Le macchine della visione nel teatro di Robert Lepage. Andersen Project
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Pubblicato su "The scenographer" .
Il canadese Robert Lepage (Québec city, 1957) è uno dei più acclamati registi e intepreti del teatro contemporaneo. Insieme con lo stage designer Carl Fillon e con lo staff tecnico della sua equipe multimediale Ex machina, con sede a Québec city presso un’antica caserma dei pompieri, ha progettato e dato vita ad alcuni tra i più emblematici esempi di uso drammaturgico della tecnica e di integrazione del video in scena. Da Les aiguilles et l’opium a The sevens streams of the river Ota a La face cachée de la lune al recente Andersen project, spettacolo “solo” commissionato dalla Fondazione Andersen per il bicentenario della nascita dello scrittore danese presentato con lo stesso Lepage unico interprete a RomaEuropa Festival.

 

ANDERSEN PROJECT

La trama.

 Il protagonista è FREDERIC LAPOINT, paroliere di cantanti rock di successo, un albino di Montréal in crisi sentimentale e temporaneamente separato dalla moglie, a cui viene commissionato da parte dell’Opéra Garnier di Parigi la riscrittura della favola La driade di Andersen. E’ la storia di una ninfa abitante dentro la cavità di un albero che rinuncia all’immortalità per visitare per un giorno Parigi. Chi lo ha chiamato intende produrre, infatti un’opera in musica per ragazzi. L’altro protagonista è il manager francese che deve organizzare l’evento; impegnatissimo e sempre intento in lunghe telefonate, ha un’ossessione per il sesso che soddisfa frequentando un locale a luci rosse gestito da un graffitista marocchino, Rashid. Entra in scena anche Hans Christian Andersen in persona, con la sua passione per i viaggi e il suo amore non consumato per Jenny Lind. Lo spettacolo ricorda, oltre alla Driade, anche un’altra favola di Andersen, L’ombra. Tutti i personaggi, interpretati dall’eclettico Lepage, convivono con un’ombra che ne rivela la personalità interiore, le aspirazioni ideali ma anche gli obiettivi materiali e le deviazioni sessuali. Un’ombra che se lasciata libera, come nel racconto di Andersen, può portare alla rovina. Frederic arriva a Parigi pieno di speranze ma rimarrà deluso, il manager è abbandonato dalla moglie, mentre Rashid gira libero per i metro a disegnare con lo spray.

 

La scena come un bulbo oculare.

Per Andersen Project Lepage e il giovane  Le Bourdier alla prima prova di stage design teatrale, ma già collaboratore di Ex machina per lo scenario cinematografico di La face cachée de la lune, inventano una struttura scenica molto originale, guardando alla scenotecnica barocca e mostrando come si possa arrivare alla stessa illusione percettiva della realtà virtuale usando mezzi artigianali ed effetti ottici. Per lo spettacolo Lepage crea una scena avente diversi livelli di profondità e di azione (come già aveva sperimentato in The seven streams of the river Ota) e soprattutto per evocare un’epoca come quella di fine Ottocento, ricca di scoperte tecniche e scientifiche, cerca di ricreare teatralmente l’effetto di stupore e meraviglia prodotto nel pubblico dai nuovi dispositivi ottici. La scena è organizzata in profondità, con diverse aree di azione corrispondenti ad altrettanti meccanismi scenici all’interno di una cornice che permette di nascondere i “trucchi” (le macchine e i binari) nel sottopalco e a lato palco. Più arretrato è più imponente, uno spazio cubico prospettico praticabile, un  “panorama” (chiamato dai tecnici appunto, “the landscape”) rivestito di una speciale stoffa che grazie a un sistema pneumatico, può aderire all’interno della parete o gonfiarsi verso l’esterno deformando l’immagine proiettata frontalmente sulla sua superficie che sembra così un guscio o un bulbo oculare. La magia di questa tecnica permette un’artigianale ed efficace integrazione di corpo e immagine (grazie a un leggero rialzamento centrale della struttura), restituendo l’illusione di profondità, ovvero un falso 3D, con un’invisibile e repentina transizione da uno stato all’altro (concavità-convessità); il movimento di arretramento e avanzamento dell’intero panorama su binari, inoltre, fornisce  alla scena un’ulteriore aggiunta di profondità di campo. Il concetto di tridimensionalità come è noto, ha a che fare con la stereoscopia: abbiamo due occhi e percepiamo la tridimensionalità delle cose. Vediamo un’immagine unica ma un occhio vede diversamente dall’altro. In fondo la realtà virtuale si basa su questa percezione tridimensionale., riuscendo a far vedere ai due occhi due immagini diverse. La prospettiva qui, come già intuiva la trattativa e la pratica scenica del Seicento “perde il suo carattere illusionistico e si avvia a diventare lo strumento di identificazione tra spazio reale e spazio scenico” (F.Marotti).

