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Bob Wilson e la lirica: qualche link dal web #liberiamogliarchivi
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Iniziamo con il TROVATORE di VERDI dal canale you tube del TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA

https://www.youtube.com/watch?v=-6sNdueOCCI

Poi proseguiamo con il MACBETH e abbiamo trovato una trasmissione di PRIMA DELLA PRIMA con una buona regia televisiva e alcuni “dietro le quinte”, interviste ecc molto utili

https://www.raiplay.it/video/2014/12/Prima-della-prima—–Macbeth-del-20122014-a49eb233-a87d-4e3e-b5ac-7936433ec63b.html

La trasmissione Prima della Prima di Rosaria Bronzetti ci porta dietro le quinte del Teatro Comunale di Bologna per MACBETH di Giuseppe Verdi. Regia, scene, coreografia e ideazione luci sono a cura di Robert Wilson, che cala la tragedia dell’eterna lotta del Bene contro il Male in un paesaggio visivo astratto, caratterizzato da un magistrale impiego delle luci. A dirigere Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna, Roberto Abbado. Nel cast, Dario Solari è Macbeth, Jennifer Larmore è Lady Macbeth e Riccardo Zanellato è Banco. L’opera, dopo l’iniziale successo nel marzo 1847, cadde nell’oblio; fu riesumata con strepitoso successo al Teatro alla Scala nel 7 dicembre 1952, con Maria Callas nel panni della protagonista femminile, che fece entrare definitivamente l’opera in repertorio. Racconta Abbado alle telecamere di “Prima della Prima”: “Nel ‘Macbeth’, grazie a Shakespeare che è la fonte originaria di questo dramma nell’omonima -famosissima- tragedia, Verdi rappresenta la forma di potere più estremo, quello di un uomo e una donna che per esso non esitano ad uccidere, a sterminare qualunque potenziale rivale, a sterminare le generazioni future. È un potere che fagocita tutto, fagocita il futuro stesso, fagocita la vita e la morte. È il potere di un dittatore terribile.” La regia televisiva di questa puntata è di Roberto Giannarelli (SCHEDA RAI)

L’ORFEO di MONTEVERDi

Festa, favola, mito, L’Orfeo di Monteverdi è un po’ tutto questo. Dal Teatro alla Scala con la direzione di Rinaldo Alessandrini, aiutata da una compagine strepitosa e con un cast stellare: Sara Mingardo, Georg Nigl, Roberta Invernizzi e Furio Zanasi. Scene, luci e regia di Bob Wilson. Regia tv di Emanuele Garofalo

https://www.raiplay.it/video/2020/03/LOrfeo—Prima-Parte-fe9e55ad-bc0b-4d3a-873f-ad8f7d85383c.html

https://www.raiplay.it/video/2020/03/LOrfeo—Seconda-Parte-e7e9084a-2cbb-44cf-a085-7a841eb57db4.html

Don Giovanni di Michieletto alla Fenice #liberiamogliarchivi
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Teatro La Fenice – stagione 2016/ 2017 Wolfgang Amadeus Mozart – Don Giovanni CAST Don Giovanni Alessandro Luongo Donna Anna Francesca Dotto Don Ottavio Antonio Poli Il commendatore Attila Jun Donna Elvira Carmela Remigio Leporello Omar Montanari Masetto William Corrò Zerlina Giulia Semenzato Direttore Stefano Montanari regia Damiano Michieletto scene Paolo Fantin costumi Carla Teti regia video Luca Scarzella light designer Fabio Barettin Orchestra e Coro del Teatro La Fenice maestro del Coro Claudio Marino Moretti maestro al cembalo Roberta Ferrari riprese video Oxymore production

La Damnation de Faust di Damiano Michieletto (2017) su Raiplay #liberiamogliarchivi
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La Damnation de Faust 2017 Italia 151 min

Leggenda drammatica in quattro parti, libretto di Hector Berlioz e Almire Gandonnière da Johann Wolfgang Goethe tradotto in francese da Gérard de Nerval. Direttore Daniele Gatti, Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma. Regia: Damiano Michieletto

https://www.raiplay.it/video/2017/12/OPERA—LA-DAMNATION-DE-FAUST-48ceb9c4-1984-4d35-9f00-15a5a3bdb093.html

Affama l’algoritmo. Il teatro di ombre e di macchine di Kentridge e Lepage debutta a Roma e Québec.
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Due eventi teatrali di importanza internazionale di fine estate hanno rimesso al centro dell’attenzione la scena-immagine: il debutto all’Opera di Roma di Anatomy of a Sybil di William Kentridge (abbinato alla riproposta dello spettacolo Work in progress con le originarie scenografie di Calder) e quello rappresentato, a sei ore di fuso orario di distanza, a Québec per la regia di Robert Lepage, ovvero il remake de Les sept branches de la riviére Ota.

