Archivi categoria: SAMUEL BECKETT

VideoBeckett
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canale BECKETT on VIDEO

http://www.youtube.com/view_play_list?p=2F1EB47BE5F974E9

MONUMENT(1990) di WILLIAM KENTRIDGE ispirato a CATASTROPHE

di Beckett (1982).

MAMET

BREATH di Damien Hirtsch ispirato a BREATH di Beckett

Breath di NIKOS NAVRIDIS installazione video

NOT I (1972) regia televisiva di Samuel Beckett con Billie Whitelaw

Matilde de Feo: NON IO (2005).

Play (Commedia) da Samuel Beckett, per Beckett on FIlm (parte 1)

Play part 2.

Come and Go (Va e vieni) da Beckett on film.

QUAD; regia televisiva di Samuel Beckett.

QUAD remediated….by Japan

Quad in BUToH

QUad remediated in SPain

Spettacolo tecnologico ispirato a Waiting for Godot diretto da ALexander Arotin

Da ACt without words (part 1)

part 2

Animazione da Atto senza parole:

HELLO, di Tony OUrsler

httpv://www.medienkunstnetz.de/works/hello/video/1/

EH JOE (regia televisiva del 1965)

Animazione basata su L’Innominabile

GOOGLE’S NOT I, net art per Samuel Beckett
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dal sito www.samuelbeckett.it  by  · in 

ImsoemptyIlikememes, artista attivo nell’ambito della net art (questo il sito dove pubblica i suoi lavori), ha realizzato una versione di Non io dove la bocca della protagonista è la search box del più utilizzato motore di ricerca del mondo e la voce recitante è ottenuta con una sintesi digitale.

Fai click qui per vedere l’opera.

Il risultato è interessante perché il celebre “vuoto” della home page di Google ricorda bene il buio da cui emerge la bocca monologante e la meccanicità della voce digitale è una buona metafora della disperata testardaggine della protagonista. Insomma non si tratta (solo) di un web divertissement ma di un onesto tentativo di mantenersi fedeli allo spirito dell’opera originale pur adattandola ai nuovi mezzi espressivi.

Beckett secondo Maguy Marin: Umwelt. Testo di Salvo Gennuso
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Maguy Marin, francese di origine spagnola, è una danzatrice e coreografa, senza dubbio la maggior esponente della nouvelle danse francese. Dirige la Compagnie Maguy Marin che ha sede a Tolosa. Formatasi al Mudra (Bruxelles) con Maurice Béjart, Alfons Goris et Fernand Schirren, ben presto Maguy ha elaborato un percorso artistico personale che dalla danza l’ha portata a sondare nuovi territori nella creazione contemporanea, fino a divenire l’interprete maggiore della non-danza. Il suo spettacolo simbolo è May B, creazione del 1981, replicato centinaia di volte in tutto il mondo e tutt’ora in tournee. Nel 2012 è stata l’ospite principale del Festival D’Automne a Parigi, dove ha presentato ben sei sue produzione, fra nuove (Nocturnes e Faces) e repertorio (Cap au pire, Ça quand même, Cendrillion, May B). Nelle sue creazioni sono spesso evidenti tracce dell’opera di Samuel Beckett. Umwelt è una creazione del 2004 da cui è nata una nuova produzione nel 2013. Lo spettacolo è stato visto al Théatre Paul Eluard di Bezons, Paris, 7 gennaio 2014.

«Sans ici ni ailleurs où jamais n’approcheront ni n’éloigneront de rien tous les pas de la terre.» ( Samuel Beckett- Pour finir encore)

C’è una situazione di vaghezza che ti prende all’ingresso in sala: una vaghezza derivata dalla strana scenografia che ti si presenta, sul palco aperto, fatta da una serie di lamine verticali, poste sul fondo, sottili, larghe mezzo metro l’una circa, disposte su più file e a una certa distanza l’una dall’altra, come a formare dei separé, delle piccole quinte.  Il colore vagamente – torna la parola “vago”, mi viene da pensare che vague in francese significa “onda”, e vague è una delle parole essenziale del vocabolario beckettiano, “vague” (onda) che assomiglia a “bague” (anello) – vagamente grigio, si intuisce che la superfice, secondo come la luce vi pioverà sopra, potrà diventare uno specchio che rimanderà però una realtà “vaga”.

La scena è in realtà divisa in tre parti: nella prima, verso il fondo, queste lamine di ghiaccio, quinte fissate solo al pavimento; poi la parte centrale, vuota; quindi  la terza parte, verso il proscenio, che presenta tre chitarre, disposte a terra con il corpo a favore del pubblico e il manico rivolto al fondo.

Lo spettacolo inizia con i danzatori – ma possono ancora dirsi danzatori, se in tutto lo spettacolo ci sarà solo una breve figura di danza? – che si presentano al pubblico, lo guardano o si fanno guardare, come più vi piace. Poi scompaiono. In May B, verso oltre la metà dello spettacolo, la Marin fa entrare tutti i suoi personaggi, i personaggi di Beckett, che fermi si fanno guardare o ci guardano. Il discorso mi pare riprenda da lì, con una differenza: qui non ci sono personaggi, non c’è Hamm, non c’è Clov, non c’è Pozzo né Lucky; i danzatori, come potremmo incontrarli per strada, vengono fuori dai corridoi fra le fila delle lamine-quinte, sostano per qualche secondo, più di qualche secondo, e poi scompaiono. Da qui in poi avviene il cataclisma: intanto la negazione alla vista, come se i danzatori rifiutassero di performare il loro copione di fronte al pubblico, e perciò quasi tutto avviene di spalle, laddove non è possibile, di fianco  a guardare verso destra o sinistra del palco, e ciò che succede si può raccontate come l’esplosione di un meccanismo che mette in scena l’uomo, l’essere umano, nelle sue più banali e convenzionali forme, nell’esecuzione di un gesto comune, tutto in una solitudine di atti, solo sporadicamente interrotta, quando si cerca una relazione, più spesso una relazione fra uomo e donna, che porta in sé i segni della disperazione, un uomo che guarda il mondo e la donna che si butta al suo collo nel tentativo di farsi sorreggere, coppie che si baciano ma scompaiono subito, nella subitanea incertezza del tempo, e poi ancora uomini che sorreggono sulle spalle donne nude, come quarti di bue, cosa che in effetti avverrà pure.

I danzatori appaiono e scompaiono da queste quinte, mosse da un vento incessante, sconvolte da una musica materica che interferisce con il suono delle tre chitarre, le cui corde vengono sollecitate da una fune senza fine che si srotola da uno “gliommero” , meglio, da un mulinello posto sull’altro lato del palco.

Gli attori compiono i loro gesti semplici, radersi, alzarsi i pantaloni, si presume dopo aver defecato, fischiare un fallo in una posa da arbitro di calcio, contare soldi, asciugarsi il viso, prima in una soluzione solitaria, poi più attori contemporaneamente, che sortiscono dalle diverse fughe fra le quinte, che intanto vengono sconvolte da questo vento e dalla musica.

Di tanto in tanto uno di loro si ferma, poi sono in due, poi in tre e così via, a fermarsi di fronte al pubblico a guardarci o guardare la scena, che in effetti si illumina, e a questo punto si compie come un miracolo: la danza non è sparita, diventa un effetto indotto, vediamo le nostre “vaghe” sagome e poi il resto della scena – scena che man mano si riempie di detriti, di oggetti buttati dopo essere stati consumati, ossa, materiale di scarto, donne, bambini, parrucche – riflessa nelle quinte più prossime alla nostra vista, tutto si muove e danza, fino a che non si ritorna a questo inutile giro, che rimanda nella mia memoria a Quad di Beckett, lo penso immediatamente,   per l’insensatezza del movimento che sembra come il meccanismo di un orologio, nella sua inesausta ripetizione, e la conferma di Quad come elemento strutturato nel pensiero dell’azione mi viene quando dal fondo, fra le quinte, compaiono dei personaggi completamente avvolti in una djallaba, come prescrive Beckett; appaiono in un movimento quasi a pendolo e scompaiono.

Non c’è altro in questo spettacolo, forse non può esserci altro. Non c’è la devastante bellezza di Faces, né il dominio dell’assoluto di May B. C’è il radicalismo incondizionato di un’artista che metta in scena l’uomo, e facendo ciò reinventa costantemente l’idea dello spettacolo dal vivo. Con Umwelt siamo dalle parti del capolavoro. Lo spettacolo parla all’intelligenza dell’anima e della ragione, per questo va visto, fatto sedimentare e rivisto. Ha ancora perle da mostrarci, dopo averci ferito con la sua visione.

Immagine di copertina Timothy A.Clary/ AFP

 Umwelt, con Ulises Alvarez, Charly Aubry, Kaïs Chouibi, Estelle Clément Bealem, Laura Frigato, Daphné Koutsafti, David Mambouch, Mayalen Otondo, Ennio Sammarco
 Musiche di Denis Mariotte

Salvo Gennuso è regista teatrale, drammaturgo. Dirige la compagnia Statale 114 di Catania. Lavora per il teatro, nel sociale, si occupa di letteratura e arte.

