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Woyzeck on the Highveld-William Kentridge & Handspring Puppet Company Video integrale dello spettacolo #liberiamogliarchivi
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Woyzeck on the Highveld An adaptation of German writer Georg Buchner’s famous play of jealousy, murder and the struggle of an ordinary man against an uncaring society which eventually destroys him. Büchner’s Woyzeck is a German soldier in 1800s, but in this version, Woyzeck is a migrant worker in 1950s Johannesburg, a landscape of barren industrialisation. The production brings together rod-manipulated puppets and animated film to graphically illustrate Woyzeck’s tortured mind as he tries to make sense of his external circumstances.

Creative Team

Production: Handspring Puppet Company with The Standard Bank National Arts Festival, the Johannesburg City Council, the Foundation for the Creative Arts, the German Embassy, the Department of National Education and Art Bureau (Munich).

Director: William Kentridge

Designers: Adrian Kohler and William Kentridge Animation: William Kentridge with assistant animator Erica Elk

Music by: Steve Cooks, Edward Jordan

Sound design: Wilbert Schoubel, Cello: Clara Hooyberg

Lighting design: Mannie Manim Cast Louis Seboko, Busi Zokufa, Busi Zokufa, Tale Motsepe, Basil Jones, Adrian Kohler Performances 1992-2011 South Africa, Germany, Belgium, Switzerland, UK, Canada, Spain, Sweden, USA, Australia, New Zealand, Israel, France, Italy, Poland and Spain. 2012 21 & 22 Sep 2012 Hopkins Centre for the Performing Arts, Dartmouth College, Hanover, New Hampshire, NA 27-29 Sep 2012 Museum of Contemporary Art Edlis Neeson Theater, Chicago, Il

Woyzeck on the Highveld 

 Even William Kentridge works on Woyzeck as Robert Wilson had done in the Theatre (with music by Tom Waits) and William Herzog in the cinema with Klaus Kinski in 1979; the drama was written by Buchner in 1837 and was incomplete because of the death of the author, and so is a fragmented text, as it has been defined, in “stations”. It talks of the unhappy story of the soldier Franz Woyzeck, who dies humble jobs to support his companion Marie and their son who has not yet been baptised. To make more money he does everything for the captain and is a human guinea pig for a doctor for some experiments; Marie betrays him. Woyzeck finds Marie had his rival at a dance in a tavern, and madness and hallucinations bring him to kill the woman.

Kentridge had put on Buchner’s Woyzeck in 1992; in the program notes of the show Kentridge wrote that he was close to this drama as he had seen it as an emblem of conflict (social, political and emotional) after a show in the 70’s and since then he tired to imagine a different context from that of Prussia of the 19th century.

The new context could be none other than the South Africa of today. The second aspect that pushed him to the representation was the desire to work with the company Handspring Puppet Company in a mixed performance where the drawing could be united with the general frame of the representation where the actors were taken away and replaced by puppets where other ways to transmit the emotional depth where not guided by the face of the actor. The third reason was the desire to put an animated film onto the stage that would have a dynamic rapport with the movement of the puppets on stage and that would update the ancient culture of the theatre of figures and the shadow theatre.

Today’s work seen at the Eliseo Theatre during the Romaeuropa festival kept an extraordinary force thanks to the presence of the wooden puppets of human proportions that were guided efficiently by stagehands that were not wearing hoods that awaken an ancient curiosity, and the able animated work of Kentridge

This takes us, without words, into Woyzeck’s head, exploited, overwhelmed, offended, persecuted by the powerful and betrayed, he who thinks differently, who is the emblem of the persecuted and the humble ill-treated man who at the end succumbs to his own nightmares, goes mad and kills the woman he loves as a definitive act of self annihilation and rebellion. Woyzeck’s mind races between objects, processions of shadows and desires that are not expressed, dreams, psychological disturbances, and enchanting wonders. The sky is a forest of stars and is the only ray of light in an impossible happiness. The technique Kentridge uses is extraordinary as is that of the stagehands of the puppets: in both cases the hand that gives the soul tot eh object. The spectator can be considered the sum of the artistic work of William Kentridge, also because of the theme that is dealt with, that has the South African Apartheid as its foundation. (ANNA MARIA MONTEVERDI)

Affama l’algoritmo. Il teatro di ombre e di macchine di Kentridge e Lepage debutta a Roma e Québec.
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Due eventi teatrali di importanza internazionale di fine estate hanno rimesso al centro dell’attenzione la scena-immagine: il debutto all’Opera di Roma di Anatomy of a Sybil di William Kentridge (abbinato alla riproposta dello spettacolo Work in progress con le originarie scenografie di Calder) e quello rappresentato, a sei ore di fuso orario di distanza, a Québec per la regia di Robert Lepage, ovvero il remake de Les sept branches de la riviére Ota.

Se il primo era evidentemente un appuntamento mondano e di gala, il secondo pur nell’importanza doppia del debutto e dell’inaugurazione del nuovo Teatro Le Diamant di Lepage/Ex machina nel cuore della vecchia Québec, era stato promosso come un evento cittadino molto informale.

In entrambi gli spettacoli emerge una scena che, come da costante degli autori, per quanto spesso abbinati a un’idea tecnologica del palcoscenico, ha richiami espliciti più al teatro dell’origine che non a quello della videocultura contemporanea. Questi gli elementi che li contraddistinguono: le ombre (viventi e animate) e le macchine (dispositivi scenici o congegni macchinici). Lepage e Kentridge pur nella diversità delle proposte, rimettono in circolazione modalità artistiche rétro, tecniche inconsuete e obsolete, mostrando l’innovazione tecnologica come la naturale evoluzione di un sapere tecnico antico che appartiene “geneticamente” al teatro. Che lo sguardo à rebours evidenziato da questi due spettacoli possa essere interpretato come un’affermazione fortemente politica in epoca di dominio algoritmico, è molto più che un sospetto.

Calder e Kentridge

Kentridge e il suo music theatre commissionato dal Teatro dell’Opera, divideva la serata con uno dei più grandi scultori del ventesimo secolo, Alexander Calder e il suo storico Work in progress (1968) ricostruito filologicamente (immagini coordinate da Giovanni Carandente
e presentate da Filippo Crivelli su musiche elettroniche di Niccolò Castiglioni, Aldo Clementi, Bruno Maderna).

Untitled 1937 Alexander Calder 1898-1976 Accepted by HM Government in lieu of tax and allocated to Tate 2002 http://www.tate.org.uk/art/work/T07920

Una scena quella di Calder, arricchita dalle sue famose sculture cinetiche, oscillanti e sospese, fatte di fili metallici, e stoffe coloratissime dette mobiles e stabiles (così chiamate rispettivamente da Marcel Duchamp e Jean Arp) che diventano personaggi inanimati ma “mossi” (meccanicamente, o tramite soffi d’aria). Il teatro diventa volutamente un circo (forma di spettacolo popolare da lui ben conosciuta e amata) con gli attori come marionette, a volte ciclisti dentro un moto perpetuo, o ancora, ombre o perfino, all’occorrenza attrezzisti. Nella loro breve apparizione da sogno, forme astratte, sagome di animali ritagliati su carta e giochi di luci cangianti sono i veri protagonisti, rubando la scena letteralmente agli attori-manovratori, attori-oggetto.

Waiting for the Sybil

Nella seconda parte William Kentridge (presente in sala alla prima) firma la regia, la scenografia e l’intero concept di questo capolavoro di teatro musicale che è Waiting for the Sybil. In scena 5 danzatori 4 cantanti e vari coristi su musiche africane (in parte) registrate e composte per l’occasione da Nhalanhla Mahlangu e Kyle Shepherd, tutti di Johannesburg.

