Archivi tag: Dumb Type

Per un teatro tecnologico internazionale: Lepage e Dumb Type
388

Macchina e maschera: Robert Lepage e Dumb Type.

 La scena del regista e interprete canadese Robert Lepage[1], è costellata da una vera polifonia di linguaggi. L’effetto di ombre nel suo teatro è combinato variamente con le proiezioni video in diretta, tecniche che insieme creano un gioco e uno scambio ininterrotto tra la parte frontale e quella retrostante la scena, entrambe spazio d’azione live sia dell’attore che della macchina. La sua originale drammaturgia gioca su più livelli narrativi: in un’architettura stratificata fatta di trame visionarie si intrecciano storie di esplorazioni simboliche, di perdite e di riconciliazioni; vicende lontane nel tempo e nello spazio si incastrano come scatole cinesi offrendo sguardi speculari, percorsi obliqui di memoria, investigazioni introspettive che relazionano la Storia al quotidiano.

Robert Lepage propone un’estetica teatrale dal gusto antico: i suoi spettacoli ricordano infatti, sia le scene mobili del Rinascimento e del Barocco (progettate da Buontalenti e dallo stesso Leonardo) sia quei teatri di inizio secolo che sperimentavano le rudimentali tecniche dell’animazione luminosa (disegni su pezzi di vetro mobili, proiettati grazie alla lanterna Magica), promuovendo una primordiale forma di teatro ottico. Per Andersen Project ispirato alla biografia di Hans Christian Andersen, Lepage inventa una struttura scenica molto originale mostrando come si possa arrivare alla stessa illusione percettiva della realtà virtuale usando mezzi artigianali ed effetti ottici. Per evocare un’epoca come quella di fine Ottocento, ricca di scoperte tecniche e scientifiche, Lepage cerca di ottenere teatralmente l’effetto di stupore e meraviglia prodotto nel pubblico dai nuovi dispositivi fotografici. Imponente è uno spazio cubico prospettico praticabile, un  “panorama” che permette un’efficace integrazione di corpo e immagine (grazie a un leggero rialzamento centrale della struttura), restituendo l’illusione di profondità.

Non sfugge a Lepage il dettaglio che la data del 1867 in cui Andersen arriva a Parigi è anche un anno cruciale per le invenzioni tecniche: è l’anno della seconda rivoluzione industriale e soprattutto della Grande Esposizione Universale di Parigi allestita pieno Secondo Impero napoleonico, in cui domina la fotografia anche grazie al successo delle cosiddette macchine ottiche per visioni stereoscopiche adatte alla percezione del rilievo, in sostanza l’antica progenitrice delle immagini 3D. Informazione sufficiente forse a giustificare in questo spettacolo la presenza di una particolare macchina scenica di visione che simula proprio la profondità delle immagini. Così Lepage per rappresentare un mondo all’inizio della modernità rinuncia deliberatamente ad interagire con sistemi meccanico-protesici o ottici di rilevamento del movimento e del corpo nello spazio, o con dispositivi ottici 3 D, per affermare che in fondo, non è la sperimentazione tecnologica più spinta a fare nuovo il teatro, ma un perfetto equilibrio tra contemporaneità tecnologica e sapere tecnico antico.

Nel lavoro artistico di Lepage dove “non è il teatro che si meccanizza ma è la macchina che si teatralizza” [2], la tecnica è metafora di una condizione esistenziale di mutabilità perenne, di un processo di memoria e di conoscenza, di un nuovo sguardo inteso come illuminante esperienza interiore; la scena è concepita come materia viva e palpabile, suscettibile di innumerevoli trasformazioni, pulsante all’unisono con il corpo dell’attore del quale è suo naturale riflesso, articolazione, appendice. Le tecnologie dell’immagine diventano metaforiche lenti addizionali oppure costituiscono uno specchio interiore.

L’uso della tecnologia delle immagini come metafora della memoria è esemplificato in Les sept branches de la rivière Ota, spettacolo, commissionato nel 1995 dal governo giapponese tra le attività di commemorazione del cinquantesimo anniversario della bomba atomica su Hiroshima. La tecnologia video – che nello spettacolo racconta attraverso immagini in movimento le storie orientali e occidentali che cominciano o finiscono a Hiroshima – associata all’antica tradizione del teatro d’ombre, diventa metafora stessa del processo di memorazione. Fotografia come processo di creazione di immagini latenti e video come scrittura di luce tra flash (istantanee) e flashback (ricordi). La scena è strutturata come una tradizionale casa giapponese, bassa e lunga, opaca e trasparente, con sette schermi-pannelli trasparenti di spandex sui quali vengono proiettate immagini video e ombre: l’effetto di “incrostazione” o di composizione tra l’immagine video e il corpo dell’attore e tra la figura e lo sfondo luminescente genera un surreale dialogo tra corpi e luce e rende quasi alla lettera il senso più profondo dello spettacolo, il legame indissolubile tra Oriente e Occidente e l’impossibilità di cancellare dalla memoria collettiva l’Hiroshima della bomba atomica.

La scena attraversata dalla luce del video diventa così, una lastra “fotosensibile”, potente metafora di un percorso di memoria e di conoscenza. Negli spettacoli di Lepage come La face cachée de la lune (2001) la macchina scenica è corpo animato, sonda imperscrutabile del nostro profondo, che rivela lati misteriosi facendo luce: il teatro rende visibile ciò che non è visibile a occhio nudo, mostrando, come specchio dionisiaco, il lato oscuro (e le geografie imperfette) della nostra superficie corporea.

La scena-corpo si lascia incidere da segni di luce, da molte scritture; come nelle antiche grotte, sulla sua parete ombre e graffiti luminosi raccontano storie mitiche di trasformazioni, storie lunari e storie terrestri. Nella scena di Lepage, fatta – seguendo Leonardo – di “sembianti di lumi e ombre”, il momento della scoperta della verità è equivalente alla folgorazione prodotta dal flash della fotocamera, il ricordo lascia una traccia impressa nella lastra radiografica mentre la morte non è niente altro che neve del televisore non sintonizzato.

