete, anche su corpi o su strumenti; ne sperimenta prima l’uso con il gruppo degli East Rodeo nei festival e nei centri sociali e da quel momento la tavola grafica e il proiettore diventano la tavolozza dell’artista multimediale. In Là on son stato io me in cui viene usata per la prima volta la pittura digitale in ambito teatrale, lo spazio determina la drammaturgia: sono i bastioni cinquecenteschi di Padova a ospitare eventi in movimento sonori, recitati e coreografati, illuminati dagli stessi spettatori con delle torce. E’ il pubblico a rendere possibile la visione dell’evento concepito per non essere stabile: tutto è mobile – a partire dai canti – e si genera una spazializzazione del suono grazie a mixer [LP18] portarti sulle spalle come zaini dagli attori/musicisti. Si tratta anche del primo spettacolo realizzato dopo la morte del padre di Sambin: è la sintesi di un passaggio di generazioni, di saperi, di memorie che contraddistinguono la produzione degli anni 2000 e ha tutta l’emozione triste di una mancanza, di una perdita e al tempo stesso di un omaggio al padre. Lo spettacolo è anche un condensato di esperienze multimediali: quando le parole di Ruzante de Il Parlamento da cui trae origine lo spettacolo scompaiono, appaiono in proiezione le immagini sul corpo di Sambin che simbolicamente porta il padre in grembo: «E’ la prima esperienza che rimette in gioco tutti in questo crogiolo di sentimenti: passato, presente, tecnologia, Ruzante. Un grumo dentro: muore mio padre, che era uno storico esperto della vita di Ruzante; lui mi parlava spesso di questo personaggio che per me era diventato una specie di nonno[LP19] ». Dall’emozione mostrata in una videoperformance del 1977, Ascolto, in cui Sambin piangeva gli anni di piombo, riproposta dai giovani artisti, al dolore della morte familiare in una struttura che va dal canto, all’addio, al pianto. Si conclude con il racconto dell’esperienza della guerra in Ruzante, recitata in dialetto pavano da Sambin: «La dimensione di attore in per me, che non ho alcuna scuola ed educazione alla recitazione, passa solo attraverso l’emozione, l’adesione totale: questo particolare rapporto con la tecnica è un atteggiamento che percorre tutto il mio lavoro, ossia la tecnica, l’imparare un linguaggio nel mio caso l’apprendimento di un linguaggio  nasce sempre dalla necessità a me estraneo per me arriva solo per necessità. Così è stato per me l’imparare a suonare, a fare un video, montare un film. Nessuno me lo  aveva ha mai insegnato. Sono stato autodidatta in tutto». [LP20]

 

Da solo a molti, da solo a nessuno.

Da solo a molti è il titolo che accomuna alcuni pezzi di teatro musicale creati nel 2004 come performances collettive dalle combinazioni musicali aperte, insieme con i giovani musicisti East Rodeo. Qua prendono vita i tableaux sonants sotto la regia di Pierangela Allegro[LP21] . Si recupera in maniera più filologica l’idea della performatività con la mobilità del pubblico che segue le azioni «come fossero a visitare una mostra», ma dove i quadri non sono altro che tableaux vivants, o per l’esattezza, tableaux sonants. Ritorna l’unione della visione con la dimensione musicale: un quadro che suona. E’ una multimedialità di natura: «Non ho mai fatto distinzione tra i mezzi utilizzati, non ho mai distinto tra immagine e suono e non ho mai considerato segni di natura diversi quelli uditivi o visivi perché si compongono in un linguaggio unico, non c’è stato il bisogno di metterli insieme, perché per me già nascevano insieme. La multimedialità è nella mia natura». Musica senza musicisti è il titolo di una delle performance più originali, dove gli strumenti sono i protagonisti di uno spettacolo che inizialmente non ha nessuno in scena, né attori né musicisti in carne ed ossa, come in un teatro di marionette o di automi. Si tratta di una creazione scenografica artigianale fatta di strumenti mossi a distanza con corde dove meccanismi elementari fanno suonare gli strumenti (il pedale della grancassa con una fune, la tastiera con fili); a poco a poco tutto viene svelato e anche gli artefici, i manovratori, ritornano nella loro postazione, diventando apparizioni di luce, superfici su cui la pittura digitale ricama semplici trame di colore.