La genesi dell’opera: Hans Christian= Robert?

Su stessa ammissione di Robert Lepage, Andersen Project rappresenta una “summa” di tutti i sui lavori, non solo dei cosiddetti one-man show. Vi ritroviamo infatti, i temi della solitudine, dell’abbandono, dell’incomunicabilità, della sessualità inappagata e della tensione romantica verso un amore o una fama che non si realizza, già presenti in Les aiguilles et l’opium, Vinci, La face cachée de la lune, Elsinore; ma riconosciamo anche la figura dell’artista indipendente, libero dagli imperativi del mercato dell’arte, già presente in Vinci e Busker’s opera; e le soluzioni visive e tecnosceniche già usate in The seven streams of the river Ota. Ritorna la biografia dell’artista illustre come in Vinci (Leonardo), La casa azul (Frida Kalho/Diego Rivera) e Les aiguilles et l’opium (Jean Cocteau e Miles Davis) di fronte alla cui storia il personaggio contemporaneo si rispecchia. L’artista danese, principe della letteratura per bambini, è così visibile in controluce attraverso la vita di personaggi d’oggi che si trovano di fronte a scelte personali in parte simili, ma cento anni dopo. La figura centrale diventa una specie di modello davanti al quale i personaggi (per lo più artisti visivi) amano confrontarsi e interrogarsi: Leonardo da Vinci (incarnazione dell’unione di arte e tecnica) e Jean Cocteau (sublime esempio di ecclettismo artistico) sono tra le presenze topiche della scena di Lepage, anche in forma di citazioni iconografiche o testuali dalle loro opere[1].

Il tema scenografico dello specchio (o dei personaggi-specchio) è una costante quasi ossessiva degli spettacoli di Lepage e secondo il critico James Bunzli introdurrebbe un inequivocabile elemento autobiografico: il personaggio e i suoi molteplici doppi, non sarebbero altro che lo stesso Lepage, il quale parlerebbe di sé specchiandosi letteralmente nelle loro angosce morali, nelle loro crisi d’amore, di solitudine, nei loro dubbi sull’arte e sulla vita[2].

In Andersen project Lepage scopre in effetti, un’affinità inimmaginabile con lo scrittore danese Andersen, riferita soprattutto all’identico amore per i viaggi e al tema dell’ossessione sessuale. The Life of a Storyteller di Jackie Wullschlager e i diari si rivelarono al momento della commissione da parte della Fondazione Andersen davvero illuminanti. Svelarono infatti lati inediti della vita dell’artista ottocentesco; ed è proprio intorno a questi aspetti che lo spettacolo fa perno: la doppia vita che si nasconderebbe dietro il romanticismo di Hans Christian Andersen che non si volle mai sposare con la sua amata Jenny Lind:

 “In the Romantic era men would write passionate letters to each other, yet it didn’t mean they wanted to sleep together; Andersen’s romanticism, though, went over the top and he wrote open love letters to a lot of young men. He also had great passions for a few women, although they were women he was pretty sure it would be impossible to love – Jenny Lind, for example, one of the great Swedish sopranos, whose touring schedule made a relationship out of the question. It was discovering that this man best known for writing children’s stories had a double life, a strange, troubled personal history, that made me agree to do a show about him”.