Il pubblico romano non è certamente nuovo alla visione delle sue creazioni (al Teatro dell’Opera era andata in scena la Lulu da Berg, il monumentale murale di 550 metri Triumphs and Laments è visibile sui muraglioni del Lungotevere; la mostra Vertical Thinking con l’installazione The Refusal of Time è stata presentata al Maxxi). Waiting for the Sybil è una specie di congiunzione tra quella potente installazione al Museo d’arte contemporanea di Roma in cui Kentridge aveva realizzato un ambiente a mo’ di collage dinamico con una proiezione sincronica a cinque canali, di film animati, ombre, sculture in movimento, e l’allestimento lirico di The nose da Shostakovich. Nel primo caso l’artista aveva usato l’intero armamentario del suo immaginario pre-tecnologico: megafoni di latta, vecchi orologi, macchine da scrivere, nel secondo invece aveva usato prevalentemente collage di carta, usando in particolare le pagine del giornale. Kentridge per Anatomy of a Sybil (35 minuti) ricorda la figura della Sibilla Cumana ritratta anche da Michelangelo nella Cappella Sistina, i cui responsi sul destino degli uomini erano scritti su foglie di quercia che il vento provvedeva a disperdere in modo che nessuno avrebbe trovato quello che lo riguardava.  Così Dante:

Così la neve al sol si disigilla;

così al vento ne le foglie levi

si perdea la sentenza di Sibilla.

(Dante Alighieri, Paradiso XXXIII, 64-66).

La Sibilla interpretata da una cantante africana al centro della scena, funge nello spettacolo da amplificatore dei dubbi, dei disagi dell’uomo: lei ingoia nelle proprie cavità, con una gestualità inequivocabile le domande, le paure che raccontano l’angoscia di esistere; divora tutto ciò che sfugge al controllo umano, i mostri che dominano la vita, il terrore dell’imponderabile. La verità è occultata perché il potere controlla ogni terrore, sottomette ogni mostruosità, delimita i confini dell’agire libero. Noi siamo responsabili della nostra distruzione, non forze sovrannaturali; ci consegniamo spontaneamente alle macchine, agli apparati, ai sistemi politici e burocratici, fino ad arrivare ai media che confondono le parole della Sibilla, le disarticolano e le rendono incomprensibili, vuote, irrisolvibili.  Si leva il disperato grido della Sibilla che è quello latente in tutti noi, ed è un’epifania necessaria: il futuro è già scritto dalle macchine ma solo per chi non ha fede nella propria forza.

https://vimeo.com/337293283

Nello spettacolo i fogli con le risposte che volano via, diventano dischi rotanti proiettati, fogli di giornale con disegni al carboncino animati e scritte che contengono parole che pesano e tra le tante, quella che ci è rimasta impressa è: “Affama l’algoritmo”. In questo senso lo spettacolo è anche una specie di manifesto della sua arte che più che guardare al passato guarda all’uomo. La menzogna, l’errore, sono scanditi proprio dai fogli di giornale che scivolano via, così come le gambe delle sedie che non reggono. In un mondo dove l’uomo non sa stare in piedi perché deve condividere lo spazio con la macchina, rimane solo una difesa, l’urlo. O il silenzio di una macchina interrotta.

In scena il coro e i cantanti indossano vestiti squadrati, geometrici che ricordano Leger, Schlemmer o la Popova e rendono gli interpreti, loro stessi sculture viventi “alla Calder”; ma poiché anche Kentridge ha composto sculture aeree mobili, l’omaggio all’artista degli anni Trenta diventa quasi un modo per citare sé stesso. In un’intervista l’artista sudafricano dice che le opere di Calder gli hanno sempre ricordato “qualcosa che si muove in circolo”, e questo circolo per lui erano le domande senza risposta alla Sibilla. Rimane in scena l’immaginario che arricchisce il repertorio di Kentridge: le ombre animate di figure umane in processione, simboli di riscatto nel Sudafrica post apartheid.

L’ombra del remake: Les sept branches de la riviére Ota di LEPAGE

Robert Lepage ha definitivamente abbandonato la vecchia sede della sua compagnia multidisciplicare Ex machina, la Caserne Dalhousie, a due passi dal fiume San Lorenzo, per trasferirsi in una struttura decisamente più moderna e appena inaugurata: il Teatro Le Diamant nel cuore della vecchia Québec. Per chi ha voglia di sentire la storia del cambiamento nei decenni della struttura che oggi accoglie Le diamant, ecco il racconto che ne fa Lepage con il supporto di immagini

Il primo spettacolo con cui ha aperto le porte al pubblico è una riproposta di un lavoro del 1995, Les sept branches de la riviére Ota, all’epoca commissionato dal governo del Giappone per i 50 anni dalla bomba atomica su Hiroshima.

Le modifiche dalla originaria versione non sono molte e la tecnologia più attuale fa fatica a rallentare il passo per assomigliare a quella video in voga in quegli anni; certamente le immagini digitali sono più pulite e fluide. Vale la pena ricordare che proprio questo fu il primo spettacolo su cui si misurò il talento di Carl Fillion, lo scenografo di Ex machina (oggi passato al Cirque du soleil), anche se nel riallestimento ha fatto solo da supervisore. In gergo tecnico la scena, nella sua assoluta semplicità, è costruita da sette “pannelli a coulisse” (pannelli armati) con movimento orizzontale a scomparsa; i pannelli sono guidati su binari che trascinano una o più porte trasparenti che rappresentano una tipica casa giapponese, permettendo svariati cambi di scena. Proprio questi cambi, effettuati a mano dai personaggi, determinano il lungo viaggio narrativo che va dal 1945 al 1995. La trasparenza della casa, la presenza di specchi permettono moltiplicazioni di figure, proiezioni di ombre, effetti visivi che si uniscono (oggi come ieri), alle videoproiezioni con un gioco di sovrapposizioni molto artigianale e efficace (l’attore incastrato in mezzo ai pannelli che viene colpito dalle luci sul fondale, diventando ombra, e come tale partecipa “qui e ora” all’azione video pre-registrata).

Il pastiche narrativo del “Project Hiroshima” assembla in una logica cinematografica “paratattica” già molto apprezzata all’epoca, l’occupazione americana del Giappone, Georges Feydeau, la danza Butoh, Madame Butterfly, i comici americani degli anni Cinquanta Abbott e Costello e il campo di concentramento di Terezin, raccontando l’unione (nel dolore della distruzione e nella speranza della ricostruzione) dell’Occidente e dell’Oriente ma anche del comico e del tragico. Il fotografo americano Luke O’Connor viene incaricato subito dopo la guerra, di fotografare i danni materiali della bomba atomica su Hiroshima e si innamora di una hibakusha (una “sopravvissuta”): questa semplice trama genera un fiume di storie che si intrecciano inaspettatamente, raccontando ciascuna, come anche dalle peggiori atrocità si possa generare una vita.

Lo spettacolo va oltre il 1995 e arriva, nella nuova versione, sino a noi, con i giovani artisti che si confrontano con la memoria di una storia che non hanno mai conosciuto. La tecnologia semplificata e ridotta a videoproiezioni che si alternano all’azione recitativa, con l’uso tradizionale delle ombre, rimane ancor oggi la cifra stilistica di questo lavoro; la scenografia trattiene i corpi in forma di ombre come davvero accadde nei muri di Hiroshima a causa dell’esplosione, diventando una lastra “fotosensibile” e una scrittura di luce, metafora di un percorso di memoria, di illuminazione e di conoscenza.