Nello spettacolo Tutto è vivo (2006) il tema della macchina sonora e visiva dotata di vita propria e di respiro in scena ritorna in una forma più definita e completa. Ancora una volta curiosamente s’invertono i ruoli: gli strumenti fanno a meno dell’energia dei musicisti e agiscono come protagonisti: «Qua lo strumento è padrone: stanco di essere toccato, determina lui il rapporto con lo strumentista. Automi sonanti». In questo lavoro, debitore delle molteplici utopie avanguardiste del teatro senza interpreti, ovvero privato, come profetizzavano Gordon Craig e Heinrich von Kleist, dell’attore in quanto grumo di sensibilità, (14) troviamo affinità con uno sperimentatore di teatro musicale come Heiner Goebbels che ha creato con Stifter Dinge un vero prototipo di macchina teatrale autonoma. Stifters Dinge si presenta a prima vista come un aggregato, un Merzabau di disparati oggetti e materiali che risuonano (rulli, ventole, piatti) e strumenti (pianoforti disposti in verticale oppure rovesciati, aderenti a piastre di metallo), il tutto all’interno di una piattaforma che si muove avanzando su rotaie verso il pubblico. Ogni elemento ha una propria dimensione sonora. In questo spettacolo l’uomo non c’è: come annuncia il programma, si tratta di un no-man show in cui l’attore in carne ed ossa è scomparso per lasciare spazio alle macchine animate.

L’aspetto sonoro viene incrementato, nello spettacolo di Sambin, da quello visivo: gli strumenti e successivamente gli strumentisti prendono letteralmente vita dalla luce e si genera un quadro astratto live, vivo appunto. Si tratta di un primo lavoro sui contorni, sul tratto veloce che fissa una forma grazie alla tavoletta grafica: Sambin illumina gli strumenti e alla fine il disegno ruba la realtà grazie alla pittura digitale. Per Sambin questo progetto con gli East Rodeo[LP22] , così come DeForma è il raggiungimento di qualcosa a lungo ricercato, ovvero la perfetta sintesi d’immagine e suono: «Con questo lavoro dipingere e suonare sono sullo stesso livello e si contemplano[LP23]  a vicenda». In DeForma i corpi dei performer-musicisti che simulano forme geometriche poliedriche vengono tracciati con la grafica digitale da Sambin e reinventati in diretta. Il segno realizzato -che ricorda molto la modalità di creazione contemporanea disegno a carboncino/film di William Kentridge per i suoi Drawings for projection (1989-2003) – viene proiettato sopra di loro a definirne vagamente dei contorni; ma una volta sgusciato via l’uomo, tutto quello che rimane sono la pittura, i colori e la luce proiettati nel fondale.

 L’apice della dimensione molti: Stupor mundi (2004)

«Il luogo fuori dai teatri incarna il raggiungimento di un ideale molti che dà forza all’idea di contagio: uscire dalla consuetudine e arrivare a un punto d’incontro tra sperimentazione e tradizione».

Ancora una volta c’è uno spazio a determinare la grammatica sonora, performativa e visiva. Una rivitalizzazione di un luogo che è il castello Maniace di Ortigia in Sicilia costruito da Federico II, usato per l’occasione soprattutto nella parte delle fortificazioni che si spingono verso il mare. Lo spettacolo è un vero lavoro site specific che si realizza dopo un sopralluogo, ricerche spaziali e sonore e studi storici da parte di Sambin e dell’intero gruppo ormai consolidato. Le suggestioni drammaturgiche e le soluzioni tecnoteatrali sono date dal luogo stesso. La volontà di confrontarsi con le nuove generazioni d’artisti, con altri spazi e con la versatilità dei mezzi digitali porta a un progetto curato nei dettagli. Il pubblico, itinerante per otto stazioni lungo gli spalti, dall’alto delle balaustre vedeva frammenti video ispirati all’iconografia medioevale e all’imperatore Federico II di Svevia, ritagliati su alte bandiere portate in spalla dai musicisti, oppure videoproiezioni aderenti alle superfici architettoniche, ai pavimenti. Tutti questi elementi, compreso il quadro di Caravaggio Il seppellimento di Santa Lucia, contribuiscono alla costruzione di un’originale scrittura polifonica, in una possibile traduzione scenica di stimoli musicali legati alla Sicilia, ai racconti popolari di Colapesce (15), alla tradizione del cunto, alla ricerca. Quanto agli spettatori, questi si trovavano a vivere una strana esperienza senza codici di riferimento, coinvolti in suggestioni d’immagini e suoni organizzati in una drammaturgia a stazioni, come in una sorta di processione, come un mistero medioevale. Una dimensione concettuale ed emotiva insieme:

In occasione di Ortigia Festival ci viene data una commissione artistica, si trattava di fare i conti con un luogo e con una dimensione di attenzione a una comunicazione popolare. È un’opera che nasce proprio per quel luogo, suggerita da quel luogo; alcune idee partono vedendo situazioni architettoniche, per esempio in un pezzo che si chiama Pozzo l’azione viene vista dal pubblico da un piano rialzato perché in basso volevo che si vedesse il cielo come in un pozzo riflesso; la prima suggestione viene dall’architettura poi dalle figure storiche, per esempio dal genio di Federico II. Altro elemento di suggestione è stato il quadro di Caravaggio che si trova nel museo di Ortigia, Il seppellimento di santa Lucia. C’è questo episodio per cui Santa Lucia viene decollata e Caravaggio sembra che in un primo momento l’avesse dipinta con la testa staccata ma che poi la committenza gli fece riattaccare la testa e noi abbiamo lavorato anche su questo aspetto. [LP24]

In Stupor Mundi si raccolgono i frutti del lavoro collettivo precedente di Sambin con il Tam allargato al collettivo dei giovani, la riuscita spazializzazione dei suoni in Là on son stato io me, il tema dello spettacolo itinerante, la non distinzione dei ruoli all’interno del gruppo, pur numeroso:

Non c’è un apparato di tecnici o di artisti separati gli uni dagli altri, ciascuno diventa all’occorrenza tecnico, portatore di luci; è una anti-divisione di ruoli e questo è eredità di una visione artistica: nessun artista delega a un altro. Quindi siamo approdati a una gestione collettiva e non gerarchica di questa macchina scenica, a un lavoro d’arte comune, prima avevamo proposto di farlo ma ancora non erano preparati a metterlo in pratica. Avevo già chiesto ai ragazzi di partecipare alla creazione in Da solo a molti, avevo lasciato a chiunque la possibilità di autore. Qua lo scambio maestro-allievo è maturato e quindi si è arrivati a una grande condivisione. [LP25]

Di straordinaria forza il momento del racconto visuale del martirio della Santa realizzato contemporaneamente, dal punto di vista scenico, alla pittura e al video: dalla visione del getto rosso del sangue che sgorga dal collo di Santa Lucia nel momento della decollazione inizia la pittura vera, gestuale e materica di Sambin che, attraverso un escamotage video, va a mostrare pian piano il vero quadro di Caravaggio. Questa, la puntuale descrizione di Fernando Marchiori: «La pittura di scena si fa davanti ai nostri occhi: la pittura si fa scena. Ma qui le immagini digitali interagiscono, completano, contraddicono i segni tracciati sulla tela» (16). Così Sambin: «Mentre dipingevo queste tele cariche di violenza c’era appena stata la strage nelle scuole in Cecenia». Il ricordo del sangue antico racconta quello presente. Come sempre ha fatto il teatro.

 

Note

  1.Il presente saggio nasce da un lungo dialogo con Michele Sambin con il quale abbiamo costruito, di comune accordo, un percorso storico limitato ad alcune opere e contesti specifici, per declinare al meglio la tematica del contagio che ci sembrava essere la parola chiave per mostrare gli inizi, gli sviluppi e l’attuale teatro di Sambin e del Tam Teatromusica. Ogni frase di Sambin citata, laddove non indicato altrimenti, è da riferirsi a questa conversazione. Per la teatrografia e i credits degli spettacoli, rimandiamo al volume Ferdinando Marchiori (a cura di), Megaloop. L’arte scenica del TamTeatromusica, Titivillus, Corazzano 2010.

2. Idealmente questo saggio è dedicato alla memoria di Paolo Rosa, la cui arte elettronica grondante umanità resterà un caposaldo della ricerca artistica tout court di questi ultimi trent’anni. Il saggio parte proprio dalla riflessione di Rosa sull’artista plurale all’interno del volume scritto a quattro mani con Andrea Balzola, L’arte fuori di sé, Milano, Feltrinelli, 2011.