 Come ricorda lo stesso Lepage, sono molti i  punti in comune tra la sua personalità e Andersen, oltre l’ossessione sessuale: alcune inquietudini della propria infanzia, la questione della lingua – da sempre tema sotterraneo dei suoi spettacoli, fortemente connesso con le aspre vicende politiche del separatismo franco-canadese- e la ricerca di un riconoscimento internazionale dei propri lavori:

 “It’s hard to talk about what Andersen and I have in common without sounding pretentious, but there’s a lot about him that I identify with – not least his insatiable sexual desire and constant mood of sensuousness. The difference between us is that I have a very intense sexual life and he never did. There is a connection between sexuality and creativity, and one of the themes in The Andersen Project is to do with the imaginative and sexual development of children. Reading fairytales to children expands their imaginations. As they grow older, they replace their bedtime stories with masturbation and sexual fantasy. I always worried that I was a sex maniac because I thought about sex all the time, but actually it’s part of the imaginative process. If you’re a storyteller and spend your time imagining things, your sexual imagination is likely to be just as vivid. Perhaps Andersen’s sexual uncertainty reflects his difficult childhood.

It’s no coincidence that it was Andersen who wrote The Ugly Duckling, a metaphor for the awkwardness of childhood and the blossoming of adulthood. I can identify with this, too: where Andersen was tall and ungainly, I had alopecia. Both of us experienced how cruel children can be. That can be tough, but being put through the mill very young can also be an advantage because you don’t see the world in the same way. Another thing that connects us is the need to travel. A lot of artists in the 19th century felt that they had to travel outside their own country to be recognised. But Andersen felt he had more reason than most. First, he wrote in Danish, a language that, for a lot of people in Europe, was like speaking backwards. Second, he wrote for children, so he wasn’t taken     seriously. To be recognised, he had to go Germany and France to mingle among the great writers of the day. He’d come back to Denmark with all of that recognition. If you are a Quebecois artist, as I am, you feel the same impulse. Even an English-Canadian feels he has to be approved by London, Paris or New York. But Andersen sometimes did things for the wrong reasons – just like the   heroes in his stories”.

Il motivo della sessualità repressa volontariamente o vissuta conflittualmente sarebbe il nucleo dello spettacolo:

 “My first idea for The Andersen  Project was to do with masturbation. The theme came about not in a sleazy, crass way, but as a way of trying to understand Andersen. I don’t want to shock – I just want to show Andersen’s lucid vision of the human condition. And the theme makes extra sense because a solo show is the most solitary form of performance and masturbation is the most solitary form of sex!”.

 Ogni spettacolo “solo” di Lepage ha a che fare con la solitudine del personaggio. Solitudine che si mostra nel dolore e nella ricerca di una via di uscita attraverso l’altro o l’autoanalisi. Da Vinci a Les Plaques tectoniques il personaggio subisce nel corso della pièce una vera trasformazione, esteriore e interiore, grazie a un salvifico rispecchiamento con l’altro-da sé. Il tema comune a tutti gli spettacoli è proprio quello del vedersi dentro, del guardarsi come non ci siamo mai visti, del capire le angosce che ci assillano e le contraddizioni della nostra vita per superarle. Il motivo di partenza è sempre una rottura, di natura affettiva, psicologica o morale; il dramma sociale – ricordava Victor Turner – inizia da una perdita[3]: il dramma, letto in senso rituale e antropologico, è infatti secondo Turner, “un’unità di processo anarmonico o disarmonico che nasce in situazioni di conflitto” . In Dal rito al teatro e in Antropologia della performance, Turner espone il tema del dramma sociale, che ha luogo quando nell’ambito della vita quotidiana di una comunità si crea una frattura nelle tradizionali norme del vivere che genera un’opposizione, la quale a sua volta si trasforma in conflitto. Questo, per essere risolto, necessita di una rivisitazione critica dei particolari aspetti dell’assetto socio-culturale fino ad allora legittimato. Una rottura inaugura, quindi, il “social drama”, la crisi apre il momento della “fase drammaturgica”.