Equivalenze tra vita interiore e mondo tecnologico: più che protesi, le tecnologie dell’universo lepagiano sono creature addomesticate, le loro forme rassicuranti e familiari. La scena di Lepage intesa come materia di luce in continua trasformazione, di forma e di senso, si avvicina al valore di maschera greca. Da sempre il corpo e il volto sono sottoposti a teatro a un occultamento attraverso la maschera, icona indossabile, ma questa non ne nasconde l’essere: ne fa uscire lo stato metamorfico interiore. La maschera, oggetto sapienziale per i Greci, non è solo custodia di carne ma incarnazione di un divenire perenne, “luogo di un passaggio estremo verso altre, poliforme identità da cui affiorano visioni sconosciute”, come ricorda Fernando Mastropasqua.[3]

Come affermava Kerény,

 la maschera rende visibile la situazione umana tra un’esistenza individuale e un’esistenza più ampia, proteiforme, che abbraccia tutte le forme. La maschera è un vero strumento magico che in qualsiasi momento rende possibile per l’uomo di rendersi conto di quella situazione umana e di ritrovare la strada verso un mondo più ampio, più spirituale, senza abbandonare tuttavia il modo di un’esistenza fusa nella natura.[4]

 In Voyage (2005) di Dumb Type, collettivo di danzatori e  artisti visivi e sonori di Kyoto, si mette in scena il concetto di “viaggio estremo”, un viaggio virtuale attraverso dispositivi tecnologici sofisticati e un viaggio  dentro le condizioni emotive e psichiche dei nostri giorni: ansia, paura, angoscia, insicurezza; con le tecnologie il teatro dà forma al concetto di crisi, individuale e collettiva, al timore della morte e della guerra. La partecipazione da parte dello spettatore è di natura immersiva, data l’estrema potenza e amplificazione dei suoni e considerate le dimensioni delle immagini che sconvolgono i canoni tradizionali dell’ascolto (e della visione) teatrale.

 

 

Le situazioni proposte dai danzatori e rappresentate in forma di enormi quadri visivi e sonori, di riverberi, rispecchiamenti e atti senza parole, partono da viaggi concreti (in nave, dentro un caccia militare o una navicella spaziale) o immaginari (dentro la psiche, nella memoria). Ma tutti sono filtrati attraverso una mediazione tecnologica, in un crescendo angosciante in cui le paure associate ai diversi elementi (acqua, aria, fuoco, terra) si materializzano in un tecnopaesaggio sintetico metaforico. ‟La compenetrazione  dell’umano e del tecnologico è totale”, afferma Erica Magris;il faccia a faccia con il mondo contemporaneo si mostra attraverso una “maschera digitale” quale metafora tecnologica dell’esistenza umana, una maschera che non inguaina l’attore ma che ingloba l’intera scena e grazie al quale il palcoscenico diventa uno ‟spazio in movimento al servizio della metamorfosi dell’attore e dell’esperienza di rivelazione, liminale tra realtà e immaginario, vissuta dallo spettatore”.[5]

In Memorandum Dumb Type si dedicano alla teatralizzazione del processo della memoria quando questa viene mediata dalle tecnologie. La foresta della memoria è segnalata da un REM tecnologico, da immagini che si affastellano come un montaggio a-logico: è un paesaggio interiore fatto di codici informatici. Voci e desideri inespressi attraversano il personaggio come fosse scannerizzato. D. Type opera attraverso quella che viene definita una “comunicazione postsimbolica”, priva di linguaggio, oggettivando un processo mentale, mostrando attraverso la tecnologia audio-video, stati d’animo interiori, non visibili: tutto si basa sull’equivalenza tra memoria e processi tecnologici di registrazione dati. Scannerizzazione, focalizzazione, associazione di immagini, sovrapposizioni. tecnologia come immagine mentale, come  manifestazione dell’inconscio.

La scena semplificata all’estremo, è una metafora della mente umana intesa come tabula rasa su cui progressivamente vengono “incisi” frammenti di ricordi in formato elettronico: il disturbo e il rumore – grazie alla musica di Ikeda che aggiunge alla sezione visiva un apporto fondamentale per descrivere questa condizione fisica estrema e mostrare questa associazione umano/tecnologico – rappresentano l’assenza, il vuoto o la fallibilità della memoria. La mente umana che in scena percepisce il mondo attraverso una mediazione tecnologica, viene trattata come una sorta di black box tecnologico, una scatola nera il cui funzionamento viene mostrato nell’atto di essere condizionato da stimoli esterni ambientali e mentre produce risposte in forma audio-visiva, processo che troverebbe una corrispondenza nel meccanismo di funzionamento del sistema nervoso periferico e centrale. Questo spettacolo di Dumb Type sembra la risposta teatrale all’ecologia cognitiva di Pierre Lévy: le tecnologie riproducono  processi mentali, traducono moti di affettività, sono forme della memoria.

 

[1] Vedi A.Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage, Pisa, Bfs, 2004, La tecnologia è la reinvenzione del fuoco in E.Quinz (a cura di) Digital performance, Paris, Anomos, 2002; Attore-specchio-macchina, in A.Monteverdi, O.Ponte di Pino, Il meglio di ateatro, Milano, Il principe costante, 2004; A.Monteverdi, La scena trasformista di Lepage in “Teatro e storia” n.25, 2005.

[2] Irène Perelli-Contos e Chantal Hébert si sono soffermate sull’uso metaforico delle tecnologie nel nuovo “teatro immagine” secondo Lepage. Rimandiamo senz’altro al loro importante saggio (riferito in particolare agli spettacoli Circulation e Les sept branches de la rivière Ota) L’écran de la pensée ou les écrans dans le théatre de Robert Lepage, in B. Picon-Vallin (a cura di), Les écrans sur la scène, Lausanne, L’Age d’Homme, 1998.

[3]F.Mastropasqua, Metamorfosi del teatro, Napoli, Esi, 2000. Ed inoltre F. Mastropasqua, Teatro provincia dell’uomo, Livorno, ed Arti grafiche Frediani, 2004.

[4]K. Kéreni, Miti e misteri, Torino, Einaudi, 1979.

[5]E. Magris, Della presenza invisibile della maschera,ateatro n.64/2004.

SHIRO TAKATANI ST/LL
386

SHIRO TAKATANI ST/LL

Still: between moments

More fleeting than narrative, more infinite than future or past
Time defies all dimension-bound notions of micromeasure

The dance of electrons within all things remains insensately other
Real shadows cast on imagined time
Imagined shadows cast on real space…

Can art or science ever truly express this hourglass world
These grains of sand that crumble at the slightest change?

En partenariat avec Ars Musica.

Direction : Shiro Takatani | Avec : Yuko Hirai, Mayu Tsuruta, Misako Yabuuchi, Olivier Balzarini | Musique : Ryuichi Sakamoto, Marihiko Hara, Takuya Minami | Lumières : Yukiko Yoshimoto | Création numérique : Ken Furudate | Text : Alfred Birnbaum | Direction technique : Thomas Leblanc | Assistant numérique : Ryo Shiraki | Assistant lumières : Kazuya Yoshida | Administration : Yoko Takatani / Dumb Type Office Ltd.

Remerciement pour la chanson : 60 cradles – rehotne sinta (voix : Yoko Kawakami) © The Foundation for Research and Promotion of Ainu Culture

Production : Dumb Type Office | Production, tournée : Epidemic (Richard Castelli, assisté de Chara Skiadelli, Florence Berthaud, Claire Dugot) | Coproduction : Le Volcan, Scène nationale du Havre / Biwako Hall – Center for the Performing Arts Shiga, Japan.

