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ARP | AREA RICERCA PROGRESSIVA SET OPERA by N!03
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ARP | AREA RICERCA PROGRESSIVA

Progettazione e realizzazione di N!03 [ennezerotre]
A cura di Fabia Molteni, Cinzia Rizzo, Franco Rolle
Musiche di Riccardo Castaldi ispirate all’aria Vissi d’arte tratta dall’opera Tosca di G. Puccini
Montaggio video Mara Colombo#arearicercaprogressiva
@Studio_Azzurro
c/o Fabbrica del Vapore
via G. C. Procaccini 4, Milano

Orari di apertura 
Lunedì – Venerdì 10.30 – 19.00
(citofonare “Studio Azzurro”)
Sabato 10.30 – 19.00
Domenica 16.00 – 19.00

Inaugurazione 22 settembre 2016, ore 18.30

Set|Opera è una videoinstallazione di N!03 che prende corpo da un precedente lavoro, Design|Opera, incentrato sul concetto di connessione tra cose e cose, tra persone e persone, tra persone e cose, concepito per esporre gli oggetti di design selezionati per l’Adi Design Index.

Anche in Set|Opera il punto focale è il valore dato alle relazioni. In questo caso però “le cose” non sono oggetti di design ma oggetti comuni, appartenenti a persone che sono, sono state, o potrebbero essere in rapporto tra loro per il fatto di aver frequentato uno stesso luogo in un determinato tempo. Così, in occasione della mostra sul percorso artistico di Studio Azzurro, si è pensato di rendere visibile una sorta di “archivio delle relazioni” tra persone che hanno vissuto un’esperienza condivisa. Set|Opera è infatti, un progetto partecipativo in cui si chiede alle persone che abbiamo conosciuto in Studio Azzurro di scegliere un oggetto attraverso cui autorappresentarsi. Una mappa delle connessioni si disegna tra gli oggetti, svelando legami, vicinanze, contaminazioni. La luce delle proiezioni investe dall’alto gli oggetti-simbolo, disposti lungo uno spazio rettilineo. I grafismi del video animano gli oggetti, modificandone l’aspetto nel tempo.

 

#arearicercaprogressiva

Nel 2016 Studio Azzurro ha portato in mostra a Palazzo Reale trentacinque anni di ricerca artistica. In concomitanza con l’esposizione retro-prospettiva di Palazzo Reale (Milano), ha colto l’occasione per ridare slancio al mai sopito interesse per esplorare e incentivare gli orizzonti della ricerca di artisti più giovani. È stata così avviata una sperimentazione nella sede dello Studio, alla Fabbrica del Vapore, negli spazi dove si è a lungo allestita la sala di posa. Spazi che, in alcune occasioni, si sono trasformati in finestre sul lavoro di Studio Azzurro, come è accaduto a settembre del 2015, quando, per il festival Contaminafro, lo Studio realizzò un intero percorso espositivo culminante in un ambiente sensibile.

Da aprile 2016 questo spazio si è aperto al pubblico e fino a dicembre propone una rassegna di opere realizzate dai collaboratori storici di Studio Azzurro: Riccardo Apuzzo, Base 2, Giuseppe Baresi, camerAnebbia, Dissòi Lògoi e Antonio Augugliaro, Elisa Giardina Papa, Karmachina, Chiara Ligi – Martina Rosa – Micol Riva – Silvia Pellizzari, Chiara Longo, N!03, Orf Quarenghi – Tommaso Leddi, Davide Sgalippa, Luca Scarzella – Vertov.

Per il 2017 si intende sviluppare un progetto curatoriale per il quale è in corso la raccolta di proposte per la nuova programmazione.

22 settembre – 2 ottobre 2016

N!03 [ennezerotre]

set | Opera, videoinstallazione interattiva

11 – 23 ottobre 2016

Elisa Giardina Papa

Adattamento dell’installazione When The Towel Drops Vol 1 I Italy

26 ottobre – 6 novembre

camerAnebbia

Fontana; I modelli matematici, videoinstallazioni interattive

10 – 20 novembre

Chiara Ligi, Tommaso Leddi, Silvia Pellizzari, Micol Riva, Martina Rosa

Milano, Sinfonia di una città che cambia, videoinstallazione

18 dicembre

in collaborazione con CRT Milano, al Teatro dell’Arte (La Triennale)

Karmachina
Codex Serapinianus, videoinstallazione con performance

TITANIA la pellicola della pellicola della pellicola. Un lavoro inedito di Giuseppe Baresi, 8 giugno ore 19
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TITANIA
la pellicola della pellicola della pellicola

un lavoro inedito di Giuseppe Baresi

8 giugno
ore 19:00

@Studio_Azzurro
c/o Fabbrica del Vapore

8_19 giugno 2016
15:00_19:00


Mercoledì 8 giugno lo spazio Area Ricerca Progressiva invita il pubblico all’inaugurazione di TITANIA, esito della ricerca più recente di Giuseppe Baresi.

TITANIA _ la pellicola della pellicola della pellicola
Installazione con 3 carousel 4x4cm, 2 carousel 35 mm, 1 videoproiettore

TITANIA è un lavoro inedito di Giuseppe Baresi, che attinge ad un archivio personale di circa 400 code di film s8, conservate per decine di anni in una scatola di metallo.

«Volevo ingrandire questi minuscoli residui di pellicola per dare un’esistenza a dei frammenti spesso anonimi, entrati in modo casuale fra i miei materiali, ma anche a miei fotogrammi estrapolati in modo arbitrario dal laboratorio.
Infatti, ogni volta che ricevevo i miei film sviluppati dal laboratorio per lo sviluppo delle pellicole impressionate, ero colpito dalla presenza nelle buste gialle Kodachrome di una coda contenente a un’estremità tre-quattro fotogrammi e un numero stampato a caldo al centro (tipo: <^C7439, <^X3663,<^F4790), mentre all’altra estremità c’erano sempre altri due fotogrammi, spesso “misteriosi” perché appartenenti a un’altra bobina, a volte mia e altre volte non mia, ma girata da un’altra persona in un luogo non identificato del mondo.
Ho cercato una tecnica che permettesse da un lato un forte ingrandimento di questi frammenti “trovati”, dall’altro una proiezione senza operare alcuna post-produzione o “digitalizzazione”.
Questi frammenti spesso presentano buchi, oppure fotogrammi trasparenti e rigature che ho conservato e incluso nella proiezione.
Per gli ingrandimenti ho utilizzato una macchina fotografica Rolleiflex 6×6 del 1966, dotata di soffietto e lenti macro.
Fra le immagini che proietto, c’è anche una serie che non è composta da diapositive fotografiche, ma da elaborazioni dirette su acetato con interventi di colore, insieme a estratti frammentari da un testo intitolato Motion picture film processing.
Il ritrovamento fortunato di un numero sufficiente di telai 4×4 con vetrini, di marca “Titania”, ha reso possibili le diverse composizioni.
TITANIA è un lavoro che restituisce tempo e luce a fotogrammi “orfani” che non hanno trovato posto in nessuna bobina, ancor prima di un eventuale montaggio o di una possibile collocazione di tipo archivistico.
Soprattutto, è una composizione ottenuta con tecniche che richiedono necessariamente una lavorazione manuale, assolutamente pre-digitale e fortemente legata al medium cine-fotografico.»
Giuseppe Baresi, maggio 2016

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#arearicercaprogressiva
In concomitanza con la mostra inaugurata a Palazzo Reale il 9 aprile, Studio Azzurro apre i suoi spazi al pubblico, mettendo a disposizione un’area espositiva nello spazio adiacente alla sua sede, presso la Fabbrica del Vapore. Area Ricerca Progressiva – ARP offre al pubblico una selezione di opere di artisti che si sono formati e hanno a lungo collaborato con Studio Azzurro. Si susseguiranno istallazioni, documentari, film e performance per una prima programmazione che si concluderà a settembre.

TEATRO MULTIMEDIALE. Dall’opera d’arte totale al cyber teatro. Saggio di AMM (2005)
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(pubblicato su Encyclomedia, 2005)

 Le stesse forme solide, sotto l’occhio dell’attore, un vero e proprio mago, potranno muoversi, cambiare, animarsi, vivere insomma su tutti i piani del teatro ed in tutti i sensi. Ma che mi sia ancora permesso di immaginare adesso lo spettatore futuro in una gabbia di plexiglass con due busti e due volti come i personaggi delle tele cubiste di Picasso. Circondato da suoni, da luci, da colori, da forme, da ombre, sarà sensibile, e con tutti i suoi sensi, a tutte le moltitudini di combinazioni, di armonie, di ritmi, di motivi melodici, sensibile a tutti i punti, rette, curve, angoli conici, linee visive, uditive, statiche, che si svolgono nel magnifico e straordinario caleidoscopio teatrale….. Per il momento, tranquillizziamoci, non abbiamo che uno stomaco ed un cervello. Ma tutto è possibile. Poliéri

 Digitale significa Teatro.

 Le caratteristiche delle tecnologie multimediali digitali stanno delineando nuovi scenari economici, sociali, cognitivi e linguistici: scrittura e lettura sempre più ipermedializzati stanno modificando secondo Thomas Maldonado il processo stesso della memoria umana mentre Lev Manovich afferma che il sistema informatico sta influenzando il sistema culturale nel suo complesso.

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Il teatro non risulta impermeabile a questo divenire multimediale della società sia pur con notevoli resistenze: le nuove tecnologie digitali trasformano radicalmente tutte le fasi produttive dello spettacolo, dalla progettualità alla sua dimensione scenica, coinvolgendo anche il contesto stesso di ricezione (dall’osservazione all’immersione) in relazione al prodursi di nuove modalità ibride di creazione e di comunicazione artistica. L’idea di multimedialità (termine oggetto di un vivace dibattito teorico, cfr. A.M.Monteverdi, A.Balzola, pp.21) e conseguentemente di interattività, è stata variamente sperimentata nel mondo delle arti sceniche (così come nelle arti visive e sonore) sin dalle avanguardie storiche e dalle seconde avanguardie, trovandone una prima definizione (ed una significativa dimensione interdisciplinare), e precede o addirittura prefigura l’innovazione tecnologica che la concretizza ovvero il digitale con la possibilità di trasferimento, elaborazione e interazione di qualsiasi testo, immagine o suono nell’ambito dello stesso metamedium. Nuove frontiere per il teatro si aprono grazie alle possibilità di conversione in un unico intercodice (“la sinestesia obbligata del digitale“, come ricorda Derrick De Kerchove) e al principio di variabilità, interattività, ipermedialità, simulazione (L.Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, ) proprie del sistema integrato digitale, una vera e propria nuova concezione del mondo che obbliga a ripensare l’arte nel suo rapporto con la scienza e con la tecnica. Non più, dunque, operazioni artistiche separate tra loro dalla tecnica: “Il testo, o meglio l’ipertesto drammaturgico il progetto scenico, la partitura sonora-musicale, l’installazione, il video il software, lo spettacolo, non appartengono più a generi diversi ma divengono fasi di un processo aperto, tassello di un mosaico spaziale e temporale mutante, flessibile e comunicativamente forte”.

Similitudine di funzione e di processo: se nella ormai storica formulazione teorica di Brenda Laurel (Computer as Theatre, 1993) il teatro serve da modello per la rappresentazione dell’interazione uomo-computer, la nozione di environment, di performance, di event accomunerebbe proprio spettacolo live e multimediale digitale (A.Pizzo, p.19-24; J. Murray). Così come ogni spettacolo si dà qui e ora, nella “compresenza fisica reale di emittente e destinatario” e nella “simultaneità di produzione e comunicazione” (M.De Marinis,), nella sua immediatezza, nell’attualizzazione di un testo che non esiste se non nell’insieme di relazioni (umane-spaziali-temporali), anche il digitale vive in un tempo percepito come presente e come un continuo generarsi di processi (un tempo fatto cioè “non più di eventi, come il tempo televisivo, ma di infinite virtualità”, ricorda Edmond Couchot), nella interazione tra macchina e agente attraverso interfacce. Secondo tale approccio teorico sarà proprio la presenza del digitale in scena (e non genericamente dell’audiovisivo che appartiene all’era della “riproducibilità”) ad “aumentare” (enhanced theatre è una delle definizioni del teatro digitale) il senso di presenza e di liveness del teatro. I termini della questione posti da Walter Benjamin vanno così ridefiniti a partire non più dalla perdita dell’aura dell’opera in una prospettiva digitale e virtuale dell’arte, ma di un’acquisizione di datità reale, nella “generazione senza referenzialità”seguendo il pensiero di Pierre Lévy e Philippe Quéau, perché il virtuale crea “un nuovo stato di realtà”  (P.Queau, Le frontières du virtuel et du réel in L.Poissant (a cura di) Esthétique des arts médiatiques, (vol.1), Presses de l’Université du Québec).

 Continuità e rottura.

Verso una (nuova?) sintesi scenica dei linguaggi.

Il digitale propone modalità tecniche ed espressive sia di rottura che di continuità. Rottura rappresentata dalla tecnologia di sintesi numerica, in base alla quale non c’è più un rapporto generativo con la realtà materiale, e continuità con alcuni principi cardine del modernismo e dell’avanguardia del Ventesimo secolo, specificamente teatrale: l’unione dei linguaggi -anche quelli della tecnica-, la partecipazione allargata dell’evento spettacolare, la ricercata condizione di azione e interazione (di cui l’interattività appare oggi come la realizzazione concreta), la creazione di un ambiente dalla “totalità percettiva” e sinestetica (“la sinestesia è l’inclinazione naturale dei media contemporanei” affermava l’artista video Bill Viola).  La prospettiva multimediale del teatro – come hanno dimostrato Béatrice Picon-Vallin, Denis Bablet, Nicola Savarese, Andrea Balzola, Fréderic Maurin- perfeziona l’utopia di sintesi delle arti delle avanguardie storiche: la Gesamtkunstwerk di Wagner (l’opera d’arte totale o comune o unitaria secondo le diverse traduzioni) ovvero il dramma unificante di parola e musica (Wor-Ton-Drama) espresso in particolare ne L’opera d’arte dell’avvenire (1849), da inscriversi nell’onda poetica e di pensiero del Romanticismo tedesco (Goethe, Schelling) pur suscitando posizioni e interpretazioni ad esso divergenti e addirittura opposte nei registi fondatori del teatro moderno che trovarono inadeguata la riforma scenica del compositore tedesco, fondamentalmente prefigurava una comune aspirazione a un’ideale di accordo dei diversi linguaggi componenti lo spettacolo, in sostanza una “strategia della convergenza, della corrispondenza e della connessione” (E.Quinz, in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p.109).

