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Robert Lepage e la pittura
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Pubblicato su HYSTRIO: numero speciale su Teatro e Pittura.

Robert Lepage premio Europa 2007 è giustamente ricordato per alcuni spettacoli che rimarranno delle pietre miliari della Storia del Teatro contemporaneo, primo fra tutti Les sept branches de la riviére Ota (1995) memorabile esempio di epopea teatrale dedicata alla tragedia di Hiroshima in cui le proiezioni video e i relativi supporti che componevano le sette porte di una casa giapponese, risultavano perfettamente integrati all’epico racconto teatrale di 50 anni di storia dell’umanità. In tutti i suoi spettacoli i riferimenti alle “arti della visione” (considerando cioè sia pittura che cinema, citando Ragghianti) sono molteplici, talvolta espliciti, talvolta sotterranei, altre volte si tratta solamente di citazioni che impreziosiscono la materia teatrale (e forse per questo motivo Longhi, proprio a proposito dei mille riferimenti de I Sette rami del fiume Ota –da Madame Butterfly a Hiroshima mon amour- parla di un emblematico caso di “teatro postmoderno”).

In Vinci (1986) il protagonista, un artista quebecchese in visita a Firenze alla ricerca del senso della vita e della sua arte, incontra Mona Lisa che sorseggia una Coca in un Burger King e Leonardo stesso in un bagno pubblico. Vengono poi proiettati in scena i disegni di Leonardo, simbolo del superamento di quella mentalità che contrapponeva le arti liberali alle arti meccaniche e riprodotti la sua scrittura “al contrario”, i suoi quadri, i disegni preparatori e i progetti per la costruzione di macchine da guerra (che diventano il motivo del dilemma morale dell’artista). Tra le opere, anche il Canone delle proporzioni, il cartone per l’affresco de La Madonna col bambino e Sant’Anna, La Gioconda proiettati in negativo fotografico.

In Polygraphe (1987) i riferimenti sono evidentemente più cinematografici, legati all’ambito delle spy stories. Nello spettacolo è più volte evocato lo spettro della morte: nella scena iniziale al corpo della protagonista Lucie si sovrappone in proiezione l’immagine spettrale di uno scheletro che ha il suo corrispettivo nella scena finale: il corpo nudo di François sospettato di omicidio e sottoposto alla macchina della verità (polygraphe, in francese) diventa uno scheletro. Lo scheletro come presenza funesta anticipatrice di eventi tragici (come nella scena della Danse macabre di Saint-Saens presente ne La règle du jeu di Jean Renoir, 1939) non può che richiamare sia le iconografie delle medioevali danze macabri o i Trionfi della Morte che raccontano l’umana Commedia o la moralité, che le pitture surrealiste di Dalì e gli inquientanti manichini dei quadri metafisici di De Chirico. Come nel surrealismo e nella metafisica lo scheletro funziona quale dépaysage, oggetto insolito ed estraneo alla generale collocazione della storia inserito per associazione illogica e psichica, a metà strada tra visionarietà onirica e proiezione inconscia dei personaggi.