Della presenza invisibile della maschera: Theatre du Soleil e Dumb Type
40

Voyage di Dumb Type e Le dernier caravansérail (Odyssées) del Théâtre du Soleil, di Erica Magris

Voyage di Dumb Type è il risultato scenico di un progetto artistico di lunga durata, nato all’indomani dell’11 settembre, nel cui ambito è stata realizzata anche una videoinstallazione intitolata Voyages. Lo spettacolo consiste in un’azione di poco più di un’ora, composta di diversi quadri fra loro indipendenti ed è fondato sull’interazione di tecnologie digitali all’avanguardia e movimenti di danzatori-attori. Dumb Type, infatti, è un collettivo giapponese di sperimentazione multimediale, nato a Tokyo nel 1984 e composto da artisti provenienti dalle arti plastiche, dalla danza, dalla musica, dalla videoarte e dall’informatica. Le dernier caravansérail del Théâtre du Soleil è il titolo di uno spettacolo composto da due parti: Le fleuve cruel e Origines et destins.  Insieme costituiscono un tutto unitario, che consta complessivamente di sei ore di rappresentazione. Il dittico richiede quindi agli spettatori un investimento di tempo, di energie (e di denaro!) molto forte e ne sconvolge l’intera giornata: nel periodo invernale capita di raggiungere il teatro verso mezzogiorno e mezza, quando il sole è alto, per poi uscirne a sera, avvolti dall’oscurità. Il Théâtre du Soleil è una troupe permanente guidata da Ariane Mnouchkine la cui ricerca, iniziata nel 1964, si fonda sul lavoro dell’attore, nella riscoperta e nella reinvenzione di forme teatrali occidentali e orientali, in un territorio di confine fra tradizione e avanguardia, fra internazionalità e radicamento nella società e nella cultura francese. Quest’ultima creazione si inserisce coerentemente nel percorso di Mnouchkine e del suo gruppo, da sempre impegnato nella realizzazione di un teatro storico e impegnato: tratta infatti del attuale e bruciante problema dei rifugiati, che fuggendo dai loro paesi devastati dalla guerra, si avventurano in cammini impervi e crudeli verso un Occidente sognato che in realtà non può o non vuole accoglierli.

Perché parlare insieme di due spettacoli all’apparenza così distanti ed eterogenei? Le forti emozioni suscitate dalle due rappresentazioni hanno sollecitato pensieri e interrogativi comuni. Le riflessioni sull’una e sull’altra opera si sono così intrecciate, costituendo un tessuto di questioni che coinvolge il teatro in generale, il suo valore e la sua funzione nel mondo contemporaneo. Una ragione profonda si trova al fondo della vicinanza di queste due creazioni, una rarissima presenza le unisce: la maschera.

Le dernier caravanserrail.

Mnouchkine ama spesso dire che nel Teatro con la T maiuscola la maschera c’è sempre, che può essere più o meno trasparente fino ad essere invisibile, ma c’è. Fernando Mastropasqua definisce la maschera un “grembo risonante”, il luogo di un “passaggio estremo” dal “tempo del vivere al tempo del morire”, che non è annullamento ma “assunzione di altre, irraggiungibili, desiderate identità” e “deifica potenza di creare enti, persone, mondi”. In ognuno di questi spettacoli la maschera c’è: maschera del digitale in un caso, maschera arcaica e tecnologica insieme della Babele dei luoghi e dei linguaggi nell’altro. Si tratta di una maschera che non si appoggia sul volto degli attori, ma che ingloba la scena intera. Il palcoscenico diventa uno spazio in movimento al servizio della metamorfosi dell’attore e dell’esperienza di rivelazione, liminale tra realtà e immaginario, vissuta dallo spettatore. Seguendo un percorso di comparazione critica delle due creazioni, tenterò di spiegare questo nodo, che è a mio avviso fondamentale nella comprensione del senso del teatro e che possiede una portata particolare per quel che concerne il rapporto dell’arte teatrale con le nuove tecnologie.

Voyage.Il viaggio: una corda tesa sul palcoscenico

La considerazione è sicuramente banale, ma entrambi gli spettacoli sono imperniati sul tema del viaggio, vale a dire dello spostamento, reale o metaforico, nello spazio e nel tempo. Essi condividono un’immagine scenica forte dell’attraversamento, del pericolo, del tramite che può unire un punto ad un altro: la corda tesa da un lato all’altro del palcoscenico. Nel secondo quadro di Voyage, due attori immersi nell’oscurità di una cavità sotterranea esplorano lo spazio buio con i loro caschi muniti di lampade.

Ad un certo punto iniziano a percorrer uno stretto cammino all’orlo dell’abisso, reso da una sottile striscia di sassi parallela alla linea del proscenio. In questo percorso obbligato, si tengono ad una corda tirata da un lato all’altro del palco, posta sulla verticale della striscia pietrosa. I due si incoraggiano e si rincuorano reciprocamente, si aiutano per superare il precipizio: ma uno di essi cade, la corda non l’ha salvato, e il sopravvissuto cerca invano di riportarlo alla vita con la sua danza. Le fleuve cruel si apre con una scena intitolata “Un passage”: i personaggi, devono traversare un fiume impetuoso, reso acusticamente da un frastuono di acque e visivamente da un telo plumbeo mosso da alcuni attori, che copre interamente la scena. Qualcuno è già passato, qualcuno è rimasto dall’altra parte. Il passaggio si fa attraverso una piccola imbarcazione appesa ad corda tesa da una parte all’altra. La scelta è di separarsi o di correre il rischio di essere inghiottiti dai flutti, e cadere in una separazione irrimediabile.

Per Dumb Type, il viaggio, come suggerisce l’indeterminatezza del titolo dello spettacolo, è una metafora della condizione umana contemporanea ed è affrontato da differenti punti di vista: da situazioni concrete, come il sistema delle comunicazioni aree, con le sue hostess militarmente e ridicolmente sorridenti, le esplorazione, le missione militare, fino ai viaggi della mente nei sogni e nella memoria fino al “viaggio” per eccellenza, il passaggio dalla vita alla morte e al distacco netto ed irreversibile che esso genera fra “chi è andato” e “chi resta”.

Le dernier caravanserrail.

Il Soleil si concentra, come abbiamo visto, su un volto particolare del viaggiare, trattando dei viaggi dei profughi. Ma come indica già la scelta del termine “odissee” nel sottotitolo, il Soleil non ha inteso costruire una cronaca né un documentario, ma di dare una voce poetica alle testimonianze raccolte da Ariane Mnouchkine, elevandole alla dimensione di “mito” della contemporaneità. Le vicende dei personaggi in scena, pur delineati con estrema precisione e concretezza, diventano il luogo di esperienze e di questioni che coinvolgono l’umanità nella sua dimensione esistenziale e sociale.