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Teatro diventa, pur nella diversità delle proposte teoriche, un campo magnetico per tutte le arti (Kandinski): dalla totalità espressiva del nuovo teatro di Edward Gordon Craig operata dal regista-demiurgo luogo di una “musica visiva”, alla sintesi organica e corporea di arti dello spazio e arti del tempo secondo Adolphe Appia, alla composizione scenica astratta di suono, parola e colore di Wassily Kandinsky sorretta dal principio costitutivo dell’unità interore che non doveva oggettivare la realtà ma costituire un evento spirituale capace di suscitare vibrazioni e risonanze condivise dal pubblico. Ancora, il teatro della totalità del Bauhaus con la rappresentazione “simultanea sinottica e sinacustica” di Moholy-Nagy, la “simbiosi impressionista dei linguaggi” della multiscena tecnologica di Josef Svoboda che negli spettacoli della Lanterna Magika combinava in una composizione sincronica, plastica e sonora, l’azione dell’attore o del danzatore, la scena cinetica, il suono stereofonico, gli schermi di proiezione mobili e il cinema.

Infine il programmatico “No Borderline between Arts” di George Maciunas per il movimento Fluxus, non più scultura, poesia e musica ma evento che inglobi tutte le discipline possibili. Sintesi, totalità e sinestesia: principi che si sono declinati in una rinuncia agli spazi tradizionali del teatro all’italiana per rivitalizzare in senso espressivo e relazionale, nell’ottica di una “drammaturgia dello spazio” (M.De Marinis, 2004) luoghi trovati dell’esperienza quotidiana connotati in questo modo di un carattere di efficacia drammaturgica. Il teatro si apre a condividere altre spazio-temporalità, altre modalità narrative, integrando la tecnica e trasformandola in linguaggio espressivo sin dalle prime esperienze simboliste, all’indomani dell’invenzione della luce elettrica, con Gordon Craig e Adolphe Appia. Si tratta di un cammino verso una narrazione non lineare e cinetico-visiva affine al montaggio cinematografico, verso inedite modalità di avvicinamento fisico allo spettatore fino a una sua inclusione nell’opera attraverso un percorso ambientale e “reattivo” e una sempre più spinta dilatazione tecnologica fatta di dispositivi diversi e strategie scenografiche adeguate a soddisfare un’esigenza di prossimità o una mobilità rispetto all’evento o agli eventi sparsi, mobilità che riguarda anche lo scavalcamento di ruolo e intercambiabilità tra attore e pubblico. Dalle imprevedibili azioni di disturbo delle spettacolazioni composite futuriste fino all’attacco “alla sensibilità dello spettatore” teorizzato da Antonin Artaud che nel Secondo manifesto del teatro della crudeltà, parlava di un teatro che “grazie alla soppressione della scena, si estenderà alla sala intera e, partito dal suolo si arrampicherà sui muri […], avvolgerà fisicamente lo spettatore, lo terrà in un’atmosfera ininterrotta di luce, di immagini, di movimenti e di rumori”.  Anche l’evoluzione dei media di immersione e le tecnologie di realtà virtuale per convogliare esperienze artificiali multisensoriali hanno una lunga storia rintracciabile nella pittura, nel cinema, nel teatro e affondano le radici negli scorci prospettici rinascimentali in cui l’osservatore era illusionisticamente incluso nello spazio dell’immagine e nelle ingegnose macchine barocche per i cambi di scena (N. Savarese, pp.242-249). La ricerca di una partecipazione dell’osservatore nell’opera si inaugura con i panorami pittorici a 360° e con l’esperimento polivisivo o cinema simultaneo di Abel Gance (Napoléon, 1927), per proseguire con il Cinerama presentato all’Esposizione mondiale di Parigi che proponeva dieci film da 70mm proiettati contemporaneamente, pionieristico tentativo di espandere il campo visivo dei film sfruttando le zone periferiche dell’occhio umano, con il Sensorama, con il Cinema espanso e quello in 3 D, ed infine con i visori stereofonici Head Mounted (HMD) progettati da Ivan Sutherland nel 1966 e finanziati dall’Esercito americano. Da una parte il cinema delle avanguardie “chiama al lavoro dello sguardo ma anche al coinvolgimento di tutti i sensi” (S. Lischi, in A. Balzola, A.M.Monteverdi, p.62) con schermi semisferici o rotanti, simultaneità di proiezioni, alterazioni di velocità, generale sovvertimento della passività dello spettatore, dall’altra il teatro con macchinari per muovere le scene, piattaforme girevoli, palcoscenici simultanei e circolari, proiezioni cinematografiche (Mejerchold in Terra capovolta), scenografie dinamiche e tridimensionali innovative (rampe elicoidali per R.U.R. di Kiesler) si apre alla percezione di quella che Maria Bottero con una bella immagine definisce “la curvatura del mondo”, verso cioè una multidimensionalità e un nuovo rapporto tra attore e pubblico raggiunto sia con l’architettura sia con l’uso di immagini cinetiche sincronizzate con l’azione scenica (M. Bottero, Frederick Kiesler, Milano, Electa, 1995). L’architetto Walter Gropius dichiarò che lo scopo del suo Teatro totale progettato per Piscator doveva essere quello di trascinare lo spettatore al “centro degli avvenimenti scenici” ed “entro il raggio di efficacia dell’opera”. Erwin Piscator il regista fondatore del Proletarisches Theater nella Germania della fallita Rivoluzione di Novembre di Karl Liebknech e Rosa Luxemburg e pioniere di una scena multispaziale e multimediale secondo una famosa definizione di Fabrizio Cruciani, in Ad onta di tutto (1925) inserì sia immagini fisse che il film documentario, ovvero pellicole autentiche che mostravano gli orrori della guerra; in Oplà, noi viviamo (1927) insieme con lo scenografo Traugott Müller progettò una costruzione scenica a più piani prevedendo un largo impiego, oltre che dei disegni di George Grosz, di proiezioni cinematografiche per creare “una connessione tra l’azione scenica e le grandi forze che agiscono nella Storia”. L’Endless Theatre di Frederick Kiesler, il Teatro anulare di Oskar Strandt, il teatro ad U di Farksas Molnàr fino ai più recenti dispositivi di Poliéri (la sala giroscopica, la scena tripla, la sala automatica mobile, scena e sala telecomandate, ruotanti e modificabili), sono alcuni esempi di una ricerca volta a determinare un allargamento della cornice scenica, che avvolgesse letteralmente il pubblico in un ideologica spinta alla partecipazione globale.

 

Il Teatro dei mezzi misti: il paradigma dell’interdisciplinarietà, dell’ambiente e dell’interazione.

Musica,  danza e film con esclusione drastica del testo o addirittura della parola, il carattere “attimale” dell’opera in base al quale conta principalmente l’accadere dell’evento (lo spazio-tempo reale a volte dilatato per diverse ore) e il contesto ambientale (i luoghi urbani), vengono definite le caratteristiche del nuovo teatro dei mezzi misti, o intermedia, che si inaugura con 18 Happening in 6 Parts  nell’ottobre del 1959 alla Reuben Gallery di New York sotto gli auspici del fondatore, Allan Kaprow: nastri non sincronizzati, diapositive proiettate, suoni e rumori provenienti da un autoparlante, pareti affrescati con collage, oggetti sparsi, azioni eseguite meccanicamente e frasi ripetute da attori si susseguivano in un alternarsi di luci colorate davanti e intorno a un pubblico invitato a spostarsi nelle tre camere separate da pareti di plastica in cui era stato suddiviso lo spazio. Queste le costanti dell’happening individuate dallo storico e artista Michael Kirby: struttura a compartimenti (unità di azioni distinte e autonome, realizzate in sequenze o simultanee e in luoghi diversi); carattere non verbale (prevalenza di suoni puri); assenza di matrice (di tempo, luogo e personaggio); azione indeterminata (ma non improvvisata); uso di materiali concreti, quotidiani; utilizzo di elementi alogici. Kirby rintraccia anche l’eredità nei Merzbau di Kurt Schwitters (1923-1924), nella tecnica e nel principio compositivo del collage e dell’assemblage dada e neodada (da Max Ernst e Jean Arp a Robert Rauschenberg), nello spettacolo futurista (l’integrazione sonora e rumoristica e le declamazioni simultanee del Teatro della Sorpresa di Marinetti e Cangiullo) e dadaista (Relache di Picabia con partitura di Satie, 1924). A questo bisognerebbe aggiungere anche i ready-made di Marcel Duchamp e il concetto di rifunzionalizzazione estetica. Ma l’influenza più diretta sarebbe data da un lato dalla musica indeterminata di John Cage (e dal concerto-evento Untitled event al Black Mountain Collage del 1952) dall’altro dall’action painting, dalla pittura gestuale, dalla teatralità dell’azione artistica, dalla pratica ambientale dell’arte e dall’agire performativamente dentro l’opera. Naturale evoluzione dell’happening è l’enviromental theatre o teatro ambientale: alla fine degli anni Cinquanta Richard Schechner esplorava lo spazio trovato della città -già luogo deputato di manifestazioni e di sit in di protesta- aggiungendo al fatto teatrale una dimensione ambientale, decretando come ricordava il regista americano fondatore del Perfoming group, la fine del “punto di vista unico, sorta di marchio di fabbrica del teatro tradizionale”. Nel testo Six Axioms for Environmental Theatre (1968) Schechner sviluppa la nuova idea di teatro: il fatto teatrale è un insieme di rapporti interagenti (tra gli attori, tra il pubblico, e tra essi e lo spazio e gli elementi della rappresentazione); tutto lo spazio è dedicato alla rappresentazione ed è dedicato al pubblico; l’evento teatrale può avere luogo sia in uno spazio totalmente trasformato sia in uno spazio <<lasciato come si trova>>; il punto focale è duttile e variabile; ogni elemento della rappresentazione parla il suo proprio linguaggio; il testo non è necessariamente il punto di partenza o lo scopo della rappresentazione. E potrebbe addirittura non esserci”.

Dal Teatro-azione agli ambienti inter(e)attivi

Il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina nella sua lunga attività contro il teatro di rappresentazione a favore di un teatro-vita che nella pratica scenica si tradurrà in una ricerca ben salda agli ideali libertari anarco-pacifisti, volta ad attivare un’esperienza comune di consapevolezza sociale e il Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine e la loro messa in scena della creazione collettiva della Storia, hanno posto l’accento sulla tematica politica e sociale del teatro quale luogo di un’azione condivisa. Insieme a Luca Ronconi e al suo lavoro teatrale degli anni Sessanta e Settanta sull’originale messinscena della “spazialità nascosta del testo” (Balzola, p.) e sulla simultaneità delle azione sceniche dai testi-fiume di Holtz, Ariosto, Kraus in luoghi extrateatrali drammaturgicamente significanti come il Lingotto e l’ex Orfanotrofio Magnolfi di Prato, questi gruppi della neoavanguardia sperimentale hanno ridefinito i contorni di un nuovo luogo teatrale  (che poneva anche l’accento sulla rifunzionalizzazione artistica degli spazi della collettività: il Teatro-Territorio, secondo una definizione dell’architetto Gae Aulenti). Luogo teatrale espanso e dilatato che viola lo spazio prossemico dello spettatore, spezzando le tradizionali “barriere architettoniche” e il principio stesso della frontalità, liberando una soggettiva selezione di visione, e ponendo le condizioni per una partecipazione – in senso fisico ed ideologico – all’azione scenica, prefigurando le possibilità immersive delle tecnologie multimediali e delle installazioni interattive e di realtà virtuali.

Se il pubblico diventava co-protagonista nell’Antigone del Living Theatre attraverso un allargamento dello spazio della scena a tutta l’architettura teatrale e ne Gli ultimi giorni dell’Umanità era libero di muoversi nello spazio operando un proprio montaggio di visione, nelle installazioni di Myron Kruger definite dall’artista significativamente Responsive Environments (come Videoplace), in quelle di David Rokeby (a partire da Very Nervous System, 1986) e soprattutto negli ambienti sensibili di Studio Azzurro (come Coro e Tavoli) l’obiettivo dichiarato è quello di creare un’esperienza sensoriale e relazionale, creativa e soggettiva di dialogo tra osservatore-performer e ambiente, attraverso un dispositivo elettronico sonoro, visivo e grafico: “Uno spazio socializzato è il senso primo della nostra definizione di ambienti sensibili. Si tratta di pensare a contesti dove l’atto interattivo non sia confinato ad una dimensione individuale, come capita nella maggior parte dei casi con questi sistemi (una persona determina il dialogo e altre eventualmente stanno a osservare). Contesti in cui al dialogo con la macchina si associ e si mantenga anche il confronto, anche complice, con le altre persone(…)E’ una garanzia per partecipare alle scelte, che saranno sempre più frequenti nella nostra società proprio per il diffondersi dei sistemi interattivi di consultazione, meno soli e isolati da un confronto umano ancora indispensabile” (Paolo Rosa, Rapporto confidenziale su un’esperienza interattiva, in S.Vassallo, A. Di Brino Arte tra azione e contemplazione).

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Immersione partecipativa, ricerca di uno spazio sensoriale e sollecitazione ad una visione e un ascolto “sinestetico”sono alcuni degli obiettivi di molti artisti multimediali che approdano così, quasi naturalmente in un territorio prettamente teatrale verso una “dramaturgia dell’interazione opera-pubblico che trasferita in teatro diventa interazione opera-attori-pubblico e segna un decisivo passaggio dal video in scena alla scena-video interattiva e sinestetica” (A.Balzola, 2004): “Videoambientazioni, con questo termine cercavamo di evidenziare non solo la relazione con lo spazio, ma il dialogo tra uno spazio e gli elementi messi in gioco, superando la dimensione puramente scenografica. Il teatro era già presente in embrione come ambito nel quale sconfinare, del quale interessarci per lo sviluppo naturale della ricerca nella videoinstallazione. Era inevitabile pensare al teatro anche come luogo dove continuare a sviluppare la pratica della narrazione, da svolgere attraverso i monitor, il rapporto tra lo spazio e chi lo fruisce, lo spettatore o l’attore (Studio azzurro, Camera astratta, Ubu, 1988) Nello spettacolo Studio azzurro Giacomo mio salviamoci! (1998, versi, lettere di Leopardi) l’intera scena è un ambiente virtuale parzialmente interattivo dove i personaggi con le loro azioni possono provocare eventi visivi e sonori. L’evento spettacolare per Giardini Pensili è invece uno spazio dinamico, un’opera-ambiente fatta di suoni e immagini rigorosamente live e in metamorfosi digitale continua. L’immersione è resa possibile da una “iperstimolazione sensoriale” visiva e acustica (R.Paci Dalò, Pneuma, 2005): suoni dalle frequenze anomale, gravi e sovracute, inseguono e avvolgono lo spettatore attraverso sistemi di spazializzazione multicanale (come in Metamorfosi con Anna Buonaiuto e Italia anno zero) associati a strati di immagini-sinopie trattati digitalmente che affiorano a tratti con ritardi, effetti e rallentamenti (Metrodora, Stelle della Sera).  Esperienze sensoriali quasi destabilizzanti per lo spettatore sono inoltre, quelle provocate dalle performance del gruppo austriaco Granular Synthesis  e quelle del collettivo giapponese di danzatori Dumb Type che lavorano sulle astrazioni video, sulla scomposizione granulare del suono e sulle subfrequenze che sconvolgendo i canoni tradizionali dell’ascolto e della visione alla ricerca di una corrispondenza tra segnale elettromagnetico e recettori visivi, tra attività neuronale e processo digitale, trovando nel tecnologico una grande metafora del contemporaneo.