 

BECKETT secondo Maguy Marin: Cap au Pire. Testo di Salvo Gennuso
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Nel cuore di Beckett, oltre Beckett, malgrado Beckett. Cap au pire di Maguy Marin

Negli ultimi anni della sua vita, Samuel Beckett ha scritto delle opere molto brevi, spesso oscure, dove la lingua e il significato sono portati a dissoluzione, ivi compresa la parola, che rimane ad essere non già significante, ma cosa, immagine spuria, in un (dis)ordine senza sintesi nel quale non è prevista nessuna sintassi logica, né accorporazione di parole a costruire, seppur sfuggevoli, discorsi. La sua prosa procede per impulso, come traducendo sempre un aspetto visuale, una forzata visione dell’occhio o della mente. Tale scomposte prove – prose – mettono a dura prova la pazienza e l’intelligenza del lettore, al quale, seguendo ad un prima lettura, risultano non solo ostiche, ma vieppiù incomprensibili. Si percepisce un fondo di bellezza che si rivela solo ai più curiosi, che tornano all’origine del tormento per rifare il percorso di lettura, rivelandosi come lucida e tagliente immagine, come straordinari pezzi che interrogano. Ma cosa? Chi? 

 Foto di © Laurent Philippe / fedephoto.com. 

Fra le più difficili, forse la palma del peggiore, o migliore, pezzo tardivo nell’opera di Beckett, va a Worstward-ho, titolo mutuato dal linguaggio marinaro che significa che l’ovest è in vista (westward-ho nella vulgata ufficiale), la meta giunta, mentre nella mutazione della prima parte della parola, finisce coll’assumere il significato di “peggio tutta” o “peggio in vista”. Nell’unica traduzione ancora in commercio in Italia il titolo è rimasto in originale, mentre in francese fa Cap au pire.
Maguy Marin ha coraggio colossale a mettere in scena questa prosa, in una tenebra assoluta che non lascia scampo a nessuno, né allo spettatore né alla danza, cui lo spettacolo viene ascritto come genere: Maguy finisce ciò che Beckett ha iniziato, porta a compimento quel processo di dissoluzione che dalla lingua alla parola con la Marin arriva in scena. Bisognerebbe chiederle per quale motivo, quale urgenza l’ha spinta verso Cap au pire, ma chi frequenta assiduamente, aspramente Beckett, sa che la risposta è contenuta nella domanda, nella frequentazione.
Cap au pire va in scena per il programma del Festival d’Automne a Parigi, nella retrospettiva dedicata all’artista di Toulouse, in una sala al 104. Prima di entrare ci pregano di spegnere “realmente” i cellulari, di non lasciare per nessuno ragione lo schermo attivo, che non si illumini. Ci si immagina cosa ci aspetta: il “tutto buio”, tutto nero. La prima scena è un lampo, squarcia il buio assoluto con la forza di una rasoiata su una pelle glabra, dura un attimo, illumina ma non rivela, c’è il tempo per cogliere solo una larga striscia di luce al proscenio.

Poi ripiomba il buio, assieme ad una voce che dice il testo, con un ritmo franto, spezzato, dove ogni frase vive per se stessa, senza legami, una dizione paratattica del copione, mentre a tratti una luce flebile illumina lo spazio, porzioni di spazio, seguendo, rivelando, in questa notte senza interruzione, luoghi limitati. La luce è flebile, quando non opaca, appare da nessun luogo, scompare in nessun luogo, lotta con il buio, ancora torna ad allargare lo spazio, poi un personaggio, forse un vecchio, l’occhio fa fatica ad abituarsi, si percepisce lo sforzo delle pupille che si allargano per meglio fissare, mentre il testo ripete parole come “meglio peggio”, “verso il peggio”, “fallire”, “ancora”, l’uomo è in ginocchio o piegato, non si capisce se di spalle o no, ha una capigliatura bianca, quella si intravede, poi si scoprono un vecchio e un bambino, teste bianche opache e mani bianchissime che si tengono, si muovono come se dondolassero, destra sinistra, destra sinistra, camminano, rimangono fermi, si allontanano, ma lo si percepisce appena, in questa oscurità appena sfiorata da questa luce grigia, lattiginosa, opalescente, che non rivela, disegna contorni sfocati. Così, in questo vuoto che ci assale, è lo spazio a danzare, la luce, che diventa onda, che illumina solo dove vede, che lotta ancora con un altro spazio che sfugge, che si fa tenebra. 

Lo spettacolo si dipana come una sequenza seriale di luce e buio, ma luce e buio non sono correlati né antinomici, hanno realtà e ontologia a prescindere l’uno dell’altro, esistono separatamente e in sequenza, la luce diventa la musica, l’unica, grazie alla quale lo spazio danza, perché rimbalzando su di essa, lo spazio su la luce, non viceversa, i diversi luoghi prendono corpo, esistono, si direbbe, come proiettati fuori dalla testa che li pensa, ecco che appare un legame, fra luce e buio, perché è la testa che pensa lo spazio e pensandolo lo illumina, ed è la stessa testa che pensa prima l’uomo in ginocchio, poi le ossa, poi il dolore dell’uomo in ginocchio, che si alza in piedi, come se questa verticalità, il tentativo di recuperare la verticalità con la posizione eretta, fosse garanzia della sparizione del dolore, ma il dolore rimane, ce lo dice la voce che diventa sempre più un martello, dentro i nostri occhi, perchè si comincia a sentire con gli occhi, e la luce, sempre più flebile, evanescente, a tratti diventa quasi chiara, ci restituisce il corpo, i corpi, i due, l’uomo e il bambino, l’uno, l’uomo con la testa fra le mani, la donna, una vecchia donna, perchè improvvisamente appare una donna, vecchia donna, evocata dal testo, protesa sul corpo dell’altro, forse del vecchio, forse dell’uomo con la testa china, danza quasi come un’aquilone, perchè tutte queste “ombre” sembrano non avere peso, ed è questo il capolavoro della Marin, restituire il senso della presenza, in una dimensione senza gravità nella quale questi corpi perdono peso, diventano forme pure, sospese, come se chi guarda fosse dentro la testa della voce, o fosse nella voce, come se tutto diventasse spazio e pensiero materiale, ma senza massa, e la sofferenza delle ombre in scena diventa la nostra stessa sofferenza, diretti al peggio, per fallire, meglio fallire, meglio peggio fallire, ancora, ancora, litania di parole che diventano tortura, e difatti parte del pubblico non regge, fugge, sfidando la raccomandazione iniziale di tenere spenti gli schermi dei cellulari che invece si mostrano ben accesi, per farsi largo, per non cadere scendendo dalle scale, luce che illumina una personale via di fuga, mentre chi rimane accetta con la Marin di fare questo viaggio, dentro un vertigine verticale, orizzontale, dove tutto è vuoto, tutto è oscuro, tutto è Beckett, tutto è teatro o danza o come più vi piace chiamarlo, “un’esperienza”, come mi dirà lei alla fine, quando incontrandola le comunico il mio godimento e le mie uniche parole: “tutto è oscuro, tutto è vuoto, tutto è Beckett”. 
Tutto questo è una lingua nuova che traduce ciò che dovrebbe forse essere, in questo scorcio di tempo, lo spettacolo dal vivo, o almeno uno delle sue forme.
Il pubblico, alla fine, applaude. Liberato. Alla fine si applaude. Alcuni con convinzione altri per educazione: poi la sorpresa finale quando si accendono le luci sul palco: non c’erano attori sulla scena, tranne uno. Tutto il resto, pupazzi, marionette, abbandonate lì, a terra, sulla sinistra della scena, a formare un cumulo, “l’impossibile cumulo” direbbe Clov, cumulo di ombre che si pensavano umane, e invece sono marionette, ed è in questo tragico che si rivela il grottesco, ma il grottesco cos’è, non lo puoi spiegare, lo fa nei testi Beckett. Questa immagine grottesca, partendo da Beckett, l’ha creata Maguy Marin.

Foto in copertina di © Laurent Philippe / fedephoto.com. 

CAP AU PIRE créé le 8 novembre 2006 à PANTIN
Centre National de la Danse de Pantin
Solo pour Françoise Leik
Texte de Samuel Beckett

Rimediando il teatro di Beckett con il video
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Pubblicato in Atti del convegno dell’ADI (Associazione Docenti di Italianistica), Università di Sassari, 2012.

Come hanno trattato o interpretato la materia e le visioni beckettiane gli artisti multimediali nelle loro installazioni, videoperformance e spettacoli tecnologici? E’ opinione comune che sia la stessa poetica di Samuel Beckett, così radicalmente altra rispetto ad una scrittura drammaturgica tradizionale, oscillante e sospesa in un tempo a-dimensionale, nella rinuncia all’illusione della comunicazione, nella negazione della possibilità di un raccontare, nell’inutilità di ogni agire, ad aprirsi ad apporti creativi altri, offerti dalla specificità del mezzo video e filmico.