  3. Dobbiamo a Laura Leuzzi e Valentino Catricalà la più recente cronologia critica sulla videoarte in Italia, risultato della collaborazione tra il Dipartimento Comunicazione e Spettacolo dell’Università di Roma Tre, Regione Lazio e il progetto Rewind Italia coordinato da Stephen Partridge del Duncan of Jordanstone Colleg of Art & Design dell’Università di Dundee (U.K). La tavola cronologica è presente in M.M.Gazzano, Kinema. Dal film alle arti elettroniche, andata e ritorno, Roma, Exorma 2013.

  4. Intervista a Sambin in A.M.Monteverdi, Partiture, in Simonetta Cargioli (a cura di), Istantanee, Catalogo Invideo 2003, Milano, Charta 2003, pag. 28

  5. Sul loro lavoro vedi anche V.Valentini (a cura di), Le pratiche del video, Roma, Bulzoni 2003.

  6. S. Cargioli, Introduzione a id. (a cura di),  Le arti del video, Pisa, ETS , 2004, pag. 15, corsivi nel testo

7. Vedi B. Di Marino, Interferenze dello sguardo. Sperimentazione audiovisiva tra analogico e digitale, 2002. Ed inoltre M. Rush, New media in late 20th century art, Londra, Thames & Hudson, 1999.

8.  Su Masbedo vedi A.M.Monteverdi, Nuovi media, nuovo teatro, Milano, Franco Angeli, 2011. Ed inoltre gli articoli: A.M.Monteverdi, Per un teatro tecnologico internazionale, “Hystrio”, febbraio 2011;

  9. Citiamo come riferimento bibliografico il volume di M. De Marinis, In cerca dell’attore. Bilancio del Novecento teatrale, Roma, Bulzoni, 1999 e F. Cruciani, Lo spazio del teatro, Bari, Laterza, 1993.

10. L. Mango, La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento, Roma, Bulzoni, 2003, pag. 189

11.Il riferimento è ai saggi di Bonnie Marranca che ha letto il teatro di Wilson alla luce di una ecologia del teatro: «Nei mondi teatrali che Wilson inventa, la sua drammaturgia può essere costruita più estesamente come ecologia. Egli sceglie ogni specie possibile di testi e immagini dall’archivio del mondo, poi rappresenta la loro fecondità e adattabilità a nuovi ambienti. I rapporti in questi mondi sono in gran parte una quetsione di associazione visiva. Il teatro di Wilson immagina un mondo in cui è possibile comprendere che un sistema culturale non può essere separato da un ecosistema». B. Marranca, Robert Wilson e l’idea di archivio. Drammaturgia come ecologia, in B. Marranca, American performance 1975-2005 (a cura di V.Valentini), Roma, Bulzoni, 2006.

12. Ivi, pag III

 13. Si tratta di Musica senza musicisti, Natura morta bionda, Tastiera a quattro mani, Squarcione, Violon d’Ingres, Se San Sebastiano sapesse (vent’anni dopo).

  14. La bibliografia sulle marionette è sterminata; ci piace citare però, tra tutti il puntuale saggio di Concetta D’Angeli, Oggetti perturbanti: le marionette. Dalla Festa delle Marie a Kantor in A.Monteverdi, O.Ponte di Pino (a cura di), Il meglio di ateatro, Milano, Il principe costante, 2004.

  15. Nella tradizione popolare siciliana Nicola (Cola di Messina) era figlio di un pescatore, soprannominato Colapesce per la sua abilità nel muoversi in acqua; l’imperatore Federico II di Svevia decise di metterlo alla prova: il re si recò al largo a bordo di un’imbarcazione e buttarono in acqua una coppa che venne subito recuperata da Colapesce. Il re gettò allora la sua corona in un luogo più profondo e Colapesce riuscì nuovamente nell’impresa. La terza volta il re mise alla prova Cola gettando un anello in un posto ancora più profondo ed in quell’occasione Colapesce non riemerse più.

 16.F.Marchiori (a cura di), La traccia luminosa del performer, in id. (a cura di) Megaloop. L’arte scenica del Tam Teatromusica, cit.

 

 

 

Michele Sambin: dalle videoperformance musicali al Tam Teatromusica
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Pubblicato sul Catalogo Invideo 2003 e su A.M.Monteverdi, A.Balzola  Le arti multimediali digitali,Garzanti 2004 e on line su Interactive-performance.it

 “Tutto ha inizio dal binomio immagine-suono. E un artista singolo che lavora su questi due elementi. Gli strumenti che usavo negli anni Settanta erano la pellicola, prima Super Otto poi 16 mm, perché lì immagine e suono erano inscindibili e interdipendenti, poi il video. Partire per questa utopica ricerca di costituzione di un linguaggio unico che comprendesse segni visivi e segni sonori”.