Dal teatro-immagine alla Postavanguardia

Il Teatro-immagine è legato alla figura di Robert Wilson, punto di riferimento di quella ricerca teatrale degli anni Settanta volta sempre più ad uno “spazio definito nella sfera del visivo” (S. Sinisi, Dalla parte dell’occhio. Esperienze teatrali in Italia, 1972-1982), verso una raffinata visionarietà antinarrativa sempre più affine alla processualità e allo spazio-tempo tecnologico (cinematografico e video). Da A Letter for Queen Victoria (1974), Einstein on the Beach (1976), Edison (1979)  realizzati con effetti luministici colorati a forte vocazione pittorica e improntati a un’estetica minimalista (anche nel suono, grazie al contributo fondamentale della musica ripetitiva di Philip Glass) fino a Monsters of Grace (1999) quest’ultimo contenente animazioni computerizzate in 3D, Wilson ha da sempre modellato i suoi spettacoli-quadro in un’ottica di totalità e sintesi architettonica tra le parti: scritture di luci e suoni, ritmi visivi e sonori calcolati al secondo con azioni rarefatte e rallentate, aderenti sistematicamente al principio dello slow motion e del loop.

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In Hamlet: a Monologue (1995) la luce diventa un tema, con una propria autonomia espressiva ed emotiva, quasi fosse luce-stato d’animo mentre l’effetto visivo generale rimanda alle tecnologie audiovisive, quasi fosse un video ad alta definizione: l’intenso sfondo luminescente rispetto al corpo dell’attore simula infatti un particolare effetto mixer, l’effetto intarsio o chromakey. Il teatro-immagine segna una stagione particolarmente fertile che vede tra i protagonisti Mario Ricci, Giuliano Vasilicò, Simone Carella e Memé Perlini il cui spettacolo Pirandello: chi? (1973), tra “frammenti-immagine”, corpi-manichini che emergono dal buio grazie alle luci di taglio e citazioni dal cinema surrealista viene considerato il Manifesto della nuova tendenza. Ma il passaggio a un’estetica teatrale legata ai nuovi media si ha con la Postavanguardia,  ufficializzata nel 1976 a Salerno alla rassegna diretta da Giuseppe Bartolucci. Invaso da altri linguaggi (cinema, fotografia, fumetti, musica rock, mass media, fantascienza) e attirato dalla fascinazione urbana, il teatro della postavanguardia “accentua ulteriormente gli aspetti visionari dello spettacolo e agisce sulle facoltà percettive del pubblico per attirarlo in un cerchio di suggestioni di carattere ipnotico” (A.M.Sapienza). Sono protagonisti: Simone Carella (regista di Autodiffamazione, spettacolo astratto senza attori), la Gaia scienza di Giorgio Barberio Corsetti (La rivolta degli oggetti), il Carrozzone (primo nucleo dei Magazzini criminali, con I presagi del vampiro, manifesto programmatico del loro teatro analitico-esistenziale). Successivamente spettacoli come Punto di rottura (1979) dove quattro monitor sezionano lo spettacolo e Crollo nervoso (1980) degli ex Magazzini Criminali diventano un fondamentale punto di riferimento per la successiva generazione teatrale sempre più spinta verso le suggestioni dei mass media (A.Balzola, in A.Balzola, A.M.Monteverdi, pp.306-311; ed inoltre A.Balzola, 1995)

Videoteatro anni Ottanta

La rassegna Paesaggio metropolitano/Teatro-Nuova Performance/Nuova Spettacolarità (1981), inaugura un nuovo teatro che si esprime attraverso l’esplorazione dei media e si ispira al panorama della metropoli e dell’immaginario cinematografico e videografico. Krypton, Falso movimento di Mario Martone, la compagnia di  Giorgio Barberio Corsetti con Studio Azzurro esploreranno radicalmente, sia pur con modalità profondamente diverse, il territorio della multimedialità definendo con alcuni spettacoli-manifesto, i contorni tipologici di una stagione teatrale innovativa significativamente definita “video teatrale”: “L’esperienza videoteatrale in Italia nella prima metà degli anni Ottanta (…) sperimentava le nuove possibilità tecniche offerte dal video attingendo alle invenzioni , ma anche imboccando itinerari propri: dialettica straniante tra corpo reale sulla scena e corpo virtuale sullo schermo; sperimentazione di modalità di ripresa che interagissero fisicamente con i corpi degli attori/danzatori; ossessione dei primi piani e dei particolari dei volti e dei corpi che a teatro sfuggono in un quadro percepito sempre, inevitabilmente, come totale e lontano; suggestione dei colori freddi e brillanti dell’elettronica; uso in funzione espressiva della bassa definizione, della sgranatura materica e delle scie luminose dell’immagine video; elaborazione dell’immagine in post-produzione, con l’ausilio del mixer e del computer, soprattutto lavorando sulle chiavi cromatiche, sugli effetti di scomposizione dell’inquadratura e di montaggio” (A.Balzola, 1995).

Prologo a diario segreto contraffatto e Camera astratta (1987) di Giorgio Barberio Corsetti e Studio Azzurro rimangono gli spettacoli più emblematici di quest’epoca in cui si introduce una struttura complessa di dialogo tra corpo e ambiente, tra luce e spazio, tra immagine video e presenza attoriale. In Prologo vien allestita una doppia scena, una materiale e una immateriale, una visibile e una invisibile, ovvero il palco agito di fronte al pubblico e un retroset dove gli attori vengono ripresi mentre la loro figura intera è riproposta al pubblico in diretta, ricomposta su quattro file di tre monitor impilati. In Camera astratta invece un’architettura geometrica mobile attraversava il palco in varie parti, con monitor posti su binari o montati su assi oscillanti e sospesi come un pendolo: in una perfetta sincronia di movimenti, incorporavano e scomponevano il corpo dell’attore con un passaggio continuo e fluido della narrazione dal video al teatro. Nell’idea degli autori la Camera astratta è la mente stessa del personaggio e gli eventi dello spettacolo sono come le emanazioni-manifestazioni degli istanti-pensiero che attraversano questa scena interiore.

 

Dispositivi di visione

La Duguet nel celebre saggio Dispositif (1988) ricorda come sia stato proprio il teatro degli anni Sessanta a offrire i paradigmi e le premesse per una spazializzazione e temporalizzazione delle opere video intese non solo come immagine ma come dispositivi multipli che innescano un processo di durata e letteralmente di “esplosione” verso l’esterno, verso il contesto spaziale: la messa al bando del punto di vista unico, l’apertura ad una temporalità plurima, la partecipazione dello spettatore ad un evento reale, fisico e immediato, il suo coinvolgimento in un percorso narrativo, percettivo ed emotivo. La presenza di schermi  e monitor in scena comporta necessariamente una diversa partecipazione e una diversa disposizione percettiva poiché le immagini sono decontestualizzate, frammentate, velocizzate, simultanee su più schermi e lo spettacolo diventa “polivisuale e sembra che siano convocati tutti gli stadi della storia del nostro sguardo” (B-Picon-Vallin). L’effetto prodotto richiama secondo molti critici, alla molteplicità di  prospettive e alla scomposizione della figura umana delle avanguardie pittoriche primonovecentiste, quella cubista principalmente. In Marat Sade (1984) di Carbone 14, compagnia di Québec creata da Gilles Maheu nel 1980, La Dispute da Marivaux di D. Pitoiset (1995) e in The Merchant of Venice (1994) di Peter Sellars, il video sottolinea il volto, ferma il tempo e isola il gesto; volti che sembrano imprigionati nella scatola televisiva, come le teste “ritagliate” su cuscini nelle videoinstallazioni di Tony Ousler. Il video in scena introduce il cosiddetto “effetto specchio” diventando dispositivo psicologico introspettivo (come in Hajj, dei Mabou Mines, 1981). Il corpo dell’attore viene replicato e il suo doppio elettronico rimette allo sguardo dello spettatore l’immagine di un’interiorità invisibile e indicibile: è il passato o l’altrove, il nascosto e il perturbante, la memoria e il vissuto.

In Elsinore di Lepage (1995) Amleto si “guarda dentro”, e nella solitudine di Elsinore -luogo mentale- incontra tutti i personaggi generati da lui stesso, ombre e gigantesche proiezioni (su grande  schermo) delle proprie angosce che evidenziano la scomposizione della sua personalità psichica. Uno dei migliori esempi di integrazione di dispositivi multischermo con la scena è rappresentato da The Seven Streams of the River Ota (1994) di Robert Lepage. La scena è strutturata come la facciata di una tradizionale casa giapponese, con sette schermi-pannelli trasparenti fatti di spandex su cui vengono proiettate immagini video e ombre: l’effetto di “intarsio”permanente tra l’immagine videoproiettata e corpo dell’attore e tra la figura e sfondo monocromo luminescente genera un surreale dialogo tra corpi e luce, e rende quasi letteralmente il senso più profondo dello spettacolo: l’impossibilità di cancellare dalla memoria l’Hiroshima della bomba atomica. La scena fatta di schermi diventa una lastra fotosensibile e l’intero spettacolo una scrittura di luce, metafora di un percorso insieme di ricordo, di illuminazione e di conoscenza.

Il gruppo italiano Motus, tra i protagonisti della cosidetta Generazione Novanta, con il progetto Rooms  confluito nella versione definitiva dal titolo Twin Rooms (2000-2003) ispirato al romanzo Rumore bianco di De Lillo, palesa attraverso un particolare dispositivo visivo e sonoro, un procedimento cinematografico. L’azione teatrale, che procede per riquadri e close up e ricostruisce un set, simula il cinema; la regia teatrale diventa regia di montaggio:  la struttura (una camera d’albergo) si raddoppia dando vita a una “digital room” con due retroproiezioni affiancate di immagini preregistrate o provenienti da telecamere a circuito chiuso e mixate live con quelle girate in diretta dagli stessi attori in scena. La cornice scenografica di questo expanded live cinema invade tutto lo spazio del palco e le immagini riempiono ogni interstizio possibile, generando un sovraccarico di visibile. Il video incombe quale inquietante presenza dentro questo claustrofobico contenitore di corpi ridotti a immagine su schermo procedimento visivo che drammatizza efficacemente il nuovo totalitarismo consumistico narrato cinicamente da De Lillo, forse il più grande romanziere postmoderno. Domina nello spettacolo un eccesso di visibilità e anche un incrudelimento e una morbosità dell’occhio della telecamera che sorveglia e si sofferma sui corpi. Il video in scena  inglobato nell’architettura integra il procedimento del romanzo: lo shock dell’immediatezza, il senso di alienazione e di perdita di identità nel flusso della rappresentazione del sé.

 

Un’estetica del processo?

Dall’autore all’attiv-attore

La multimedialità digitale definisce una nuova estetica non più dell’oggetto ma del processo e del  flusso (C.Buci-Glucksmann) in cui per la prima volta nella storia delle tecniche figurative la morfogenesi dell’immagine e la sua distribuzione (diffusione, conservazione, riproduzione e socializzazione più estesa) dipendono dalla stessa tecnologia (dall’immagine-matrice all’immagine-rete secondo E.Couchot). Le opere interattive hanno la capacità di modificarsi grazie alla presenza e all’azione degli spettatori, intermediari tra strumento, artista e spettatore, diventati veri coautori dell’opera. Navigazione ipertestuale, ambienti virtuali 3 D, immagini di sintesi, installazioni interattive: da un’opera chiusa e strutturata a un’opera-sorgente che contiene nella sua attualizzazione ed esecuzione una possibilità di continua variazione. Se l’artista è l’autore della proposizione, della concezione dell’opera, del suo dispositivo, del suo contesto, della sua manifestazione, il visitatore attraversandola la interpreta, ne è il performer (A.M.Duguet Installazioni video e interattive. Definizioni e condizioni di esistenza). Edmond Couchot preferisce invece parlare di due autori: un autore a monte all’origine del processo, ovvero colui che definisce programmaticamente le condizioni della partecipazione e un autore a valle che si inserisce nello sviluppo dell’opera e ne attualizza in maniera non preordinata, le potenzialità.

In Storie mandaliche 3.0 : il collettivo artistico Zonegemma ha messo in atto una complessa drammaturgia ipertestuale (ipertesti di Andrea Balzola) confluita in uno spettacolo di narrazione interattivo (con uso prima del Mandala System poi del programma di animazione Flash MX). Poiché il mandala viene costruito secondo un percorso labirintico e una logica di corrispondenze, anche  le storie hanno delle inter-connessioni: il pubblico può decidere di passare da un personaggio ad un altro ad ogni bivio ipertestuale, viaggiando all’interno di un labirinto di migliaia di possibili narrativi. La novità della tecnica affabulatoria del cyber-contastorie Giacomo Verde  che recupera un’oralità antica aggiornandola ai media digitali, l’immagine in animazione per permettere una navigazione anche in Internet, la ricercata atmosfera generale di sinestesia attraverso le sonorità spettromorfologiche create da Mauro Lupone, ma soprattutto il particolare reticolo ipertestuale percorso dal pubblico fanno di Storie mandaliche 3.0 il primo e pionieristico esempio italiano di teatro interattivo, con un’interattività non di interfaccia ma di progetto e di relazione. In CCC (2003) di Davide Venturini-TPO l’opera, definita dagli autori “un’azione teatrale a metà tra un atelier multimediale e uno spettacolo”  non è altro che un tappeto interattivo: un video proiettore invia dall’alto immagini animate e un sistema di trentadue sensori nascosti sotto il tappeto: il movimento di una o più persone all’interno di esso genera suoni e immagini che sono l’armamentario di un racconto di viaggio in Giappone tra i colori e le forme di un giardino Zen. L’artista innesca le condizioni più adatte per  sviluppare un’esperienza riflessiva e socializzante al tempo stesso, che sia da un lato di gioco ma anche di codici, di segni, di spazi, di nuove e immateriali architetture; è un’esperienza spontanea collettiva e condivisa, di emozione sensoriale, di contemplazione estetica, di concentrazione interiore.

Verso un teatro virtuale

Il teatro affronta la questione del virtuale aprendosi anche ad un nuovo un versante interattivo, attraverso la creazione di una scena delle interfacce (E.Quinz, in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p.403). Secondo Quinz due sono le possibili classificazioni di questa nuova scena: la prima è rappresentata da un puro sistema di interfacce in cui il dispositivo e il software servono sostanzialmente da intermediari fra il computer e le unità periferiche (videocamere, strumentazione virtuale). Si tratta in pratica di una vera e propria regia digitale che combina fonti diverse visive e sonore: immagini video ed eventuale elaborazione digitale in tempo reale, immagine da Internet, o d’archivio, sonorità elettroniche realizzate e trasformate in diretta.