L’ESTATE PASOLINI: OMAGGI, SPETTACOLI,MOSTRE E CONCERTI DEDICATI AL GRANDE POETA, SCRITTORE E REGISTA (BOLOGNA 1922 – OSTIA, ROMA, 1975)
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L’anno in cui ricorrono i 40 anni della morte di Pier Paolo Pasolini è anche l’anno dell’archiviazione dell’inchiesta sull’omicidio avvenuto all’Idroscalo di Ostia il 2 novembre 1975. L’estate italiana è ricca di omaggi al grandissimo poeta e artista, Si comincia con William Kentridgeche immortala il cadavere di Pasolini al Padiglione Italia della Biennale di Venezia per il suo personale e accorato “Omaggio all’Italia”: i disegni preparatori a varie scale che il grande artista sudafricano ha esposto lasciano immaginare la potenza emotiva dell’opera quando, il prossimo anno, verrà realizzata a Piazza Tevere, lungo il tratto fluviale fra ponte Sisto e Ponte Mazzini.

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Fabrizio Gifuni già interprete del pluripremiato Na specie di cadavere lunghissimo del 2004 con regia di G. Bertolucci, a giugno al Teatro Franco Parenti ha realizzato un reading su “Ragazzi di vita”. “Leggere Pasolini è essere sempre esposti a quest’oscillazione tra vita e morte, per sempre legate(…) Difficile non leggere in questi fulminei frammenti quello che accadde dopo, giusto quarant’anni fa. Pasolini dissemina la sua opera di riflessioni sulla morte, riesce perfino a prefigurare la stessa immagine del suo assassinio». “

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Archivio Zeta:un gruppo teatrale della nuova generazione propongono il pasoliniano “Pilade / Campo dei rivoluzionari” al Festival di Volterra 2015 nella fabbrica di sale coinvolgendo gli operai in lotta contro i 193 licenziamenti. Così gli autori Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti. «Gli operai della Smith  pensavano che avessimo scritto noi quelle parole, per loro. Invece Pier Paolo Pasolini aveva già intuito, con la sua intelligenza, la fine del mondo industriale, di questo mondo industriale».

Così il critico Massimo Marino sul blog del Corriere: “Pioveva sale dall’alto, nella camera della fabbrica di minerale. E prima ancora donne e ragazzi chiamavano Pilade dagli angoli della struttura razionalistica della fabbrica in produzione, illuminata sullo sfondo. Un uomo antico, Pilade, camicia contadina, una coperta per difendersi dal freddo. Figure nere sui cumuli di sale”.

Il teatro delle Nuvole di Genova ha realizzato nell’aprile scorso per il Teatro Duse uno spettacolo con videoproiezioni e giochi di light painting (Liliana Iadeluca) dal titolo “Dedicato a Pier Paolo Pasolini. Paesaggi perduti”, elaborazione drammaturgica di Marco Romei da Pasolini; progetto, regia, interpretazione Franca Fioravanti; performing liveBernardo Russo. Il Teatro delle Nuvole è impegnato fin dagli anni Novanta nella ricerca del dialogo interlinguistico, che coinvolge la scrittura drammaturgica, la  ricerca sulla voce, la musica, l’arte visiva.  Mezzi e modi  diversi, ma nello stesso tempo accomunati dalla tensione etica, dato che gli artisti delle Nuvole tendono al recupero della memoria individuale e collettiva,  come testimonianza, strumento di lettura del presente, mezzo per portare alla luce il futuro rimasto nascosto nel nostro passato.

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Concert for Pasolini è l’omaggio in musica di Patty Smith che nel 2015 celebra i suoi 40 anni di attività, coincidenza che l’ha portata a questo omaggio al grande autore- Nel 1975 usciva infatti “Horses”, l’album con cui Patti Smith ha segnato una svolta epocale nella storia del punk rock.«Pier Paolo Pasolini, un meraviglioso spirito rivoluzionario figlio di questa terra» (Patti Smith. Udine. 5/12/2014).

Il decano della street art Ernest Pignon-Ernest riporta Pasolini nelle strade degradate e più povere di Napoli, dove il grande regista girò alcune scene del Decameron. La fa con la tecnica che lui ha inventato e che lo ha reso celebre in tutto il mondo, la carta disegnata incollata alle pareti; qualcuno ha parlato per questo intervento urbano che raffigura il grande artista che tiene tra le braccia se stesso, di “pietà laica”.

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Anche la 51esima edizione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro in giugno ha dedicato a Pasolini una tavola rotonda ‘Pasolini nostro contemporaneo, Pasolini pesarese’ con alcune immagini in anteprima da La macchinazione, il film di David Grieco sugli ultimi tre mesi di vita del poeta, interpretato da Massimo Ranieri.

Massimo Ranieri è Pier Paolo Pasolini nel film La macchinazione di D. Grieco

L’uscita del film sarà preceduta, il 27 agosto, dalla pubblicazione del libro di Grieco per Rizzoli intitolato La Macchinazione “Il libro inizia dove il film finisce, anche se nel tempo ho maturato la consapevolezza che solo il cinema, potesse raccontare davvero gli ultimi tre mesi della vita di Pasolini.” Spiega David Grieco “Alcuni dettagli e lacune della vicenda potevano essere superati solo tramite delle invenzioni: il mio approccio è stato lo stesso di Oliver Stone per JFK facendo delle forzature, ovvero collegando delle cose che, apparentemente, non sembrano collegabili tra loro. Un processo che può avvenire solo tramite la finzione cinematografica.”(fonte GLOBALIST).

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Alla Spezia due omaggi estivi a Pasolini, il primo in forma di spettacolo con regia di Tony Garbini (Teatro Ocra) e Angela Teodori che ha debuttato a luglio al festival LUNARIA al castello di Malgrate in Lunigiana con Pazzi della quieta felicità di vivere ancora; straordinaria la fotografia per la locandina a firma di Jacopo Benassi. Protagonisti gli stralunati personaggi del film La terra vista dalla luna, episodio cinematografico poco conosciuto di Pasolini, con interprete un clownesco Totò (interpretato da Gianluca Pezzino) con il compare Ninetto Davoli (Davide Grossi) alla ricerca  di chi possa sostituire l’amata e defunta moglie e madre Crisantema. Trovano la donna ideale nella sordomuta Assurdina dai capelli verdi (Angela Teodori). La recita si svolge attraverso una serie di gag e di gestualità quasi da avanspettacolo che riportano all’atmosfera grottesca e comica insieme del film, sottolineati dal potente violoncello live di Julia Kent e dalle suggestioni in forma di suoni, parole e canto di Patrizia Oliva; il fantasma di Pasolini si palesa anche negli abiti che, come sudari, riportano il suo volto e i titoli delle sue opere (Le ceneri di Gramsci) come se i costumi fossero pitture viventi (a firma di Lorenzo D’Anteo) marchiate nel corpo a futura memoria. Come tableaux vivant altri personaggi dell’immaginario pasoliniano appaiono come fantasmi resuscitati dai suoi film, Medea (Cecilia Malatesta) e laSignora Vaccari (Daniela Casciari). In uno scomposto mosaico di suoni, musica e parole in un connubbio davvero d’avanguardia che ci riporta alle atmosfere del teatro degli anni Settanta, è il presentatore (Tony Garbini) a riunire le fila della narrazione guidando il pubblico sotto la finestra del Castello (in realtà un ponte) dove Assurdina suicida, forse muore o forse no. Uno spettacolo che nasce da una profonda passione di Garbini per il Pasolini politico che amava anche percorrere quella cultura popolare di cui questo mondo favolistico che trascende la morte è uno degli esempi.