Tutti gli spettacoli “solo” di Lepage iniziano da una mancanza, uno squilibrio, (l’hamartia greca), da un lutto (in Vinci Philippe è spinto all’idea del viaggio dalla morte per suicidio dell’amico Marc; in La face cachée de la lune i due protagonisti si incontrano in occasione della morte della loro madre; in Les aiguilles et l’opium il protagonista vive l’angoscia dell’abbandono da parte del suo amore), da un delitto (Polygraphe), da una crisi matrimoniale (Andersen’s project); in alcuni casi tale dramma sarebbe rivelatore di episodi autobiografici estremi e dolorosi. La face cachée de la lune è stato ideato all’indomani della morte della stessa madre del regista associata, scenicamente, all’immagine della luna, simbolo del femminile in tutte le tradizioni. Elseneur è stato ispirato, prima ancora che dall’Amleto di Shakespeare, dalla morte del padre.

Tra Romanticismo e Modernità: il trionfo della tecnica

La Driade  fu scritta in occasione della visita di Andersen all’Expo di Parigi del 1867, anno della morte di Baudelaire il quale aveva dedicato proprio alla modernità il saggio Il pittore della vita moderna. All’Expo del 1867 furono presentate importanti novità tecniche e perfezionamenti di strumentazioni ottiche e meccaniche già brevettate, tra cui un gran numero di viste fotografiche stereoscopiche.

Il contrasto tra i personaggi dello spettacolo è esattamente quello tra il Romaticismo e il Modernismo. Come ricorda Lepage:

“L’Esposizione Universale del 1867 è la fine del Romanticismo parigino e l’inizio del Modernismo. E nel modernismo Andersen vede racconti di fate, macchine incredibili, un mondo maschile, un universo realista, matematico, fondato su cose molto concrete…Mi rimproverano il Romanticismo sia nella mia vita privata sia in quella professionale. Ma questi sono temi che tornano spesso nei miei spettacoli, il fatto che individui romantici si trovino in un mondo molto concreto dove c’è poco spazio per la poesia, per l’eccesso, per le passioni”. Se volessimo trovare un’ulteriore affinità tra Andersen e Lepage in nome dell’identica fascinazione per la tecnica, dovremmo ricordare che anche Montréal, regione natale di Lepage, ospitò nel 1969 un’Expo internazionale dove tra gli altri, lo scenografo cecoslovacco Josef Svoboda propose il polyécran, la multiproiezione per il Padigione della Cecoslovacchia.

Le costanti del suo Teatro: la macchina della visione

Andersen Project ha tutte le caratteristiche di un’opera teatrale che sembra compiacersi ad autocitarsi; questo ci permette di verificare le varianti del teatro di Lepage, contenute però sempre all’interno di poche costanti poetiche e stilistiche. Il tema che meglio identifica in generale il lavoro di Lepage è proprio la macchina, nella duplice accezione di apparato scenografico e attore: all’interno di questa macchina, produttrice di immagini video e filmiche e di una metamorfosi continua della scena, l’attore è un fondamentale ingranaggio. La scena integra  immagini e meccanismi di movimento in un unico dispositivo teatrale in cui l’uomo è ancora al centro della ricerca; il teatro in una prospettiva multimediale può così tornare ad essere laboratorio di sperimentazione antropologica e di cultura integrale, dove arte e tecnica ritrovano la loro comune etimologia. Un esempio di macchina drammaturgica è The Seven Streams of the River Ota: nell’arco di 50 anni si intersecano storie diverse che partono dall’epoca della bomba su Hiroschima per arrivare al 1995 e ritornare ancora indietro al 1945, in uno svolgimento non lineare del racconto. Durante questo mezzo secolo si intrecciano a più riprese storie di persone che hanno vissuto direttamente o indirettamente la tragedia di Hiroshima. Questa drammaturgia “a incastri” trova corrispondenza in una struttura a schermi multistrati dove si vanno ad incrostare le immagini della memoria, letteralmente rappresentata dalla luce del flash della fotocamera usata del protagonista, un fotografo americano incaricato di documentare i danni alla popolazione e alle architetture. Il legame tra le azioni e le immagini retroproiettate o moltiplicate all’infinto da specchi e l’integrazione del dispositivo video in scena è evidentemente la caratteristica dello spettacolo, in una felice soluzione visiva che trasporta idealmente in uno spazio-tempo dove i confini tra spirituale e materiale, naturale e artificiale sono scomparsi a vantaggio di una nuova umanità che partecipa della Storia e la cui memoria è affidata al bagaglio di immagini tragiche e violente ma sui cui si ha sempre la possibilità di “riscriverci” sopra, di dar loro un senso attuale, qui e ora. Ricorda a questo proposito Béatrice Picon-Vallin che il vero tema è appunto, il “trattamento della memoria” di cui le macchine stesse usate in scena, che modificano l’immagine di partenza, sono emblema.[4]