Il secondo tipo, definito da Quinz “ambiente-mondo”, è quello degli ambienti virtuali veri e propri, incentrato sull’interazione fra corpi reali e corpi virtuali, sulla creazione computerizzata di oggetti interattivi a partire dalla captazione di movimenti degli interpreti in combinazione con l’utilizzo di periferiche di interazione uomo-macchina tramite sensori (elettromagnetici, elettromeccanici e fotoelettrici) come i data glove per la manipolazione della Realtà Virtuale e i sistemi di Motion Capture o la piattaforma EyesWeb elaborata dal Laboratorio di Informatica Musicale di Genova di Antonio Camurri che catturano gesti e movimenti umani (ma anche pulsazioni cardiache, variazioni di temperature), generando uno spazio reattivo, un ambiente multimodale interattivo (A.Camurri in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p. 414); l’attore indossando queste interfacce può gestire autonomamente in tempo reale e con il solo movimento, input da diverse periferiche e animare oggetti, ambienti, grafica, immagini, suoni, personaggi 3D e comporre l’azione scenica vera e propria. L’interfaccia si pone allora fra due sistemi di natura diversa, fra i quali il computer svolge delle operazioni di traduzione.

Il data glove o guanto interattivo è stato usato in Italia da Giacomo Verde e Stefano Roveda per dare vita al burattino virtuale Euclide nel 1992 mentre Jean Lambert Wild con Orgia (2002) ha sperimentato efficacemente il rapporto tra corpo dell’attore e immagine mediato da un’interfaccia (Sistema Daedalus): questa generava esseri artificiali, organismi del fondo marino, il cui “comportamento” e il cui movimento era influenzato dai livelli di emotività, respiro, temperatura e battito cardiaco degli attori muniti di particolari sensori.

https://www.youtube.com/watch?v=6zzrSi_irIw

Come ricorda Emanuele Quinz che ha elaborato la più originale proposta teorica in materia di digitale applicato alla scena (soprattutto in riferimento alla coreografia) “grazie alle interfacce il linguaggio scenico si arricchisce di un nuovo strato, basato sulla fluidità dei codici, sulla circolazione di input e output e sul trasferimento e la trasformazione dei dati. L’obiettivo di questi cantieri di ricerca e processi di sperimentazione è di esplorare una nuova sintassi capace non solo di tenere conto dei nuovi flussi delle informazioni sulla scena, ma di integrarli al servizio della composizione drammaturgica e coreografica” (E.Quinz in A.Balzola, A.M.Monteverdi, p. 405)

Marce.lì Antunez Roca, fondatore della compagnia catalana Fura dels Baus propone un nuovo cyber teatro o teatro tecno-biologico in cui l’ibridazione (ovvero l’interpenetrazione, come precisava Mac Luhan) e lo scambio non sia solo più solo tra macchine e dispositivi ma tra corpo e tecnica, tra organico e inorganico, tra robotica e biologia, operando al confine tra “corpi in -macchinati e macchine in-corporate” (M. Antunez); il performer incarna l’utopia post-umana della tecno-mutazione, dell’ampliamento della struttura biologica verso nuove sensibilità extratattili diventando, attraverso innesti temporanei di dispositivi elettronici ed elettromagnetici, cybermarionetta e robot cibernetico, potente metafora della liberazione del corpo verso nuovi e inesporati spazi di sensorialità (dai robot pneumatici che reagiscono alla presenza del pubblico- Requiem, 2000-, al corpo-macchina del performer, appendice del computer sottoposto alla invadente molestia telematica da parte dello spettatore attraverso un touch screenEpizoo, 1994-).

Mutazione come seconda natura, come una sorta di felice alienazione dell’uomo nella sfera biotecnologica, passaggio indolore ad una nuova realtà, a una nuova “artificialità naturale”, tematica e che ha molto in comune con la nuova carne del cinema mutageno di David Cronemberg, col cyborg di Donna Haraway, e con i post umani di Bruce Sterling ne La matrice spezzata. In Transpermia. Panspermia inversa (2003) Antùnez, come già in Afasia, sostituisce il keyboard con il dressskeletron o esoscheletro, una protesi elettromeccanica, vero prolungamento protesico della sua corporeità recuperando grazie al programma Midi Reactor, funzioni organiche non più limitate alla vista e al tatto, potendo suonare con il suo corpo e modulare la voce, animare immagini  e disegni che mostrano ironiche ipotesi di interfacce e robot da usare nel quotidiano per identità sempre mutanti. Il performer (“uomo-orchestra” come lo ha definito incisivamente Carlo Infante che ha seguito sin dagli esordi i lavori dell’artista catalano) controlla così suono, immagine multimedia, videocamera in tempo reale, sequencer MIDI poiché il suo esoscheletro è in realtà una piattaforma che gli permette di connettere insieme e gestire una molteplicità di programmi, facendo di se stesso, un’interfaccia delle interfacce. Questi esempi affermano la centralità dell’attore quale fulcro vitale dell’esperienza scenica e mostrano una nuova ricerca teatrale  che prende come punto di partenza l’interprete, il cui corpo-interfacciato permette di far funzionare l’intero spettacolo; il nuovo cyber-attore torna ad assumere i connotati della Supermarionetta profetizzata da Craig,  dell’”uomo-architettura ambulante” ovvero adeguata alle leggi dello spazio cubico ambientale di Oskar Schlemmer ed infine dell’attore biomeccanico mejercholdiano per il quale “il corpo è la macchina e l’attore il meccanico”(A.Pizzo, p.132;  N. Savarese, 248-262).

Frontiere futuribili si intravedono per un nuovo teatro on line già esplorato dai navigatori della grande rete mondiale in occasione di alcuni eventi globali di hyperdrama e virtual drama (L.Gemini, p.136-137):#hamnet,1993 degli Hamnet Players, la prima performance realizzata via Internet attraverso il canale Internet Relay Chat; Clicking for Godot del DeskTop Theatre; Connessione remota , 2001 realizzata contemporaneamente on stage e on line con l’attivazione di una webcam e dialoghi in chat e Webcam teatro (2005) che utilizza le cosiddette webcommunity, entrambi progetti di Giacomo Verde. L’idea di una performatività deterritorializzata, estesa a vari canali per sperimentare diversi luoghi anche immateriali della comunicazione (senza fondamenta e smisurati, come nel caso delle opere nelle architetture del cyberspazio) e diverse modalità di partecipazione, ha alcuni precedenti significativi: Telenoia di Roy Ascott del 1992, performance mondiale durata 24 ore che connetteva attraverso tutte le tecnologie della comunicazione dell’epoca, bbs, fax, videofono, teletext, artisti che si scambiavano poesia, musica e immagini a cui fece seguito un anno dopo La lunga notte, concerto radiofonico in simultanea interattiva ideato da Roberto Paci Dalò-Giardini Pensili. E soprattutto The CIVIL warS: a tree is best measured when it is down di Robert Wilson, spettacolo kolossal ideato per le Olimpiadi di Los Angeles del 1984 in cui l’utopia di opera totale si trasfigurò in una composizione seriale di lirica, danza, cinema, pittura da dilatare (anche attraverso l’universo della diretta televisiva via satelite) in cinque paesi diversi del globo in sintonia temporale, progetto -realizzato solo parzialmente-che sfuggiva decisamente alla scena tradizionale e ai suoi tempi.

La rete intesa anche come potenziale teatro della protesta e della nuova disobbedienza civile, come luogo di un nuovo rekombinant e tactical theatre: si tratta del pensiero del collettivo statunitense Critical Art Ensemble e dell’Electronic Disturbance Theatre di Ricardo Dominguez, punti di riferimento della comunità artistica digitale mondiale e che si ispirano per le loro oper’azioni performative attraverso la rete, al Living theatre e al movimento situazionista. Le loro azioni (sit in virtuali, scioperi della rete) rientrano nell’ambito del cosiddetto hacktivism, etichetta usata per definire pratiche di attivismo, sabotaggio e controinformazione attraverso le nuove tecnologie. Il vero interrogativo, al di là dei generi e dei canali usato è: può il teatro -anche quello che usa le tecnologie più nuove – mettere in discussione modelli, sistemi, poteri? Brecht è ancora attuale? E’ proprio Brecht nei testi relativi alla Radio (1927-1936) ad aver intuito che il problema stava nell’appropriazione e nell’epicizzazione del mezzo, nel totale controllo espressivo da parte dell’artista -e della voce collettiva  che si nasconde dietro di lui- dello strumento tecnico e della nuova concezione dell’arte che supera la separazione tra “produttore” e “consumatore”.

Remedi-Action, il videoteatro torna alla ribalta nel volume di Jennifer Malvezzi
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Mi rendo conto che una mia recensione di un libro in cui io compaio come citazione nella prima pagina dell’editore Postmedia rischia di non essere credibile. Ma non ci sono dubbi sul fatto che questo libro Remedi-Action. Dieci anni di videoteatro italiano scritto dalla giovane e ben documentata Jennifer Malvezzi, borsista di ricerca all’Università di Parma, sia un ottimo strumento di studio e di ricerca per chiunque voglia ancora addentrarsi in quel “paesaggio elettronico” che componeva la gloriosa arte teatrale degli anni Ottanta. Insomma un libro da consigliare a studenti e docenti e a tutti coloro che vogliono conoscere quel teatro italiano che ha avuto una brillante stagione di sperimentazione e in cui la tecnologia era uno dei linguaggi chiave da sperimentare in una generale e generazionale euforia di contaminazione.

Il mio ragionamento sulla “bontà” di questo libro si basa sul fatto che chiunque abbia scritto su questo argomento ovvero il videoteatro, a meno di non averlo vissuto personalmente come spettatore, ha sempre fatto riferimento sostanzialmente, al libro di Andrea Balzola (La nuova ricerca elettronica), a quelli di Valentina Valentini (Teatro in immagine, Camera astratta), a Bruno di Marino (il catalogo Elettroshock) e (of course) agli scritti sparsi di Carlo Infante. Sembrava non ci fosse più nulla da dire sul fenomeno, visto anche che quegli anni erano stati letti nelle recensioni straordinarie (e analiticissime) di critici come Beppe Bartolucci e Franco Quadri.

Quello che ha forse confuso la critica (me compresa) e molti di coloro che hanno tentato di fare una storiografia di  questo fenomeno già tramontato alla fine del decennio Ottanta e consegnato alla memoria e alla fortuna (nel senso latino del termine…), sono proprio questi validissimi scritti di studiosi e teorici tra il 1990 e il 1995 che hanno avuto  sicuramente il merito di portare alla ribalta un fenomeno artistico italiano degno attenzione ma che limitavano (per ragioni editoriali o di scelte personali) la ricerca a un ambito circoscritto di autori e opere.

Evidentemente molto rimaneva ancora da raccontare, e non certo tra i minori: il lavoro pionieristico di Michele Sambin, per esempio, performer video solitario e in seguito col Tam Teatromusica, è stato ingiustamente emarginato o solo parzialmente studiato, per poi essere riscoperto successivamente grazie al Festival Invideo che digitalizzò nel 2004 l’intero archivio di Sambin.pm143dpi300

Non a caso la copertina del libro della Malvezzi è una foto di scena del Tam Teatromusica che anticipa al lettore in qualche modo che il contenuto va nella direzione di una “riscoperta” di un sommerso di qualità.

In sostanza, la visione del videoteatro italiano anche nel percorso di studio di generazioni di studenti, si è sempre limitata ad alcuni esempi-faro (Camera astratta di Studio azzurro e Giorgio Barberio Corsetti/Gaia scienza; Crollo nervoso dei Magazzini; Tango Glaciale di Falso Movimento, Eneide di Krypton). Questo libro ha il pregio di raccontare un videoteatro diverso, certo anche con quegli esempi famosi e con quei protagonisti indiscussi della scena su cui forse era stato già detto quasi tutto, ma attingendo a un universo più ampio, che si apre al videoclip per esempio e alla cultura pop a cui molti autori si richiamavano. E così ecco spuntare le coppie Taroni/Cividin, Dal Bosco/Varesco ecco riemergere Antonio Syxty e le esperienze pionieristiche di distribuzione come Tape connection dell’attivissima Maia Borelli o Soft video (vedi ampia sezione di interviste ai protagonisti).

Il capitolo dedicato ai Magazzini di Tiezzi riporta alla luce, come da archeologia del postmodern, lavori sperimentali del gruppo e materiali inediti frutto di un’accurata ricerca d’archivio come si faceva una volta. Così la distanza cronologica dal fenomeno (per ragioni diciamo generazionali) in realtà, permette all’autrice di inquadrare il fenomeno nella giusta prospettiva critica attuale. La Malvezzi rielabora sulla base di molti testi pubblicati in questi anni sulla videoarte e sul teatro digitale, il videoteatro storico rintracciandone il valore non solo nella memoria ma nella “remediation” come occhieggia il titolo, ovvero ciò che un linguaggio esercita e elabora per riadattarsi a un nuovo ambiente (nel caso specifico al digitale). Quale sarà il volto del videoteatro attuale trasformato? Un discorso che apre scenari importanti considerata l’ampia produzione di performance tecnologiche contemporanee, ormai dimentiche di pionieri e affini.

Ma come non riconsiderare, per esempio, le scene prospettiche fatte di luce e diapositive di Ritorno ad Alphaville e in generale i lavori di Martone come le fondamenta dell’ampia (e spesso poco creativa) produzione di scenografia in videomapping?

Ritorno ad Alphaville, Martone. Foto di Cesare Accetta.
Ritorno ad Alphaville, Martone. Foto di Cesare Accetta.

Ci limitiamo a sottolineare che ben pochi lavori teatrali allo stato attuale delle tecnologie hanno avuto l’impatto e la forza eversiva di Camera astratta che a dirla tutta, fu presentato a Kassel (chissà che ne avrebbe detto Vila-Matas); ed oggi mostrare le testimonianze video a studenti d’accademia e persino a convegni internazionali (come quest’anno alla Sorbonne Nouvelle dove Vincenzo Sansone in un commosso omaggio a Paolo Rosa, ha presentato attività videteatrale di Studio azzurro) ha ancora un impatto tale che sembra giustificare l’affermazione di Rosalind Krauss: Reinventare un medium.

Ottime le schede finali (tratte da video opere ispirate agli spettacoli) che sintetizzano anche a vantaggio della nuova didattica, artisti e tendenze e dove forse, una scheda sul lavoro di Giacomo Verde ci stava bene. Un libro veloce dove come nella valigetta di Duchamp, ci sta dentro tutto. Anche le nostre memorie.