Se il primo era evidentemente un appuntamento mondano e di gala, il secondo pur nell’importanza doppia del debutto e dell’inaugurazione del nuovo Teatro Le Diamant di Lepage/Ex machina nel cuore della vecchia Québec, era stato promosso come un evento cittadino molto informale.

In entrambi gli spettacoli emerge una scena che, come da costante degli autori, per quanto spesso abbinati a un’idea tecnologica del palcoscenico, ha richiami espliciti più al teatro dell’origine che non a quello della videocultura contemporanea. Questi gli elementi che li contraddistinguono: le ombre (viventi e animate) e le macchine (dispositivi scenici o congegni macchinici). Lepage e Kentridge pur nella diversità delle proposte, rimettono in circolazione modalità artistiche rétro, tecniche inconsuete e obsolete, mostrando l’innovazione tecnologica come la naturale evoluzione di un sapere tecnico antico che appartiene “geneticamente” al teatro. Che lo sguardo à rebours evidenziato da questi due spettacoli possa essere interpretato come un’affermazione fortemente politica in epoca di dominio algoritmico, è molto più che un sospetto.

Calder e Kentridge

Kentridge e il suo music theatre commissionato dal Teatro dell’Opera, divideva la serata con uno dei più grandi scultori del ventesimo secolo, Alexander Calder e il suo storico Work in progress (1968) ricostruito filologicamente (immagini coordinate da Giovanni Carandente
e presentate da Filippo Crivelli su musiche elettroniche di Niccolò Castiglioni, Aldo Clementi, Bruno Maderna).

Untitled 1937 Alexander Calder 1898-1976 Accepted by HM Government in lieu of tax and allocated to Tate 2002 http://www.tate.org.uk/art/work/T07920

Una scena quella di Calder, arricchita dalle sue famose sculture cinetiche, oscillanti e sospese, fatte di fili metallici, e stoffe coloratissime dette mobiles e stabiles (così chiamate rispettivamente da Marcel Duchamp e Jean Arp) che diventano personaggi inanimati ma “mossi” (meccanicamente, o tramite soffi d’aria). Il teatro diventa volutamente un circo (forma di spettacolo popolare da lui ben conosciuta e amata) con gli attori come marionette, a volte ciclisti dentro un moto perpetuo, o ancora, ombre o perfino, all’occorrenza attrezzisti. Nella loro breve apparizione da sogno, forme astratte, sagome di animali ritagliati su carta e giochi di luci cangianti sono i veri protagonisti, rubando la scena letteralmente agli attori-manovratori, attori-oggetto.

Waiting for the Sybil

Nella seconda parte William Kentridge (presente in sala alla prima) firma la regia, la scenografia e l’intero concept di questo capolavoro di teatro musicale che è Waiting for the Sybil. In scena 5 danzatori 4 cantanti e vari coristi su musiche africane (in parte) registrate e composte per l’occasione da Nhalanhla Mahlangu e Kyle Shepherd, tutti di Johannesburg.

Il pubblico romano non è certamente nuovo alla visione delle sue creazioni (al Teatro dell’Opera era andata in scena la Lulu da Berg, il monumentale murale di 550 metri Triumphs and Laments è visibile sui muraglioni del Lungotevere; la mostra Vertical Thinking con l’installazione The Refusal of Time è stata presentata al Maxxi). Waiting for the Sybil è una specie di congiunzione tra quella potente installazione al Museo d’arte contemporanea di Roma in cui Kentridge aveva realizzato un ambiente a mo’ di collage dinamico con una proiezione sincronica a cinque canali, di film animati, ombre, sculture in movimento, e l’allestimento lirico di The nose da Shostakovich. Nel primo caso l’artista aveva usato l’intero armamentario del suo immaginario pre-tecnologico: megafoni di latta, vecchi orologi, macchine da scrivere, nel secondo invece aveva usato prevalentemente collage di carta, usando in particolare le pagine del giornale. Kentridge per Anatomy of a Sybil (35 minuti) ricorda la figura della Sibilla Cumana ritratta anche da Michelangelo nella Cappella Sistina, i cui responsi sul destino degli uomini erano scritti su foglie di quercia che il vento provvedeva a disperdere in modo che nessuno avrebbe trovato quello che lo riguardava.  Così Dante:

Così la neve al sol si disigilla;

così al vento ne le foglie levi

si perdea la sentenza di Sibilla.

(Dante Alighieri, Paradiso XXXIII, 64-66).

La Sibilla interpretata da una cantante africana al centro della scena, funge nello spettacolo da amplificatore dei dubbi, dei disagi dell’uomo: lei ingoia nelle proprie cavità, con una gestualità inequivocabile le domande, le paure che raccontano l’angoscia di esistere; divora tutto ciò che sfugge al controllo umano, i mostri che dominano la vita, il terrore dell’imponderabile. La verità è occultata perché il potere controlla ogni terrore, sottomette ogni mostruosità, delimita i confini dell’agire libero. Noi siamo responsabili della nostra distruzione, non forze sovrannaturali; ci consegniamo spontaneamente alle macchine, agli apparati, ai sistemi politici e burocratici, fino ad arrivare ai media che confondono le parole della Sibilla, le disarticolano e le rendono incomprensibili, vuote, irrisolvibili.  Si leva il disperato grido della Sibilla che è quello latente in tutti noi, ed è un’epifania necessaria: il futuro è già scritto dalle macchine ma solo per chi non ha fede nella propria forza.

https://vimeo.com/337293283

Nello spettacolo i fogli con le risposte che volano via, diventano dischi rotanti proiettati, fogli di giornale con disegni al carboncino animati e scritte che contengono parole che pesano e tra le tante, quella che ci è rimasta impressa è: “Affama l’algoritmo”. In questo senso lo spettacolo è anche una specie di manifesto della sua arte che più che guardare al passato guarda all’uomo. La menzogna, l’errore, sono scanditi proprio dai fogli di giornale che scivolano via, così come le gambe delle sedie che non reggono. In un mondo dove l’uomo non sa stare in piedi perché deve condividere lo spazio con la macchina, rimane solo una difesa, l’urlo. O il silenzio di una macchina interrotta.

In scena il coro e i cantanti indossano vestiti squadrati, geometrici che ricordano Leger, Schlemmer o la Popova e rendono gli interpreti, loro stessi sculture viventi “alla Calder”; ma poiché anche Kentridge ha composto sculture aeree mobili, l’omaggio all’artista degli anni Trenta diventa quasi un modo per citare sé stesso. In un’intervista l’artista sudafricano dice che le opere di Calder gli hanno sempre ricordato “qualcosa che si muove in circolo”, e questo circolo per lui erano le domande senza risposta alla Sibilla. Rimane in scena l’immaginario che arricchisce il repertorio di Kentridge: le ombre animate di figure umane in processione, simboli di riscatto nel Sudafrica post apartheid.

L’ombra del remake: Les sept branches de la riviére Ota di LEPAGE

Robert Lepage ha definitivamente abbandonato la vecchia sede della sua compagnia multidisciplicare Ex machina, la Caserne Dalhousie, a due passi dal fiume San Lorenzo, per trasferirsi in una struttura decisamente più moderna e appena inaugurata: il Teatro Le Diamant nel cuore della vecchia Québec. Per chi ha voglia di sentire la storia del cambiamento nei decenni della struttura che oggi accoglie Le diamant, ecco il racconto che ne fa Lepage con il supporto di immagini

Il primo spettacolo con cui ha aperto le porte al pubblico è una riproposta di un lavoro del 1995, Les sept branches de la riviére Ota, all’epoca commissionato dal governo del Giappone per i 50 anni dalla bomba atomica su Hiroshima.