Il tema del viaggio si combina nelle due creazioni con la rottura della linearità dell’azione teatrale a vantaggio di una forma esplosa che renda conto del movimento caotico e dello spaesamento: scene separate in cui lo spettatore deve trovare un proprio orientamento personale, i propri fili conduttori, il proprio percorso. Il viaggio diventa quindi metafora a sua volta del teatro, dello spostamento insieme fisico e mentale che costituisce lo spettacolo teatrale per attori e spettatori. Viaggio percettivo dal cosmo all’inconscio nel caso dei Dumb Type, un viaggio nella memoria degli individui dimenticati e persi nelle strade del mondo per il Théâtre du Soleil. Il teatro si qualifica quindi come esperienza e come conoscenza. Torna alla mente il saggio di Walter Benjamin Il narratore e riaffiorano queste parole, a proposito della trasmissione dell’esperienza nella narrazione:

Il narratore prende ciò che narra dall’esperienza – dalla propria o da quella che gli è stata riferita -; e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia. Questa caratteristica della narrazione secondo Benjamin scaturisce dalla capacità del narratore di svolgere il suo racconto lasciando all’ascoltatore-lettore-spettatore il compito di relazionare gli eventi e la libertà di spiegarseli attraverso il filtro del proprio intelletto e della propria sensibilità:

Se l’arte di narrare si è fatta sempre più rara, la diffusione dell’informazione ha in ciò una parte decisiva. Ogni mattino ci informa delle novità di tutto il pianeta. E con tutto ciò difettiamo di storie singolari e significative. Ciò accade perché non ci raggiunge più alcun evento che non sia già farcito di spiegazioni. In altri termini: quasi più nulla di ciò che avviene torna a vantaggio della narrazione, quasi tutto a vantaggio dell’informazione. È, infatti, già la metà dell’arte del narrare, lasciare libera una storia, nell’atto di riprodurla, da ogni sorta di spiegazioni. Lo straordinario, il meraviglioso, è riferito con estrema precisione, ma il nesso psicologico degli eventi non è imposto al lettore. Che rimane libero di interpretare la cosa come preferisce; e con ciò il narrato acquista un’ampiezza di vibrazioni che manca all’informazione.

Il Soleil e Dumb Type hanno quindi costruito due forme di narrazione che, nella trasmissione dell’esperienza, hanno la capacità di coinvolgere sia la dimensione individuale che la dimensione collettiva degli spettatori, di coinvolgerne le corde più intime e di indurre degli interrogativi di portata sociale e politica. Nell’incontro dell’umanità trasfigurata della scena e dell’umanità comunitaria della sala riposa l’essenza dell’evento teatrale. Come afferma in una frase illuminante Elie Konigson, lo spettatore è uno sciamano, investito dalla società a percorrere il cammino di conoscenza del teatro: “Lo spettatore si trova in posizione intermedia fra la città e la scena, fra la società civile e la società teatrale (cioè scenica). Il ruolo propriamente sciamanico dello spettatore, questo delegato della città, verso i mondi impossibili dell’aldilà scenico, si esprime anche attraverso questi corpi in apparenza assopiti, immobili, presenza pesante del retro-teatro urbano, attento alle ombre mobili della scena“. Entrambi gli spettacoli agiscono in questo campo di intersezione di pubblico e privato, e fanno della scena il luogo altro in cui interrogarsi sulla vita e sul mondo.

Il teatro faccia a faccia con il mondo contemporaneo

Voyage e Le dernier caravansérail nascono entrambi dalla volontà di interrogare il ruolo dell’arte teatrale di fonte agli avvenimenti del mondo contemporaneo. Interessante a questo proposito è comparare i programmi redatti dal gruppo giapponese e da quello francese. Dumb Type scrive:

Un’atmosfera di opaca incertezza senza precedenti ci circonda. Addormentati o svegli, se cercate di dimenticarla e di paralizzare il vostro spirito, essa non vi lascia, come una seconda pelle di ansia e di paura. Simulate indifferenza, non resisterete a lungo, non ci metterete una croce sopra, come se si trattasse di problemi altrui o di eventi separati da voi dallo schermo della televisione. Molte più persone di quante possiamo immaginare si confrontano con un sentimento di crisi, lottando per trovare un nome per questa condizione. In queste circostanze, cosa potrebbe risultare più ridicolo e derisorio che delle innocenti “attività artistiche”? Dobbiamo chiederci incessantemente perché proviamo ancora ad esprimerci attraverso le arti dello spettacolo, perché perseveriamo nella nostra attività creativa. Abbiamo deciso deliberatamente di non ricorrere al linguaggio né di commentare in altro modo le circostanze che ci circondano attualmente. Cerchiamo di ritrovare una comunicazione reale senza utilizzare le parole. È possibile? Ancora una volta dobbiamo rimettere in questione l’essenza stessa dello spettacolo.

Hélène Cixous, la scrittrice da anni legata al Théâtre du Soleil, scrive nella premessa che apre il libretto-programma:

Oggi, nuove guerre gettano sul nostro pianeta centinaia di migliaia di nuovi fuggitivi, frammenti di mondi disgregati, brandelli tremanti di paesi devastati i cui nomi non significano più rifugi-riparo natali, ma rovine o prigioni: Afghanistan, Iran, Irak, Kurdistan…, la lista dei paesi avvelenati aumenta ogni anno. Ma come raccontare queste innumerevoli odissee? Quanti nuovi piccoli teatri bisognerebbe inventare per dare a ogni destino impazzito il suo effimero asilo? Come non sostituire la tua lingua straniera con la nostra lingua francese? Come conservare la tua lingua senza mancare di gentilezza e di ospitalità nei confronti del pubblico, il nostro ospite nel teatro? Come comprendersi col cuore senza comprendersi a parole? Come non appropriarsi dell’angoscia altrui facendone del teatro? Come non sbagliare per illusione o per paura di comprensione? Come dire tutto senza una parola? E se non ci riusciamo? È la domanda del rifugiato nel suo viaggio.

Il faccia a faccia con il mondo contemporaneo ha quindi costituito per entrambi i gruppi la scintilla che ha innescato il processo della creazione teatrale. L’imperativo della realtà pone al teatro il problema cruciale di trovare nuove forme di spettacolo, che le corrispondano e che sappiano dare un senso all’attività artistica. Come affermava Mejerchold agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso “il fattore principale che dalla scena influenza lo spettatore, la carica interna che noi gli dobbiamo fornire, il nucleo centrale di cui abbiamo voluto parlare è senz’altro il pensiero, l’idea, il contenuto è quel che passa da un cervello all’altro […]. Ma il fatto è che quando desideriamo che il nostro pensiero si travasi nella sala teatrale, che l’idea giunga allo spettatore e questi ne afferri il contenuto, dobbiamo perfezionare, affilare, rendere duttili e veramente efficaci i mezzi di espressione. […] La preoccupazione del “che cosa” implica la preoccupazione per il “come” “.