Studio azzurro celebra i 20 anni di Videoteatro. Ricordando Paolo Rosa
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Raccontare 15 anni della presenza trasversale di Studio Azzurro nell’ ambiente del teatro italiano ed europeo è quello che si propone l’evento Studio Azzurro e il teatro che si terrà sabato 20 settembre dalle 17 in poi al Teatro Out Off. una giornata dedicata a proiezioni e incontri con gli artisti che hanno sperimentato la “Vocazione plurale alle regia” .
Era il 1995 quando Fabio Cirifino, Paolo Rosa, Leonardo Sangiorgi e Stefano Roveda attraverso la realizzazione di videoambienti, ambienti sensibili e interattivi, percorsi museali, performance teatrali e film, disegnano un percorso artistico trasversale alle tradizionali discipline e formano un gruppo di lavoro aperto a differenti contributi e importanti collaborazioni.
Per ricordare il lavoro svolto da Studio Azzurro e il suo rapporto con il teatro vengono proposte due serie cronologiche di video, da cui emergono i soggetti artistici con cui i progetti sono stati condivisi e realizzati, con intermezzi dai testi di scena interpretati da Irene Grazioli.
Dalle 17 alle 20, verranno proiettati : Prologo a Diario Segreto Contraffatto del 1985, Primo Scavo del 1988, Alexander Nevskji 
del 1989, Kepler’s Traum del 1990, La Perfezione di uno Spirito Sottile del 1991,Ultima Forma di Libertàil Silenzio del 1993, The Cenci del 1997, presentato al Teatro Almeida di Londra, rappresenta un importante riferimento del teatro danza e del teatro musicale, Due Lai del 2000,Neither del 2004, Racconta del 2007.
Dopo un’ora di pausa, dalle 20 alle 21, si riprende con La Camera Astratta del 1987, commissionato da Documenta 8 di Kassel e vincitore del Premio UbuIl Combattimento di Ettore e Achille del 1989, Delfidel 1990, Che-cambiare la Prosa del mondo del 1991, Striaz del 1996, Giacomo mio, salviamoci del 1998, Il fuoco, l’acqua , l’ombra. Le immagini della natura in Tarkovskji del 1998, Wer mochte Wohl Kaspar Hauser sein 
2000, Trittico dei Canti Rocciosi del 2002, Ambleto del 2003, Galileo. Studio per l’Inferno del 206, Stanze del 2008.

Rimediando il teatro di Beckett con il video
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Pubblicato in Atti del convegno dell’ADI (Associazione Docenti di Italianistica), Università di Sassari, 2012.

Come hanno trattato o interpretato la materia e le visioni beckettiane gli artisti multimediali nelle loro installazioni, videoperformance e spettacoli tecnologici? E’ opinione comune che sia la stessa poetica di Samuel Beckett, così radicalmente altra rispetto ad una scrittura drammaturgica tradizionale, oscillante e sospesa in un tempo a-dimensionale, nella rinuncia all’illusione della comunicazione, nella negazione della possibilità di un raccontare, nell’inutilità di ogni agire, ad aprirsi ad apporti creativi altri, offerti dalla specificità del mezzo video e filmico.

Ersilia D’Alessandro ha parlato di una loro “vocazione cinematografica”, Avantaggiato di un Beckett “ultramediale”[1]. Non è solo il Beckett filmico e tele teatrale (da Film con Buster Keaton ai tele play ai radiodrammi: Ghost trio, Quad, But the clouds, Di’Joe) ad aver offerto notevoli spunti ad artisti video, quanto alcuni testi brevi che hanno avuto rarissime rappresentazioni teatrali per l’oggettiva impossibilità di messa in scena.

Si può parlare effettivamente, di una “vocazione all’immagine” di alcuni testi corti di Beckett (scritti dal 1963 al 1982) che, più ancora della nota produzione teatrale (Finale di partita, Aspettando Godot, Giorni felici) hanno offerto un ambito straordinario di sperimentazione video artistica (video creativa o video teatrale).

Si tratta di prose e testi teatrali dal minimo ingombro che si offrono quali rapide illuminazioni, pennellate di spessore concettuale e di  esasperata bellezza. Per queste densissime miniature, di fulminante respiro, Beckett creò il neologismo di dramaticules a sottolineare la compressione drammatica che le sostanzia e la decaduta pretesa di qualsiasi io autoriale: PlayCome and GoBreath, Catastrophe.

Dello stesso periodo (dal 1963 al 1972) sono alcune prose brevi in cui lo scrittore irlandese abbandona definitivamente la forma narrativa dei romanzi “adulti”, ritorna in parte al francese degli esordi, e imprime alla scrittura una vera e propria torsione sottrattiva (Trilogy, Not I, Comment c’est, All the strange away).

Pensiamo a Non io, monologo torrentizio dell’unico personaggio Bocca, in cui la testa della protagonista, come decollata, illuminata da un violento fascio di luce, secondo le indicazioni dell’autore, si staglia su un fondale di fitta e impenetrabile oscurità. Nei brandelli sconnessi del veloce monologo, affiorano frasi di una memoria drammatica che la protagonista assicura non appartenerle. Il passato che la donna maledice, spesso con toni di oscena e blasfema ferocia, è il ricordo di un dolore cosmico senza rimedio.

Pensiamo, poi, alla assenza pressoché assoluta di azione contenuta in Come and Go (la versione breve e al femminile di Aspettando Godot, in cui tre donne anziane sedute in una panca, sono in attesa di qualcosa da moltissimi anni e mantengono dei segreti che si sussurrano alternativamente all’orecchio) in cui emergono solo gli sgargianti colori precisamente individuati da Beckett per le vesti delle donne. In Breath Beckett arriva a immaginare una sola situazione scenica della durata programmata di 35 secondi.

Testi quindi, quasi refrattari alla scena, persino restii anche alla forma libro e che prevedono sotterraneamente, un linguaggio altro rispetto alla letteratura e al teatro. Mi riferisco per esempio, a Play e alla dinamica convulsa del racconto di un tradimento, scritto per tre personaggi secondo una logica da montaggio alternato. Il racconto prevede non “non stop”, un circuito infinito di parole (Repeat again è l’indicazione di Beckett per gli attori, quando ciascuna delle loro versioni termina).

E’ evidente quindi, un processo di definitiva spoliazione poetica, di scarnificazione linguistica in cui la parola sopravvive come reperto estremo, come elemento residuale di una comunicazione di per sé lacunosa e intermittente: questa è stata la fonte di ispirazione per un gruppo nutrito di artisti legati al video teatro, per la “nuova ondata anni Novanta” e per la nuovissima generazione di artisti multimediali che usano il video per produzioni creative autonome.

Il video sembra offrire una sorta di rimedio, un risarcimento, una soluzione creativa alternativa per visualizzare in forma di immagine, quell’universo beckettiano fatto di sintetiche o scarnificate partiture che hanno la densità e la forza della parabola. Si tratta talvolta di pochi  suggerimenti scritti da Beckett più che di trame con indicazioni di movimento  che implicano, sul piano della regia video, inquadrature e montaggio di grande precisione, costruite sull’attesa e sull’assenza, lunghi piani sequenza in cui la macchina da presa, sempre presente come “occhio belva” incarna un ruolo: quello della coscienza o della morte che incombe.

 Anche in questi testi presi in esame, come nella più ampia produzione teatrale matura, le figure di Beckett sono in una condizione di immobilità (in Play dentro urne), di scacco, di prigionia soffocante autoindotta (All the strange away), in silenzio, in attesa, protesi verso il nulla. Atterrano nel fango (Come è), si rialzano ogni volta per riprendere l’andatura vacillante, inforcano le stampelle, si spostano su sedie a rotelle o sedie a dondolo (Passi), strisciano, annaspano, si osservano invecchiare e marcire (Come and go), si guardano andare in pezzi, tragici testimoni di un vuoto mai definitivo, mai risolutorio (“la morte stenta ad arrivare”).

Il corpo umano è accecato dalla luce abbagliante (All the strange away) imprigionato in una scatola di cui si danno ossessivamente le dimensioni, o di un sacco dove condividere vita e punizioni reciproche (Come è). Trasposte sul monitor queste partiture visuali accentuano i ruoli dei personaggi nella loro fissità spaziale e esasperano la condizione di ripetitività della loro esistenza senza via di fuga (Play) grazie a loop  e ralenti, piani sequenza silenziosi e incombenti, primi piani soffocanti.

Breath, sorta di grado zero della scrittura, testo-lampo della durata obbligata di 35 secondi, con luce intermittente e null’altro in scena se non cumuli di spazzatura, si ispira l’artista greco Nikos Navridis per l’omonima installazione video esposta alla 51a Biennale di Venezia e Damien Hirsh. David Mamet e William Kentridge guardano invece, a Catastrophe (1982, dedicato al drammaturgo ceco Vaclav Havel) per il loro omaggio video a Beckett. Un attore (Protagonista) è in piedi su un podio mentre, con l’aiuto di un Assistente, un Regista lo prepara per uno spettacolo teatrale che sembra non consistere in null’altro che nella sua stessa apparizione fisica. Viene trattato come un oggetto, spogliato, messo in posa. Della sua volontà non si tiene conto ed è a tutti gli effetti un manichino nelle loro mani, trattato come una vittima degradata e umiliata. Ma la fine è particolare: il regista chiede di illuminarlo per avere la sua “catastrofe” o conclusione. Mentre la luce è tutta su di lui, anziché rimanere immobile come da copione, l’Attore alza la testa spegnendo lo scroscio di applausi. Proprio con questo gesto finale egli riafferma, a un passa dal baratro, la sua dignità. I tre personaggi corrispondono ai tre ruoli nel potere di uno Stato: un dittatore, un servo che obbedisce ed esegue gli ordini, il popolo che subisce e poi si ribella. Il teatro svela la gerarchia della società.

 Il cortometraggio di Mamet con l’interpretazione di Harold Pinter (Director), Rebecca Pidgeon (Director’s Assistant) e con l’ultima toccante apparizione di John Gielguld (Protagonist) fa parte del progetto Beckett on film (2000) prodotto da RTE, Channel 4 e Irish Film Board, presentato al 57° Festival del Cinema di Venezia nella sezione Nuovi Territori. La storia si svolge dentro un teatro tra ombre inquietanti e fari di scena. L’anziano attore ha ancora la forza, nel finale, di ribellarsi.

 Monument (3’,1990) di William Kentridge è il secondo cortometraggio della saga di Soho Eckstein. La tecnica di animazione usata è quella usuale di Kentridge, lo stop motion, ovvero una successione di immagini filmiche di fasi diverse del disegno a carboncino realizzato appositamente per raccontare la storia. In questa come in altri episodi della saga, la tematica affrontata è quella della storia postcoloniale del Sudafrica, degli orrori del capitalismo e dell’apartheid, complice questa volta, la simbolica trama beckettiana della relazione di potere tra Regista-Attore-Assistente. Monument è stata esposta come installazione alla Tate Gallery.

Nel 1968 Bruce Nauman, esponente dell’area concettuale americana e tra i pionieri della videoarte statunitense insieme con Dan Graham e Peter Campus, crea Beckett Walk o Slow Angle Walk.  Si tratta di un’opera video-performativa che mostra il dispositivo video nella duplice funzione di processo e immagine spazializzata. In Beckett walk una telecamera fissa collegata a un monitor per ciascun lato di uno spazio architettonico quadrato che si sviluppa in altezza, riprende dall’alto la persona che ne percorre il perimetro. I suoi movimenti non sono naturali: Nauman realizza una sorta di happening o performance mediatica ripetitiva, a loop: il performer con le mani dietro la schiena alza una gamba a 45 gradi e la lascia poi ricadere a terra con grande rumore.

Comportamenti bizzarri, rovesciamenti del corpo che vengono ritagliati nella scatola del monitor e che contrastano con quel geometrico percorso obbligato che regolamenta il suo tracciato nello spazio. Come ricorda Valentina Valentini: “Non è gratuito il riferimento a Beckett, che è stato un incontro importante per Nauman, perché in entrambi il linguaggio è un elemento che trova in se stesso il proprio fondamento, non sta al posto di…, non è uno strumento espressivo legato alla dimensione soggettiva e intersoggettiva di locutori e perlocutori”[2].

Natalia Antonioli regista teatrale toscana con un background di studi filosofici, ha percorso per un’occasione specifica nel 1999 (il Premio Autore Donna) l’itinerario beckettiano con una serie di installazioni video e sonore che risultarono vincitrici della sezione Nuove Proposte. L’autrice nel catalogo curato da Marina Corgnati, le definisce “microregie”, concertazioni installattive dalla durata minima, quasi istantanea, seguendo scrupolosamente le indicazioni beckettiane per i suoi dramaticules.

Passi è realizzato come un tracciato di scritte bianche con correttore (frasi dal testo stesso di Beckett) su materiale plastico scuro posto a terra a formare gli otto numeri del gioco infantile della campana. Il gioco  non termina mai perché ricomincia sempre, e così è per la voce registrata associata all’installazione: un cadenzato ripetere delle parole beckettiane per bocca di bimba.  Tra le installazioni spicca senz’altro la resa video-letterale di Ohio Impromptu. Il tavolo con due sedie e due monitor propone un dialogo impossibile e infinito tra Ascoltatore e Lettore, tra Io e Non io: un interlocutore assente – simboleggiato dalla neve del televisore non sintonizzato – e un video-braccio che comanda ma dà regole non ascoltate.

In tutte le installazioni i frammenti del testo originario sono sparsi in forma di sasso o cemento inciso (Giorni felici III), di carta ghiacciata (Quella volta), accartocciata, di ritagli di singole minuscole lettere ricomponibili a scelta da chiunque secondo il meccanismo della casualità. Il teatro è dietro un’unica immagine che condensa, “ghiaccia” quell’istante, “quella volta” e si concede ma per tracce fossili, all’archeologo-visitatore. Metronomi a battere il tempo per nessun strumento, voci inabissate che si disperdono dentro coni metallici, vetri che accolgono bocche afone, corpi smembrati dall’occhio della telecamera, dondoli dal movimento inarrestabile, giochi della morte e giochi dell’infanzia.

I monitor isolati, gli oggetti casuali, le sequenze narrative monche sono lì a sostituire attori e trama e a testimoniare un’assenza imprecisata o un’attesa infinita. L’installazione è infatti, una scena provvisoriamente abbandonata, laddove una presenza umana si è dileguata e ha lasciato ombre elettroniche e guanti in lattice, borsetta, ombrellino e collana di perle. Nella dimensione irricostruibile e indecifrabile del luogo e della storia, nella negazione del tempo e contemporaneamente nella resa di “creature in fuga”, il senso di un Beckett messo per una volta in mostra e non in scena.

Studio azzurro nel 2004 ha firmato le scenografie digitali per Neither. All’opera musicale per soprano e orchestra concepita da Morton Feldman nel 1976, Beckett aggiunse su commissione dello stesso compositore, il libretto. Feldman chiese infatti a Beckett per l’opera, la “quintessenza” della sua poetica, che fu prontamente consegnata in forma di un pugno di righe come una sorta di suprema astrazione o distillato del suo pensiero, intorno al tema universale dello stare al mondo, in una condizione sempre oscillante tra l’io e il non io.