Ersilia D’Alessandro ha parlato di una loro “vocazione cinematografica”, Avantaggiato di un Beckett “ultramediale”[1]. Non è solo il Beckett filmico e tele teatrale (da Film con Buster Keaton ai tele play ai radiodrammi: Ghost trio, Quad, But the clouds, Di’Joe) ad aver offerto notevoli spunti ad artisti video, quanto alcuni testi brevi che hanno avuto rarissime rappresentazioni teatrali per l’oggettiva impossibilità di messa in scena.

Si può parlare effettivamente, di una “vocazione all’immagine” di alcuni testi corti di Beckett (scritti dal 1963 al 1982) che, più ancora della nota produzione teatrale (Finale di partita, Aspettando Godot, Giorni felici) hanno offerto un ambito straordinario di sperimentazione video artistica (video creativa o video teatrale).

Si tratta di prose e testi teatrali dal minimo ingombro che si offrono quali rapide illuminazioni, pennellate di spessore concettuale e di  esasperata bellezza. Per queste densissime miniature, di fulminante respiro, Beckett creò il neologismo di dramaticules a sottolineare la compressione drammatica che le sostanzia e la decaduta pretesa di qualsiasi io autoriale: PlayCome and GoBreath, Catastrophe.

Dello stesso periodo (dal 1963 al 1972) sono alcune prose brevi in cui lo scrittore irlandese abbandona definitivamente la forma narrativa dei romanzi “adulti”, ritorna in parte al francese degli esordi, e imprime alla scrittura una vera e propria torsione sottrattiva (Trilogy, Not I, Comment c’est, All the strange away).

Pensiamo a Non io, monologo torrentizio dell’unico personaggio Bocca, in cui la testa della protagonista, come decollata, illuminata da un violento fascio di luce, secondo le indicazioni dell’autore, si staglia su un fondale di fitta e impenetrabile oscurità. Nei brandelli sconnessi del veloce monologo, affiorano frasi di una memoria drammatica che la protagonista assicura non appartenerle. Il passato che la donna maledice, spesso con toni di oscena e blasfema ferocia, è il ricordo di un dolore cosmico senza rimedio.

Pensiamo, poi, alla assenza pressoché assoluta di azione contenuta in Come and Go (la versione breve e al femminile di Aspettando Godot, in cui tre donne anziane sedute in una panca, sono in attesa di qualcosa da moltissimi anni e mantengono dei segreti che si sussurrano alternativamente all’orecchio) in cui emergono solo gli sgargianti colori precisamente individuati da Beckett per le vesti delle donne. In Breath Beckett arriva a immaginare una sola situazione scenica della durata programmata di 35 secondi.

Testi quindi, quasi refrattari alla scena, persino restii anche alla forma libro e che prevedono sotterraneamente, un linguaggio altro rispetto alla letteratura e al teatro. Mi riferisco per esempio, a Play e alla dinamica convulsa del racconto di un tradimento, scritto per tre personaggi secondo una logica da montaggio alternato. Il racconto prevede non “non stop”, un circuito infinito di parole (Repeat again è l’indicazione di Beckett per gli attori, quando ciascuna delle loro versioni termina).

E’ evidente quindi, un processo di definitiva spoliazione poetica, di scarnificazione linguistica in cui la parola sopravvive come reperto estremo, come elemento residuale di una comunicazione di per sé lacunosa e intermittente: questa è stata la fonte di ispirazione per un gruppo nutrito di artisti legati al video teatro, per la “nuova ondata anni Novanta” e per la nuovissima generazione di artisti multimediali che usano il video per produzioni creative autonome.

Il video sembra offrire una sorta di rimedio, un risarcimento, una soluzione creativa alternativa per visualizzare in forma di immagine, quell’universo beckettiano fatto di sintetiche o scarnificate partiture che hanno la densità e la forza della parabola. Si tratta talvolta di pochi  suggerimenti scritti da Beckett più che di trame con indicazioni di movimento  che implicano, sul piano della regia video, inquadrature e montaggio di grande precisione, costruite sull’attesa e sull’assenza, lunghi piani sequenza in cui la macchina da presa, sempre presente come “occhio belva” incarna un ruolo: quello della coscienza o della morte che incombe.

 Anche in questi testi presi in esame, come nella più ampia produzione teatrale matura, le figure di Beckett sono in una condizione di immobilità (in Play dentro urne), di scacco, di prigionia soffocante autoindotta (All the strange away), in silenzio, in attesa, protesi verso il nulla. Atterrano nel fango (Come è), si rialzano ogni volta per riprendere l’andatura vacillante, inforcano le stampelle, si spostano su sedie a rotelle o sedie a dondolo (Passi), strisciano, annaspano, si osservano invecchiare e marcire (Come and go), si guardano andare in pezzi, tragici testimoni di un vuoto mai definitivo, mai risolutorio (“la morte stenta ad arrivare”).

Il corpo umano è accecato dalla luce abbagliante (All the strange away) imprigionato in una scatola di cui si danno ossessivamente le dimensioni, o di un sacco dove condividere vita e punizioni reciproche (Come è). Trasposte sul monitor queste partiture visuali accentuano i ruoli dei personaggi nella loro fissità spaziale e esasperano la condizione di ripetitività della loro esistenza senza via di fuga (Play) grazie a loop  e ralenti, piani sequenza silenziosi e incombenti, primi piani soffocanti.

Breath, sorta di grado zero della scrittura, testo-lampo della durata obbligata di 35 secondi, con luce intermittente e null’altro in scena se non cumuli di spazzatura, si ispira l’artista greco Nikos Navridis per l’omonima installazione video esposta alla 51a Biennale di Venezia e Damien Hirsh. David Mamet e William Kentridge guardano invece, a Catastrophe (1982, dedicato al drammaturgo ceco Vaclav Havel) per il loro omaggio video a Beckett. Un attore (Protagonista) è in piedi su un podio mentre, con l’aiuto di un Assistente, un Regista lo prepara per uno spettacolo teatrale che sembra non consistere in null’altro che nella sua stessa apparizione fisica. Viene trattato come un oggetto, spogliato, messo in posa. Della sua volontà non si tiene conto ed è a tutti gli effetti un manichino nelle loro mani, trattato come una vittima degradata e umiliata. Ma la fine è particolare: il regista chiede di illuminarlo per avere la sua “catastrofe” o conclusione. Mentre la luce è tutta su di lui, anziché rimanere immobile come da copione, l’Attore alza la testa spegnendo lo scroscio di applausi. Proprio con questo gesto finale egli riafferma, a un passa dal baratro, la sua dignità. I tre personaggi corrispondono ai tre ruoli nel potere di uno Stato: un dittatore, un servo che obbedisce ed esegue gli ordini, il popolo che subisce e poi si ribella. Il teatro svela la gerarchia della società.

 Il cortometraggio di Mamet con l’interpretazione di Harold Pinter (Director), Rebecca Pidgeon (Director’s Assistant) e con l’ultima toccante apparizione di John Gielguld (Protagonist) fa parte del progetto Beckett on film (2000) prodotto da RTE, Channel 4 e Irish Film Board, presentato al 57° Festival del Cinema di Venezia nella sezione Nuovi Territori. La storia si svolge dentro un teatro tra ombre inquietanti e fari di scena. L’anziano attore ha ancora la forza, nel finale, di ribellarsi.

 Monument (3’,1990) di William Kentridge è il secondo cortometraggio della saga di Soho Eckstein. La tecnica di animazione usata è quella usuale di Kentridge, lo stop motion, ovvero una successione di immagini filmiche di fasi diverse del disegno a carboncino realizzato appositamente per raccontare la storia. In questa come in altri episodi della saga, la tematica affrontata è quella della storia postcoloniale del Sudafrica, degli orrori del capitalismo e dell’apartheid, complice questa volta, la simbolica trama beckettiana della relazione di potere tra Regista-Attore-Assistente. Monument è stata esposta come installazione alla Tate Gallery.

Nel 1968 Bruce Nauman, esponente dell’area concettuale americana e tra i pionieri della videoarte statunitense insieme con Dan Graham e Peter Campus, crea Beckett Walk o Slow Angle Walk.  Si tratta di un’opera video-performativa che mostra il dispositivo video nella duplice funzione di processo e immagine spazializzata. In Beckett walk una telecamera fissa collegata a un monitor per ciascun lato di uno spazio architettonico quadrato che si sviluppa in altezza, riprende dall’alto la persona che ne percorre il perimetro. I suoi movimenti non sono naturali: Nauman realizza una sorta di happening o performance mediatica ripetitiva, a loop: il performer con le mani dietro la schiena alza una gamba a 45 gradi e la lascia poi ricadere a terra con grande rumore.

Comportamenti bizzarri, rovesciamenti del corpo che vengono ritagliati nella scatola del monitor e che contrastano con quel geometrico percorso obbligato che regolamenta il suo tracciato nello spazio. Come ricorda Valentina Valentini: “Non è gratuito il riferimento a Beckett, che è stato un incontro importante per Nauman, perché in entrambi il linguaggio è un elemento che trova in se stesso il proprio fondamento, non sta al posto di…, non è uno strumento espressivo legato alla dimensione soggettiva e intersoggettiva di locutori e perlocutori”[2].