Sia Dumb Type sia il Soleil nel loro confronto fra “cosa” e “come” partono dalla constatazione dall’inadeguatezza del corrente linguaggio verbale. Tale punto di partenza esclude sia ovviamente la messa in scena di un testo teatrale preesistente sia una scrittura drammaturgica testuale appositamente messa a punto per lo spettacolo. È la scrittura scenica nel suo insieme a dover essere inventata, avendo sempre presente la necessità di rispondere adeguatamente al mondo. Le risposte date dal Théâtre du Soleil e da Dumb Type sono chiaramente diverse. Nonostante ciò, mi pare fondamentale che esse scaturiscano da un’esigenza forte e comune.

Dumb Type, proseguendo nel suo particolare percorso di ricerca, risponde con l’immersione, tanto del performer quanto dello spettatore, in un universo teatrale che si serve delle nuove tecnologie, per esplorare la nostra mente in reazione alla realtà. A livello spaziale, questo universo è determinato da uno schermo gigante, che ricopre il fondo scena e che viene duplicato dal pavimento a specchio, in un gioco di doppi e di inganni percettivi che riverbera nella sala fino ad immergerla nello spazio-tempo dello spettacolo. Il suono e la sua amplificazione sono altrettanto importanti nella definizione dell’ambiente teatrale, che viene a coincidere con il territorio di confine fra il dentro di noi stessi e il fuori del mondo. Lo schermo, su cui sono proiettate immagini ad altissima definizione o luci colorate nettissime, riflette la visione mediatizzata e digitalizzata del mondo che caratterizza la nostra epoca. La percezione digitale della realtà si trasforma sulla scena in organismo poetico, in cui la presenza dei performer ne innesca le vibrazioni. La compenetrazione dell’umano e del tecnologico è totale.

Nel quinto quadro una ragazza distesa al centro di un tappeto verde circolare posto al centro del palco, immobile, come se stesse dormendo, enumera con la formula “I wish I was” una serie di sogni, aspirazioni, desideri. La voce ci giunge mediata dall’impianto di amplificazione. Sul fondo dello schermo scorrono immagini bellissime di elementi naturali, probabilmente anche di sintesi, in cui i cambiamenti dell’inquadratura non sono più i movimenti della macchina da presa cinematografica, ma gli spostamenti propri del digitale. Queste visioni digitali acquistano un senso profondo nel momento in cui diventano la manifestazione dell’inconscio della figura umana sul palco (e delle figure umane nella sala), che, a sua volta, riceve il senso della sua presenza dall’ambiente tecnologico in cui è immersa. La stessa sinergia è evidente nel settimo quadro: gli attori si avvicendano in un ritmo lento al centro del palcoscenico con il viso rivolto al pubblico. Rimangono fermi, in piedi ed il loro corpo viene attraversato da parole: la pronuncia della parola genera un segno scritto fatto di luce, che scorre dall’alto verso il basso passando sugli attori. Le parole (“per sempre”, “adesso”, “una volta”, “ogni momento”, ecc.)evocano la temporalità della vita ed il suo inesorabile trascorrere in ogni istante: ogni attore, con essenziali gesti e espressioni minime, dà un vissuto a queste parole, la carica con le sue emozioni, le sue contraddizioni, le sue paure, i suoi interrogativi senza risposta e le sue incertezze.

La parola, con il suo duplice valore di segno sonoro e grafico, ha una fondamentale importanza anche nello spettacolo del Théâtre du Soleil. La maledizione biblica di Babele e la frammentazione dell’umanità in centinaia di lingue e di culture è uno dei fulcri su cui ruota la forma de Le dernier caravansérail. Gli attori si esprimono non solo in francese, ma anche in inglese, persiano, bulgaro, russo, e altre lingue che non sono stata in grado di riconoscere, e si muovono nell’impasto sonoro creato da Jean-Jacques Lemêtre, composto da musiche originali, da canti di altri popoli, dalle voci reali di chi ha raccontato la sua storia a Mnouchkine, e dai rumori a volte assordanti del mondo. La tecnologia rende virtualmente possibile il dialogo fra le parti eterogenee di questo magma linguistico: il passaggio dal suono al segno proiettato sul fondo del palco è infatti il passaggio da un idioma all’altro. La sincronia fra scritto e orale è il simbolo della possibilità dell’incontro.

Nella griglia costituita da questo insieme di suoni e parole, gli attori entrano ed escono dalla scena su carrelli mobili senza mai toccare col proprio corpo la superficie del palcoscenico: si tratta di piccole scenografie praticabili, il cui movimento sul palcoscenico vuoto induce lo spettatore ad una percezione multipla dell’azione teatrale, di ispirazione cinematografica. Il riferimento al cinema, ed in particolare al cinema muto, è molto forte, evidente anche nell’uso dei titoli proiettati sul fondo grigio ad introdurre ogni scena. Inoltre, i media entrano direttamente in scena in due sequenze che raccontano gli assurdi interrogatori subiti da un rifugiato kurdo in un campo di detenzione in Australia. L’interrogatore e l’interrogato comunicano attraverso una telecamera a circuito chiuso che trasmette in diretta da un set nascosto: noi vediamo il funzionario del governo australiano a mezzo busto su un carrello al centro del palco. Nella parete del carrello di fronte al pubblico è incastrato un monitor, su cui è trasmessa l’immagine del rifugiato. L’immagine elettronica e lo schermo diventano un’altra figurazione delle griglie e delle barriere, che trionfano nella realtà, ma che il teatro ha il potere di annientare temporaneamente proprio nell’atto di metterle in scena.

Voyage.

Dietro queste soluzioni complesse non c’è una mente unica, ma un lavoro collettivo. La valutazione dell’unione di “cosa” e “come” di cui stiamo parlando non può prescindere dall’esame del processo creativo. La dialettica fra mondo e teatro, fra individuale e collettivo che sono alla base del contenuto degli spettacoli e del loro rapporto con gli spettatori, si rispecchiano nei procedimenti della creazione. La creazione collettiva dietro una perfetta concertazione

Voyage, è il risultato del lavoro di sei sotto-gruppi della compagnia: ognuno di essi ha elaborato a suo modo il tema comune del viaggio. Ne è sortito un mosaico di scene, dai toni e dalle atmosfere molto diverse, che però stupisce per la coesione e per la perfetta sincronizzazione nella composizione dei diversi materiali utilizzati. Corpo, immagine e suono non sono posti l’uno accanto all’altro, ma sembrano scaturire contemporaneamente dalla stessa fonte di energia. Traspare inoltre l’urgenza dell’opera teatrale, un bisogno che si incarna ugualmente in ogni elemento dello spettacolo e che secondo me ne fa l’intensità. Anche il lavoro del Soleil è una “creazione collettiva”, portata al suo estremo. Un segno di questa radicalizzazione: se negli anni Settanta, nel periodo d’oro della creazione collettiva al Soleil, Mnouchkine poneva ancora il suo nome in locandina all’ultimo posto, ma sotto la dicitura “mise en scène”, in questo caso, tutti, attori, aiutanti, musicista e regista, sono ugualmente ritenuti responsabili della creazione ed inseriti in un lungo elenco in ordine alfabetico sotto la dicitura “Odissee raccontate, ascoltate e comprese, improvvisate e messe in scena da”. Nello spettacolo, lascia a bocca aperta come tutte le azioni e tutti gli elementi scenici siano perfettamente coordinati in un concertato in cui la troupe teatrale si trasforma in un’orchestra perfettamente accordata.