Studio Azzurro sceglie una dimensione evocativa quasi surreale, sorretta da pochi oggetti in formato video digitale, che rimandano al mondo beckettiano: un dondolo, l’uccello in gabbia, un uomo nel letto, l’albero, le scale, una porta semiaperta che non è retta da alcun muro, una lama di luce in un palcoscenico vuoto, quel teatro secondo le stesse parole di Paolo Rosa, simbolo di nessun luogo e insieme crogiuolo di tutti i luoghi possibili.

Waiting for Godot sbarca su Internet nel 1997. Presentato al Digital Story Telling Festival. Waiting for Go.com è uno spettacolo di teatro on line con uso delle chat room e con personaggi interpretati da utenti collegati in quel momento; icone grafiche rappresentano non solo Didi e Gogo (Estragone e Vladimiro) ma anche altri personaggi improbabili come Mister Muscle, che si inseriscono ogni qual volta entra un nuovo utente; Waiting for Go.com ha un suo ambiente visivo offerto dalla piattaforma Palace.com che non è altro che il palcoscenico virtuale della rappresentazione. Del testo non rimane pressoché nulla se non alcune suggestioni dei personaggi. Il pubblico era costituito anche dagli spettatori reali del festival grazie a video-proiezioni. Nel resoconto on line sul sito della compagnia, dal titolo Clicking for Godot l’autore Scott Rosenberg esalta la nascita di un genere, il digital puppet theatre in un nuovo teatro on line, le cui modalità di (non) comunicazione rimanderebbe proprio al tema dell’assenza in Beckett:

 IIn Aspettando Godot nulla accade per due volte in ciascuno degli atti. Nelle chat rooms nulla accade la maggior parte delle volte, le persone si ritrovano ogni sera e aspettano per lo più che accada qualcosa, che qualcuno dica qualcosa di interessante, che un diversivo gli aiuti a passare il tempo. 

 L’artista multimediale e musicista Roberto Paci Dalò creatore della compagnia Giardini Pensili si è dedicato a Beckett in un paio di occasioni: la prima volta con l’installazione visiva e sonora Beck/ett realizzata a Castel Sant’Elmo per la grande mostra dedicata al Living Theatre e curata dalla Fondazione Morra, con la voce campionata di Julian Beck. Nel 2006 ha dato vita a uno spettacolo videopoetico (altrimenti definito dall’autore “esecuzione scenica”) di notevole valore a partire dall’ultima produzione poetica di Beckett e interpretato da Gabriele Frasca e Patrizia Valduga, a loro volta poeti (e traduttori) in scena insieme a una giovane attrice francese, Caroline Michel. Qual è la parola si regge su atmosfere rarefatte, trasparenze, voci sussurrate o disperse, parole inanellate a suoni e immagini evocative, in una composizione fragilissima e intensa, sottoposta a un trattamento digitale in diretta. Proprio il digital live è quella modalità – più volte sperimentata da Giardini Pensili – che rende la tecnologia stessa significativo evento poetico in sé.

Un originale omaggio in video ispirato a Not I, monologo del 1972 di Beckett, è quello di Mald’è, giovane compagnia campana video/teatrale di Matilde de Feo e Mario Savinio. Il video di 11’ (che ha una forte pregnanza visiva, e aderenza alla poetica beckettiana e un’ottima realizzazione tecnica), è una cascata ininterrotta di parole dallo strano personaggio di Bocca (interpretata dalla stessa De Feo). Bocca va a occupare un angolo di un ambiente elettronico caratterizzato da un biancore abbagliante e da cui emergono a tratti, segni grafici esplosi e frammentati, fonemi vomitati, risucchiati e poi sparsi ancora nel vuoto elettronico. Dalla bocca “reale” ma isolata dal contesto corporeo, si passa a quella digitale, una macchia rossa che mentre parla si sfalda, si sdoppia, si sovrappone in un’infinita metamorfosi elettronica. Riconoscibile sempre più a stento come un organo fisico scompare affogato nel bianco, quel bianco accecante che domina molta parte della produzione beckettiana.

Atto senza parole I di Carlo Caprioli e regia di Enrico Maria Lamann è stato presentato a Film Maker di Milano e al Lodi Film Festival del 2005. Carlo, figlio di Vittorio Caprioli interpreta col video quell’invisibile potere che regge i fili, guida gli oggetti della sopravvivenza e quindi il destino dell’uomo nel deserto in cerca dell’acqua continuamente sottratta. E’ un’entità lontana che governa gli eventi muovendoli virtualmente da un non meglio precisato mondo parallelo fantascientifico, indossando data glove e virtual eyes. I limiti spaziali non oltrepassabili dall’uomo sono dati dal campo stesso dell’inquadratura. L’uomo è prigioniero dentro il video, dentro la scatola quadrata del monitor. Da lì il protagonista non può uscire, prigioniero senza scampo in un deserto bianchissimo e in uno schermo al plasma.

La luce bianca torna ancora a infierire e annulla i contorni delle cose, disintegrando qualsiasi apparenza antropomorfa nel muto deserto siderale materializzato da Beckett in All strange away. A questo si ispira il video di Motus A place (that again). La compagnia si cimenta in un tratteggio di corpi evanescenti come ectoplasmi che nella loro liquefazione di fronte al bianco totale, diventano figure simili alle pitture di Bacon. E’ in scena e in video l’ossessione della fine descritta esemplarmente con un minimalismo d’immagine agghiacciante. Dalle note della produzione video di MOTUS:

 Azione. Un luogo, ancora quello. Mai un’altra domanda. Un luogo. Poi qualcuno, ancora quello. Ancora le sue scarne parole che ci perseguitano come quella luce abbagliante che invade e folgora. Ovunque. Ancora quello spazio vuoto. Bianco assoluto. Dove tutto si vede. In cui tutto precipita. Senza alternative. All strange away. Diabolico tentativo di fermare il tempo, di dilatare l’istante del trapasso, definitivo, verso il momento in cui “nessun rumore di respiro è percepibile”. Immagina solo carne silenziosa. Mangiata dallo sguardo. Occhio belva. Che cerca negli angoli senza ombra. Il video indaga nelle pieghe della pelle. Con rigore scientifico. Espone. Così è la morte o meglio, così è la caduta secondo BECKETT.

Il bianco elettronico è il non luogo beckettiano. Dove affogano i pensieri sessuali, le memorie del personaggio. Come ricorda Mussapi  nell’antinferno beckettiano non c’è grido, non c’è richiesta di ascolto, perché tutto avviene dopo il corso del tempo, di cui sussistono illusorie dilatazioni dell’istante, spasimi molecolari della durata, movimenti microscopici di una immobilità ormai in fase di definitivo assestamento come lava ormai solidificata”[3].


[1] L. Avantaggiato, MultiBeckett. Samuel Beckett tra vecchi e nuovi media, in “Biblioteca teatrale”, n. 81-82, 2007.

[2] V. Valentini, Corridoi, labirinti, soglie: come mettere in gioco lo spettatore, in Dal vivo, Roma, Graffiti , 1996.

[3] L. Mussapi, Postfazione a Beckett, S. ,Quello che è strano via

L’installazione “Il soffio sull’angelo” di Studio Azzurro. Testo di Anna Monteverdi dal Catalogo
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Da sempre, penso, l’uomo ha avuto la necessità di costruirsi degli schermi, di limitare le misure e confinarle entro più lati, di dare cioè, una dimensione all’infinito che gli stava davanti. E’ per vincere definitivamente questo sentimento della paura, di limite che si potrebbe avere nella percezione dell’infinito che l’uomo genera il suo capolavoro: non più porre limiti dentro la realtà, ma porre la realtà dentro i limiti, reinventandola.  Paolo Rosa

Spazio-limite, spazio-possibilità

Tre paracadute sono sospesi nel vuoto della stretta e lunga ex struttura industriale della Marzotto – ora sede dei Dipartimenti Scientifici dell’Università di Pisa – che limita lo sguardo e impedisce loro di spiccare il volo; all’interno e all’esterno del reticolato a velatura sottile del paracadute sono proiettate immagini messe in movimento mosse da un getto d’aria direzionato su alcune zone sensibili del telone. I corpi nudi, quasi navigando in assenza di gravità, si depositano, si avvolgono nella concavità-convessità del paracadute, ripiegandosi come in un ventre. Tre paracadute dalla trama-tela di ragno che respira e si lascia attraversare dall’aria si srotolano in sospensione: sono incatenati, trattenuti nella loro dilatazione “alare” da una barriera architettonica. Il limite svelato è il mondo e il contesto è lo spazio: è lo spazio negato, lo spazio della costrizione, della distanza e dell’assenza; il limite-cornice della struttura architettonica isola e separa da ogni contatto, nega ogni “convivenza ambientale”.  L’installazione è un “osservatorio” sulle possibilità di espansione, ma non di dominio, dell’uomo: si estende dal microcosmo della tela-paracadute all’infinito dello “spazio extraplanetare” della sensibilità umana. Dal recinto architettonico che aggredisce e racchiude in gabbia il corpo colto nel suo tentativo negato di librarsi in aria (e con esso tutto il territorio dell’agire artistico e tutto il sistema dell’arte del vedere e dell’sporre) alla riappropriazione dello spazio vitale, fuori da ogni cornice-confine-schermo che rinchiude e fissa le regole dello spazio di movimento.

Cerchio, ellissi e levitazione 

La calotta del paracadute avvolge in un abbraccio parabolico i corpi che, come satelliti solidali, sono in movimento orbitante di rotazione-rivoluzione intorno al proprio o altrui asse. La circolarità è il principale tema visivo, ripetuto, in un contenimento delle varianti, nei movimenti e negli oggetti – palla, ruota, anfora – e nella forma stessa del dispositivo che li ospita, da dove partono e dove rientrano. Restare nell’orbita umana significa includere le leggi del suo esistere, correggere l’errore di parallasse, cercare altre coordinate, altri centri di gravità, altri punti di osservazione, rivendicare una presenza e una posizione nel mondo.  La forma del paracadute rimanda alla familiare sfera schiacciata ai poli, che ci contiene, il movimento elissoidale dei corpi-pianeti, alle leggi di Keplero. Ma soprattutto il volo del paracadute sopra la verticale dell’esistenza di ognuno, riconduce a un sollevarsi interiore, a una tensione di ascesa, al desiderio di oltrepassare ogni limite, staccare le ali da terra per ritornarvi, rivitalizzati da una nuova consapevolezza. Lo spettatore, collocato dentro il cerchio iniziatico dell’installazione, prende fiato, recupera le proprie forze e il proprio corpo, atrofizzato nella posizione rigida imposta dal sistema, si riappropria del proprio spazio vitale, sola sopra i confini di stati sovrani, stabilisce nuovi rapporti.  Nella città che ospita il battaglione della Folgore, quello stesso dispositivo usato dai paracadutisti diventa il simbolo di una necessaria mutazione-trasformazione dell’esistenza. Studio azzurro ci ha abituato a operazioni di straniamento di questo tipo: i raggi infrarossi – triste ricordo di una guerra del Golfo vissuta attraverso la sua versione spettacolare televisiva – in Il giardino delle cose, bucavano e rendevano concreto il buio; i raggi X ad uso della polizia aereoportuale in Il viaggio, esploravano storie intime e private; in Kepler’s Traum le immagini satellitari del Meteo ci ricordavano la comune condizione dell’essere sospesi nel cosmo mentre due quarti del pianeta combatte per un lembo di terra.

Il fiato sospeso 

L’intero atto teatrale è un rituale concepito per rinnovare la nostra vitalità, per liberarci dalla morte e ciò si compie con un respiro. Questo respiro comincia con un ansito, come quello di un bambino appena nato. Il teatro senza questo ansimare ci soffoca. Insisto sul teatro. Insisto su di esso perché lo riconosco come un rituale senza cui la nostra sopravvivenza perde terreno davanti ai confini della morte sempre invadente, la morte cala su di noi con il suo silenzio senza respiro.Lo scopo del teatro è far ansimare il pubblico.  (Julian Beck)

Il soffio anima i corpi, il respiro dà loro moto, quell’impulso generativo-cardiaco di corrente senza il quale sono materia inanimata, persi e risucchiati nel vortice profondo del vuoto dell’esistenza inautentica. Nell’installazione il respiro che riporta alla vita torna a far gonfiare il diaframma e a dar voce a grida, ha la forza propulsiva del getto d’aria artificiale all’uscita del labirinto degli specchi del Luna Park, il ritmo dell’inspirazione-espirazione degli astronauti e dei subacquei in assenza di ossigeno e la qualità rigeneratrice del pranayama yoga (letteralmente respiro guaritore”).  Il respiro è nuova creazione, apre a nuovi orizzonti, nuovi mondi e modi possibili del vivere e del sentire e assume nella sua funzione liberatrice e illuminante, la forma iniziatica di un rituale contenuto nella vita quotidiana: un rituale rigenerativo che si compie all’interno del “sacro recinto” del paracadute semplicemente con un respiro perché “Nulla è più naturale del cambiamento” (Julian Beck).  Attraverso il respiro consapevole e un sentire collettivo che elimina ogni separazione, l’uomo recupera il significato profondo delle cose, ne scopre le intime relazioni (la trama e l’intreccio). La forza gravitazionale attrae verso l’uomo in una nuova dimensione dove i corpi danzano come in un’armonia celeste, vagano nell’etere, viaggiano sulle frequenze, sulle onde hertziane e sopra gli stati.

Per Paolo Rosa in memoriam
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Pubblicato su Culture teatrali

La notte tra il 19 e il 20 agosto di quest’anno è mancato Paolo Rosa. L’ultimo sguardo lo ha rivolto all’azzurro del Mediterraneo, in Grecia, a Corfù dove stava trascorrendo le vacanze con gli amici di sempre e con la moglie Osvalda. Aveva 64 anni. Ha ragione Giacomo Verde: un brutto anno questo per le arti elettroniche. La morte di Paolo Rosa rinnova il dolore per la perdita di Antonio Caronia, entrambi compilatori (tra gli altri) del Manifesto per una cartografia del reale (1992).