Natalia Antonioli regista teatrale toscana con un background di studi filosofici, ha percorso per un’occasione specifica nel 1999 (il Premio Autore Donna) l’itinerario beckettiano con una serie di installazioni video e sonore che risultarono vincitrici della sezione Nuove Proposte. L’autrice nel catalogo curato da Marina Corgnati, le definisce “microregie”, concertazioni installattive dalla durata minima, quasi istantanea, seguendo scrupolosamente le indicazioni beckettiane per i suoi dramaticules.

Passi è realizzato come un tracciato di scritte bianche con correttore (frasi dal testo stesso di Beckett) su materiale plastico scuro posto a terra a formare gli otto numeri del gioco infantile della campana. Il gioco  non termina mai perché ricomincia sempre, e così è per la voce registrata associata all’installazione: un cadenzato ripetere delle parole beckettiane per bocca di bimba.  Tra le installazioni spicca senz’altro la resa video-letterale di Ohio Impromptu. Il tavolo con due sedie e due monitor propone un dialogo impossibile e infinito tra Ascoltatore e Lettore, tra Io e Non io: un interlocutore assente – simboleggiato dalla neve del televisore non sintonizzato – e un video-braccio che comanda ma dà regole non ascoltate.

In tutte le installazioni i frammenti del testo originario sono sparsi in forma di sasso o cemento inciso (Giorni felici III), di carta ghiacciata (Quella volta), accartocciata, di ritagli di singole minuscole lettere ricomponibili a scelta da chiunque secondo il meccanismo della casualità. Il teatro è dietro un’unica immagine che condensa, “ghiaccia” quell’istante, “quella volta” e si concede ma per tracce fossili, all’archeologo-visitatore. Metronomi a battere il tempo per nessun strumento, voci inabissate che si disperdono dentro coni metallici, vetri che accolgono bocche afone, corpi smembrati dall’occhio della telecamera, dondoli dal movimento inarrestabile, giochi della morte e giochi dell’infanzia.

I monitor isolati, gli oggetti casuali, le sequenze narrative monche sono lì a sostituire attori e trama e a testimoniare un’assenza imprecisata o un’attesa infinita. L’installazione è infatti, una scena provvisoriamente abbandonata, laddove una presenza umana si è dileguata e ha lasciato ombre elettroniche e guanti in lattice, borsetta, ombrellino e collana di perle. Nella dimensione irricostruibile e indecifrabile del luogo e della storia, nella negazione del tempo e contemporaneamente nella resa di “creature in fuga”, il senso di un Beckett messo per una volta in mostra e non in scena.

Studio azzurro nel 2004 ha firmato le scenografie digitali per Neither. All’opera musicale per soprano e orchestra concepita da Morton Feldman nel 1976, Beckett aggiunse su commissione dello stesso compositore, il libretto. Feldman chiese infatti a Beckett per l’opera, la “quintessenza” della sua poetica, che fu prontamente consegnata in forma di un pugno di righe come una sorta di suprema astrazione o distillato del suo pensiero, intorno al tema universale dello stare al mondo, in una condizione sempre oscillante tra l’io e il non io.

Studio Azzurro sceglie una dimensione evocativa quasi surreale, sorretta da pochi oggetti in formato video digitale, che rimandano al mondo beckettiano: un dondolo, l’uccello in gabbia, un uomo nel letto, l’albero, le scale, una porta semiaperta che non è retta da alcun muro, una lama di luce in un palcoscenico vuoto, quel teatro secondo le stesse parole di Paolo Rosa, simbolo di nessun luogo e insieme crogiuolo di tutti i luoghi possibili.

Waiting for Godot sbarca su Internet nel 1997. Presentato al Digital Story Telling Festival. Waiting for Go.com è uno spettacolo di teatro on line con uso delle chat room e con personaggi interpretati da utenti collegati in quel momento; icone grafiche rappresentano non solo Didi e Gogo (Estragone e Vladimiro) ma anche altri personaggi improbabili come Mister Muscle, che si inseriscono ogni qual volta entra un nuovo utente; Waiting for Go.com ha un suo ambiente visivo offerto dalla piattaforma Palace.com che non è altro che il palcoscenico virtuale della rappresentazione. Del testo non rimane pressoché nulla se non alcune suggestioni dei personaggi. Il pubblico era costituito anche dagli spettatori reali del festival grazie a video-proiezioni. Nel resoconto on line sul sito della compagnia, dal titolo Clicking for Godot l’autore Scott Rosenberg esalta la nascita di un genere, il digital puppet theatre in un nuovo teatro on line, le cui modalità di (non) comunicazione rimanderebbe proprio al tema dell’assenza in Beckett:

 IIn Aspettando Godot nulla accade per due volte in ciascuno degli atti. Nelle chat rooms nulla accade la maggior parte delle volte, le persone si ritrovano ogni sera e aspettano per lo più che accada qualcosa, che qualcuno dica qualcosa di interessante, che un diversivo gli aiuti a passare il tempo. 

 L’artista multimediale e musicista Roberto Paci Dalò creatore della compagnia Giardini Pensili si è dedicato a Beckett in un paio di occasioni: la prima volta con l’installazione visiva e sonora Beck/ett realizzata a Castel Sant’Elmo per la grande mostra dedicata al Living Theatre e curata dalla Fondazione Morra, con la voce campionata di Julian Beck. Nel 2006 ha dato vita a uno spettacolo videopoetico (altrimenti definito dall’autore “esecuzione scenica”) di notevole valore a partire dall’ultima produzione poetica di Beckett e interpretato da Gabriele Frasca e Patrizia Valduga, a loro volta poeti (e traduttori) in scena insieme a una giovane attrice francese, Caroline Michel. Qual è la parola si regge su atmosfere rarefatte, trasparenze, voci sussurrate o disperse, parole inanellate a suoni e immagini evocative, in una composizione fragilissima e intensa, sottoposta a un trattamento digitale in diretta. Proprio il digital live è quella modalità – più volte sperimentata da Giardini Pensili – che rende la tecnologia stessa significativo evento poetico in sé.

Un originale omaggio in video ispirato a Not I, monologo del 1972 di Beckett, è quello di Mald’è, giovane compagnia campana video/teatrale di Matilde de Feo e Mario Savinio. Il video di 11’ (che ha una forte pregnanza visiva, e aderenza alla poetica beckettiana e un’ottima realizzazione tecnica), è una cascata ininterrotta di parole dallo strano personaggio di Bocca (interpretata dalla stessa De Feo). Bocca va a occupare un angolo di un ambiente elettronico caratterizzato da un biancore abbagliante e da cui emergono a tratti, segni grafici esplosi e frammentati, fonemi vomitati, risucchiati e poi sparsi ancora nel vuoto elettronico. Dalla bocca “reale” ma isolata dal contesto corporeo, si passa a quella digitale, una macchia rossa che mentre parla si sfalda, si sdoppia, si sovrappone in un’infinita metamorfosi elettronica. Riconoscibile sempre più a stento come un organo fisico scompare affogato nel bianco, quel bianco accecante che domina molta parte della produzione beckettiana.

Atto senza parole I di Carlo Caprioli e regia di Enrico Maria Lamann è stato presentato a Film Maker di Milano e al Lodi Film Festival del 2005. Carlo, figlio di Vittorio Caprioli interpreta col video quell’invisibile potere che regge i fili, guida gli oggetti della sopravvivenza e quindi il destino dell’uomo nel deserto in cerca dell’acqua continuamente sottratta. E’ un’entità lontana che governa gli eventi muovendoli virtualmente da un non meglio precisato mondo parallelo fantascientifico, indossando data glove e virtual eyes. I limiti spaziali non oltrepassabili dall’uomo sono dati dal campo stesso dell’inquadratura. L’uomo è prigioniero dentro il video, dentro la scatola quadrata del monitor. Da lì il protagonista non può uscire, prigioniero senza scampo in un deserto bianchissimo e in uno schermo al plasma.

La luce bianca torna ancora a infierire e annulla i contorni delle cose, disintegrando qualsiasi apparenza antropomorfa nel muto deserto siderale materializzato da Beckett in All strange away. A questo si ispira il video di Motus A place (that again). La compagnia si cimenta in un tratteggio di corpi evanescenti come ectoplasmi che nella loro liquefazione di fronte al bianco totale, diventano figure simili alle pitture di Bacon. E’ in scena e in video l’ossessione della fine descritta esemplarmente con un minimalismo d’immagine agghiacciante. Dalle note della produzione video di MOTUS:

 Azione. Un luogo, ancora quello. Mai un’altra domanda. Un luogo. Poi qualcuno, ancora quello. Ancora le sue scarne parole che ci perseguitano come quella luce abbagliante che invade e folgora. Ovunque. Ancora quello spazio vuoto. Bianco assoluto. Dove tutto si vede. In cui tutto precipita. Senza alternative. All strange away. Diabolico tentativo di fermare il tempo, di dilatare l’istante del trapasso, definitivo, verso il momento in cui “nessun rumore di respiro è percepibile”. Immagina solo carne silenziosa. Mangiata dallo sguardo. Occhio belva. Che cerca negli angoli senza ombra. Il video indaga nelle pieghe della pelle. Con rigore scientifico. Espone. Così è la morte o meglio, così è la caduta secondo BECKETT.