Mi sembra che entrambi gli spettacoli, posseggano quella organizzazione musicale del teatro di cui erano alla ricerca Appia, Craig, Meyerchold per creare la “nuova scena” del Ventesimo secolo. proprio grazie alla responsabilità comune del processo creativo, la sintonia musicale degli elementi dello spettacolo dà origine ad una partitura “calda”, in cui individuale e collettivo si fondono in un’intensa fonte di energia emozionale.

L’opera d’arte totale: composizione scenica e posizione dello spettatore

Per le complessità degli elementi messi in gioco sulla scena teatrale, per i modi della loro combinazione e per la loro perfetta concertazione musicale, Voyage e Le dernier carvansérail possono essere inseriti nella scia delle sperimentazioni imperniate sul concetto di “opera d’arte totale”, che ha suscitato le più interessanti ricerche del secolo scorso, come mostra il fondamentale volume curato da Elie Konigson L’oeuvre d’art totale (Paris, Editions du CNRS, 1995). La riflessione sulle possibilità e sulle modalità di realizzazione dell’opera d’arte totale portano gli sperimentatori più innovativi a superare la sintesi delle arti propugnata da Richard Wagner, perseguendo un distacco dalla mimesi della realtà ed il raggiungimento di una nuova teatralità. Fondamentale a questo proposito risulta il breve scritto Kandinski La composizione scenica del 1912, che, potremmo dire, esprime non solo le idee del pittore sull’arte scenica, ma anche le esigenze comuni e le aspirazioni che animavano i tentativi di riforma e rinnovamento dell’arte teatrale degli uomini di teatro della stessa epoca. Kandinski propugna una composizione scenica sinestetica, in cui a coordinare gli elementi della scena, il suono, la visione, l’azione non è un insieme di dati esteriori, quali ad esempio la trama e l’ambientazione, ma una serie di connessioni interiori. libertà di trasformazione continua dettata da una rete di connessioni interiori. Questa composizione astratta complessa, costruita su una libertà totale di trasformazione, attraverso l’utilizzazione di assonanze e dissonanze, di cooperazioni e di reazioni, non rappresenta la realtà, ma costituisce un evento spirituale di vibrazioni condivise dagli spettatori. L’attenzione allo spettatore e la sua inclusione nell’evento spettacolare, costituisce un altro aspetto caratterizzante della tensione all’opera d’arte totale fin dalle origini rinascimentali del teatro moderno, come ha sottolineato Elie Konigson. Egli riscontra due tendenze generali nell’arte teatrale occidentale: l’una riposta sul rapporto dell’attore con il testo, l’altra fondata su “uno spazio di azione teatrale che attinge le sue strutture fra i resti recuperati e riaggiustati della ritualità”.

Guardando storicamente a questa tendenza, Konigson afferma che “a partire dal Rinascimento, unitamente alla classificazione delle arti […] si verifica l’inclusione determinante dell’architettura come contesto e attore della collaborazione fra le arti. L’architetto, superando il ruolo assegnatoli, diventa regista e organizzatore della festa nell’edificio ecclesiastico, nel palazzo e in seguito, nel XVIII secolo nel monumento teatrale. In questo modo, l’apparato include per la prima volta anche il partecipante, fedele, cortigiano o spettatore, come elemento costitutivo dello spettacolo […]. Ciò che ci interessa è che nel seguito delle arti riunite, lo spettatore sia alla fine incluso”.

In Voyage e in Le dernier caravansérail l’inserimento dello spettatore nell’apparato scenico e la sua messa in vibrazione con la scena, si intrecciano alla scelta degli elementi di composizione utilizzati. Sia Dumb Type che il Soleil si preoccupano di costruire nello spettacolo la percezione dello spettatore attraverso l’integrazione sulla scena di elementi che costituiscono la realtà tecnologica attuale. Dumb Type, servendosi della proiezione di immagini digitali ad altissima definizione, di un sistema di illuminazione complesso e di un impianto di diffusione del suono estremamente potente, crea un ambiente immersivo, in cui la sala e la scena sono investite dalle medesime vibrazioni acustiche e visive. Significativo è il quadro in cui una danzatrice si muove in maniera scarmigliata davanti allo schermo su cui sono proiettati dei segnali elettronici impazziti, cui corrispondono dei fortissimi segnali acustici. Lo spettatore, coinvolto in questo delirio sensoriale, diventa il doppio immobile della danzatrice sul palco: uno stato di emozione e di ansia pervade la scena e la sala; la rappresentazione diventa una discesa nelle profondità travagliate e lacerate dell’interiorità umana. Il quadro conclusivo dello spettacolo, che chiude circolarmente lo spettacolo, perviene invece ad una diretta implicazione del pubblico nell’azione. Nella scena di apertura infatti, lo spettatore si trova davanti al palcoscenico scuro in cui spiccano tra sfere di luce al centro delle quali una ballerina compie pochi gesti lenti e ieratici. Tuoni, rumori di bombardamenti accompagnano i suoi movimenti in un crescendo del volume. Si diffonde una condizione di irrequietudine, di attesa, un’evocazione di cose terribili ma ancora lontane. Agli spettatori viene dato di guardare la terra dall’alto dell’universo. Questa distanza, alla fine del “viaggio-spettacolo” è irrecuperabile. Torna sul palco la stessa ballerina, a compiere i medesimi gesti sui medesimi suoni; ma questa volta sullo schermo e rfilesso nello specchio appare l’immagine di un mirino digitale, di quelli utilizzati dai moderni bombardieri per compiere “attacchi intelligenti”. Il mirino ruota su se stesso, punta strade, edifici, in un movimento circolare multiplo che ipnotizza lo spettatore. Spettatore che diventa ora carnefice, e la cui responsabilità nella storia viene invocata da un percorso visivo e uditivo vertiginoso.

Nel lavoro del Soleil, il punto di vista dello spettatore diventa una componente fondamentale della composizione scenica: esso è introdotto e moltiplicato sulla scena in una duplice maniera. Da un lato grazie ai carrelli mobile, al loro movimento, alle loro “finestre”, l’occhio dello spettatore acquista la molteplicità di prospettive della macchina da presa o della videocamera, e la capacità di concentrarsi ora sull’insieme ora sul dettaglio. Inoltre l’entrata e l’uscita dei carrelli per ogni singola azione, sottolinea il valore di “apparizioni” di questi brandelli di vita, che tornano a scorrere per brevi tratti sulla scena. Dall’altro, l’utilizzazione delle proiezioni di sottotitoli per la traduzione dei dialoghi e delle testimonianze registrate, genera una partizione dell’attenzione spettatoriale, che si divide fra parola scritta e parola detta, fra azione e scrittura. Infine la presenza del complesso impasto sonoro creato da Jean-Jacques Lemêtre genera un’ulteriore complicazione percettiva.

