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Remedi-Action, il videoteatro torna alla ribalta nel volume di Jennifer Malvezzi
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Mi rendo conto che una mia recensione di un libro in cui io compaio come citazione nella prima pagina dell’editore Postmedia rischia di non essere credibile. Ma non ci sono dubbi sul fatto che questo libro Remedi-Action. Dieci anni di videoteatro italiano scritto dalla giovane e ben documentata Jennifer Malvezzi, borsista di ricerca all’Università di Parma, sia un ottimo strumento di studio e di ricerca per chiunque voglia ancora addentrarsi in quel “paesaggio elettronico” che componeva la gloriosa arte teatrale degli anni Ottanta. Insomma un libro da consigliare a studenti e docenti e a tutti coloro che vogliono conoscere quel teatro italiano che ha avuto una brillante stagione di sperimentazione e in cui la tecnologia era uno dei linguaggi chiave da sperimentare in una generale e generazionale euforia di contaminazione.

Il mio ragionamento sulla “bontà” di questo libro si basa sul fatto che chiunque abbia scritto su questo argomento ovvero il videoteatro, a meno di non averlo vissuto personalmente come spettatore, ha sempre fatto riferimento sostanzialmente, al libro di Andrea Balzola (La nuova ricerca elettronica), a quelli di Valentina Valentini (Teatro in immagine, Camera astratta), a Bruno di Marino (il catalogo Elettroshock) e (of course) agli scritti sparsi di Carlo Infante. Sembrava non ci fosse più nulla da dire sul fenomeno, visto anche che quegli anni erano stati letti nelle recensioni straordinarie (e analiticissime) di critici come Beppe Bartolucci e Franco Quadri.

Quello che ha forse confuso la critica (me compresa) e molti di coloro che hanno tentato di fare una storiografia di  questo fenomeno già tramontato alla fine del decennio Ottanta e consegnato alla memoria e alla fortuna (nel senso latino del termine…), sono proprio questi validissimi scritti di studiosi e teorici tra il 1990 e il 1995 che hanno avuto  sicuramente il merito di portare alla ribalta un fenomeno artistico italiano degno attenzione ma che limitavano (per ragioni editoriali o di scelte personali) la ricerca a un ambito circoscritto di autori e opere.

Evidentemente molto rimaneva ancora da raccontare, e non certo tra i minori: il lavoro pionieristico di Michele Sambin, per esempio, performer video solitario e in seguito col Tam Teatromusica, è stato ingiustamente emarginato o solo parzialmente studiato, per poi essere riscoperto successivamente grazie al Festival Invideo che digitalizzò nel 2004 l’intero archivio di Sambin.pm143dpi300

Non a caso la copertina del libro della Malvezzi è una foto di scena del Tam Teatromusica che anticipa al lettore in qualche modo che il contenuto va nella direzione di una “riscoperta” di un sommerso di qualità.

In sostanza, la visione del videoteatro italiano anche nel percorso di studio di generazioni di studenti, si è sempre limitata ad alcuni esempi-faro (Camera astratta di Studio azzurro e Giorgio Barberio Corsetti/Gaia scienza; Crollo nervoso dei Magazzini; Tango Glaciale di Falso Movimento, Eneide di Krypton). Questo libro ha il pregio di raccontare un videoteatro diverso, certo anche con quegli esempi famosi e con quei protagonisti indiscussi della scena su cui forse era stato già detto quasi tutto, ma attingendo a un universo più ampio, che si apre al videoclip per esempio e alla cultura pop a cui molti autori si richiamavano. E così ecco spuntare le coppie Taroni/Cividin, Dal Bosco/Varesco ecco riemergere Antonio Syxty e le esperienze pionieristiche di distribuzione come Tape connection dell’attivissima Maia Borelli o Soft video (vedi ampia sezione di interviste ai protagonisti).

Il capitolo dedicato ai Magazzini di Tiezzi riporta alla luce, come da archeologia del postmodern, lavori sperimentali del gruppo e materiali inediti frutto di un’accurata ricerca d’archivio come si faceva una volta. Così la distanza cronologica dal fenomeno (per ragioni diciamo generazionali) in realtà, permette all’autrice di inquadrare il fenomeno nella giusta prospettiva critica attuale. La Malvezzi rielabora sulla base di molti testi pubblicati in questi anni sulla videoarte e sul teatro digitale, il videoteatro storico rintracciandone il valore non solo nella memoria ma nella “remediation” come occhieggia il titolo, ovvero ciò che un linguaggio esercita e elabora per riadattarsi a un nuovo ambiente (nel caso specifico al digitale). Quale sarà il volto del videoteatro attuale trasformato? Un discorso che apre scenari importanti considerata l’ampia produzione di performance tecnologiche contemporanee, ormai dimentiche di pionieri e affini.