Il bianco elettronico è il non luogo beckettiano. Dove affogano i pensieri sessuali, le memorie del personaggio. Come ricorda Mussapi  nell’antinferno beckettiano non c’è grido, non c’è richiesta di ascolto, perché tutto avviene dopo il corso del tempo, di cui sussistono illusorie dilatazioni dell’istante, spasimi molecolari della durata, movimenti microscopici di una immobilità ormai in fase di definitivo assestamento come lava ormai solidificata”[3].


[1] L. Avantaggiato, MultiBeckett. Samuel Beckett tra vecchi e nuovi media, in “Biblioteca teatrale”, n. 81-82, 2007.

[2] V. Valentini, Corridoi, labirinti, soglie: come mettere in gioco lo spettatore, in Dal vivo, Roma, Graffiti , 1996.

[3] L. Mussapi, Postfazione a Beckett, S. ,Quello che è strano via

Beckett tra teatro, video e installazioni
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 Un carnevale modernista, di David Saltz

Beckett Space: A Modernist Carnival, che ho diretto nel febbraio 1996 all’Università di New York, includeva performance tecnologiche e installazioni completamente automatizzate ispirate a otto brevi piéce di Samuel Beckett: Ohio ImpromptuEh JoeNot IRockabyPlayCome and GoBreath Quad. Conteneva anche un ambiente interattivo chiamato Beckett Space

La motivazione di questa strategia non convenzionale di presentazione era quadruplice. Per prima cosa Beckett Space consentiva al pubblico di avere un dialogo più intimo con il testo, leggendo e rileggendo le opere in forma di performance, più di quanto avrebbero potuto fare in un’edizione stampata; inoltre, e tornando alle diverse opere, potevano esplorare le numerose interconnessioni che c’erano tra loro.
Secondo, Beckett Space metteva in luce la struttura ciclica della maggior parte di queste opere brevi. Nel corso di una performance di due ore e mezzo di Beckett Space, ripetevamo ciascuna delle opere tra le quattro (Not I) e le 35 volte volte (Come and Go). In alcuni casi il potenziale per ripetizioni infinite era già implicito nel testo di Beckett. Not I e Play, per esempio, finiscono esattamente come cominciano e Beckett stesso aveva stabilito che Play fosse ripetuto una volta.
Terzo, Beckett Space esplora l’interazione tra live performance e tecnologia implicita nelle opere di Beckett, specialmente da Krapp’s Last Tape in poi. La tensione tra live performance e immagini è stata molto forte soprattutto nella produzione di Not I.
Un’immagine video della grandezza di 8 piedi di una bocca di donna veniva proiettata su un muro curvo in un piccolo spazio per 15 spettatori. La voce della donna amplificata veniva da un altoparlante posto sopra l’immagine. L’attrice che recitava dal vivo era nascosta, su una bassa pedana di fronte al proiettore. Il muro opposto alla proiezione conteneva un buco attraverso cui era possibile spiare: uno spettatore alla volta poteva guardare attraverso il buco per osservare la bocca vera e sentire la voce non amplificata dell’attrice che stava recitando dal vivo di fronte a una videocamera e a un microfono. La proiezione non funzionava come la registrazione di una performance realizzata in precedenza, e non solo come un artificio fine a sé stesso, ma come una prospettiva tecnologica su una azione live. Una visione attraverso un microscopio, una esternazione concreta del sé, un’incarnazione vivida di quello che Beckett descriveva come “veemente abdicazione verso la terza persona da parte di Bocca”.
Ultima motivazione, e per me più importante: volevo sottolineare che le produzioni tecnologiche diBeckett Space evidenziavano che il modo di lavorare dell’ultimo Beckett aveva trasformato radicalmente la relazione tra testo e performance, e così ridefiniva la nozione stessa di dramma (“play”).

Infatti si può osservare come la maggior parte delle ultime produzioni non siano affatto opere teatrali nel senso convenzionale. Sono algoritmi per performance. Significativamente, via via che le piéce di Beckett incrementano la loro precisione, aumentano anche le loro restrizioni. I vincoli delle direzioni di scena di Beckett, le descrizioni delle azione fisiche, le pause, le posizioni, sono spesso espressi con precisione matematica e, come in QuadWhat Where, Come and Go, and Footfalls, sono accompagnati da diagrammi schematici che ne incrementano il rigore. Quad offre il più puro esempio di algoritmo performativo. Questa pièce non contiene dialogo, solo quattro “interpreti” che si muovono lungo il perimetro e le diagonali di un quadrato. Come un pezzo musicale e diversamente da un testo convenzionale, Beckett definisce costantemente un numero limitato di variabili dentro un intervallo di durata chiaramente definito, e mantiene un silenzio assoluto su tutti gli aspetti della performance non descritti da queste variabili.
Il vocabolario delle coppie di lettere sviluppato da Beckett per descrivere i “percorsi” dei personaggi non è semplicemente in grado di descrivere qualunque movimento che esca dai sei percorsi rettilinei, o qualunque pausa nell’esecuzione di un percorso. La precisione e i vincoli di Quad ricordano quelli di una partitura musicale; e dunque codificare l’algoritmo dei movimenti della pièce in un computer è un processo lineare. In Beckett Space abbiamo dimostrato la natura algoritmica dell’opera implementando l’algoritmo di Quad con diversi programmi di gestione ambienti e strumenti multimediali.

Per esempio, in una versione, un’animazione computerizzata creata con Macromedia Director raffigurava figure incappucciate che si muovevano su una griglia che ricorda quella di una scacchiera; in un’altra i personaggi erano rappresentati da semplici quadrati colorati. Quattro monitor di computer proiettavano simultaneamente quattro diverse animazioni di Quad; i monitor erano posti in un’alta colonna di tende al centro del Beckett Space. Gli spettatori entravano attraverso le tende e osservavano una serie di led luminosi sospesi sopra la loro testa. Un colore differente di luce rappresentava ciascun giocatore e i Led riproducevano i movimenti di Quad in sincrono con le animazioni sul monitor.
In altre opere teatrali come PlayRockaby Ohio Impromptu Beckett crea algoritmi che tengono conto di un elemento di mediazione umana. Queste opere costituiscono quelli che definisco “algoritmi interattivi”.
Questi testi sono scritti in maniera convenzionale, con battute di dialogo assegnate ai personaggi e trascritte in sequenza. Tuttavia la logica che li sottende è quella di un algoritmo costituito da due elementi principali: un testo e una regola. La regola governa il modo in cui viene detto il testo, e in ciascun caso il soggetto che emette il testo è diverso da quello che applica la regola. Per esempio inRockaby la donna è seduta su una sedia a dondolo “controllata meccanicamente senza il suo intervento”. La battuta della donna, “Ancora”, funziona esattamente con un interruttore che mette in moto sia la voce sia il dondolio meccanico; di più, dal punto di vista tecnologico è molto semplice automatizzare il dondolio, il suono e le luci in modo che sia la voce dell’attore ad attivarli elettronicamente.
Il più sofisticato degli algoritmi performativi di Beckett è quello che presiede a Ohio Impromptu. In quest’opera un “Lettore” e un “Ascoltatore”, entrambi con lunga giacca nera e lunghi capelli bianchi, sono seduti uno di fronte all’altro a un tavolo, mentre il Lettore legge ad alta voce da un libro. Non appena l’Ascoltatore bussa sul tavolo, il Lettore interrompe la lettura, ritorna all’inizio della frase precedente, legge fino alla fine della frase e attende finché l’Ascoltatore non bussa una seconda volta prima di continuare. Per la produzione di Beckett Space ho cominciato girando un video del lettore che legge l’intero testo del libro, eliminando le ripetizoini del testo di Beckett, e poi ho trasferito il video su un disco laser. in modo da facilitare l’accesso causale in playback (all’epoca in cui ho realizzato Beckett Space, trasmettere un video di alta qualità e a schermo intero su un computer non era ancora così facile).
La scena consisteva di un lungo tavolo diviso da uno schermo sul quale in retroproiezione veniva proiettata un’immagine a grandezza naturale del Lettore, creando l’illusione che il Lettore fosse seduto all’estremità destra del tavolo (per gli spettatori), così come indicato nel testo di Beckett; tuttavia solo l’Ascoltatore era reale. Sul tavolo era posizionato un interruttore a pressione in grado di cogliere i colpi dell’Ascoltatore e collegato a un computer programmato per iniziare, arrestare e riavvolgere il videodisco, in base all’algoritmo di Beckett. Quando l’Ascoltatore batteva sul tavolo nei momenti giusti (cosa che l’attore aveva imparato a fare), quella messinscena semi-automatizata seguiva il testo e le didascalie di Beckett alla lettera; in particolare soddisfaceva in una maniera fino a quel momento inedita una delle sue richieste: che Ascoltatore e Lettore siano “simili il più possibile d’aspetto”. Grazie a questo legame cibernetico, Lettore e Ascoltatore finivano per “diventare una cosa sola” agli occhi del pubblico.
La produzione portava in scena una riunificazione romantica del sé frammentato, ma solo attraverso l’assorbimento del sé nel sistema cibernetico dell’opera. Il processo portato in scena era allo stesso tempo utopico e distopico. Di qui è nata la sua peculiare combinazione: una bellezza inquietante e una tenerezza segnata dal dolore del vuoto e della perdita.