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Il secondo omaggio spezzino è la mostra delle fotografie di Mario Dondero ospitata allo SPAZIO BOSS dei Giardini pubblici in collaborazione con il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa inaugurata il 25 luglio. Sono presenti alcune fotografie storiche come quelle con la madre Susanna, con Moravia e Laura Betti, e quelle dal set de La ricotta, La rabbia e Comizi d’amore.  A proposito degli scatti di questa mostra e sul sodalizio artistico negli anni Sessanta tra Dondero e Pasolini, scrive il critico Angela Felice (Pasolini  e il fotografo Dondero. Scatti amorosi): “Sono anni vitali e cruciali, dunque, chiaroscurati tra un’incombente e lucida riflessione sulla “fine della Storia” e uno slancio volontaristico verso l’Utopia, anni ansiosi nel cercare e costruire modalità e forme nuove di testimonianza e di intervento. E perciò sono anni di cinema, in cui, da regista, Pasolini ambisce a riversare un animus febbrile di sperimentatore linguistico e di rottura formale, dall’alto o dal basso di un’assoluta verginità tecnica, digiuno com’era di formazione cinematografica e al più attrezzato di occasionali incursioni (ma, s’immagina, quanto voraci) sui set. E così lo cattura l’occhio morbido di Mario Dondero, magnifico fotografo della scena pubblica degli anni Sessanta, a Milano e a Roma, di cui lo “scatto”, con nonchalance spontanea, quasi refrattaria alla formalizzazione estetizzante in sé, fissa i valori affettivi e umani, nel momento stesso in cui ne restituisce una formidabile galleria documentaria: di un clima culturale, di una tensione intellettuale e politica condivisa, di una rete di relazioni interne a tutta una comunità”.

IL CAPITALE DI KARL MARX LETTO DAL VIVO E IL CADAVERE DI PASOLINI: LA 56A EDIZIONE DELLA BIENNALE DI VENEZIA
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La 56a Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia dal titolo suggestivo All the world’s futures forse non sarà celebrata come la migliore degli ultimi anni ma si tratta pur sempre di una manifestazione straordinaria, tappa d’obbligo per  vedere l’opera di artisti internazionali dislocati nei diversi Padiglioni ad articolare secondo il loro pensiero, il filo rosso della tematica prescelta dal curatore; questo filo rosso forma un percorso espositivo che si articola dal Padiglione Centrale (Giardini) all’Arsenale, includendo 136 artisti dei quali 89 presenti per la prima volta, provenienti da 53 paesi. 159 sono le nuove produzioni realizzate per questa edizione.

All the World’s Futures ha inaugurato anche ARENA, uno spazio attivo nel Padiglione Centrale dei Giardini dedicato a una continua programmazione interdisciplinare dal vivo. Il cardine di questo programma è l’imponente lettura dal vivo dei tre volumi di Das Kapital di Karl Marx (Il Capitale). Das Kapital diventerà una sorta di Oratorio letto da attori come un testo drammaturgico, con la regia dell’artista e regista Isaac Julien: per tutta la durata dell’Esposizione la lettura dal vivo sarà un appuntamento che si svolgerà senza soluzione di continuità.

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Il curatore della 56a edizione è Okwui Enwezo. L’isprazione per questa edizione è di natura politica e parte dall’Angelus Novus di Benjamin: “Le fratture che oggi ci circondano e che abbondano in ogni angolo del panorama mondiale rievocano le macerie evanescenti di precedenti catastrofi accumulatesi ai piedi dell’angelo della storia nell’Angelus Novus. Come fare per afferrare appieno l’inquietudine del nostro tempo, renderla comprensibile, esaminarla e articolarla? I cambiamenti radicali verificatisi nel corso degli ultimi due secoli – dalla modernità industriale a quella post-industriale, dalla modernità tecnologica a quella digitale, dalla migrazione di massa alla mobilità di massa, i disastri ambientali e le guerre genocide, dalla modernità alla post-modernità, il caos e la promessa – hanno prodotto nuovi e affascinanti spunti per artisti, scrittori, cineasti, performer, compositori, musicisti, ecc.”

La tematica politica viene svolta in modalità diverse dagli artisti presenti nei diversi padiglioni nazionali, ovviamente cambiando finalità e obiettivi se si tratta del Padiglione del Venezuela o della Cina o del Cile (quest’ultimo ha portato un’opera dal significativo titolo “Poetica della dissidenza”con le fotografie di Paz Errazuriz che vanno a svelare ambiti sociali individuali non integrati come i gruppi di trans, famiglie disagiate eLotty Rosenfeld artista audiovisivo che ha contrastato la dittatura militare e la repressione con le sue opere). Da segnalare il Padiglione della Russia con i meravigliosi spazi cromatici di IRINA NAKHOVA, un omaggio ai modernisti (Malevich Rodchenko, Klutsis) e ai post modernisti sovietici. Il Padiglione della Corea invece introduce un film narrativo su più spazi ispirato a un immaginario tempo fantascientifico in cui si farà jogging su una ruota dove il verde è un’illusione ottica e l’acqua una sensazione mediata dalle tecnologie. Gli artisti sono Jeon Joonho e Moon Kyngwon.

Il poetico padiglione della Francia mette gli spettatori in posizione comoda, come fossero sdraiati su un morbido prato per essere immersi in una natura costituita da un albero gigantesco che, con radici raccolte dentro un telo di juta, si muove davanti a lui. L’artista è Céleste Boursier-Mougeno.

Presenti anche i Paesi dell’ex Jugoslavia: segnaliamo il Padiglione del Kosovo con l’opera Speculating on the blue di Flaka Haliti costituito da un ambiente site specific fatto di polvere blu circondato da ferri e sbarre dove bisogna immergersi fino alla caviglia. Il significato è legato ai confini e alle barriere da cui siamo circondati.

Il Padiglione Italia in Arsenale era curato quest’anno da Vincenzo Trione e non spiccata per vivacitàe originalità tranne che per l’opera di Marzia Migliora e Vanessa Beecroft. Il tema unitario era CODICE ITALIA incentrato sulla memoria declinata per lo più dagli artisti con le immagini della storia dell’arte.

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Rimarrà per me impressa per sempre l’opera scultorea in lamina nera (accompagnato dai disegni in carboncino) di William Kentridge come Omaggio all’Italia che raffigura il cadavere di Pasolini e le immagini rubate nei metro di CHRIS MARKER.

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Dutch National Opera presents the complete version of Alban Berg’s opera Lulu by Kentridge
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Dutch National Opera presents the complete version of Alban Berg’s opera Lulu for the first time in National Opera & Ballet, in a co-production with the Metropolitan Opera New York and English National Opera. The Royal Concertgebouw Orchestra takes its place in the pit.

IN SHORT

Alban Berg wrestled with Lulu his entire life, leaving it unfinished at his death in 1935. Friedrich Cerha (*1926) completed the orchestration of the third act only in 1979. Until then, only the first two acts were ever performed, with segments of the Lulu Suite as a conclusion. Although the musical motives are based on a single twelve-tone series, the instrumentation is colourful and there is a great variety of musical forms. As the rhythm of the vocal lines closely follows that of speech, the text comes across as very natural. One of the highlights is Lulu’s provocative song ‘Wenn sich die Menschen um meinetwillen umgebracht haben’.

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BACKGROUND

William Kentridge
The South African artist and filmmaker William Kentridge was inspired for his staging by the silent films from the 1920s and ‘30s, the time in which Lulu was composed. In 2012 he was the guest of the Holland Festival with the chamber opera Refuse the Hour.