Le modifiche dalla originaria versione non sono molte e la tecnologia più attuale fa fatica a rallentare il passo per assomigliare a quella video in voga in quegli anni; certamente le immagini digitali sono più pulite e fluide. Vale la pena ricordare che proprio questo fu il primo spettacolo su cui si misurò il talento di Carl Fillion, lo scenografo di Ex machina (oggi passato al Cirque du soleil), anche se nel riallestimento ha fatto solo da supervisore. In gergo tecnico la scena, nella sua assoluta semplicità, è costruita da sette “pannelli a coulisse” (pannelli armati) con movimento orizzontale a scomparsa; i pannelli sono guidati su binari che trascinano una o più porte trasparenti che rappresentano una tipica casa giapponese, permettendo svariati cambi di scena. Proprio questi cambi, effettuati a mano dai personaggi, determinano il lungo viaggio narrativo che va dal 1945 al 1995. La trasparenza della casa, la presenza di specchi permettono moltiplicazioni di figure, proiezioni di ombre, effetti visivi che si uniscono (oggi come ieri), alle videoproiezioni con un gioco di sovrapposizioni molto artigianale e efficace (l’attore incastrato in mezzo ai pannelli che viene colpito dalle luci sul fondale, diventando ombra, e come tale partecipa “qui e ora” all’azione video pre-registrata).

Il pastiche narrativo del “Project Hiroshima” assembla in una logica cinematografica “paratattica” già molto apprezzata all’epoca, l’occupazione americana del Giappone, Georges Feydeau, la danza Butoh, Madame Butterfly, i comici americani degli anni Cinquanta Abbott e Costello e il campo di concentramento di Terezin, raccontando l’unione (nel dolore della distruzione e nella speranza della ricostruzione) dell’Occidente e dell’Oriente ma anche del comico e del tragico. Il fotografo americano Luke O’Connor viene incaricato subito dopo la guerra, di fotografare i danni materiali della bomba atomica su Hiroshima e si innamora di una hibakusha (una “sopravvissuta”): questa semplice trama genera un fiume di storie che si intrecciano inaspettatamente, raccontando ciascuna, come anche dalle peggiori atrocità si possa generare una vita.

Lo spettacolo va oltre il 1995 e arriva, nella nuova versione, sino a noi, con i giovani artisti che si confrontano con la memoria di una storia che non hanno mai conosciuto. La tecnologia semplificata e ridotta a videoproiezioni che si alternano all’azione recitativa, con l’uso tradizionale delle ombre, rimane ancor oggi la cifra stilistica di questo lavoro; la scenografia trattiene i corpi in forma di ombre come davvero accadde nei muri di Hiroshima a causa dell’esplosione, diventando una lastra “fotosensibile” e una scrittura di luce, metafora di un percorso di memoria, di illuminazione e di conoscenza.

Il barbiere di Siviglia at Komische Oper, Berlin
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Rossini’s classic in the production by one of the most exciting contemporary Russian directors, Kirill Serebrennikov – with Tansel Akzeybek as the enchanting lover, Nicole Chevalier as the clever object of his desire, Philipp Meierhöfer as the not-very-bitter rival, and Dominik Köninger as the frantic factotum.

There are strange goings-on behind Doctor Bartolo’s back! Recently, his ward Rosina – whom he plans to marry for her sizeable inheritance as soon as possible – seems to be secretly making new friends. A stranger is seeking to conquer Rosina’s heart with self-composed songs and all manner of cryptic messages. Even Rosina long remains ignorant of the true identity of this mysterious admirer. But one thing is clear – anything is better than being forever chained to the fusty, grumpy Bartolo. And where there’s a will, there’s a way – no matter how strange.

Il barbiere di Siviglia

Ever since the première of Il barbiere di Siviglia on 20 February 1816 in Rome’s Teatro Argentina, Rossini’s crazy barber has been racing to and thro – Figaro here! Figaro there! – with uninterrupted verve across the stages of the world. Hard-hearted scheming here encounters romantic yearning for love. Kirill Serebrennikov, the trail-blazing director of his generation in Russia, stages this classic as a modern game of hide and seek where everyone hides from each other and – above all – from themselves.

https://www.komische-oper-berlin.de/spielplan/il-barbiere-di-siviglia/#

Kirill Serebrennikov created a genius adaptation of this comedic opera and transferred it with whatsapp messages, live-streams and hand-cameras into the era of the internet. Extremely fast paced and with so much happening at the same time that even stressed, overstimulated Berliners with an attention span of two minutes can enjoy this play without ever getting the impulse to look at their smartphone. But if you think that the whole opera is just superficial and all about action, let me prove you wrong. First of all, it never feels weird or wrong, that the story is playing in the now even though it was written 200 years ago, nor does it appear cheap and shallow. Filled with so many critical symbols starting with the refugee issue over IS to Conchita Wurst the play really makes you think. It also shows that back then a social platform such as facebook could just have been a barber, or is this just another hint telling us not to believe all the gossip on social networks? The opera also shows what happens if you hold on too tight to the past and that people rarely appear how they really are.”