Ma come non riconsiderare, per esempio, le scene prospettiche fatte di luce e diapositive di Ritorno ad Alphaville e in generale i lavori di Martone come le fondamenta dell’ampia (e spesso poco creativa) produzione di scenografia in videomapping?

Ritorno ad Alphaville, Martone. Foto di Cesare Accetta.
Ritorno ad Alphaville, Martone. Foto di Cesare Accetta.

Ci limitiamo a sottolineare che ben pochi lavori teatrali allo stato attuale delle tecnologie hanno avuto l’impatto e la forza eversiva di Camera astratta che a dirla tutta, fu presentato a Kassel (chissà che ne avrebbe detto Vila-Matas); ed oggi mostrare le testimonianze video a studenti d’accademia e persino a convegni internazionali (come quest’anno alla Sorbonne Nouvelle dove Vincenzo Sansone in un commosso omaggio a Paolo Rosa, ha presentato attività videteatrale di Studio azzurro) ha ancora un impatto tale che sembra giustificare l’affermazione di Rosalind Krauss: Reinventare un medium.

Ottime le schede finali (tratte da video opere ispirate agli spettacoli) che sintetizzano anche a vantaggio della nuova didattica, artisti e tendenze e dove forse, una scheda sul lavoro di Giacomo Verde ci stava bene. Un libro veloce dove come nella valigetta di Duchamp, ci sta dentro tutto. Anche le nostre memorie.

VERSO UNA NUOVA SCRITTURA SCENICA. Dagli atti del convegno CREATION NUMERIQUE, LES NOUVELLES ECRITURES SCENIQUES 2003 | 2004
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Le théâtre dans la sphère du numérique.

 VERSO UNA NUOVA SCRITTURA SCENICA (Anna-Maria Monteverdi)

Il panorama del teatro di ricerca italiano che si è arricchito della presenza dei media in scena come è stato rilevato da più critici e storici del teatro e studiosi di nuovi media da Brunella Eruli a Anna Maria Sapienza a Andrea Balzola ha un grande debito nei confronti del Teatro-immagine degli anni Settanta (tra i protagonisti Carlo Quartucci, Memé Perlini, Mario Ricci, Leo De Berardinis) alla cui definizione contribuiscono alcune esperienze a metà tra il teatro e le arti visive ed eventi videoperformativi. Teorizzatore di questa tendenza è stato Giuseppe Bartolucci, uno dei critici militanti che ha portato contributi notevoli alla diffusione e alla promozione del teatro di ricerca italiano come organizzatore di alcune delle rassegne che hanno prodotti i “manifesti” e sancito i principi del Nuovo teatro. Questa prevalenza dell’immagine sulla parola sarà riconosciuta ufficialmente in Italia alla rassegna di Salerno Incontro/Nuove tendenze (1973). I differenti metodi di composizione e di espressione sperimentati, nel comune rifiuto del testo drammatico, propongono l’elaborazione di una scrittura scenica innovatrice che privilegiasse, come ricordava Bartolucci, i tre elementi di: spazio, immagine, movimento temi che ci riconduncono anche ai padri fondatori della regia, la cinetica scenica di Craig, lo spazio-immagine di Appia.

Il teatro della post-avanguardia (inaugurato ufficialmente dal convegno di Salerno del 1976) accentuerà ulteriormente le caratteristiche antinarrative e visive, visionarie e oniriche inaugurate dal teatro-immagine: ne sono protagonisti la Gaia scienza di Giorgio Barberio Corsetti e il Carrozzone (primo nucle dei Magazzini Criminali, oggi solo Magazzini) e in seguito Falso movimento di Mario Martone (1977 col nome di Nobili di Rosa), Krypton di Giancarlo Cauteruccio quest’ultimi insieme con il Tam teatromusica di Michele Sambin e Pierangela Allegro creeranno le premesse per il fenomeno del cosiddetto media-teatro o videoteatro ancora una volta inaugurato con una rassegna a Roma dal titolo Nuova Spettacolarità nel 1981.