PRODUCTION

Co-production with
The Metropolitan Opera, New York and English National Opera, Londen.

Museum Haus Konstruktiv Zurich presents William Kentridge
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4 June to 6 September 2015
Museum Haus Konstruktiv Zurich presents William Kentridge (b. 1955 in Johannesburg), one of the most highly regarded artists of our time in a comprehensive solo exhibition for the first time in Switzerland. At the center of his presentation is the 8-part video installation “I am not me, the horse is not mine”, curated by Sabine Schaschl, which has previously been shown at MoMA in New York and Tate Modern in London. What makes the exhibition at Museum Haus Konstruktiv unique, is that it is the first to also present little-known works that were produced in the contentual context of the complex video work. These include bronzes, tapestries, drawings, collages and paper sculptures. 

“I am not me, the horse is not mine” is based on the surrealist short story “The Nose”, which was written by Nikolai Gogol in 1836 and adapted for an opera by Dmitri Shostakovich around 100 years later. William Kentridge looks into the era of the Russian Constructivists and their fight for social and artistic transformation – a transformation that was also a concern of the Zurich Concretists.

The exhibition is accompanied by a catalogue with essays by William Kentridge, Jane Taylor and Sabine Schaschl, published by “Verlag der Buchhandlung Walther König”.

Movie portrait of the South African artist William Kentridge

WILLIAM KENTRIDGE E KARA WALKER.
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Dalle installazioni al teatro.

 William Kentridge[1] tra i più grandi artisti visivi mondiali, svolge un’attività artistica multipla sin dalla fine degli anni Settanta in Sudafrica: le sue opere spaziano dalle incisioni con tecniche diverse (puntasecca, acquaforte, acquatinta) ai disegni a carboncino, a gesso e pastello, ai collage, alle pitture, alle installazioni con sculture in bronzo, con mobili, arredi e schermi (che formano veri e propri teatrini in miniatura), ai film animati in 16 e 35mm, ai disegni a silhouette realizzati espressamente per i fondali teatrali. L’esposizione a Documenta Kassel nel 1997 e la personale alPalais des Beaux-Arts a Bruxelles nel 1998 ne decretano il successo mondiale.

La sua biografia è costellata di numerosi eventi legati al teatro: iscritto alla Ecole Jacques Lecoq a Parigi, scenografo attore e regista della Junction Avenue Theater Company e della Handspring Puppett Company di Johannesburg, allestisce opere dai testi di Tom Stoppard e Alfred Jarry. Famose sono le incisioni che costituiscono la serie Ubu tells the truth (1996-1997) andato in scena con la collaborazione di Handspring Puppett Company, i disegni per lo spettacolo Faustus in Africa (1995), per Confessions of Zeno (2002), per l’opera in musica Il ritorno di Ulisse in patria (1998) da Monteverdi; alcune fotografie inserite nel volume documentano l’installazione Preparing the Flute, un modellino teatrale con due film animati in 35mm con cui Kentridge reinventa il suo lavoro per le scenografie per l’opera Il Flauto magico da Mozart.

Ricordiamo soprattutto i Drawings for Projections, film animati muti realizzati da Kentridge a partire da disegni al carboncino e inaugurati con la fine degli anni Ottanta. Travagliato il lavoro di Kentridge davanti alla Bolex 16mm per creare sequenze animate composte da innumerevoli e minime variazioni e cancellature del disegno monocromo davanti alla macchina da presa, ci riporta al cinema delle origini, ai primi studi fotografici del movimento di Marey:

A differenza dell’animazione classica in cui per creare un solo secondo di filmato si realizzano ventiquattro disegni diversi su altrettanti fogli, per i suoi film Kentridge usa solo pochi fogli di carta che vengono ossessivamente disegnati, cancellati e ridisegnati a carboncino. L’artista parte da un largo foglio bianco appeso al muro e vi disegna la prima scena. Poi passa alla telecamera con cui riprende il disegno per pochi istanti. Quindi ferma la cinepresa e torna al disegno: lo altera con cancellature, aggiunte e sovrapposizioni anche solo infinitesimali, facendo evolvere l’immagine secondo la narrazione. E di nuovo torna a filmare il disegno, nato da una metamorfosi di quello precedente, di cui conserva la memoria[2].

Ma le sue opere sono inscindibili dalla storia recente del Sudafrica, dal tema dell’apartheid a cui Kentridge dedica la lunga saga di Soho Eckstein, storia di un avido e ingordo capitalista industriale simbolo stesso della corruzione e della depravazione in una Johannesburg colpita dalle ingiustizie razziali e dallo sfruttamento del lavoro operaio nelle miniere. Il personaggio che gli si contrappone è il solitario e triste Felix Teitlebaum.

Nel repertorio visivo di Kentridge le ombre sono un motivo iconologico costante e un vero topos, sviluppate nelle più diverse tecniche: dalle sculture in lamina nera di figure in sospensione tra le due e le tre dimensioni (addossate su muro o anamorfiche e disperse a frammenti nello spazio, e persino rotanti su un perno o riprese dalla telecamera/macchina da presa), alle processioni in silhouette di derelitti in marcia eseguite a collage con carta strappata (come in Portage, 2000), dalle sagome di figure nere di varie dimensioni inserite su arazzi fino ai ciclorama di profili neri su sfondo bianco o su pagine di libri e su carte geografiche, e infine alle proiezioni animate (Shadow Procession, 1999; Stair Processing Vertical Painting, 2000; Procession or Anatomy of Vertebrates, 2000).

I video, le installazioni e le opere filmiche animate di William Kentridge a partire da disegni al carboncino sono creati quali forme espressive aperte che si espandono verso inedite traiettorie artistiche, in una felice “conflittualità relazionale”: il video, come espansione del fatto grafico, diventa installazione, poi quadro scenico animato all’interno di uno spettacolo (come nel recente progetto ispirato al racconto Il naso di Gogol dal titolo I am not Me, the Horse is not Mine, 2008). L’effetto di ombre in movimento nel suo teatro (con una eco non incidentale al teatro giavanese, il wajang) è variamente combinato con le proiezioni video o filmiche, tecniche che insieme creano un gioco e uno scambio ininterrotto tra la parte frontale e quella retrostante la scena, entrambe spazio d’azione live sia dell’attore (o della marionetta) che della macchina (e del suo manovratore). Ultimo progetto portato al MAXXI di Roma è The Refusal of Time, in cui Kentridge realizza un collage di eventi e opere: film animati con una proiezione sincronica a cinque canali in cui si incastrano teatro, cinema, ombre, musica, scultura.

L’onda anomala innescata da artista politico come Kentridge, con il suo repertorio di figure nere in processione e di cortei di ombre animate, simboli di azione, resistenza e riscatto in un Sudafrica “riconciliato” all’indomani della vittoria dell’African National Congress di Mandela e della fine dell’apertheid, sta facendo scuola anche in territori non strettamente teatrali. Il motivo kentridgiano della processione di figure nere a mo’ di ciclorama e i video animati con sagome di carta, però con protagonisti schiavi, madri stuprate, sottomesse, uomini torturati (che sembrano a prima vista innocenti decorazioni che escono da lavori di découpage o dal cassetto di giochi dei bambini) sono al centro del lavoro della giovane artista afro-americana Kara Walker.