Così Michele Sambin racconta oggi del suo esordio artistico sotto il segno della pittura, del cinema, del videotape d’arte e di una performatività video e musicale, solitaria. Dopo un periodo di sperimentazione filmica testimoniato da Laguna, Blud’acqua, Tob&Lia(1968-1976), che lo colloca nel novero dei registi del cinema d’artista insieme ad autori come Andrea Granchi, Sylvano Bussotti, Gianfranco Baruchello, Ugo La Pietra, Sambin si dedica al “videotape creativo” (1974).

Guardando alle storiche soluzioni di “composizione globale” e ai pittori-cineasti della prima e seconda avanguardia (Léger, Richter, Fischinger, Ray, Moholy-Nagy), ai registi indipendenti e sperimentali(Warhol, Brakhage, Snow), ai concerti Fluxus, alle esperienze americane del Black Mountain College di Cage e c., ai dispositivi video di ambito concettuale (Graham, Campus, Nauman), alle opere-evento della performance art, Sambin mette in scena la tematica principale delle sue opere: il tempo:

Quando uno cerca di mettere insieme la pittura con la musica subito scatta la dimensione temporale e su questo tema troviamo le prime esperienze del cinema sperimentale: Brakhage, Michel Snow e ancora prima il canadese Mac Laren, che disegnava il suono sulla pellicola. E’ un concetto importante per me, questo del tempo, offrire una visione che si sviluppi nel tempo. Io partivo come artista visivo, e il primo conflitto è quello che si crea tra visione – la pittura – che ha un tempo non determinato e la musica che vive solo nel tempo”.

E’ all’interno dell’Università Internazionale dell’Arte di Venezia dove era stato chiamato a tenere dei laboratori di cinema e forme plastiche (1972-1975) che per Sambin avviene il passaggio dalla pellicola al videonastro, al nastro magnetico: “Fu un momento di alta formazione, c’erano architetti come Buckminster Fuller (1) che davano un taglio trasversale alle categorie artistiche”. E’ incaricato di acquistare un’attrezzatura video e di condurre le prime sperimentazioni con il nuovo mezzo:

Era un Akai, l’antesignana del primo Sony Portapack, e aveva ancora un nastro ¼’’. Ed è stato per me un’esplosione di creatività. Con il 16 mm tre minuti di girato erano molto costosi e lunghissimi i tempi di attesa tra il fare e il vedere. Cominciava ad essere interessante anche il problema del rapporto tra video e teatro perché nelle ultime situazioni cinematografiche non presentavo più solo pellicole per la proiezione ma sonorizzavo il film dal vivo; diventava fondamentale la relazione vivente, lavoravo con l’immagine in tempo reale. L’immagine diventava uno stimolo per creare suoni”.

 Le prime esperienze di videorecording e di videoinstallazioni vanno in direzione di un naturale sviluppo performativo, tendendo sempre più ad esplodere oltre la cornice-schermo-galleria e a diventare puro evento, accadimento in tempo reale, e per il pubblico, “condizione di esperienza” (Duguet), un insediarsi direttamente all’interno del flusso “presente-continuo” delle immagini. In Ripercorrersi(1978, Prod. Centro video Palazzo dei Diamanti, Ferrara) protagonista è il pubblico che percorre uno stretto spazio che conduce a un luogo dove sono visibili su monitor, attraverso il sistema di video a loop e un gioco di ritardi di visione, rimandi ciclici del suo corpo.

 

Dice Sambin:

“Le videoinstallazioni sono un elemento fondamentale del mio passaggio al teatro: il pubblico assiste a un processo che non è solo elettronico ma anche fisico”.