SEE HERE: https://classyberlin.wordpress.com/2016/10/13/what-has-facebook-got-to-do-with-opera/#like-879

SU Teatro e critica la mia recensione al Flauto magico tecnologico della Komische Oper di Berlino
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http://www.teatroecritica.net/2016/09/il-teatro-di-ricerca-tecnologico-e-finito-andate-allopera/

Un Flauto magico da Oscar al Gran Teatre del Liceu di Barcellona. Recensione

Foto Antoni Bofill
Foto Antoni Bofill

“Impresionante” (con una sola “s” sorda) è la parola che sento pronunciare dietro di me da una signora spagnola di mezza età alla fine del secondo atto del Die Zauberflöte dellaKomische Oper di Berlino. Siamo al Gran Teatre del Liceu di Barcelona che ha anticipato di qualche mese la stagione prendendo così, anche un pubblico non proprio abituale che, vestito con camicioni e scarpe informali, decreta il successo di questa originale versione del singspiel in due atti di Mozart. Come è noto, si tratta dell’ultima sua opera dalle infinite sfaccettature che, dietro la favola del trionfo dell’amore, nasconde un profondo simbolismo esoterico e massonico.

Foto Antoni Bofill
Foto Antoni Bofill

Certo è che se questo spettacolo, per certi versi molto estremo sul piano visuale e per altri molto semplice sul piano tecnologico, ha suscitato tale effetto di stupita ammirazione nella signora, (in qualche modo “lo spettatore tipo” dell’opera, e che in quanto tale per il luogo comune della critica operistica dovrebbe osteggiare le innovazioni) qualche tabù è stato rimosso. Se fossimo in televisione si potrebbe dire che “la tecnologia è stata sdoganata”, ma a noi piace dire che la tecnologia è ritornata ad essere un linguaggio dell’arte che accompagna, invita, include, raccoglie il canto, la musica, l’azione e mette in forma visiva quell’immaginario evocato dal libretto e dalla partitura. La tecnologia nell’opera, e questa versione lo dimostra benissimo, non è evidentemente più un azzardo sperimentale ma parte integrante di una drammaturgia complessiva e agevole supporto scenografico.

Foto Antoni Bofill
Foto Antoni Bofill

Merito del successo va alla direzione musicale di Antonello Manacorda, ai cantanti tutti (tra cui spicca una superbaOlga Pudova, straordinaria regina della notte e un’applauditissima Adela Zaharia nelle vesti della giovane Pamina), all’orchestra sinfonica e al coro del Gran Teatre del Liceu, e soprattutto alla doppia direzione artistica di Paul Barrit e Suzanne Andrade (fondatori del gruppo multidisciplinare inglese 1927) in collaborazione con Barrie Kosky, direttore della Komische Oper di Berlino. Insieme hanno azzeccato la chiave giusta per proporre un Flauto magico così fantasioso, allegro e colorato (e universalmente godibile) come non si ricordava in Spagna dai tempi degli Els Comediants. Il mix esplosivo di video proiezioni, graphic art, slipstick comedy e cinema espressionista, tra Murnau e Buster Keaton, ha creato la giusta atmosfera insieme di sogno, incubo e favola. Se la cupa regina della notte diventa nella fantasia di Kosky, una spaventosa Vedova nera, Pamina è chiaramente ispirata all’attrice degli anni Venti Louise Brooks che trascina nel personaggio un’inconsapevole nota sensuale, provocante ma anche infantile e innocente.