Per entrambi gli spettacoli le nuove tecnologie con i loro linguaggi e con i modi di percezione cui esse danno luogo, sono un punto di riferimento imprescindibile per creare una composizione scenica che tocchi il vivo della contemporaneità. La questione cruciale che essi pongono è però un’altra: il valore di maschera che le tecnologie devono assumere sulla scena per dare luogo ad una valida creazione teatrale.

Maschera e tecnologia

Voyage e Le dernier caravansérail mostrano che non è la quantità e la qualità delle tecnologie utilizzate sul palcoscenico ad essere fondamentale, ma il fatto che le tecnologie diventino un mezzo per dare respiro alla scena, per offrire all’attore una nuova base all’azione e alla trasformazione, per coinvolgere gli spettatori nell’esperienza teatrale.

Abbiamo parlato della maschera come cavità risonante e strumento di metamorfosi. Questa cavità, negli spettacoli di Dumb Type e del Soleil, diventa la scena intera, che da fissa diventa mobile, al contrario del volto che con la maschera da mobile diventa fisso. La maschera rende possibile un ribaltamento e un superamento della realtà nell’invenzione di un nuovo universo. Nel caso del Soleil, i carrelli diventano insieme l’essenza dei personaggi e l’occhio degli spettatori. Essi portano ad una trasfigurazione degli attori e ed evocano suggestioni profonde. I profughi, sempre in movimento, non sono in realtà liberi di costruirsi il percorso della propria vita. Le lingue parlate dai personaggi non sono un elemento di realismo, ma anch’esse sono una parte di questa maschera: nella loro presenza caotica sul palcoscenico e nel loro divenire scrittura francese sono l’emblema dell’incomunicabilità, della differenza, che il teatro può trasformare in un’effimera ma preziosa occasione di incontro e comprensione, facendo risuonare queste parole nel suo ventre ed trasformandole in scie di scrittura luminosa. In Dumb Type la visione digitalizzata del mondo diventa la maschera degli attori, che si muovono in quest’universo ove tutto è mediato dall’artificiale. Lo schermo e il palco, il gioco di riflessioni e di doppi percettivi, acquistano il loro senso nel momento in cui sono agiti dagli attori e condivisi dagli spettatori. Questi spettacoli hanno quindi creato delle maschere contemporanee che abitano la scena e invadono la sala, coinvolgendo gli spettatori in una partecipazione profonda, individuale e collettiva, agli eventi e alle lacerazione del mondo contemporaneo.

DUMB TYPE – VOYAGE

I nuovi formati del teatro mediale
17

Pubblicato su Interactive-performance.it

Nuove frontiere per il teatro si aprono grazie alle caratteristiche di immersione, integrazione,ipermedialità, interattività, narratività non lineare propri del sistema digitale: dall’evoluzione nel web delle performance alla creazione di ambienti interattivi, all’elaborazione di una nuova scrittura e drammaturgia multimediale. I nuovi media di oggi non equivalgono ai nuovi media di ieri per le caratteristiche tecniche innovative, per i meccanismi sociali che innescano e per l’impatto comunicativo che determinano, ma di una comunicazione di nuova generazione, ramificata, orientata all’immediatezza, all’interattività, allo scambio, alla creazione di reti di relazioni, proiettata cioè, al network.

Emerge una nozione di scena aumentata (enhanced theatre è la definizione di teatro digitale data da Dan Zellner) che ha a che fare con il trattamento/processamento in tempo reale di informazioni multimediali, con il coinvolgimento sensoriale del pubblico e con la mediazione tra performer e computer. Una scena aumentata negli effetti e animazioni tridimensionali, nelle immagini in movimento, nella scena interattiva e in quella virtuale che sostituisce quella reale, negli attori sintetici che recitano in una live action insieme ai loro doppi in carne ed ossa, nella percezione del pubblico sollecitato a una visione multipla, a una compresenza di punti di vista.

124continuous2          caden

 

Uno stile ambivalente e mimetico per il teatro tecnologico: Dumb Type e Masbedo.

Teatro e digitale, per usare una terminologia cara a Marshall McLuhan, si stanno ibridando, anzi forse oggi siamo già alla seconda generazione tecnologica che sta dando vita a quello che si può definire, prendendo a prestito un termine dalla biologia, un teatro-chimera, un teatro dal doppio codice genetico caretterizzato da un libero nomadismo e mimetismo dei linguaggi.

Le immagini in movimento, le animazioni, i sistemi interattivi, i programmi informatici per una gestione live del materiale audiovisuale sono stati già da tempo assorbiti nella materia teatrale inaugurando un nuovo genere al confine con le altre arti (installazioni, concerti, film, opere video). L’ibridazione, ovvero per usare l’esatta definizione mcluhiana, ‟l’interpenetrazione di un medium nell’altro” in questa generalizzata computerizzazione della cultura, produce una fenomenologia artistica mutante derivante dal web, dal fumetto, dal videoclip, dalla videoarte, dal vjing, dalla motion graphics, al passo con le tecnologie digitali, altrettanto metamorfiche e “mimetiche”.

L’arte digitale è arte dell’ibridazione” afferma Edmond Couchot, una elaborazione interna alla scrittura, alla composizione, alla visione, alla forma della creazione d’arte di cui sarebbe responsabile proprio la natura “mutevole” dell’oggetto artistico multimedializzato. Le cross-ibridazioni tra sistemi di informazione, scritture, dispositivi di visione e di ascolto, complice il comune codice digitale, sono potenzialmente infinite: dai radiodrammi alle video performance, dalle installazioni performative, ai live set fino alla drammaturgia ipertestuale e on line in un’evoluzione continua e in una serie pressoché infinita di possibilità trasformative. Il testo, o meglio l’ipertesto drammaturgico, il progetto scenico, la partitura sonora-musicale, l’installazione, il video, il software, lo spettacolo, non appartengono più a generi diversi ma divengono fasi di un processo aperto, tassello di un mosaico spaziale e temporale mutante, flessibile e comunicativamente forte (A. Balzola).