Sulla performatività implicita delle installazioni video Anne Marie Duguet osservava:

«L’installazione è realizzata per essere esplorata dal visitatore che, facendo ciò, non solo ne costruisce progressivamente la percezione, ma anche mette in gioco quella degli altri visitatori. L’esistenza stessa di certe opere (….) esige un’attività particolare da parte del visitatore per potersi manifestare pienamente. Questi esegue dunque una performance che diviene spettacolo per gli altri. Bisogna insistere sulla temporalità specifica di queste opere che sono innanzitutto dei processi, che esistono solamente nella durata della loro esperienza, nel qui e ora della loro attualizzazione. Esse appartengono ad un’arte della presentazione e non di rappresentazione.» (2)

Spartito per Violoncello è una performance musicale del 1974 in cui il videotape viene utilizzato come parte integrante della composizione. Anelli e chiodi gettati sul tavolo e il movimento stesso della telecamera che riprende gli oggetti sono tradotti in linguaggio sonoro; dietro l’evento, Cage e la musica indeterminata. La video-calligrafia come spartito verrà usata in molte performance musicali tra cui Looking for listening (1977, Prod. Asac-La Biennale di Venezia). L’evento è, evidentemente, irripetibile e non prevedibile:

“In Spartito per violoncello usavo la telecamera come strumento musicale dei tempi di visione: la scuotevo, la muovevo e questo determinava un input che l’esecutore – che ero io stesso – decodificava in termini musicali. C’era un po’ di Léger, un po’ Anemic cinema. Partivo dall’idea di usare il monitor come spartito.”

Esiste anche una videoregistrazione che documenta la performance; come per molte altre videocreazioni di Sambin, più che supporto per la memoria si tratta di un’ulteriore estensione-prolungamento temporale dell’opera stessa; l’operatore crea movimenti inattesi, zoomate che esplorano dentro il monitor: in questa condivisione paritetica della dimensione della “pura durata” di corpo e macchina, e in questo proliferare di processi attivati dalla musica e dal videotape, il performer diventa contestualmente al concerto, materiale per la ripresa. Il video è il primo risultato dell’incontro con Paolo Cardazzo della Galleria del Cavallino di Venezia, con il quale Sambin stabilirà una relazione duratura di stima reciproca. La Galleria nata nel 1972 inizia infatti, a documentare le performance ospitate nello spazio espositivo, anche sulla scia dell’imponente lavoro di registrazione di Luciano Giaccari a Varese, che nello stesso periodo teorizzava le diverse tipologie videodocumentative. (3)

Sambin sarà il primo artista a sperimentare a partire dal 1976, declinando in seguito l’operazione in moltissime varianti, il videoloop, il video a bobina aperta (open reel). E’ un procedimento circolare generato dalla semplice unione delle estremità dei due nastri di registrazione e di lettura in cui l’immagine e il suono vengono ripetuti a ciclo. (4) L’artista registra ad intervalli, suoni e gesti; il nastro scorre, va alla bobina di lettura che rimanda l’immagine con un breve scarto al monitor; l’artista diventa, l’interlocutore del suo “se stesso elettronico” con cui affronta un dialogo infinito. Prendendo a prestito termini cari al Marshall Mac Luhan de The Gutemberg Galaxy (1962) e Understanding Media (1964), il video diventa “protesi”, prolungamento di una sua funzione:

Era una dimensione concettuale, più che di attenzione all’immagine perché il senso di questa operazione era quello di usare il video come possibilità di estensione espressiva di un corpo. Parlavo con me stesso, suonavo con me stesso, mi intervistavo, facevo cose che senza questi supporti non potevo fare. Il video come amplificazione, come protesi, è da intendere come strumento che non ferma un processo, ma che lo amplifica, lo moltiplica”. (5)

Nelle performance e nelle video installazioni realizzate con il videoloop – tra cui Duo, per un esecutore solo (1979); Anche le mani invecchiano(1980), Sax soprano (1980) – l’artista continua all’infinito a suonare, parlare e a (cor)rispondersi, vocalmente, musicalmente e visualmente. L’artista dà un’efficace spiegazione (e dimostrazione pratica) in Vtr and I (1978) in cui viene isolato e investigato questo specifico funzionamento autoriflettente del Video Tape Recorder. Si tratta di una vera esposizione autoanalitica del proprio lavoro d’artista, un’”operazione video-linguistica” perché il dispositivo video “è tematizzato e preso come oggetto di indagine”. (6)