(Traduzione Anna Monteverdi. Pubblicato in www.samuelbeckett.it)

 

I switch on. Play di Beckett in Virtual Reality, di Lance Gharavi
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Nel 1996, pochi mesi dopo il successo dell’allestimento della nostra prima produzione di realtà virtuale, The Adding Machine da Elmer Rice, Mark Reaney e io cominciammo a far progetti per possibili esperimenti futuri. La nostra produzione di The Adding Machine fu il primo frutto della nuova struttura creata con Ronald Willis: l’Institute for the Exploration of Virtual Realites (abbreviato: VR), un’organizzazione dedita alla sperimentazione delle applicazioni dei nuovi media tecnologici a teatro. Sebbene non avessimo né il tempo né le risorse per produrre un progetto ambizioso come The Adding Machine, volevamo comunque cercare cose nuove, testare nuove tecnologie e interfacce, scoprire nuove modalità di applicazione della nostre attuali abilità. Nello specifico volevamo fare una sperimentazione integrando video stereoscopico nei mondi virtuali 3D e permettere al pubblico di interagire con essi attraverso gli occhialetti polarizzati da poco acquistati (Head Mounted Device). Questi HMD, creati da Virtual I-O, sono dotati di un paio di piccoli schermi video che aderiscono all’occhio di chi li indossa, oltre che di un paio di cuffie che permettono, oltre a una visione stereoscopica, anche un suono stereo. 

Inoltre questi occhiali hanno capacità immersive e parzialmente immersive: rimuovendo lo speciale schermo dall’esterno del minuscolo monitor video, hanno l’insolito vantaggio di permettere a chi li indossava di vedere un’immagine “stereoscopica mediata” – come un mondo virtuale o un video – e simultaneamente di osservare attraverso quell’immagine e vedere un attore sul palco. Tutto ciò che è richiesto a un oggetto o a un attore per essere visibile attraverso i visori HMD è che l’oggetto e l’attore siano sufficientemente illuminati.
Quando ho cominciato a cercare testi per un esperimento su piccola scala con questa tecnologia, Beckett mi è sembrato un autore particolarmente adatto. In primo luogo perché lo stile non realistico dei suoi drammi non avrebbe sofferto un trattamento con i nuovi media, e questo non tanto perché la brevità dei suoi lavori tardi fosse decisamente appropriata per questo progetto, ma soprattutto per il modo in cui il suo lavoro spesso giocava con l’idea di presenza, di assenza e di presenza apparente. Il dualismo presenza/assenza era stato – come notammo Reaney, Willis e io – un elemento chiave nel nostro lavoro con la realtà virtuale, e un aspetto significativo in quasi tutte le forme di cyberteatro -come noi lo chiamavamo un tempo – più innovative. Collegare Beckett alla realtà virtuale e giustapporre la problematica originale della “presenza” che essa genera sembrava una direzione appropriata e avvincente per le nostre sperimentazioni.
Dopo aver passato in rassegna diversi drammi brevi di Beckett, alla fine decisi per Play, un lavoro prodotto in Germania nel 1963. E’ un testo a tre personaggi: un uomo e due donne. Ciascuno di questi personaggi è intrappolato in una delle tre urne, da cui fuoriesce solo la testa. Per tutto il dramma, i personaggi parlano come rispondendo a un riflettore abbagliante che li illumina uno alla volta, o talvolta tutti insieme. Nella produzione questa luce divenne una specie di quarto “agente”, che interrogava i personaggi come fossero dei prigionieri, comandando loro di parlare, di confessare. Billie Whitelaw, commentando la sua esperienza nel rappresentare una di queste donne, ha detto: “Penso che Play sia un quartetto, non un trio. La luce è una parte molto attiva, una parte molto spaventosa, addirittura uno strumento di tortura” (James Knowlson, An Interview with Billie Whitelaw, “Journal of Beckett Studies”, no. 3 summer (1978) 86).

Nelle produzioni tradizionali di questo testo, gli attori nelle urne sono vivi e il personaggio della luce è, ovviamente, rappresentato da una vera luce. Se anche ci fosse un “agente” umano dietro i movimenti del riflettore – come un operatore che segue la luce — questi non sarebbe affatto visibile al pubblico e non giocherebbe alcun ruolo nel mondo della finzione drammatica. Nel mio adattamento diPlay ho invertito le funzioni. Il riflettore era l’unico “agente vivo” nella produzione. L’uomo e le due donne erano personaggi “tecnologicamente mediati“. Questo approccio metteva in risalto il ruolo attivo della luce e rimodellava il dramma, ponendo al centro della produzione la tecnologia e il suo potere potenzialmente minaccioso. Attraverso gli schermi dei visori HMD il pubblico vedeva i personaggi nelle urne come immagini video stereoscopiche dentro un ambiente virtuale. Gli spettatori potevano guardare anche attraverso le immagini e scorgere le mie azioni, poiché io stesso assunsi il ruolo della Luce. Le immagini negli occhiali HMD apparivano sovrapposte al mio corpo; l’agente che manipolava l’ambiente virtuale e che comandava ai personaggi di parlare, divenne così una figura fantasmatica ma viva che prendeva posto in una porzione di luce fioca al centro del palco. L’operatore che normalmente manipola e guida il punto di vista del pubblico attraverso i mondi virtuali nelle produzioni di Virtual Reality – un ruolo che noi denominammo VED (Virtual Environment Driver) – occupava la posizione di “agente” un questa drammaturgia. Dal momento che il movimento attraverso gli ambienti virtuali non era preregistrato, ma manipolato in modo estemporaneo da un operatore che fa sì che l’ambiente interagisca liberamente con i performer in scena, l’ambiente stesso divenne in questo modo un “agente aggiunto”.
In The Adding Machine come nella successiva produzione in realtà virtuale, il VED e il suo computer erano dietro la scena, nascosti alla vista del pubblico. Gli spettatori potevano vedere lo spettacolo della scena generata al computer direttamente sullo schermo, ma non avevano la possibilità di sapere che i mondi virtuali non erano semplicemente delle animazioni preregistrate.
Per il mio lavoro con Play mi sembrava giusto evitare di nascondere il VED e i meccanismi con cui operava. Facendo così, il VED e l’ambiente sarebbero stati un agente attivo in maniera più evidente, così come sarebbe stata chiara anche la natura real time dei media utilizzati. Inoltre, portando la persona (VED) sulla scena, questi diventava una parte concreta e visibile della drammaturgia, sebbene non necessariamente una parte del mondo fittizio del dramma. Come il direttore nella buca dell’orchestra o il koken nel teatro Kabuki, la presenza visibile del VED e la sua influenza sulla drammaturgia sarebbe stata evidente anche se non gli veniva necessariamente conferito lo status di agente fittizio.

Nel mio adattamento di Play feci un passo avanti, dando al VED il ruolo di agente fittizio, creando un manipolatore tecnologico come personaggio che il pubblico poteva vedere attraverso le lenti del mondo mediato tecnologicamente, dei personaggi di Beckett nelle loro urne.
Nella nostra produzione il pubblico in una piccola stanza di fronte a un lungo tavolo illuminato da riflettori. Un groviglio di computer e dispositivi video copriva quasi tutto lo spazio a disposizione sulla superficie del tavolo. Prima dell’inizio dello spettacolo, Reaney aveva l’insolito compito di aiutare il pubblico a indossare gli HMD. Dopo un lungo silenzio beckettiano, durante il quale gli spettatori ridevano nervosamente a causa dell’aspetto che avevano assunto indossando questi visori dall’apparenza futuristica, entravo nella stanza incarnando il personaggio della Luce. I miei capelli erano arruffati e grigi. Indossavo un abito inadatto alla taglia e di colore scuro, camminavo con passo strascicato e stanco; in alcuni momenti mi affaccendavo comicamente sulle attrezzature prima di sedermi e di cominciare a manipolare il video e i mondi virtuali.
Sovrapposto al tavolo, all’attrezzatura e al personaggio della Luce, il pubblico vedeva l’ambiente virtuale stereoscopico. Davanti a loro una enorme pianura deserta. Distante, si ergeva un’urna grigia gigantesca con i bordi superiori nascosti alla vista. All’orizzonte di questa scena surreale e apocalittica, un sole che tramontava suggeriva l’arrivo imminente della notte. Muovendo il mouse del computer il punto di vista del pubblico cominciò a cambiare, spostandosi lentamente verso la base dell’urna gigantesca. Prima di arrivare alla base, gli spettatori sembravano diventare leggeri, fluttuare lentamente nell’atmosfera fino a quando non rimanevano sospesi da terra, proprio sopra il bordo superiore dell’urna. Cominciavano a scendere dentro la cavità di quell’urna grande come un grattacielo, finché non si posavano sopra un piccolo ripiano quadrato, sempre fluttuando nel buio interno del recipiente. Tutto intorno centinaia di identici ripiani quadrati sospesi in una grata sembravano svanire in lontananza. Di fronte, su tre ripiani separati, stavano tre urne grigie, simili al contenitore in cui erano immerse ma più piccole.
Dopo pochi momenti di assoluto silenzio, non appena alzai la leva di un mixer video le teste dell’uomo e delle due donne apparvero all’imboccatura delle tre urne. Come il mondo virtuale tutto intorno, il video era stereoscopico, così che le teste apparivano tridimensionali, ed emergevano da urne ugualmente tridimensionali. Dopo un ulteriore momento di silenzio, i tre cominciarono a parlare. Come uno di loro iniziava a parlare. però, l’altro scompariva, per riapparire subito dopo e ricominciare un monologo opprimente e sforzato.