In Les Aguilles et l’Opium (1991) la spirale in movimento ciclico, simbolo della dipendenza che angoscia il protagonista altro non è che un frammento della scena dell’ermafrodito tratta dal film Le sang d’un poète di Cocteau, 1930 con una citazione anche dai Rotorelief di Duchamp. Ne The geometry of miracle (1996) protagonista è l’architetto americano Lloyd of Right e la sua amicizia con il filosofo russo Georges Gurdjeff.  Coreografie sincronizzate, visualità, movimenti e scene simultanee sono le caratteristiche dello spettacolo mentre un unico tavolo da disegno, molta elettronica e luci colorate formano la scenografia e l’atmosfera visiva. L’architetto è circondato dagli allievi-seguaci della scuola-comunità di Taliesin (concepita all’opposto da quella della Bauhaus, con una familiarità di vita e di lavoro dei giovani con il maestro). Proprio la personalità dell’architetto modernista, creatore di Casa Kauffmann e del Museo d’arte moderna Gugghenheim, il suo richiamo all’Oriente, all’arte giapponese – arte dell’essenzialità -, la formulazione teorica e pratica di un’architettura come composizione organica, l’edificio come organismo, elemento naturale che armonizza l’interno con l’esterno, si rivela determinante per definire la scena di Lepage in quei termini di “semplicità” e di integrazione di cui parla lo stesso Wright.  La parte tecnologica prevedeva un uso di giganteschi video fondali che illustravano i progetti architettonici di Wright per la Chicago degli anni Trenta. In Andersen Project (2006) vengono rievocate in proiezione attraverso la struttura scenografica cava dotata di un originale sistema pneumatico, i “panorami” e i costumi di fine Ottocento attraverso le viste fotografiche dell’Expo di Parigi che Andersen, uomo moderno e attratto dalle tecniche del suo tempo, visitò.

Lo spettacolo con una maggiore presenza “pittorica” è senz’altro quello dedicato alla tormentata biografia di Frida Khalo e scritto con Sophie Faucher, La casa Azul; Lepage ha strutturato l’intero spettacolo sul piano della “visualità”, riducendo al minimo l’apparato tecnologico. La scena rievoca episodi della vita della pittrice messicana traducendo in scena i suoi quadri molto amati dai surrealisti e struttura il palco come fosse un gigantesco schermo (o se si preferisce, come fosse un enorme parete di murales) incorniciato dentro la boite teatrale davanti (e dietro) al quale gli attori agiscono. La scenografia è ridotta a pochi elementi di arredo: l’appendiabiti, il cavalletto, i ponteggi ed infine il baldacchino, che una volta privato delle quattro aste diventa, nel corso dello spettacolo, tavolo o letto d’ospedale, oppure sollevato in verticale, finestra o telaio che inquadra un dipinto. Ancora una volta caratteristica della scena di Lepage è, dunque, la trasformabilità. Il baldacchino/letto di morte evoca molti soggetti dei quadri della Khalo e il cavalletto è l’oggetto davanti al quale l’attrice Sophie Faucher con i lunghi abiti da tehuana, avvolta nel rebozo dipinge. Le pitture di Frida e del muralista Diego Rivera sono restituite in proiezione nella loro vivacità di forme e colori che riempiono la scena con una vera esplosione di immagini, mentre le parole del famoso diario multicolore della Khalo vengono mostrate nella loro calligrafia originaria, diventano così una vera e propria “scrittura di luce. Particolarmente intenso il momento della separazione in cui Lepage sceglie di proiettare il Doppio ritratto: è il quadro più famoso, anche quello più importante quanto a dimensioni (i quadri della Kahlo, come i retablos votivi, hanno piccole dimensioni). È la Frida addolorata per i continui tradimenti di Rivera. Con un bisturi recide la vena da cui scorre il suo stesso sangue. Il cuore è esposto. Herrera la definisce una “immagine di autonutrimento: Frida conforta, protegge o fortifica se stessa”. O ancora la rievocazione del grave incidente avuto in gioventù che non le permise di avere figli, e nonostante questo, con ostinazione non volle rinunciare a provarci.  Dopo un taglio cesareo, un secondo aborto spontaneo quando era in America, a Detroit, il 4 luglio 1932, la Khalo finì in un lago di sangue.  Dallo schermo del palco si intravede dentro una vasca da bagno inclinata, Frida  immersa nel suo stesso sangue. Nel buio della scena fuoriescono solo i contorni della vasca intinti di un rosso denso, le braccia intorno alla testa in una posa da farfalla e un’abbagliante luce bianca. La scena ricalca nella scelta dell’insolito punto di vista sottinsù, il quadro della Kahlo Ciò che l’acqua mi ha dato in cui l’acqua e il contenuto della vasca  sembra quasi rovesciarsi addosso all’osservatore.


23/03/2014 annamaria monteverdi

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