…continua su http://www.teatroecritica.net/2016/09/il-teatro-di-ricerca-tecnologico-e-finito-andate-allopera/

 

Lepage e Berlioz: un saggio accademico analizza Lepage all’opera per La damnation de Faust
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Nicoletta Armentano affida alla rete in un bel saggio accademico, la sua riflessione sul lavoro registico legato all’imagine video, di Lepage per l’opera di Hector Berlioz La damnation de Faust di cui pubblichiamo un breve stralcio e lasciamo ai lettori il piacere di leggere l’integrale:

Lepage si avvicina al lavoro di Berlioz con molto rigore: filologico, quasi. Non ci sono tagli né interpolazioni. Persino i cori finali di bambini i quali, come sostiene Henry Barraud, spesso «brillent parleur absence» sono presenti. Lepage debutta come regista d’opera nel 1993 con l’allestimento de Il Castello del Duca Barbablù di Béla Bartók e di Erwartung di Arnold Schönberg. Un debutto che nel misurarsi con i vari codiciche interagiscono nel genere operistico lasciava trasparire un en-tusiasmo tale da portare Lepage, già nel 1999, a un altro allesti-mento: proprio de La Damnation de Faust  di Berlioz. Inserita nella programmazione del Festival Saïto Kinen di Tokyo, la messinscena dell’opera berlioziana viene accolta con plauso dalla critica che, da un lato, apprezza l’audacia delle scelte drammaturgiche, in pienostile Lepage”; e dall’altro, sottolinea un ascolto puntuale della par-titura musicale e una lettura attenta di quei versi liberamente ispirati al primo  Fausdi Goethe.Nel rispetto di un processo creativo che Lepage vive come workin progress, occorre precisare che già un anno dopo l’allestimento diTokyo egli realizza un primo rimaneggiamento de La  Damnation. 
E nel 2008 ne opera un secondo, per il Metropolitan Opera di New  York. Perciò quell’insieme frammentato, giocato su disequilibri chequasi sfiorano il crollo e allo stesso tempo sorreggono, informando,la leggenda drammatica di Berlioz, diventa – soprattutto in questa versione newyorkese – un attributo ideale al lavoro del quebecche-se. Oltre a una forma dell’espressione a lui consona, Lepage intra- vede nella possibilità offertagli l’occasione di mettere in piedi un vero e proprio laboratorio. Sostanzialmente perché la realizzazionescenica de La Damnation di Berlioz, che egli concepisce per il MET, eche sarà di seguito esaminata, figura come una sorta di prova gene-rale per l’allestimento della Tetralogia di Wagner che il quebecchese prevedeva di realizzare nel 2011, sempre per il MET.
Ciò che s’indicava con “stile Lepage” comprende l’utilizzo di undispositivo scenico che assume l’aspetto imponente e tutto giocato sulla verticalità di una struttura metallica, composta da sei colonne articolate su quattro livelli, che rappresenta lo spazio agito dai can-tanti (dai ballerini, dagli acrobati). Questa struttura, «à la fois cadreunique et multitude de cases» , impressionante «mur d’écrans», è chiusa sullo sfondo da un doppio ordine di schermi. Essendo translucidi, questi permettono a Lepage di proiettarvi delle immaginiche, per fornire un esempio, riguardano le tante ambientazioni pensate da Berlioz e che, da sempre, erano ritenute difficilmente realizzabili a teatro.

La bidimensionalità della struttura, grazie al doppio strato dischermi, non solo è utile a illustrare visivamente le informazionidi natura drammaturgica fornite da Berlioz, ma è anche funzionalealla poetica stessa della messinscena di Lepage: fare «image à par-tir d’un mot, d’une phrase».

Entrando nel merito dell’opera, l’aria D’amour l’ardente flamme  viene resa da Lepage attraverso un primo piano del soprano che proiettato sul muro di schermi lentamente prende fuoco sino a consumarsi letteralmente. Ciò per mezzo di sensori che, posti sui cantanti, sui ballerini, sulla struttura metallica, funzionano con un sistema d’infrarossi e intercettano ogni movimento, così come il più piccolo contorno melodico-ritmico, dinamico, della voce e della musica, e lo trasmettono in diretta a un computer che ne mostra gli effetti. Cosicché l’immagine (proiettata)del soprano si accende in coincidenza dei grandi salti ascendenti edei rapidi crescendo sino a spegnersi, sul finale dell’aria, in un completo abbandono guidato dagli archi. (…continua)