L’azione performativa è della macchina, prima ancora che del corpo: il gesto mimico-facciale e sonoro ripetuto ad intervalli davanti a una telecamera, attraverso un videorecording e un feedback causato dal posizionamento della telecamera davanti al televisore, innesca un meccanismo a catena. Il corpo incontra se stesso nello spazio del monitor e si mescola alle forme astratte autogeneratesi dal video, dando vita a un effetto di sovrimpressione delle immagini con il loop e ad una loro rinascita (e metamorfosi) ciclica. La riproducibilità è (ossimoricamente) generativa. Dall’unicità della perfomance alla performatività dei media di riproduzione.
Usando il tempo non nella sua sequenzialità-consequenzialità ma con continui détournement e sfasamenti, manipolandolo, ritoccandolo, invertendolo come fosse una materia concreta e quasi plasmabile, scindendo il suono dall’immagine corrispondente (come in Echoes, 1976, Autoritratto per 4 telecamere e 4 voci, 1977 e come nel progetto di video installazione per violoncello sospeso in moto perpetuo e apparecchiature audio e video From right to left, 1981) Sambin produce un decisivo e significativo spiazzamento percettivo rispetto all’esperienza dello spazio-tempo quotidiano. Questa dimensione articolata del tempo, soggettivizzata e personalizzata, sembra suggerire proprio il valore del tempo come conquista attiva e individuale:

“Di solito la familiarità con un mondo ‘perfettamente doppiato’ in cui ogni aspetto visivo è necessariamente collegato ad un aspetto sonoro (anche il silenzio è suono) non ci fa notare questa spontanea connessione, le cose così come stanno ci sembrano naturali. Spezzare questo legame significa ottenere dei modi di percepire meno consueti, in cui ad ogni fatto non corrisponde necessariamente ciò che di solito gli viene associato”. (7)

Il videoloop viene usato in seguito, per Il tempo consuma (1979), l’opera più tautologica e concettuale di Sambin. Un “metronomo umano” (il corpo dell’artista oscillante a intervalli regolari) è ripreso da un video e trasmesso ad un monitor. Il performer scandisce la frase: “Il tempo consuma le immagini, il tempo consuma i suoni” che genera, nel processo ciclico di registrazione-cancellazione-registrazione, una grande quantità di immagini di sé ed un effettivo deterioramento fisico del nastro e di conseguenza, del suono e dell’immagine incisi. Nata come opera video è diventata videoperformance e successivamente installazione per tre videoregistratori sincronizzati, commissionata per la manifestazione milanese Camere incantate curata da Vittorio Fagone (1980). ll passaggio dal video al teatro avviene con il Tam Teatromusica, fondato da Sambin a Padova all’inizio degli anni Ottanta insieme con Pierangela Allegro e Laurent Dupont, e in un primo momento i lavori teatrali vengono ancora presentati nelle Gallerie d’arte frequentate da Sambin come videoartista e come performer:

“Il mio passare al teatro è dovuto – grazie o purtroppo – alla Transavanguardia di Achille Bonito Oliva. In quegli anni c’era una grande esplosione di performatività, anni che ho vissuto come una gioia degli intrecci delle arti, di incontri con Laurie Anderson, Marina Abramovic, personaggi che hanno tracciato una linea di non pittura, di non scultura, lontani dal mercato. La Transavanguardia spezza queste utopie degli anni Settanta perché mettevano in crisi il sistema dell’arte (i video non si potevano vendere). Bonito Oliva riporta l’arte alla disciplina: pittura e scultura. E soprattutto la restituisce al mercato».

L’orientamento estetico ispirato al rapporto immagine-suono per le videoinstallazioni e le performance e l’esperienza di musicista elettronico di Sambin si riveleranno fondamentali nella definizione della nuova composizione scenica degli anni Ottanta che, non rinunciando alla musicalità e alle tecnologie audiovisive, privilegia ideologicamente come già nelle performance degli anni Settanta, “il tempo reale e la condivisione di procedimento, l’arte dal vivo e il rapporto diretto con lo spettatore”.

Il primo spettacolo si intitola Armoniche (1980); all’immagine e al suono si unisce il gesto, in un rapporto reciproco “fluido”, “armonico”. Anche Opmet (1982) prevede l’uso di video in scena che trasformano le azioni dei performer “dentro e fuori dal Cronos o tempo universale” mentre in Lupus et agnus (1988) è lo spettatore a scegliere se assistere allo spettacolo attraverso i monitor oppure attraverso un percorso frammentato tra le azioni degli artisti nei diversi spazi. Il progetto di teatro-carcere apre una delle più fortunate stagioni del Tam Teatromusica che si conquista sul campo una propria riconoscibilità e autoralità. MeditAzioni è il progetto biennale che ha permesso di realizzare laboratori coi detenuti, spettacoli teatrali, un libro-diario della Allegro e l’opera video Tutto quello che rimane insieme con Giacomo Verde. Se il video prima era estensione del corpo dell’artista, qui diventa abbattimento virtuale di una separazione:

In carcere il video diventa fondamentale. Lo avevo abbandonato perché pensavo ‘Parla solo con se stesso, non mi interessa più’. Quando i detenuti non potevano uscire perché il magistrato non gli aveva dato il permesso, lo spettacolo era stato già programmato e la gente li aspettava fuori, ho preso una telecamera e ho chiesto loro: ‘Dite alla telecamera quello che direste se ci fosse il pubblico’”.