A ogni cambio di oratore, la Luce schiacciava un bottone sul mixer video, quasi a scacciare il personaggio dalla scena e a comandare a un altro di apparire e parlare. A un certo punto, nel corso di questo crudele rituale, le teste scomparivano, sebbene le loro voci continuassero a essere udibili, e il pubblico in quel momento veniva trascinato in alto, fuori dall’urna, e fatto fermare in un punto sopraelevato di fronte a una piramide a quattro lati. Poi giravano intorno alla piramide lentamente; su ciascun lato della piramide veniva proiettato un film in bianco e nero dei personaggi.
Ciascuno di questi video a loop mostrava i personaggi che distoglievano lo sguardo nervosamente e occasionalmente guardavano in camera. Inframmezzati a questi video c’erano alcune sequenze che mostravano i personaggi con i volti distorti elettronicamente e colti mentre scrivevano in una apparente sofferenza. Nel lato retrostante la piramide era proiettato un breve video del personaggio LUCE, inframmezzato da un breve segmento distorto e colorizzato elettronicamente, della sua faccia contorta dalle risate. Dopo questo breve “viaggio”, il pubblico ritornava nella posizione di partenza di fronte alle tre urne.
Le teste comparivano alla vista senza mai cessare la loro litania triste e dolorosa. Non appena i personaggi cominciavano a ripetere ancora una volta l’intera sequenza, le loro teste e le loro voci piano scomparivano fino a sparire del tutto. La Luce sedeva scomposta nella sedia, come fosse esausta della prova e fissava lo schermo del computer in silenzio. Dopo una pausa prolungata, si alzava e usciva lentamente dalla stanza.

All’inizio del processo che mi ha condotto a creare queste immagini, mi sembrava vitale mantenere le urne come immagine centrale, un’immagine che suggeriva sia morte (le urne che contengono le ceneri dei morti) sia nascita (l’urna come utero che contiene la vita). Nel testo di Beckett era implicito che i personaggi di Play occupassero una specie di infernale post mortem.
Nel mio progetto volevo suggerire esattamente questo, il che implicava anche che le tre urne e i loro occupanti non fossero altro che una singola manifestazione di una formula ripetuta all’infinito. Si alludeva a questo attraverso la natura di matrioske delle urne. Il progetto richiedeva che ci fossero urne dentro urne dentro urne e una progressione infinita dello stesso rituale di domande. La griglia di ripiani quadrati e vuoti dentro l’urna gigantesca rinforzava questa idea. Questa serie infinita di ripiani che si estendeva per un lungo tratto non solo doveva suggerire l’idea di infinità ma anche l’esistenza di un numero infinito di posti vacanti in attesa di essere occupati da urne identiche, contenenti prigionieri riluttanti e timorosi.
Il processo di creazione delle immagini video delle due donne e dell’uomo fu piuttosto lungo e coinvolgente quanto quello di costruzione del mondo virtuale. Per registrare le loro azioni sedevo in una zona di fronte a un set in green screen. Di fronte a loro un grande piano verde mascherava i loro corpi dalle spalle in giù. Li ho ripresi con un paio di telecamere vicine, per ciascun lato. Il segnale da ciascuna di queste videocamere passava a un mixer che combinava i due segnali per registrare. Ciascun segnale sarebbe stato poi mandato al monitor appropriato così che le immagini sarebbero apparse tridimensionali.
Durante la proiezione usai un mixer video per bucare lo sfondo verde e piazzare le immagini degli attori sulle immagini del mondo virtuale in modo che le teste degli attori apparissero come emergere dall’imboccattura delle urne. Usando una leva sul mixer potevo farli apparire e scomparire a mio piacimento mentre le loro voci continuavano a recitare (e a essere udibili, ndc) attraverso le cuffie degli HMD. Al termine di questo esperimento ebbi l’opportunità di discutere con il pubblico.
Essendo solo la nostra seconda produzione teatrale che mescolava realtà virtuale e teatro e il primo sforzo di utilizzare i visori HMD come dispositivi di interfaccia, non eravamo sicuri se il pubblico sarebbe stato in grado di capire il senso di questa operazione che mescolava media elettronici e performance live. Dalle loro risposte fu chiaro che avevano estratto il significato dello spettacolo dall’interazione tra diversi linguaggi dal vivo e mediati.
Molti dei commenti puntavano ad alcune delle caratteristiche di questi nuovi dispositivi di interfaccia che per noi in precedenza non erano affatto chiari. Per esempio, gli spettatori potevano scegliere di rivolgere la loro attenzione dai personaggi nelle urne guardando attraverso le immagini elettroniche all’attore in scena di fronte a loro e viceversa. La facilità con cui potevano farlo dipendeva per lo più dalla quantità di luce sull’attore e dalla luminosità delle immagini dentro i display HMD. Inoltre scoprirono che, muovendo la testa, potevano controllare la relazione spaziale tra l’attore in scena e gli oggetti dentro al mondo virtuale. Infine discussero animatamente sulle possibilità di questa tecnologia e sulle sue applicazioni nel teatro. Reaney e io accogliemmo con piacere il successo di questa produzione e usammo la conoscenza acquisita per dare forma alla successiva produzione: Arthur Kopit’s Wings. www.ku.edu/~mreaney/

(Traduzione e cura di Anna Monteverdi, su ateatro)

Lance Gharavi: Associate Professor, Assistant Director of Theatre, and Chair of the MA in Theatre program, he is an artist and scholar whose work has appeared in books and journals, on stages and screens throughout the US and abroad. An early pioneer in the field of digital performance, he was one of the co-founders of the Institute for the Exploration of Virtual Realities (i.e. VR). He is the author of Western Esotericism in Russian Silver Age Drama: Aleksandr Blok’s The Rose and the Cross. Gharavi’s work focuses on the many intersections of performance, technology, science and religion. His scholarship in these areas been published in seven countries, on four continents and translated into three foreign languages. His work has appeared in journals including Theatre Topics, Modern Drama, Text and Performance Quarterly, The Journal of Dramatic Theory and Criticism, PAJ and Esoterica. Recent works include a series of performances in Matei Visniec's two-man show, Pockets Full of Bread, at the Romanian National Theatre in Cluj-Napoca and at the Sibiu International Festival in Sibiu, Romania. His most recent book is an anthology of essays entitled "Religion, Theatre, and Performance: Acts of Faith" (Routledge 2012).

PlayBeckett: folgorazione del linguaggio multimediale, testo di Massimo Puliani
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Pubblicato in Massimo Puliani-Alessandro Forlani, Play Beckett. Visioni multimediali nell'opera di Samuel Beckett, Halley, Matelica 2006.

L’iniziazione di Beckett alla grammatica radiofonica, filmica, video-televisiva avviene … per caso (per caso? Con Beckett la parola assume un valore filosofico). Come all’origine del suo percorso drammaturgico avvolto da un’enigmatica illuminazione. Già dalla stesura di Aspettando Godot Beckett annuncia il limite della sua prosa e la necessità di superarla con la drammaturgia: “Ho cominciato a scrivere Godot per distendermi, per sfuggire all’orribile prosa che scrivevo a quel tempo. Non ho scelto di scrivere una pièce. Si è trovata così.” .
Ora, se volessimo trovare la parola giusta per indicare quest’iniziazione di Beckett alla grammatica radiofonica, filmica, video-televisiva potremmo considerare questo percorso come una … folgorazione. Certa inquietudine e curiosità intellettuale – la stessa che in gioventù lo interessò per esempio al severo studio di Dante, Vico, Joyce ma, anche, alle comiche di Charlie Chaplin e Buster Keaton, Stanlio e Ollio, dei Fratelli Marx – spinge Beckett, quand’anche in principio diffidente o poco interessato alla radio, al cinema e la televisione se non da spettatore fruitore, ad accettare per “provare a produrre qualcosa, oppure no: non ho mai pensato prima alla tecnica del dramma radiofonico” , la commissione “senza condizioni” della BBC per Tutti quelli che cadono (1956); la richiesta di una sceneggiatura cinematografica che diverrà Film della Grove Press di New York (1963); la proposta di videodramma (tele-play o video-teatro), ancora da parte della BBC, di Dì Joe (1965).
Se questo può apparire in contraddizione con la spavalda affermazione di Beckett del rifiuto di lavorare su commissione, o di “insegnare ad altri ciò che io stesso non so”, è d’altra parte interessante e fattiva conferma di un’intelligenza poetica pronta a superarsi ed a mettersi in discussione.
Folgorazione che, dopo la storica “prima” di Aspettando Godot nel 1953 al Théatre de Babylon e dopo il corpus drammaturgico composto dai più noti, rappresentati, re-interpretati e discussi capolavori del Teatro del Novecento (da Finale di partita a Giorni felici a L’ultimo nastro di Krapp, eccetera) giunge nel 1965 con Film a un punto di non ritorno. Oppure, per dirla con Franco Quadri, “all’inevitabile termine” della pièce multimediale.
Con i Dramaticules l’opera di Beckett approda ad un’idea dell’arte che attraversa e si nutre dei linguaggi più svariati, fino a costituirsi “genere a sé”. I Dramaticules sono sceneggiature in-finite, découpage o story-boards, pensieri letterari e microromanzi; materiali poetici per progetti sonori, visivi, materiali/immateriali come i sogni e gli incubi.
Perché questo sperimentare di Beckett coi linguaggi multimediali? Perché, nella ricerca che gli è propria di perfezione, egli “dismette” a un tratto il linguaggio teatrale (nel momento, si potrebbe affermare, in cui coi Dramaticules ne comprende e addirittura supera, per sempre, lo statuto) e si arrischia ad apprenderne di più (della radio, del cinema, del video: che sono fra loro ben differenti), e nuovi? Ove il rischio avrebbe potuto essere l’incapacità di comprenderli (o comprenderli solo in parte, e male) e di padroneggiarli; con conseguente banalizzazione, appiattimento o perdita di incisività di contenuti e principi. Forse, è la risposta, per lo stesso motivo per cui egli, di lingua e cultura anglosassone, decide di abbandonare la prosa in inglese e di scrivere un dramma in francese. Ovvero per un avvertimento di insufficienza al proprio sentire strutturale e linguistico; l’anelito a un superiore grado di esattezza, definizione, necessità.