Il lessico dell’artista (quale si evince da tutte le sue opere nei più diversi formati e tecniche usati: acquarello, inchiostro o carboncino su carta, collage, figurine di carta su muro, o film in 16mm) è connotato da un voluto primitivismo (il film Possible Beginnings on the Creation of African-America, 2006 e l’allegorico tableau composto da ritagli di carta neri su parete bianca The End of Uncle Tom, 1995 o la serie negativa con figure bianche su fondo neroExcavated from the Black Heart of a Negress, 2002) di cui parla Yasmil Raymond nel catalogo dedicato alla Walker My Complement, My Enemy, My Oppressor, My Love (2008).

L’epopea della negritudine passa dalla tratta degli schiavi alla guerra tra sudisti e nordisti, al colonialismo, dal racconto dello Zio Tom, allo sfruttamento razzista, alla proclamazione dell’emancipazione femminile. Walker raffigura atti indecenti di sesso mescolati ai segni del potere, la nascita con lo smembramento e tutte le pericolose derive dal desiderio alla procreazione: violenza, allattamento, dominazione (dell’uomo sulla donna, dell’uomo bianco sullo schiavo nero: le serie di acquarelli, disegni a matita e inchiostro Do you like Creme in your Coffee and Chocolate in your Milk? e Negress Notes entrambi del 1997). I suoi lavori con proiezione video, carte ritagliate e ombra (come in Darkytown Rebellion, 2001) sono ulteriormente esaltati dalla performance dal vivo con effetti luministici colorati. Dalle ombre ritagliate su carta e incollate alla parete, alle silhouette realizzate con il supporto di mixed media fino alla animazione dal vivo in direzione performativa. L’aspetto del teatro multimediale è legato infatti, alla creazione di alcuni video come piccoli teatrini, realizzati attraverso l’animazione manuale effettuata in diretta dietro uno schermo, delle figure nere ritagliate servendosi di bastoncini, a raccontare schiavitù infinite e oppressioni millenarie.

 

TRA REMEDIATION, AMBIVALENZA E INTERTESTUALITÀ, ALCUNE PREMESSE TEORICHE AL TECNO-TEATRO.
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Da alcuni anni mi occupo di autori e registi teatrali contemporanei il cui lavoro viene associato alle tecnologie e alla multimedialità: da una parte Robert Lepage, William Kentridge, Heiner Goebbels, e dall’altra gruppi come Masbedo, Urban Screen, Motus, Konic thtr.Analizzandone il processo creativo e indagando le ragioni profonde dei loro allestimenti teatrali ho trovato, per i primi, alcuni richiami espliciti a motivi che appartengono più al teatro dell’origine che non a quello della videocultura digitale: dalle ombre (viventi e animate) alle macchine (dispositivi scenici o congegni prospettici). Sono questi ad adattarsi al mutato ambiente teatrale digitale e alle rinnovate esigenze della scena contemporanea e non viceversa. Lepage, Kentridge e Goebbels accettano la sfida del contemporaneo mascherando il vecchio con il nuovo, mostrando l’innovazione tecnologica come la naturale evoluzione di un sapere tecnico antico che appartiene “geneticamente” al teatro.

Se Edward Gordon Craig brevettava nel 1910 a Londra i suoi celebri screen (“le mille scene in una”)[1]contenenti un richiamo alle scene del cinquecentista Sebastiano Serlio (autore del trattato Il secondo libro di Perspettiva,1545 e dei Libri di architettura, 1560)[2], il canadese Robert Lepage ripropone (sia nei suoi “one-man-show” che negli allestimenti per la lirica e per eventi per il grande pubblico) apparati macchinici e scene girevoli di stampo rinascimentale[3].

Il compositore e regista tedesco Heiner Goebbelsper la sua scena auto funzionante, sonora e macchinica, senza attori o manovratori, si rifà piuttosto, agli automata[5].

Nel secondo gruppo di giovani artisti e gruppi tecnoteatrali, è bene evidenziata un’altra singolare “concrezione”: l’adeguamento del nuovo teatro ai principi portanti dei new media e conseguente evoluzione dalla ormai storica “scena intermediale” (in cui avveniva uno scambio alla pari dei media) a quella ambivalente (in cui prevale il “formato mediale” di singoli supporti indipendenti sull’integrazione degli stessi), in una inedita formulazione di spettacolazione totale. Concetto quest’ultimo, bene espresso proprio dal regista e compositore tedesco Heiner Goebbels che specifica quanto i suoi lavori teatrali –che contengono elementi sia musicali che multimediali- non siano affatto finalizzati ad una “opera d’arte totale wagneriana”:

 “Non miro al Gesamtkunstwerk, al contrario. In Wagner ogni cosa tende e opera verso lo stesso fine. Ciò che vedi è esattamente ciò che senti. Nei miei lavori la luce, la parola, la musica e i suoni sono tutte forme a sé. Quello che cerco di fare è una polifonia di elementi in cui ogni cosa mantiene la sua integrità, come una voce in un brano di musica polifonica. Il mio ruolo è quello di comporre queste voci in qualcosa di nuovo”[6]

 Alcuni concetti (provenienti sia dalla critica letteraria e linguistica che dai media studies) ci vengono in aiuto per inserire nella più corretta cornice estetica, da una parte, questo strano connubio tra arcaismo e contemporaneità tecnologica, e dall’altro il mimetismo o trasformismo delle nuove performance ad alto tasso di multimedialità: primi fra tutti, l’intertestualità (il testo come “mosaico di citazioni”, secondo la Kristeva) e la “remediation”.

La remediation è una modalità tecnica e linguistica che sta prendendo campo negli ultimi anni, configurandosi come un vero e proprio “nuovo stile”, approdando anche a teatro. Termine difficile da tradurre, la remediation (in italiano “ri-mediazione”) è entrato nel linguaggio comune grazie alla teorizzazione che ne hanno fatto nel 1999 Jay Davis Bolter e Richard Grusin (Remediation: Understanding New Media); in sostanza, nel momento in cui un nuovo mezzo di comunicazione appare sul mercato, questo si manifesta anche attraverso un’appropriazione o negoziazione (da parte sia dei media vecchi che di quelli nuovi), delle modalità, dei segni distintivi, dei codici artistici ed estetici dei mezzi che lo hanno preceduto, in una sorta di riorganizzazione delle forme comunicative. Per questo motivo un medium non scompare mai del tutto.

La remediation altro non è altro, quindi, che la competizione tra vecchi e nuovi media, ma anche il “rimodellamento” di tutti i media (o di alcune caratteristiche di essi) solo apparentemente tra loro inconciliabili o incompatibili: come ricordano gli stessi autori: “Un medium si appropria di tecniche forme e significati sociali di altri media e cerca di competere con loro o rimodellarli[7]”.

Jay Davis Bolter e Richard Grusin affermano che i nuovi media, ben lontani dall’essere entità indipendenti dai processi sociali ovvero, “agenti esterni che intervengono a scompaginare una cultura che sembra ignara di loro”, emergono dagli stessi contesti sociali, economici, culturali operando sui vecchi media un processo da loro definito appunto, di remediation che porta cioè, un “rimedio” all’incapacità dei vecchi media di rispondere alle mutate esigenze della società dell’informazione. Secondo Bolter e Grusin, i media digitali hanno messo in crisi i vecchi media costringendoli a “reinventare” se stessi, in sostanza ad attualizzarsi, a rimodellarsi e a scendere a compromessi con le richieste di un mercato sempre più attratto dalle tecnologie avanzate. Queste “rimediazioni” continuerebbero a succedersi dal Rinascimento ad oggi: nei tempi moderni la fotografia ha operato una rimediazione sulla pittura, la televisione ha fatto altrettanto con il cinema e con il teatro. Bolter e Grusin non parlano espressamente di teatro, anche se identificano e isolano tra i principi propri dei nuovi media proprio l’immediatezza e l’ipermedialità, elementi evidentemente non estranei alla grammatica del teatro (teatro come compresenza fisica di emittente e destinatario, secondo la definizione data dalla semiotica teatrale; teatro come “insieme di rapporti interagenti”, primo assioma del teatro ambientale di Richard Schechner[8]).