Il video diventa quindi strumento di vitale importanza per il teatro che, nell’impossibilità di una “diretta” qui e ora, è costretto a darsi ai propri interlocutori esterni, in “differita” e a distanza. E’ alla qualità di riproducibilità del video che è affidato il compito di trasmettere quel messaggio teatrale oltre il teatro secondo il Tam: “Attraverso l’arte,” scrive Pierangela Allegro, “la nostra religione, si può arrivare al cuore degli uomini e attraverso la condivisione (che non vuol dire tolleranza) si possono creare crepe insanabili nel muro dell’indifferenza”.

NOTE

1 Buckminster Fuller: scienziato, architetto, disegnatore, inventore della cupola geodesica. Le sue teorie tendono a modificare la tecnologia per migliorare le condizioni sociali. Molto seguito dai giovani nordamericani e dai pionieri della televisione alternativa”, da R. Faenza, Senza chiedere il permesso. Come rivoluzionare l’informazione, Milano, Feltrinelli, 1973. Rimando al libro di Faenza anche per le caratteristiche tecniche relative ai primi VTR.
2. Anne-Marie Duguet, Installazioni video e interattive. Definizioni e condizioni di esistenza, in Visibilità zero, a cura di V. Valentini, Graffiti, 1997, p.14. Sui dispositivi installattivi video vedi S.Cargioli, Sensi che vedono. Introduzione all’arte della videoinstallazione, Pisa, Nistri-Lischi, 2002.
3. Sulla Galleria del Cavallino vedi B. Di Marino, Elettroshock, 30 anni di video in Italia, a cura di B. Di Marino e L. Nicoli, Roma, Castelvecchi, 2001. Nel 1972 Giaccari scriveva la Classificazione dei metodi di impiego del videotape in arte,introducendo per la prima volta la distinzione tra “ video diretto” (caldo, creativo) e “video mediato” (freddo, documentativo). Sulla classificazione: L. Giaccari, Dalle origini della videodocumentazione al museo elettronico inElettroshock, cit., pp. 37-40.
4. Con il videoloop Sambin non intende tanto la mise en abîme del feedback visivo quanto la bande sans fin. Il nastro di registrazione video immagazzina immagini che passano al nastro di lettura con un intervallo di tempo pari alla lunghezza dello scorrimento elicoidale tra le due bobine. Il procedimento artistico rientrerebbe sia in quella categoria definita da Mario Costa dei “videoriporti”, in cui l’artista “opera per o con il video” che in quella della “videoperformance”, in cui il dispositivo video “entra a far parte, come uno specifico insostituibile, di un’azione-operazione”. (M.Costa, L’estetica dei media. Avanguardia e tecnologia, Milano, Castelvecchi, 1999, p.254-255).
5.Sambin fa riferimento sia a Io mi chiamo Michele e tu?, che alla Autointervistainserite nella video installazione Il tempo consuma per Camere incantate (Milano, 1980).
6.M.Costa, L’estetica dei media, cit.,p.255.
7.M. Sambin, Testo inedito datato 17-9-1977.Sul significato politico e sociale del tempo nel video ha riflettuto il filosofo Lazzarato, passando attraverso Marx, Bergson e Paik: «Le tecnologie del tempo ci liberano dalla percezione naturale, dalle sue illusioni e dal suo antropocentrismo e ci fanno entrare in un’altra temporalità. Esse aboliscono la subordinazione del tempo al movimento e, di conseguenza, ci permettono un’esperienza diretta del tempo(…). L’istante è in questo caso, un divenire che, invece di essere incastrato tra passato e futuro, diventa germinativo, produttore di altre coordinate ontologiche» (M. Lazzarato,Videofilosofia. La percezione del tempo nel postfordismo, Manifesto libri Roma).