Se Rosalind Krauss proponeva in Art in the age of the post modern condition (2005) di tracciare una riga definitiva per eliminare la parola medium “così da seppellirla come tanti altri rifiuti tossici della critica e procedere nel mondo della libertà lessicale”, Zygmunt Bauman in Modernità e ambivalenza (2010) individua nel concetto di “ambivalenza” che romperebbe la pratica del modello strutturale normativo, dell’ordine classificatorio delle categorie estetiche, uno dei temi chiave del postmoderno:

La situazione si fa ambivalente se gli strumenti di strutturazione linguistica si rivelano inadeguati: o il caso in questione non appartiene a nessuna delle categorie individuate dalla linguistica, oppure si colloca in più classi contemporaneamente. In una situazione ambivalente nessuno dei modelli appresi è quello giusto ovvero se ne potrebbe applicare più di uno (…) L’ideale che la funzione nominatrice/classificatrice si sforza di raggiungere è una sorta di ampio archivio che contenga tutte le cartelle che contengono tutti gli oggetti che il mondo contiene: ogni cartella e ogni oggetto sono però confinati in un loro posto distinto. E’ l’impossibilità di realizzare un simile archivio che rende inevitabile l’ambivalenza (…) Classificare consiste negli atti di includere e escludere. Ogni volta che diamo un nome a qualcosa, dividiamo il mondo in due: da un lato le entità che rispondono a quel nome; dall’altro tutte quelle che non lo fanno (…) L’ambivalenza è un effetto collaterale del lavoro di classificazione (…) Quella all’ambivalenza è una guerra suicida.5

 Ambivalenza delle tecnologie in atto quale potenzialità di scambio: Dumb Type, Motus, Masbedosono emblematici di questa “tendenza ambivalente” del teatro. Privilegiano infatti, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno-artistico affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo e derivante indistintamente dal videoclip, dalle installazioni, dai concerti, dal vjing, dalla graphic art, fino al cinema di animazione e persino alla videogame art.

dumb

Nelle performance dei giapponesi Dumb Type la partecipazione dello spettatore è di natura immersiva, ricca cioè, di stimolazioni sensoriali multiple (dalle sub frequenze al noise, dalle immagini distorte, velocizzate ai video multipli), come se fosse un’installazione audiovisiva sperimentale.

Il video Glima di Masbedo, nato dall’esposizione di una proposizione base, sviluppata dagli attori senza indicazioni registiche dettagliate, come una performance corporea di enorme fisicità e di grande impatto, si è incarnato prima in un’installazione monocanale, poi in uno spettacolo vero e proprio con attori che interagivano in una scena video live con doppia proiezione. Da un formato video di breve durata si genera, stretchandosi, lo spettacolo. Un uomo e una donna lottano legati da vincoli di lacci in pelle come un’appendice organica che rimanda a un rito di possessioni sadomasochistiche e afflizioni autoindotte; intorno a loro una terra vulcanica, un paesaggio video-esistenziale: l’Islanda con la sua particolare orogenesi, con la sua attività vulcanica e la presenza della dorsale media-atlantica il cui processo tettonico sta spezzandola in due tronconi alla velocità di due centimetri l’anno, va a definire coordinate geoestetiche potentissime. Questi paesaggi fisici raccontano simbolicamente la distanza tra uomo e donna, ma anche il desiderio di riscatto, il disperato tentativo di opporsi a una deriva di rapporti umani e sociali basati su banalità e prevaricazione.
mas

Il paesaggio non è estraneo, entra nella violenza perpetrata nei corpi dove alternativamente uno diventa carnefice e l’altro vittima; in questo rituale della coercizione sotto cui si può leggere la generale volontà a non integrarsi, a non piegarsi e a non sottomettersi alle regole del mondo e la generale riluttanza ad obbedire all’ordine sociale, i protagonisti hanno abbandonato la civiltà ma non la disponibilità a combattere magari in nome di un’ipotetica causa comune che presuppone l’unirsi degli uomini in una catena umana a difesa del proprio patrimonio di valori. La performance con due schermi e una pedana ad altezza del pubblico proposta al Festival DRO e a ROMAEUROPA (2010), ripropone l’identica performance ma il paesaggio reale dove agivano i personaggi nel video, in teatro viene evocato dall’elettronica7.

 Motus sperimenta da sempre la contemporaneità di teatro-cinema in scena (da Twin rooms a X-racconti crudeli della giovinezza) e introduce anche la grafica animata (Rumore rosa); gli statunitensi Big Art Groupcon il ciclo di spettacoli definito “real time film”(Flicker, House of no more) ricreano un vero set cinematografico (usando un green screen) con la messa in mostra degli effetti da truquage. Approda a teatro una “composizione digitale” che unisce in una continuità senza cesura, televisione, cinema e teatro secondo una nuova estetica – seguendo Lev Manovich – “anti-montaggio” ovvero, “una creazione di spazi contigui in cui interagiscono diversi elementi (…)Nella composizione digitale gli elementi non sono più contrapposti ma miscelati; i loro confini vengono cancellati più che enfatizzati”.

Come Amleti irrequieti, vaganti nel vuoto pneumatico di una condizione tragica, evocata nella sua abissalità da una camera iperbarica o da interminabili silenzi, i protagonisti vivono distillandosi l’ossigeno per una rinascita, o almeno, per una via di fuga.

A 2930

La loro è un’arte intermediale in cui la musica il cinema, il video e la performance sono sempre strettamente collegati. Il riferimento principe per Masbedo è il territorio multidisciplinare dell’arte video della metà degli anni Sessanta, fecondo terreno per sperimentazioni di incroci, attraversamenti e transizioni. In quel contesto di effervescenza creativa e sperimentale, il medium video ha vissuto in perfetta promiscuità con le altre arti con le quali si è intrecciato, mescolato, confrontato. Citando le pionieristiche esperienze video performative di Nam June Paik, ma anche quelle successive di Laurie Anderson, Peter Gabriel e Metamkine, Masbedo allestiscono le loro performance a partire da originarie videocreazioni per poi arricchirle ed espanderle –alterandole radicalmente- con una componente musicale live (Schegge d’incanto in fondo al dubbio, Glima). Schegge d’incanto in fondo al dubbio di MASBEDO è nata come videoinstallazione per due schermi sincronizzati per la Biennale di Venezia (2009) ed è diventata una performance di live video con musica suonata sul palco da Lagash dei Marlene Kuntz.

La donna, novella Antigone, opponendosi all’omologazione del mondo, alla vita umiliata, compie un gesto impetuoso e solenne di ribellione: trascina nell’acqua a fatica, oggetti che rappresentano la vita vissuta e il quotidiano; infine, si immobilizza come statua, su un piedistallo in mezzo al mare, con gesti ricchi di pathos evocando miti tragici e archetipi del femminile che raccontano come la vita umana, pur nelle difficoltà e nel dolore, lasci dietro di sé schegge di bellezza. La donna mostra una maschera tragica del dolore, un urlo muto che porta con sé tutto il lamento dell’esistere. Il video trasmette proprio quel senso profondo e necessario di purificazione e metamorfosi dell’essere e quel bisogno di rivelazione da cui nasce la tragedia attica antica e che ci è stato trasmesso dalle pitture vascolari greche e dai frammenti orfici: “desistere dal ciclo prendere fiato dalle miserie”(frammento da Proclo cit. da G. Colli, La sapienza greca).