Se la parola è ormai superflua, svuotata, “menzogna” (secondo una conversazione di Beckett con il cameraman Jim Lewis) e tale è il tessuto, il ritmo, il luogo privilegiato, la forma e il modo di trasmissione della parola, la via che Beckett percorre è quella dell’immediatezza dello sguardo, dell’immagine rivelata o dato visivo, del suono in sé non mediato né altrimenti tradotto.
Beckett notò, assistendo in televisione a riprese delle proprie opere teatrali, che lo strumento televisivo non era semplicemente un tramite, bensì un nuovo mezzo espressivo, che poteva raggiungere livelli diversi rispetto a letteratura e teatro e generare suoi propri significati. Si trattava di uno spazio “altro”, specifico; differente dalla pagina e dal palcoscenico per il quale elaborare appropriati testi da redigere in una lingua appropriata. Pièces, opera artistica tuttavia, non adattamento teatrale televisivo, non fiction. Uno strumento che offriva soprattutto il totale controllo della forma drammatica: non solo la possibilità di definire, con assoluta precisione, i movimenti della telecamera e degli interpreti (consapevolezza già evidente in Eh Joe); l’intensità e la durata di un suono, di un’immagine (ovvero il potersi esprimere in un linguaggio ritmico, numerico, quasi sensoriale); ma che anche determinava i modi dello sguardo. Proprio dello sguardo e allo sguardo certo, per esempio, attraverso la telecamera, era ormai l’avvertire di quel senso di tragico, di disperata ineluttabilità della fine e di impotenza delle grigie ombre dai lunghi capelli: che troppo, nell’evocare “vecchi sfatti” lasciati all’immaginazione, all’interpretazione di registi e costumisti, aveva forse già detto (scritto) senza mai comunicarlo abbastanza.
Beckett intuì la spietatezza della telecamera: che – per ferocia, brutalità, voracità ferina che proprie le sono (abitudine oggi del linguaggio mediale) – appropriatamente definì “Occhio Selvaggio”. Così come intuì il senso del replay all’apice che è Quad della produzione televisiva. Realizzato per la Scuola di Danza di Stoccarda nell’81, a pochi anni dalla fine, il videodramma è in un certo senso un testamento multimediale, una profezia di Beckett sul destino del nostro rapporto con i molti media(come, ancora nel 1958, predizione è il magnetofono personale di Krapp acceso “una tarda sera, nel futuro”), e un’entropia. Il tempo non è più ritorno eterno, forse Salvezza, come in Godot; il ripetere non è più parodia, destrutturazione – come in Commedia – in funzione di nuove, diverse possibilità; bensì replica, modulare e algoritmica. E seriale diviene ciò che si ripete; riproduzione, consumo. Il gioco (appunto play) è reiterato e ripreso all’indietro (play-back), da capo (re-play); ma non ha né protagonisti né soluzione. Quad può solo avere spettatori e, in definitiva, neppure questi sono necessari. Si chiede a chi gioca, e a chi guarda, di conformarsi e di rispondere ad uno schema, di entrarvi, accettarne le regole e assecondarne il ritmo. E inesorabilmente di divenire, infine, parte integrante di quello schema. La poetica, romantica condanna a “trovare il modo di passare il tempo, darsi l’impressione di esistere” di Vladimiro ed Estragone, nel passaggio attraverso le nuove tecnologie è svuotata di ogni lirica consapevolezza: diviene piuttosto un avvertire contemporaneo, reale, di una condizione che sa di meccanica e robotica ma pur sempre di natura antropologica.
Interessante è l’analisi – e questo è in parte l’intento del presente volume – dell’evoluzione di questaalfabetizzazione multimediale, da parte di Beckett e dei suoi più immediati e costanti interlocutori (quali per esempio Alan Schneider), nel trentennio dal ’57 (l’esordio in radio con Tutti quelli che cadono) alla morte; che lo sorprende – pare – a metà di un progetto di remake di Film il cui protagonista avrebbe dovuto essere Vittorio Gassman.
Si pretende nella ricerca linguistica beckettiana “una coerenza e padronanza rigorosa, sempre ed immediatamente tesa a cogliere l’essenza del mezzo che usa, a basare l’espressione soprattutto, se non esclusivamente, su ciò che lo definisce e lo caratterizza; una scrittura che privilegia il suono nelle pièces radiofoniche e l’immagine in quelle per la televisione” . Ma questo è vero in parte; nei lavori più maturi: mentre – come per esempio si può ancora scoprire nel testo scritto di Tutti quelli che cadono, o nello script di Film – a principio di ogni tentativo con l’inusuale, altro medium rispetto al teatro, alla prosa, incertezze impedimenti e ripensamenti (di natura tecnica, soprattutto) se ne trovano. Che però non sminuiscono o mettono in dubbio il valore dell’opera; anzi – come le gag dei tre cappelli o i “passaggi di palla” di Vladimiro ed Estragone – dichiarano le intenzioni di Beckett circa lo specifico linguaggio adottato. Definiscono di passaggio in passaggio cosa è superfluo e cosa no; cosa è necessario.
Il numero e il movimento delle camere, la diffidenza nei confronti dell’effetto speciale, l’intensità (il buio) delle luci, la combinatoria delle entrate ed uscite di macchina, i passi, le percussioni: ognuno di questi elementi è portatore di significati e contenuti; ognuno, nella produzione multimediale di Beckett, ha assunto eloquenza “geroglifica” o, se vogliamo, geometrico-ontologica.

Copertina: Joseph Kosuth

Il sito www.samuelbeckett.it di Federico Platania
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Il sito italiano dedicato a Samuel Beckett

Nel Mumonkan (una raccolta di quarantotto koan scritta dal monaco Mumon, 1183-1260) si trova una frase che mi ha sempre incuriosito: “Se incontri il Buddha sulla tua strada uccidilo”. Io non sono un esperto di zen, anzi. Però so che tutto ciò che è zen si presta a molteplici interpretazioni. La mia interpretazione di questa frase è la seguente: “Se incontri un maestro nella tua vita sbarazzatene appena puoi, altrimenti ti impedirà di proseguire”.

Quando ho iniziato ad appassionarmi ai lavori di Beckett mi sono reso conto di trovarmi di fronte ad un autore che stava occupando tutto il mio immaginario artistico. Non riuscivo più a leggere un libro o ad andare a teatro senza valutare – spesso inconsciamente – le affinità e le divergenze con l’opera del maestro. Bisognava sbarazzarsi di questo ingombrante Buddha-Beckett…
Come si può uccidere qualcuno che è già morto? Se è un artista – mi sono detto – forse è possibile: esaurendo la conoscenza della sua opera. Allora anziché limitarmi a “leggere” Beckett ho iniziato a “studiarlo”: leggendo saggi, biografie, cercando notizie su Internet, scrivendo piccole schede critiche di ogni suo lavoro, cercando ogni volta fonti, collegamenti e interpretazioni.
www.samuelbeckett.it, in rete dall’agosto del 2003, è il frutto di tutto questo. Non so a che punto del lavoro mi trovo, ma questo sito può considerarsi davvero il risultato del lento omicidio che sto compiendo.

Federico Platania

In copertina Federico Platania e Samuel Beckett mentre osservano due scimmie che giocano a scacchi (nel caso ve lo stiate chiedendo: sì, è un fotomontaggio).