Nadja Masura, Digital Theatre. The Making and Meaning of Live Mediated Performance (Palgrave 2021). Recensione di Benedetta Bronzini
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https://www.palgrave.com/gp/book/9783030556273

Il volume, che non vuole essere un saggio dall’impronta etica o politica sul teatro digitale e forse proprio per questo è apprezzabile come testo scientifico,,  è suddiviso in quattro parti (SPECTACLE, ACTING, CREATIVE AUTHORITY & AUTHORSHIP, THEORIZING DIGITAL THEATER) e in 12 sottocapitoli, arricchiti da box di storia del teatro (ad es. E. Piscator, J. Svoboda, G. Craig et al.) che danno spessore e respiro al volume, così come gli innumerevoli esempi concreti, che in effetti non si limitano al panorama anglofono.

Mi limito a citare  Teatro e mondo digitale (2003) di Antonio Pizzo e le due monografie di Anna Maria Monteverdi su teatro e multimedia (2011, 2020) per sottolineare come, già solo in ambito italiano, l’opera di Masura arriva ad arricchire un panorama di ricerca già fertile ed approfondito. Tuttavia, a quella che l’autrice stessa definisce una “guida pratica al teatro digitale” sono da riconoscere punti di forza e specificità, primo fra tutti il tempismo. Il volume, infatti, è stato scritto in gran parte prima del 2020, ovvero prima del momento in cui, a causa dei lunghi lockdown imposti dal Covid-19, il 2.0 ha smesso di essere una risorsa, diventando l’unico teatro possibile, conferendo ad espressioni come “theater is place practiced” e “theater must meet its new audience where they live” che leggiamo nel testo significati inimmaginabili per la stessa autrice al momento della stesura.

Allo stesso tempo, il volume è stato completato nel corso dell’emergenza sanitaria. Ciò significa che, oltre a ritrarre l’evoluzione “naturale” dell’enhanced theater dagli anni ‘90 a oggi, Masura ha fatto in tempo a registrare il terremoto dell’ultimo anno e mezzo, fornendo nuove prospettive di analisi e, soprattutto, cogliendo l’esigenza di trovare nuovi parametri e di una nuova contestualizzazione, come si legge nella prefazione. In cosa si distingue, infatti, il teatro digitale dalla digital performance o da un prodotto multimediale tout courtUn teatro è un teatro è un teatro di OHT (OFFICE FOR HUMAN THEATER, 2021) appena presentato alla Biennale Teatro di Venezia, in cui la scenografia è l’oggettiva protagonista della performance e l’elemento umano (tranne una breve ma significativa parentesi) rimane invisibile al pubblico, è l’esempio lampante di quanto labili siano in effetti questi confini.

Innanzi tutto, come evidenzia l’autrice, il teatro digitale non è un teatro che utilizza la tecnologia digitale, bensì una forma espressiva assestante, nata da una compenetrazione di media e tecnologie: “Digital theater is a hybrid art form of great potential. […] The dual ppresence of the live actor and the mediated digital elements creates performance events that allow us to better understand, respond to, and shape our changing world. […] The digital element is a actor”. Masura ha selezionato quattro fattori caratterizzanti, validi per analizzare il teatro digitale già dai suoi albori: 1. liveness (ovvero compresenza e simultaneità); 2. digitally enabled (la centralità e la necessità dell’elemento tecnologico per la realizzazione dello spettacolo stesso); 3. limited (participatory) interactivity, in cui il focus dell’interazione non deve essere individuo e macchina, ma indicare il livello di partecipazione del pubblico nell’interazione con l’attore; 4. spoken language content, e dunque l’elemento esplicitamente narrativo, il testo, un parametro analogico, dibattuto e controverso che ci riporta a quella che, a partire dai saggi di Benjamin (1936), rappresenta una delle principali sfide drammaturgiche del contemporaneo: il ruolo dell’attore nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. A questo tema è dedicata la terza parte del volume (capp. 5,6, The Actor, The (Other) Actor, pp. 99-157), particolarmente interessante ed innovativa, in cui Masura, da un lato si pone in continuità con l’hyper-actor di Pinhanez (1996), Dan Zellner (1999)  nell’affermazione: “theater will consist of virtual sets, live actors, and virtual actors”,  e con “l’attore virtuale e macchina recitante” di cui scriveva Antonio Pizzo nel 2003, avvalorando la presenza insostituibile dell’elemento umano sulla scena, dall’altro analizza e contestualizza diacronicamente (includendo l’antica Grecia e il Puppentheater) l’evoluzione dell’ “attore meccanico” (marionetta, androide, cyborg, robot), soffermandosi sulle produzioni di Mark Reaney Dinosaurs  e The Magic Flute (al centro, insieme a Elseneur e alle riscritture wagneriane di Robert Lepage, anche della prima parte dedicata alla scenografia) e sulla Commedia Robotica di David Saltz.

È alla luce di queste riflessioni che si struttura l’ultima parte del volume, THEORIZING BODY AND PLACE, dedicato alla vera e propria mediaturgy. Qui il dialogo tra virtuale e reale attraverso il corpo e lo spazio viene affrontato sia dal punto di vista soggettivo e individuale, attraverso la fisicità e la corporeità specifica  dell’attore, di cui la tecnologia diviene estensione, che come esperienza collettiva, a partire dall’esempio di World Wide Simultaneous Dance di Laura Knott (1998).

“A patchwork of local places were brought together into one virtual global performance place. The significance of the piece was not just the linking and expansion of performance space, but the emergence of a new place from many. Through the creation  of cyberspace from these interconnected local spaces, the performance began to form a sense of the global, a sense of community becoming manifest, a community of shared interest in creating cyberspace”. Scrive Masura (p. 247) dando voce in modo chiaro a quella che forse è la più profonda evoluzione drammaturgica (e sociale) del tempo presente, ovvero il cambiamento della percezione e dell’esperienza dello spazio e del tempo attraverso il digitale: un’evoluzione che nell’ultimo anno e mezzo ha subito un’accelerazione ancora più repentina. In ultimo, vista la natura versatile e in continua evoluzione del contenuto, l’autrice ha scelto di pubblicare  il volume unicamente in formato digitale, con l’intenzione di mantenerlo periodicamente aggiornato.