 Rosa era uno degli artisti visivi più talentuosi della sua generazione, fondatore insieme a Leonardo Sangiorgi e Fabio Cirifino dello Studio Azzurro, ambito di studio e di sperimentazione audiovisiva e interattiva che ha creato un nuovo modo di pensare l’arte in rapporto con la tecnologia, rendendo quest’ultima, un fondamentale strumento linguistico ed espressivo. Paolo Rosa ci teneva a ricordare sempre nei suoi incontri, la fondativa esperienza nell’ambito del Laboratorio di Comunicazione militante negli anni Settanta a Brera, dove ha mosso i primi passi esplorando fotografia e cinema, ma propendendo per quest’ultima. Disegnatore, pensatore, progettista multimediale e docente d’Accademia, Paolo lascia fiumi di riflessioni e pensieri sull’etica dell’arte nel suo faccia a faccia con la complessità contemporanea, con i “media-mondo”, e sulla sua fondamentale funzione collettivizzante e socializzante. Lascia in eredità a tutti noi il patrimonio inesauribile delle sue straordinarie pratiche artistiche visionarie che affondano le radici in una volontà d’arte totale che lambisce architettura, teatro, danza, cinema, grafica, pittura, video. Come dissociare i lavori di Studio azzurro dagli splendidi disegni preparatori da lui realizzati, che dell’opera formata (sia essa installazione, video o spettacolo tecnologico) diventano la sinopia, il bozzetto preparatorio, le fondamenta dell’intero edificio artistico ma con un forte valore estetico a sé.

Lo Studio Azzurro con Paolo Rosa ha abituato il pubblico a immergersi nella bellezza e talvolta nello stupore della tecnica, conducendolo nei territori dell’io attraverso monitor, schermi e dispositivi interattivi. Ma Paolo era ben consapevole che la potenzialità della tecnologia nelle mani di un artista non dovesse limitarsi a un puro uso funzionale o a un solo ambito estetico o poetico, ma applicarsi ad una vera mutazione sociale e antropologica della società: “Sperimentare questi linguaggi – scriveva nel 1994 – induce a confrontarsi continuamente sull’impatto che essi hanno nella società. Davvero in questo ambito di ricerca si ha la sensazione di sperimentare anche nello spazio sociale, inciampando spesso in qualche nervo scoperto della contemporaneità”. L’artista si appropria dei media per dar loro un senso diverso dalla finalità tecnica per cui sono stati progettati: con questo approccio legato all’idea di “reinventare il medium”, le tecnologie non sono più “semplici attrezzi del mestiere, docili e inerti, ma diventano portatori di senso, di una nuova visione del mondo”.

Studio azzurro ci ha abituato a operazioni di ribaltamento straneante della funzione originaria delle tecnologie, una volta approdate nell’arte: i raggi infrarossi – triste ricordo di una guerra del Golfo vissuta attraverso la sua versione spettacolare televisiva – ne Il giardino delle cose, bucavano e rendevano concreto il buio; i raggi X ad uso della polizia aereoportuale in Il viaggio, esploravano storie intime e private. In Kepler’s Traum, opera musicale ispirata alla teoria di Keplero sul movimento dei pianeti, Studio Azzurro porta in scena su uno schermo semicircolare i diversi segnali e le immagini del nostro pianeta provenienti in diretta dal satellite Meteosat, in una potente metafora della necessità di osservare la sfera che ci ospita da un insolito punto di vista, tecnologicamente “aumentato”.

Parafrasando una frase dal libro scritto a quattro mani con Andrea Balzola, L’arte fuori di sé, diventato il suo testamento teorico, la sua arte era “plurale” non solo nella condivisione della progettualità ma anche nel linguaggio e nella tecnica. Non più il solo video monocanale, non solo la semplice videoinstallazione ma videoambienti, narrazioni complesse, plurali appunto, perché si relazionano contemporaneamente con lo spazio, con la luce e con lo spettatore; sono quadri in movimento, architetture visuali e sonore che strabordano dai confini e dagli steccati a senso unico dell’arte. Il visitatore scopre dentro il cerchio iniziatico dell’opera, un nuovo mondo, talvolta un mondo interiore e può decidere con quale senso appropriarsene, o semplicemente abbandonarsi al flusso mai interrotto di stimoli, percezioni, sensazioni. “Installazioni come luogo in cui stare dentro una narrazione”. Così per CoroTavoliSensitive CityIl soffio sull’angelo e l’ultimo lavoro In Principio (e poi), ideato per il padiglione della Santa Sede della Biennale di Venezia. Se i nuovi media promuovono la creazione di uno spazio sensoriale dinamico e sollecitano a una visione e un ascolto sinestetico, nelle installazioni interattive di Studio Azzurro cosmografie di corpi giocano con il soffio, con il battito delle mani, con il suono, con luci impalpabili che danno forma a un volto. Nell’estetica liquida “sottrattiva” e relativa poetica della trasparenza di Studio Azzurro, prende campo un’interattività che si libera dall’evidenza delle corazze tecnologiche per operare in uno spazio sgombro ma sensibile, ricco di sollecitazioni emotive dove il vuoto è forma da riempire di “vibrazioni, sovrapposizioni, oscillazioni, contrasti, che sono la spina dorsale della nuova narrazione”. Per la serie di installazioni che compongono Mediterraneo gli elementi naturali, la moltitudine di lingue, il lavoro dell’uomo sono messi in connessione con la tecnologia, che è la chiave di accesso al paesaggio, ai colori, ai suoni. Si entra nell’interattività con un gesto naturale e con un corpo senziente. Ha ragione la videomaker Agata Chiusano a dire che le videoinstallazioni di Studio Azzurro “hanno conquistato uno spazio fino allora inesplorato: quello della fisicità emotiva dello spettatore”.

Questa modalità di naturale artificialità, che prevede l’esposizione di “ambienti sensibili” al calore umano, al suono prodotto dal battito di una mano, che escludono qualunque interfaccia tecnologica e promuovono, come ben stigmatizza Valentina Valentini, “lo spettatore come io narrante”, è una costante della ricerca di Studio Azzurro sin dagli esordi. Nel Nuotatore, una delle prime installazioni del gruppo, lo spettatore è materialmente immerso nella vasca vuota di acqua ma riempita di monitor sincronizzati ricostruita dentro Palazzo Fortuny ed è sollecitato a immaginarsi una storia seguendo il nuotatore nella sua linearità di percorso acquatico ma anche i relitti e le tracce inattese che interrompono la serialità dell’azione. Perché in fondo “L’idea di interattività era latente nelle nostre videoinstallazioni. Un’interattività concettuale, non fisica o parzialmente fisica perché si poteva interagire con lo spazio

Non c’è dubbio che la data di nascita del videoteatro sia sancita proprio dagli spettacoli di Paolo Rosa e Studio Azzurro in collaborazione con Giorgio Barberio Corsetti: da Prologo a diario segreto contraffatto (1985) a Camera astratta (1987), quest’ultimo considerato un “esempio-faro” del teatro elettronico italiano e che raccoglie l’eredità lasciata dal Teatro Immagine di Memé Perlini, nome storico dell’avanguardia romana.  Il Dams di Bologna nel 2003 organizzò un importante convegno dal titolo Lo schermo e lo spazio, coordinato da Gerardo Guccini, in cui Paolo Rosa intervenne proprio a spiegare le ragioni dell’innovazione del lavoro teatrale insieme con la Gaia scienza di Corsetti in cui la tecnologia entrava non quale elemento decorativo ma come appendice fondamentale per l’attore e per lo sviluppo stesso della drammaturgia: “Sono spettacoli che ci introducono alla ‘doppia scena’ e al dialogo tra personaggio naturale e personaggio artificiale, che ci dava insomma la consapevolezza che usare la tecnologia in scena voleva dire pensarla in termini drammaturgici prima ancora che scenografici. I monitor recitano, si muovono, si stancano come gli attori, mostrandosi in tutta la loro fisicità e fragilità.”

Paolo odiava correnti ed etichette e per questo motivo si tirò ben presto fuori dal contesto della videoarte e, in generale, dal cosiddetto “sistema dell’arte”. L’arte elettronica, era solito dire, ha una forza dirompente tale che fa saltare il problema disciplinare: “La videoarte ci sembrava che fosse come la bodyart, come la conceptual art, una delle tante forme e tendenze delle arti visive”.

Di Paolo Rosa ci mancherà la gentilezza, la generosità e la passione che metteva nel suo lavoro; ci mancherà il sorriso e la disponibilità a confrontarsi e a dialogare, a mettersi a disposizione di tutti, di studenti e neofiti dell’arte elettronica come di critici acclamati. Ci mancherà la persona impegnata nel suo tempo, preoccupata di dar vita più a “contesti partecipati” che a opere, a connessioni e relazioni più che a creazioni artistiche.

Avevo sentito Paolo poco prima di Ferragosto: ci legavano amicizia, studi e lavoro in Accademia a Brera. Era stato Paolo a introdurre il mio libro Nuovi media nuovo teatro a Book city a Milano.
Mi congedo facendo mio questo commosso ricordo di Sandra Lischi, studiosa di media e cinema che mi ha permesso di conoscere, all’Università di Pisa, la straordinaria lezione d’arte e di umanità di Paolo:

Ripenso all’impressionante qualità e quantità dei doni di Paolo: le sue folgoranti, problematiche sintesi teoriche; i suoi film, con quella particolare libertà di sguardo; la sua infaticabile attività di insegnante; i suoi innumerevoli testi; la sua disponibilità e curiosità umana; il suo modo di pensare, progettare e accompagnare la creazione artistica; la sua idea di impegno; la sua serietà; il suo sorriso; la grazia che metteva in tutto; e anche la garbata fermezza, la lucidità critica, lo scontento per un paese e per un sistema dell’arte sordo e cieco; la rivendicazione di spazio alla poesia e alla bellezza mai disgiunte dal senso del vivere civile, della memoria, del potere rivoluzionario del linguaggio. Sono ormai un patrimonio inciso a fondo nel nostro percorso le sue riflessioni sulla tecnologia, il suo pensiero critico sull’interattività non come dispositivo tecnico ma come possibile attivazione di sensibilità, di intelligenza coniugata con la meraviglia; la sua teoria di una ricerca che può e deve essere donata anche in una dimensione di “spettacolo” (togliendo a questa parola la pesantezza volgare che l’ha avvolta in quest’epoca); la sua consapevolezza culturale e la sua capacità visionaria. La sua teoria si incarnava nella vita stessa di Paolo: l’importanza e la responsabilità del comportamento, l’etica, l’idea del “dono” che emergono dai suoi scritti sull’arte erano anche nel suo modo di essere.

http://www.youtube.com/watch?v=N88xXGWoSXs&feature=share&list=PLKQi86dfXuoZBfN6GOTKT1tOKUyLyuG_T

Mapeando superficies. Artículo de A.M.Monteverdi y Enzo Gentile
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Artículo de Anna Maria Monteverdi y Enzo Gentile que hace un recorrido de las técnicas de video mapping y contextualiza esta nueva técnica artística en el contexto teatral y su historia.  www.xanela-rede.net (tradotto in spagnolo da Konic thtr; in italiano su Interactive-performance). 

 

images (1)Primero era la video proyección. Entonces llegó el mapeo de vídeo digital y eclipsó todo lo demás. El mapping arquitectónico, façade mapping, 3D vídeo mapping, videoprojection mapping, architectural VJ, son algunas de las expresiones utilizadas para definir estos nuevos formatos artísticos. El ámbito de aplicación de estas técnicas es la llamada Realidad Aumentada, una superposición de revestimiento virtual sobre estructuras materiales con el objetivo de modificar la percepción visual.

Sobre la base de estos experimentos de realidad aumentada se crearon obras videográficas y arquitectónicas intrínsecamente nocturnas, y espectáculos teatrales que juegan con escenografías / actores virtuales y proporcionan un mapeo (mapping) 2D y 3D de gran realismo con proyecciones sobre enormes superficies: paredes de palacios, castillos, torres, pero también telones teatrales.

Animación, música, experimentaciones videográficas e interactividad se prestan al desarrollo de innovadores objetos multimediales y artísticos. Esta técnica agrega una audaz interacción entre la solidez de la arquitectura y la fluidez de las imágenes en movimiento.
Si el artista callejero norte-americano Julian Beever – rebautizado familiarmente Pavement Picasso – usa la tiza para crear efectos ilusionistas tridimensionales en el suelo de las calles (3D street art), ahora es la tecnología vídeo aquella capaz de engañar al ojo y de hacernos creer ver lo que no hay.

 En Italia son especialistas en este campo Apparati Effimeri (creadores del visual de Madre assassina por Teatrino Clandestino), Roberto Fazio, Luca Agnani, AreaOdeon, Claudio Sinatti, Enzo Gentile/Giacomo Verde de White Doors Vj e Insynchlab. En el mapa internacional destacan los alemanes Urban Screen, arquitectos especializados en instalaciones digitales e instalaciones también en áreas urbanas. Nacidos como grupo en el 2008 pero activos ya desde el 2004 con sede en Brema, trabajan en el campo del entretenimiento, de la publicidad y del espectáculo usando los nuevos medios de comunicación digitales y las videoproyecciones. Abiertos a la colaboración con artistas que trabajan el motion graphic y el video, han creado un nuevo género de arte público estrictamente digital.

El trabajo artístico se inició con las técnicas y programas creados específicamente para ello y se basa en una reproducción precisa de la superficie del elemento arquitectónico que se va a intervenir y la proyección de un video digital o de animaciones perfiladas con exactitud sobre este fondo arquitectónico. Esta proyección da lugar a extraordinarios acontecimientos y a efectos tridimensionales improbables cuanto fantasmagóricos.

Real o virtual? Desde la perspectiva de Video Mapping monumentista. 

La ilusión perceptual, en los casos más exitosos de Video Mapping, es la de una “arquitectura líquida”, flexible, que se adhiere como una película o se separa de la superficie real. Los fragmentos de superficies crean una ilusión óptica de impacto como si fueran piezas de Lego, todo bajo la mirada del público o del transeúnte, que ya no pueden distinguir entre la trama arquitectónica real y virtual.

Inmediatamente adoptado por las grandes marcas internacionales para su publicidad y el lanzamiento de nuevos productos, la técnica hace también entrever un posible empleo performativo digital, que permite unir vídeo arte, animación, instalaciones, artes gráficas, diseño de iluminación y teatro en vivo. Fachadas de casas e iglesias con cada uno de sus elementos arquitectónicos que se disgregan, se convierten en imágenes / cuadros en movimiento, adornados con manchas de luces y colores que cambian al ritmo de la música, personajes digitales que se encarnan en las ventanas, portones, techos: es un nuevo arte medial, un arte media-performativo.

La técnica es la del mapeo y del uso de máscaras, que explotan la pre-distorsión de la imagen o del vídeo para que aparezca no distorsionado sobre la superficie mapeada. La proyección tiene que ser ante todo perfectamente homógrafa: dos planos resultan ser homógrafos cuando los elementos geométricos de un plano corresponden a los del otro de manera biunívoca. Cualquier alteración de la distancia y del ángulo de incidencia del haz de luz implica alteraciones de la perspectiva de la imagen y por consiguiente de las irregularidades geométricas. Se tiene que considerar también la posición de los espectadores (una desviación máxima de + o – 15° con respecto a la proyección) para percibir los elementos en 3D no natural (que son en 2D…)

Estamos frente a una renovada “máquina de visión”. En el fondo, el Video Mapping se basa en el mismo principio que las “visiones inefables” del siglo XVI, es decir, aquellos que son sujetos a la anamorfosis, a los extremos de la perspectiva lineal del Renacimiento. En las obras anamórficas, la realidad sólo puede ser percibida a través de un espejo deformante, mientras que el mapeo de vídeo no es más que una máscara que distorsiona / crea una realidad inexistente. La historia del arte nos ha aportado no sólamente la perspectiva exacta “a la italiana”, pero también los puntos de vista, el “sfondati prospettici “, la concatenación de los planos y múltiples puntos de vista que plantean el problema de la profundidad en la pintura, la expresión en un solo plano de la tercera dimensión. Un antecedente histórico y artístico de esta técnica de ilusión tridimensional sobre la arquitectura, lo podemos encontrar en la perspectiva monumental y la pintura barroca (el llamado quadraturismo, en palabras de Vasari, con referencia a la representación de la perspectiva de la arquitectura que “rompe” los límites del espacio real engañando al ojo, y que Omar Calabrese define como “triple espacialidad en la pintura) y el trompe-l’oeil.