La macchina scenica e attoriale è straordinariamente visualizzata in Elsinore dove l’unico attore impersona tutti gli altri personaggi della tragedia grazie unicamente a una scena metamorfica, mobile e dinamica, e alla luce (soluzione scenica che ricorda gli screen di Gordon Craig).

La macchina scenica è presente come protagonista anche in La face cachèe de la lune: con musiche originali di Laurie Anderson, lo spettacolo di Lepage, miglior produzione canadese del 2001,  prende spunto dall’invio nello spazio delle navicelle sovietiche e americane. L’esplorazione della luna (fino a Galileo “specchio della terra”, come si racconta nel Prologo) è la metafora di cui si serve Lepage per parlare di un’altra ricerca, quella dello spazio interiore, intimo e privato: è la storia di due fratelli, uno  metereologo, l’altro venditore di abbonamenti da sempre attratto dal tema delle esplorazioni extraterrestri. Separati da diversi stili di vita e caratteri (anglofoni e francofoni?), si incontrano nuovamente dopo che viene loro a mancare la madre. La luna e la madre, con il relativo armamentario mitico e simbolico, sono i due temi centrali dello spettacolo che si intersecano continuamente. Lepage inventa un fondale metallico di color grigio scuro che occupa tutta la larghezza del palco e che nasconde al suo interno ambienti tra loro separati da pannelli che scorrono silenziosi su binari; sulla sua parete vengono proiettate immagini tratte dai documentari sull’esplorazione della Luna e filmini in Super8 della vita del personaggio. Le ante scorrevoli fanno intravedere oggetti e ambienti sempre diversi: armadio, ascensore, stanze. Questo fondale ha anche una corrispondente quarta parete “fisica”: un enorme specchio che si sviluppa per tutta la lunghezza del palco, dotato di un movimento rotatorio che lo trasforma sia in oggetto di scena sia in soffitto riflettente, restituendo agli spettatori, nel finale dello spettacolo, l’impressione di un corpo duplicato impegnato in una danza quasi in assenza di gravità.

Dunque la tecnologia a teatro, quale appare in tutta la sua evidenza proprio in La face cachée de la lune, introduce un oxymoron davvero inatteso: è “arcaica”, imperfetta e pericolosa. Il montaggio dello spettacolo richiede tre giorni e una squadra di quattordici persone. I congegni impiegati, più che sofisticate soluzioni hi-tech, ricordano i meccanismi (i cosiddetti ingegni) del teatro rinascimentale, epoca dell’invenzione della mobilità della scena, i cui apparati erano un vero connubio di meraviglia e ars mechanica .Nello spettacolo di Lepage, vero trionfo del concetto antico di techne[5], è come se ci fosse un altro spettacolo dietro lo spettacolo: tecnici e ingegneri del suono e della luce, ma anche numerosi “manovratori”, danno vita, dietro alla scena e in diretta, a questa artigianale e funzionale macchina teatrale, maneggiandola con destrezza; in un attimo  invisibili servi di scena spostano a mano i pannelli piazzando l’armamentario scenografico e tirando i proiettori con funi. La macchina scenica lepagiana mutua i suoi movimenti dall’uomo, da cui spesso prende in prestito il sembiante e il carattere mutevole; è come una creatura vivente, in movimento dinamico, e il soggetto che la abita ne è fondamentale articolazione. In fondo, seguendo la metafora cara a Leonardo, l’uomo stesso è una macchina, l’uccello è una macchina, l’edificio è una macchina, l’intero universo è una macchina.