Remediation è quindi la possibilità di una reviviscenza per vecchie tecniche che hanno la possibilità di riemergere dal dimenticatoio o dall’obsoleto, restando così, al passo con la contemporaneità multimediale e contribuendo alla formulazione di una nuova estetica rétro-digitale. La più logica interpretazione della rimediazione, seguendo le intuizioni di Bolter e Grusin e confrontandole con le riflessioni estetiche di Rosalind Krauss[9], sarebbe la reinvenzione di un dato linguaggio all’interno di una grammatica e di una tecnica assai distante ma resa meno estranea grazie alle caratteristiche proprie del digitale, che ricongiunge gli opposti e determina le mescolanze più impensabili.

La contemporaneità artistica è fatta di innesti paradossali e di produzioni miste, di complessi progetti che vagano indifferentemente nel web, nelle gallerie d’arte e nei teatri provenendo dai mondi più distanti. In questa generalizzata computerizzazione della cultura (seguendo Lev Manovich[10]), la rimediazione produrrebbe una fenomenologia artistica aperta, mimetica e mutante.

Si privilegia infatti, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno-artistico affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo e derivante indistintamente dal videoclip, dalle installazioni, dai concerti, dal vjing, dalla graphic art, fino al cinema di animazione e persino alla videogame art. Non mescolanza, maintertestualità: è l’intertestualità la logica prevalente delle nuove produzioni mediali, ricorda Giovanni Boccia Artieri: 

Ci troviamo cioè entro una logica di produzione di testi che echeggiano testi precedenti, incedono sul gioco delle citazioni, evocano e suggeriscono, sono autoreferenti, e allo stesso tempo si aprono al remake, producendo uno stato di particolare eccitazione per la forma[11].

L’ambivalenza indica un oggetto che ha una doppia proprietà o funzione, che si presenta sotto due aspetti diversi (non necessariamente in opposizione): in queste nuove produzioni tecnologiche il teatro non nasce dal teatro e soprattutto non si esaurisce nell’atto teatrale, ma acquista una vitalità infinita grazie al digitale potendo espandersi in forma di film, installazione, opera d’arte autonoma. Da una parte ritroviamo una storica poetica di intreccio di linguaggi, dall’altra una proposta estetica più vicina alla tematica del digitale che considera i singoli elementi di un progetto artistico come oggetti (o testi) multimediali[12] come interscambiabili, aperti alle più diverse incarnazioni e tali da poter sperimentare tutti i possibili incastri mediali, in un nomadismo tecnologico senza precedenti. Ogni format può essere, così, considerato alternativamente realizzazione artistica autonoma o tappa di un ulteriore processo di elaborazione – virtualmente infinito e rigorosamente aperto.

 Il principio di variabilità permette di avere a disposizione numerose opzioni per modificare la performance di un programma o di un oggetto mediale: un videogioco, un sito, un browser o lo stesso sistema operativo. […] Se noi applicassimo questo principio alla cultura tout court significherebbe che tutte le opzioni utilizzabili per dare a un oggetto culturale una sua identità specifica potrebbero in teoria, restare sempre aperte.[13]

 Ne risulta una indeterminatezza di genere che è la caratteristica dei nuovi formati digitali, apparentemente privi di un modello strutturale classificatorio. Si tratta, come osserva acutamente Laura Gemini di

 performance liminoidi e intermedie che mettono in luce la propria ambivalenza rendendosi difficilmente classificabili. È un’arte della performance che ha fatto propria la consapevolezza postmoderna, che ha riconosciuto l’esistenza di una rete complessa di flussi comunicativi e l’idea della conoscenza come partecipazione creativa dell’oggetto conosciuto. […] Parlare della performance artistica oggi significa non pensare né allo spettacolo come testo distinto (teatrale, televisivo, cinematografico o sportivo che sia) né allo spettacolare come categoria puramente estetica. Si deve piuttosto porre come condizione prioritaria la fluidità del mélange e rinvenire in quelle pratiche spettacolari che non si prestano ad essere classificate secondo rigide convenzioni formali. La stessa messa in scena va intesa come organizzazione di testi (cinema, teatro, televisione) che tendono alla progressiva indistinzione, a una dinamica di flusso che rende miglior merito alle forme comunicative contemporanee[14].

 Se Kentridge e Lepage sono emblematici di una tendenza alla rimediazione dei vecchi media che sta sempre più facendo scuola (dal mercato tornato in auge dell’analogico, al collezionismo delle tecnologie che “non ce l’hanno fatta”, ad artisti che mescolano deliberatamente vecchie tecniche, macchine e televisori a tubo catodico dentro installazioni interattive), dobbiamo riconoscere che numerosi sono i ricorsi, anche all’interno di ambiti di spettacolo commerciale (per esempi i concerti rock o i grandi eventi negli spazi pubblici), a dispositivi e invenzioni ottiche di fine Ottocento.

L’estetica del meraviglioso ovvero quella che Andrew Darley definisce l’estetica della superficie, è alla base delle forme spettacolari legate al videomapping[15]: la proiezione su enormi superfici architettoniche reclama uno sguardo panoramico e avvolgente nei lavori di Urban screen, Nuform, Apparati effimeri:

Urban screens

E’ così che l’intreccio tra la forma della spettacolarizzazione e realtà tecnologica del medium riprende le forme del meraviglioso presenti nelle modalità ottocentesche di intrattenimento di massa consentendone anche una ridefinizione dello spazio urbano: effetti speciali visivi ed immersivi dove talvolta la forma conta più del contenuto, dove sono i giochi di superficie ad essere rilevanti[16].

 Estetica che ha un gran debito nei confronti di panorama e diorama e delle diverse fantasmagorie della cultura popolare ottocentesca[17] ma anche nei confronti degli studi sugli scorci prospettici in pittura, sul quadraturismo, sull’effetto pittorico illusorio di sfondamento volumetrico. Si può dire allora che il video mapping e l’architectural mapping sono la prosecuzione ideale, in epoca di realtà aumentata e di dispositivi immersivi, delle macchine ottiche e degli esperimenti anamorfici[18] del Seicento.

Come ci ricorda Thomas Maldonado, la civiltà occidentale è diventata una produttrice e consumatrice ditrompe-l’œil, il quale si è svincolato dal virtuosismo fine a se stesso per avvalersi di tecnologie che tendono ad un iperrealismo:

 “La nostra è stata definita una civiltà delle immagini. (…) Questa definizione sarebbe più vera, se aggiungessimo che la nostra è una civiltà in cui un particolare tipo di immagini, le immagini trompe-l’œil, raggiungono, grazie al contributo di nuove tecnologie di produzione e di diffusione iconica, una prodigiosa resa veristica. Ciò appare chiaro con l’invenzione della fotografia e poi, in modo più evidente, con quella della cinematografia e della televisione. La conferma più incisiva viene, oggi, dall’avvento della grafica computerizzata, soprattutto se si pensa ai suoi ultimi sviluppi finalizzati alla produzione di realtà virtuali.”[19].