Vasari_frescos

Frescos del gran salón del palacio de la Cancillería, de Vasari.

La sugerencia y construcción ficticia del espacio mediante la unión entre el fondo y el primer plano, y el artificio ilusionista resultante, es la base del arte monumental: desde Vasari con sus Frescos de la Cancillería a los frescos en el Palazzo Labia de Tiépolo, de la Cena en casa de Levi de Veronese hasta la pintura de Miguel Ángel en la Capilla Sixtina, la pintura se une a la arquitectura y se fusiona con ella. Así lo afirma Charles Bouleau en La geometría secreta de los pintores:

“La perspectiva monumental es el conjunto de la convenciones que impone a una obra de arte el espacio que ocupa dentro del monumento. El caso es que no exista confrontación, sino armonía entre la obra representada historiada o no y el monumento que es también a su vez obra. El monumento exige que se conserve cierta relación con sus muros, con sus proporciones, y que se respete su escala. Los pintores no deben destruir mediante las ilusiones que crean, la superficie mural, y por otra parte los escorzos no deben perjudicar a las pinturas en sí mismas”.

Peruzzi

Bibbiena_Villa_Prati

Arriba: la escena de Baldassarre Peruzzi para La Calandria la escena comica de Serlio. Abajo: los frescos de Bibbiena a Villa Prati.

Haciendo un recorrido por la historia del teatro, es imposible no mencionar las técnicas de representación gráfica del espacio con un fondo pintado en perspectiva, la escenografía del ilusionismo de los siglos XVI y XVII y el conjunto de obras y tratados relacionadas con estas técnicas: de los dibujos de Baldassarre Peruzzi para la Calandria (1514) a las escenas clásicas en los dibujos de las escenas de Serlio para la comedia, para la tragedia y para escena rústica(1545) a la sección teatral de la obra Perspectivae libri sex de Guidubaldo (1600), los libros de Andrea Pozzo (1693) y Ferdinando Gallos Bibbiena (1711), pasando por la famosa Pratica di fabbricar scene e machine ne’ teatride Nicolò Sabatini (1638) (sobre esto, ver los estudios específicos y en particular el volumen de Ferruccio Marotti Lo spazio scenico. Teorie e tecniche scenografiche in Italia dall’età barocca al Settecento, Bulzoni, 1974).

En la época actual, podemos mencionar:

Lepage1

Lepage2

- el landscape, el cubo de Lepage para Andersen Project, un dispositivo cóncavo que acoge las imágenes de vídeo proyectadas y que gracias a la elevación de la estructura parece tener una corporeidad tridimensional.  

Motus
-la jaula en perspectiva en L'Ospite de Motus, una escenografía monumental y apremiante constituida por un plano inclinado cerrado por tres lados todos ellos convertidos en pantallas que dan la sensación de aplastar a los personajes. El ingenio de esta puesta en escena permite una integración artesanal y eficiente del cuerpo y la imagen gracias a una ligera elevación de la estructura central, dando la ilusión de volumen y profundidad a las imágenes proyectadas.

 La técnica de videomapping está despertando gran interés, y ahora no hay prácticamente ningún gran evento, noche en blanco, celebración de centenario que no incluya un videomapping. El videomapping también se ha convertido en un paso “obligado” para el lanzamiento de las grandes marcas: hemos pasado de los carteles e impresiones enmarcadas con luces de neón a la señalización digital (la publicidad en formato electrónico, los LED de las pantallas LCD o las de plasma, las pantallas táctiles en los espacios públicos). A menudo, estos eventos no sólo son financiados pero también promovidos por grandes empresas como Toshiba, Nokia, Sony, Smasung, LG, para demostrar la potencia de sus proyectores (ya que, obviamente, los usuarios principales de proyectores de decenas de miles de lúmenes son los mega-eventos en estadios, conciertos, promocionales).


Las fachadas de edificios se han utilizado como grandes telones de fondo y acompañan conciertos en vivo, como en la Piazza Duomo, en 2008, con un concierto de Christian Fennesz con imágenes de Giuseppe La Spada. El evento fue firmado por la empresa italiana Urban Screen Spa, a cargo del primer proyecto de medialización urbana en Milano con una mediafachada de 487 metros cuadrados (patio Arengario, Piazza Duomo, Milán, proyecto Mia, Milan El Alto): Mia es la arquitectura multimedia de LED más grande en Europa. Se multiplican los festivales internacionales dedicados al género, como el Mapping Festival en Ginebra o el Kernel Festival en Desio, entre otros. El fenómeno, a medida que ha ido adquiriendo proporciones cada vez mayores y una difusión internacional, ha sido también el tema de conferencias internacionales organizadas por la Asociación Internacional Urban Screen, con eventos (en Manchester y Amsterdam) y la primera publicación exclusivamente dedicada a este tema y de descarga gratuita desde el sitio web Networkcultures.org. En el Festival des Lumières de Lyon en 2010, el Grupo 1024 Architecture produce una pieza notable, que cubre literalmente el palacio con una el  palacio con una máscara interactiva.

Grupo1024

En este miesmo año, el Festival Kernel nos muestra una sucesión de colapsos, grietas e intrusión de plantas y de ciencia-ficción en la fachada del Palacio Tittoni en Desio. O bien el mapeo de la tierra de las pistas de tenis para el Master de Francia en París Bercy, activado por un controlador de PS3 y el software MadMapper (siempre a manos de Arquitectura 1024). También Studio Azzurro realizó en noviembre de 2011 un videomapping titulado Awakening, una alegoría de las figuras de la música en la plaza Scala de Milán: para la inauguración de los Museos “Galerías de Italia”, dedicado al siglo XIX, el mapping se proyecta en los cuatro principales palacios a la vez, el Palacio Beltrami, el Palacio Anguissola, la Scala y el Palacio Marino. En consonancia con la poética de Studio Azzurro, las figuras de las pinturas cobran vida, flotan, fuera del marco e invitan a la gente a entrar en el museo. White Doors VJ utiliza la superficie arquitectónica mapeada como un “lugar” para una acción videoperformativa en vivo, en la que Giacomo Verde actúa al ritmo de la música, generando efectos digitales sobre unas formas y objetos filmados en directo que se mezclan al contenido del videomapping. Es una variación significativa de su “Videofondali” diseñado para la lectura de poesía en vivo, eventos coreográficos o sonoros.

Se ha logrado una verdadera ilusión óptica en este evento en Berlín, un mapeo con ilusiones en 3D el donde el edificio se convierte en un robot, un cubo de Rubik, un transformador, un palacio de hielo.

Herramientas:

Los software más usados para el videomapping son: vvvv (o V cuatro), processing (de código abierto); KPT (gratis), Isadora, Adobe Flash, MAX / MSP/Jitter, Pure Data (código abierto), OpenFrameworks (código abierto) . En 3D: Blender (open source), 3D Studio Max , Cinema 4D.

Processing es un lenguaje de programación basado en Java, a su vez heredero del antepasado de todos los lenguajes orientados a objetos – el C – con el que se pueden desarrollar aplicaciones visuales impresionantes, gestionar la interacción entre sonidos y entorno visual y crear simulaciones realistas para juegos o contenido interactivo. Tiene una sintaxis muy lineal, y puede alcanzar altos niveles de complejidad. Es particularmente adecuado para aplicaciones multimedia distribuidas con licencia de código abierto. El lenguaje, que tiene versiones en todas las plataformas (Windows, Mac, Linux, Android…), cuenta con una amplia comunidad internacional, donde uno puede disfrutar de un diálogo continuo y compartir sus logros. Sitio de referencia: www.processing.org.

VVVV es otro entorno de programación multimedia libre para uso no comercial. Permite manejar gráficos, audio y video en tiempo real a través de una interfaz visual de tipo diagrama de flujo, que no se basa en código escrito sino en objeto-iconos que le confieren características interactivas y una edición visual. Es una forma de programar por “objetos” con un enfoque intuitivo, especialmente adecuado para aquellos que están acostumbrados a tratar con representaciones visuales de comunicación. Sitio de referencia principal: www.vvvv.org

Mapeando objetos. Cualquier objeto se puede mapear, no solamente las superficies de paredes, sino también (y de manera más fácil) los pequeños objetos, muebles a medida, o incluso maniquíes. Por lo tanto, el mapping se puede utilizar en campos como la escenografía, el vestuario, las salas de exposición o el diseño de interiores. En esta demo se muestran las infinitas posibilidades de videomapping a pequeña escala, utilizando como superficie de proyección un maniquí que gracias al mapping se ve vestido videodigitalmente de mil maneras distintas.

Original e inquietante es la máquina humana diseñada para la instalación Locomotoras creada y mappeada en la Place des Arts del grupo canadiense Departement: una maraña de cuerpos pasan a formar un engranaje corpóreo en un mosaico de pantallas.

Locomotive – Place des Arts – Espace culturel

 Impresionante también son las instalación de AntiVJ, que trabajan con elementos orgánicos en proyectos como Paleodictyon para el Centre Pompidou en Metz.

PALEODICTYON

 Del cubo a la catedral


Podemos considerar que Urban Sreen con su 555Kubik fueron los que iniciaron el genero de vídeo mapping a gran escala en 2009.

UrbanScreen

Una mano gigante y un teclado se posan sobre un edificio en forma de cubo, mientras que los cuadros que forman la superficie de la pared parecen salir de ella en un juego de geometría intrigante. En este contexto, también encontramos Rose Bond, Fokus Productions, Telenoika, Paradigma, AntiVJ, Obscura Digital (quien creó el mapping tanto para el aniversario de Coca Cola, como para un evento de interacción inspirado en el mundo de Facebook durante una reunión de los desarrolladores de la red social).

AntiVJ

Fueron Obscura Digital, quienes después de trabajar para la Sydney Opera House, quienes crearon la proyección de vídeo más espectacular que se haya realizado hasta ahora, sobre la Gran Mezquita de Abu Dhabi para celebrar la Unión de los Emiratos Árabes. Las cifras hablan por sí solas: 44 proyectores para un total de 840.000 lúmenes cubrieron un área de 180 metros de ancho y 106 de alto.

Sheikh Zayed Grand Mosque Projections

Los presupuestos que manejan las grandes empresas para estos eventos, no son obviamente al alcance de la mayoría de los artistas independientes. Por tanto, es necesario centrarse en las ideas innovadoras para hacer frente a esta limitación. La proyección arquitectónica en un espacio cerrado, preferiblemente interactiva, es una gran oportunidad que los artistas y los diseñadores tienen a su disposición para representar sus ideas.

El vídeo mapping puede aplicarse en espacios cerrados, en teatros equipados, sin tener que utilizar los grandes proyectores que tienen un coste equivalente al de comprarse una vivienda. En este tipo de situaciones, emociones e ideas pueden prevalecer sobre el gigantismo tan de boga en estos momentos.Eso es lo que el mappimg viene aplicando en la cultura vj, para los clubes, discotecas y otras salas abarrotadas, donde la música tecno es siempre acompañada de vídeo en directo. En Ibiza el grupo Palnoise entretiene a la audiencia con un mapping abstracto pegado al ritmo salvaje de un DJ. Pero el mapping de audiovisuales más espectacular ha sido el de Amon Tobin: sus actuaciones se caracterizan por una estructura geométrica en el centro de la escena, en la que se proyectan las imágenes. El impacto visual proporciona un excelente soporte a su peculiar sonido.

El grupo Le Collagiste VJ, como indica su nombre, propone soluciones espectaculares de VJ mapping.

El público está particularmente atraído por estas formas de espectáculo visual y musical, no sólo por su novedad, sino también por la fascinación hacia las convulsiones de la percepción, la creación de objetos ‘imposibles’ y la precisa sincronización entre imagen y sonido.

Nos referimos al canal de vídeo Vimeo dedicado a videomapping con actualizaciones continuas: ilovemapping

y por supuesto a los numerosos blogs, sitios web y “tutoriales” en la red que explican el procedimiento y el funcionamiento de los distintos programas de software.

El paso siguiente en la evolución de esta técnica ha sido la incorporación de la interacción del público: un ejemplo de mapping de proyección interactiva es Dancing House, por el artista austríaco Klaus Obermaier / Exilio para Lichtsicht, (Bad Rothenfelde, Alemania).

 Roberto Fazio con Nicholas Saporito está experimentando con el mapeo arquitectónico interactivo con vvvv. La interacción se produce a través del movimiento humano captado por una Kinect, pero también puede interactuar cantando o hablando en un micrófono como en este mapping de 1024 Architecture para el Festival Lumière de Lyon, fachada del teatro Célestin.

Nuform nos propone también utilizar el IPad: el público puede elegir el color, la iluminación de efectos especiales y otras maravillas que se proyectan en los edificios. NuFormer, una compañía con sede en los Países Bajos, se ha especializado en la comunicación digital, motion graphics, películas digitales y proyecciones en 3D para eventos de negocios: extraordinario efectos en su Projection on Buildings.

NUform

El vídeo de esta fachada de edificio que parece desmoronarse bajo los ojos del público o que se llena de bolas de colores ha recorrido los todos los sitios dedicados al arte digital, aportando el éxito a esta muy especial y nueva forma de arte.

NuFormer Showreel 2011

Così Rob Delfgaauw de Nuformer: 
 Tenemos solicitudes de espectáculos, performances, conciertos y eventos. Estamos desarrollando una técnica para usar proyección 3D en interior y específicamente para teatros y en contexto de conciertos. En la actualidad, nuestra investigación se centra en cómo encontrar la forma más adecuada para combinar la interactividad con proyecciones en 3D y comunicar la experiencia al público. Desde el momento en que hay suficiente oscuridad y la luz ambiente es baja, podemos proyectar de la misma manera en exteriores o en el interior de un teatro. Los artistas tienen que hacer frente a una nueva forma y un nuevo entorno con el cual expresarse. Trate de considerar un gran edificio como si se tratara de fondo animado de un escenario. Es impressionante. Sobretodo si el contenido se genera en tiempo real.”(entrevista de Anna Maria Monteverdi/Enzo Gentile, 2010).