Telefono-Casa

I personaggi delle storie di Lepage comunicano la propria solitudine, o si autoanalizzano, o ancora cercano un conforto al telefono, dentro una cabina, per trattenere il proprio amore che li ha lasciati oppure vengono a scoprire verità drammatiche. Il riferimento è indubbiamente alla piece telefonica di Jean Cocteau, La voce umana.

In Les aiguilles et l’opium il protagonista cerca di mettersi in contatto da Parigi con il proprio amante che sta in America ma tutto quello che ottiene è un dialogo a tre con la centralinista  anglofona e quella francofona e un’incomprensione linguistica generale. Nella scena finale dello spettacolo l’attore volteggia appeso con un cavo posto sopra l’arcoscenico risucchiato dentro le immagini proiettate delle opere di Duchamp e di Cocteau con un telefono sempre in mano mentre ascoltiamo lo squillare a vuoto inframmezzarsi alle note della Gymnopedia di Satie. In La face cachée de la lune uno dei due fratelli vende abbonamenti di un giornale per telefono; la sua voce viene riconosciuta casualmente da un’amica che gli rivela che la madre non ha avuto un’embolia ma si è lasciata morire.

Questi dialoghi implicano talvolta, la presenza di una cabina del telefono: in Busker’opera appaiono due cabine ravvicinatissime ma i personaggi sono geograficamente lontani nella finzione drammaturgica. I dettagli del volto della protagonista vengono ripresi da una telecamera e proiettati su un grande schermo, che in questo modo televisivizza la vicenda personale facendole assumere i contorni, falsi e ripetitivi, di una  soap opera.

Per il Secret world tour, il tour musical di Peter Gabriel, Lepage crea delle scenografie straordinarie grazie all’uso del video live. Ancora una volta si impone la presenza di una cabina telefonica (la tipica cabina rossa all’inglese) per il brano Come close to me. La situazione scenica immaginata da Lepage è significativa: Gabriel e la vocalist sono posti agli estremi di una lunga e stretta pedana uniti da un cavo telefonico/cordone ombelicale e tengono in mano una cornetta. Per tutto il brano i due cercano di uscire dalla cabina, di avvicinarsi o di allontanarsi tirando il filo del telefono. In Andersen Project il dialogo telefonico ritorna in numerose occasioni: Frederic chiama a casa perché ha nostalgia e lo coglie un presentimento di abbandono. Il manager mentre attende la figlia nell’atrio della scuola, chiama lo psicoanalista per parlargli della sua attuale situazione familiare. La moglie infatti, l’ha lasciato (per telefono…).

Teatro come composizione di immagini-corpo

La solitudine del personaggio è spezzata da dialoghi con se stesso o con altri personaggi attraverso il video, oppure il gioco di scambi è con la propria ombra.

In tutti i casi il problema è quello di creare una integrazione scenica tra immagine e corpo. Per ogni spettacolo Lepage elabora una diversa forma per questo dialogo che privilegi sempre però, l’artigianalità del supporto scenografico di proiezione e offra una magica illusione grazie alla capacità dell’attore di creare un ponte tra tridimensionalità fisica e bidimensionalità elettronica. Le tecnologie dell’immagine si coniugano perfettamente con il concetto di “macchineria” del suo teatro. In Elsinore Amleto posto dentro il varco del dispositivo rotante, ha due webcam ai due lati opposti: girandosi da una parte e dall’altra offre alternativamente il proprio profilo, destro o sinistro, alla camera che lo ritrasmette in diretta sulle due pareti laterali; è il momento dell’incontro con Rosencratz e Guilderstein che non possono comparire essendo uno spettacolo per un solo attore. L’uso delle immagini in diretta da una webcam in alcuni momenti richiama una possibile interpretazione del video come specchio: pensiamo alla confessione privata/pubblica dell’artista Frederic/Robert nel prologo di Andersen project attraverso la web cam, o al toccante dialogo via video, del principe di Danimarca con Orazio, che si rivela così il suo alter ego, il suo specchio, l’altra faccia dello stesso Amleto.