Per approfondimenti vedi: A.M. Monteverdi, Nuovi media, nuovo teatro, Milano, FrancoAngeli 2011



[1] Il brevetto degli screen, pannelli semoventi monocromi simbolo del suo teatro antirealista (Patent n.1771) viene depositato da Gordon Craig (che si firma  Stage-manager), il 24 gennaio del 1910. Nel documento Craig ne specifica caratteristiche tecniche, il funzionamento e i benefici per il nuovo teatro:

The object of my invention is to provide a device which shall present the aesthetic advantages of the plain curtain but shall further be capable of a multitude of effects which although not intend to produce an illusion shall nevertheless assist the imagination of the spectator by suggestion. My invention consists in the use of a series of double jointed folding screens standing on the stage and painted n monochrome –preferable white or pale yellow. The screens may be used as background and in addition to this use, may be so arranged as to project into the foreground at various angles of perspective so as to suggest various physical conditions such as, for example, the corner of a street – or the interior of a building”. Documento proveniente dalla Collezione Arnold Rood e pubblicato in occasione della mostra Exploding Tradition: Gordon Craig 1872-1966 (Victoria & Albert Museum, Londra, 1998)

[2] M.I.Aliverti, History and histories in Edward Gordon Craig’s written and graphic work.in Wagner E., Dieter-Ernst W. (a cura di) Performing the Matrix: Mediating Cultural Performance, Epodium, Monaco, 2008. La Aliverti partendo dalla Collezione di libri storici di teatro di Craig ora conservata alla Bibliothèque Nationale di Parigi (Départment des Arts du Spectacle) prende in esame l’influenza proveniente dallo studio dei Libri di Architettura del Serlio nel periodo tra il 1906 e il 1909, anni in cui Craig realizza la regia del Rosmerholm di Ibsen con Eleonora Duse e Hamlet (Mosca, 1908).

Franco Mancini afferma che lo stimolo per la sua idea di palcoscenico mobile era, effettivamente, venuta proprio dalla lettura del trattato del Serlio “che illustrava, tra l’altro, uno schema di teatro dalla superficie scenica sezionata a scacchiera. Costituito da volumi geometrici a forma di parallelepipedo ripetuti anche nella zona della soffitta e lambiti lateralmente da paraventi con il compito di modificare lo spazio scenico in rapporto alla necessità dell’azione, il palcoscenico di Craig, pur presentando pressappoco le stesse caratteristiche descritte da Serlio. Se ne distaccava per la mobilità, in quanto ogni quadrato poteva sollevarsi a piacere. F. Mancini L’evoluzione dello spazio scenico dal Naturalismo al teatro epico, Bari, Dedalo, 1986, p.57.

[3] La scena teatrale tra il Quattrocento e gli inizi del Seicento, in cui la prospettiva con scorcio aveva definitivamente sostituito le mansions paratattiche delle sacre rappresentazioni, viene a trasformarsi progressivamente proprio grazie all’introduzione di macchine e argani, congegni che permettevano trasformazioni rapide, cambi automatici oltre che voli, apparizioni di cieli e soli, demoni e angeli annuncianti o discendenti progettati da Brunelleschi, Vasari, Sangallo, Buontalenti in occasione delle feste di nozze farnese o medicea, per naumachie e contrasti. E’ negli “intermezzi” che lo spazio della scena è tutto per la macchina. Anche Leonardo si era cimentato come “apparatore” in occasione dell’Orfeo di Poliziano, come è testimoniato dagli studi e dai progetti datati 1506-1508 presenti nel codice Arundel conservato al British Museum di Londra. Vedi C. Molinari,Brunelleschi, Leonardo e la tradizione scenotecnica, in “Quaderni di teatro”, anno III, n. 10, 1980, p.6. Ed inoltre: C. Molinari, La scena vuota in E.G.Zorzi (a cura di) Teatro e spettacolo nella Firenze dei Medici. Modelli dei luoghi teatrali, Firenze, Leo S. Olschki, 2001

[4] Il teatro d’ombre muto era utilizzato ampiamente per i Sacri Misteri. Sul tema vedi M. Rak, L’arte dei fuochi, comunicazione al convegno Bernini e l’universo meccanico, in “Quaderni di teatro” anno IV, n. 13, pp.46-59.

[5] Automata è il titolo del volume di Erone di Alessandria, matematico che visse nel II sec. a.C. e tratta la meccanica dei corpi solidi. Erone descrive, tra gli altri, anche il famoso “teatro meccanico” con statue con sembianze umane che si muovevano , uccelli che cantavano, porte che si aprivano o chiudevano mossi dall’azione dell’acqua o del vapore.

[6] Intervista a H.Goebbels a cura di I.Hewett, “The Telegraph” (GB),  22 giugno 2012.

[7] J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation: competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini, 2003.

[8] R.Schechner, La cavità teatrale, De Donato, Bari, 1968, pp. 23-72.

[9] R.Krauss, Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte di oggi, Bruno Mondadori, Milano, 2006.

[10]Lev Manovich in Il linguaggio dei nuovi media (Milano, Olivars, 2001) parla del principio ditranscodifica culturale che caratterizzerebbe la società permeata dai nuovi media. In sostanza, la computerizzazione trasforma tutti i media in dati informatici e questo ha un riflesso immediato sul piano delle azioni e dei comportamenti umani, sui processi cognitivi, sulla cultura:  “Le modalità con cui il computer modella il mondo, rappresenta i dati e ci consente di operare su di essi, le operazioni tipiche di tutti i programmi (ricerca, comparazione, ordinamento sequenziale e filtrazione), le convenzioni di funzionamento delle interfacce – in sintesi, ciò che si potrebbe chiamare ontologia, epistemologia e pragmatica del computer – influenzano il livello culturale, l’organizzazione, i generi e i contenuti dei nuovi media.”( p. 69).

[11] G.Boccia Artieri, La sostanza materiale dei media: video culture digitali tra virtuale e performance, Pref. a A. Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006, p.12.

[12] Un oggetto mediale è, secondo Manovich “qualcosa che può essere declinato in versioni molto diverse tra loro ”, L. Manovich, cit, p. 57.

[13] Ibidem.

[14]L.Gemini, L’incertezza creativa. I percorsi sociali e comunicativi delle performance artistiche, FrancoAngeli, Milano, 2003, pp. 69-70.

[15] Si tratta di una tecnica video che fa interagire la realtà e la sua ricostruzione digitale e ne modifica la percezione visiva sovrapponendosi ad essa sino a stravolgerla. Sono esperimenti diaugmented reality applicati a spettacoli e eventi negli spazi all’aperto o in teatri, con proiezioni su enormi superfici (edifici o fondali teatrali).

[16] G.Boccia Artieri, La sostanza materiale dei media: video culture digitali tra virtuale e performance, Pref. a A. Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006, p.12.

[17] A. Darley, Videoculture digitali, Milano, FrancoAngeli, 2006, pp.71-74

[18] L’anamorfosi è una rappresentazione in prospettiva realizzata su un piano o su una superficie curva, la cui visione è possibile solo da un punto di vista non perpendicolare al piano su cui si trova l’oggetto, pena la visione deformata di quest’ultimo. Come ci ricorda Jurgis Baltrušaitis: “L’anamorfosi – parola che compare nel Seicento, benché si riferisca a combinazioni già note a tempo – ne [della prospettiva, N.d.A.] inverte elementi e princìpi: essa proietta le forme fuori di se stesse invece di ridurle ai loro limiti visibili, e le disgrega perché si ricompongano in un secondo tempo, quando siano viste da un punto determinato. Il procedimento si afferma come curiosità tecnica, ma contiene una poetica dell’astrazione, un meccanismo potente di illusione ottica e una filosofia della realtà artificiosa.” J. Baltrušatis, Anamorfosi o magia artificiale degli effetti meravigliosi, Milano, Adelphi, 1969, p. 13.

[19] T. Maldonado, Reale e virtuale, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 48.d