Ne Les aiguilles et l’opium il gioco è tra oggetti proiettati da una lavagna luminosa, il corpo e l’ombra. Lo spazio dell’azione si moltiplica, considerando anche il luogo retrostante lo schermo e quello che si va a creare in diretta dentro lo schermo stesso attraverso le proiezioni e le incrostazioni di immagini e ombra. Ne The seven streams of the river Ota la macchineria diventa un sistema di schermi su cui vanno a proiettarsi e retroproiettarsi immagini video e ombre, creando un’artigianale e performativa composizione di immagine in stretta relazione con i personaggi reali.

Ne La face cachée de la lune i pannelli grigi disposti su binari che attraversano la lunghezza del palco permettono una proiezione di immagini preregistrate ma anche live provenienti sia dalla parte frontale che dalla parte retrostante la scena grazie a webcam. In questo spettacolo, infatti il luogo dell’azione è nella zona frontale visibile e contemporaneamente nella parte nascosta attraversata dal protagonista dal foro della lavatrice-oblò-luna-utero. Il movimento rallentato delle immagini serve a  ricordare quello degli astronauti a gravità zero. L’esplorazione lunare diventa metafora di una scoperta interiore.

In Andersen project  Rashid disegna con lo spray sui muri. Il grafittista aggiunge alcuni elementi osceni al ritratto in posa dello scrittore danese Andersen che emerge dal bianco del panorama. In realtà tutta la situazione grafica è composta in diretta dal tecnico attraverso un sistema di fotoritocco o di scopertura di immagine preesistente, sistema che Lepage aveva già utilizzato in The seven streams of the river Ota, quando il soldato americano a Hiroschima si dedicava a pitturare pin up sulle carlinghe degli aerei. L’immagine era un fermo fotogramma su cui venivano a sovrapporsi tracce di colori e disegni. E un attimo dopo gli aerei spiccavano il volo.

Ancora in Andersen project: il personaggio è posizionato dentro il panorama, letteralmente risucchiato dentro un’immagine di un imponente scalone in marmo realizzato in grafica 3D. Lepage attore compie un paio di movimenti che simulano una salita per le scale, e mentre sembra salire, cambia anche la visuale generale sull’ambiente. L’interazione è però finta: è l’attore a stare dietro ai movimenti dell’immagine generata al computer, poiché egli non può averne alcun controllo reale e diretto (come accadrebbe invece se gli fossero applicati sensori di captazione del movimento). Il panorama progettato da Lepage in questo caso, ricorda da vicino le Perspective di Andrea Pozzo (1693), quelle del Bibbiena, e per rimanere nel Novecento, le imponenti fotografie a “panorami” di spiagge e di giardini dai colori cangianti di Massimo Vitali dalla centralissima e geometrica prospettiva.

 

 


[1] In Elsinore ricorre l’immagine dell’uomo vitruviano di Leonardo; in Polygraphe oltre che in Les aiguilles et l’opium, compaiono citazioni da film di Cocteau. Vedi A.M.Monteverdi, Il teatro di R. Lepage, Pisa, BFS, 2004.

[2] J. Bunzli, Autobiography in the house of mirrors: the paradox of identity reflected in the solo shows of Robert Lepage, in J. Donohoe, J. Koustas (a cura di), Théâtre sans frontiers, The Michigan State University Press, Lansing Michigan, 2001

[3] V. Turner, Antropologia della performance, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 149.

[4] B. Picon-Vallin, Hybridation spatiale, registres de présence in Id (a cura di) Les écrans sur la scène, Lausanne, l’Age d’Homme, 1998, p. 26.

[5] Techne era il nome con cui nell’antichità si designava, come è noto, sia l’attività dell’artigiano che gli artisti (che erano appunto, technites).