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Il videoteatro è un termine che è andato genericamente a definire sia la produzione videografica di ispirazione teatrale legata a uno spettacolo -quella che Valentina Valentini definisce una videodrammaturgia residua– sia creazioni completamente autonome (videodocumentazioni, biografie videoartistiche, produzioni di teatro televisivo pensiamo alle sperimentazioni televisive di Ronconi, Carmelo Bene e Martone); ma videoteatro è sopratutto, performance tecnologiche o spettacoli teatrali che utilizzano l’elettronica in scena. In queste produzioni entra con chiara contaminazione l’esperienza contemporanea della metropoli, l’universo cinematografico, i fumetti, la musica rock, e le tecnologie elettroniche. In Martone l’uso di macchine elettroniche è senz’altro più limitato ma l’attenzione è volta all’assimilazione del linguaggio e dell’espressività tecnologica che va al di là degli strumenti usati. Corsetti protagonista assoluto di questa stagione videoteatrale introduce una struttura complessa di dialogo tra corpo e ambiente, luce e spazio, immagine video e presenza attoriale in tre spettacoli di cui ricordiamo La camera astratta. Camera astratta (1987) di Corsetti con Studio azzurro presentato a Dokumenta kassel e poi vincitore del premio Ubu massimo riconoscimento per il teatro di ricerca. Paolo Rosa parla di un percorso del gruppo video Studio azzurro verso il teatro, di una espansione in senso teatrale delle videoinstallazioni; teatro “latente presente in embrione come ambito in cui sconfinare”; in Camera astratta si mette in scena il “carattere bicefalo del video” come ricordava Philpe Dubois, “dispositivo e immagine-processo”: c’è una doppia scena, una materiale e una immateriale, una visibile e una invisibile, un set e un retroset dove gli attori vengono ripresi e la loro immagini riproposte in diretta nella parte frontale del palco. I monitor in scena che scorrono su binari o appesi in aria e in una complessa articolazione di movimenti, incorporano e scompongono il corpo dell’attore. Corsetti parla della presenza elettronica che “rafforza le potenzialità dell’azione teatrale”. La presenza del monitor agisce come elemento linguistico e drammaturgico nuovo in un contesto teatrale.

Giacomo Verde. www.verdegiac.org E’ videomaker, tecnoartista, mediattivista legato alla sperimentazione delle tecnologie povere con le quali mostra nelle installazioni e a teatro come la creatività non dipenda da un forte dispiegamento di mezzi. Le sue oper’azioni sono da sempre una critica al “consenso mediatico” e variazioni sul tema della necessità di un uso politico delle immagini e di una riappropriazione-socializzazione dei saperi tecnologici. A teatro l’accento è posto sul live, sulla performatività dei media per comprendere questa realtà tecnologicamente aumentata, come scrive in un suo bel testo: “Per un teatro tecno.logico vivente. Verde parla di una tecnonarrazione che rivitalizzi l’antica arte della narrazione orale con i nuovi strumenti comunicativi e che faccia sentire lo spettatore necessario alla rappresentazione; la tecnologia deve essere un mezzo che amplifica il contatto, il tempo reale e non una gabbia che detta regole e ritmi preregistrati e immutabili”. Verde è attore-narratore autore di videocreazioni teatrali, e di videofondali live e/o interattivi progettati per performance, reading poetici, concerti. Il teleracconto, ideato nel 1989 e inaugurato con Hansel e Gretel (H & G Tv), coniuga narrazione teatrale realizzata con piccoli oggetti e macroripresa in diretta. Una telecamera inquadra in macro alcuni oggetti collocati vicinissimo alla telecamera; questi, attraverso la riproduzione televisiva e soprattutto attraverso la trama del racconto orale associata alla disponibilità immaginativa del pubblico si trasfigurano fino a diventare quello che la storia ha necessità di raccontare.

Il perfomer è narratore che manipola oggetti e le immagini di questi oggetti ripresi in diretta, gioca sullo spiazzamento percettivo.Coi Teleracconti Verde ci mostra come è facile attraverso una telecamera “far credere che le cose sono diverse da quelle che sono”, in altre parole, che le immagini trasmesse dalla televisione non sono quelle della realtà ma quelle di chi vuole fissare per noi un punto di vista sul mondo. Si può considerare una continuazione o prolungamento del teleracconto OVMM acronimo da Ovidio metamorfoseon, dalle metamorfosi di Ovidio. L’attore Marco Sodini racconta con parole con azioni e coreografie i miti di trasformazione. Sullo sfondo, immagnini create in dretta da Verde. Verde presente e visibile in scena mette in atto un doppio dispositivo di ripresa, la webcam che riprende lo spazio con l’attore e la videoproiezioni, e la videocamera che riprende sullo schermo del computer le immagini della webcam sulle quali vengono sovrapposti piccoli oggetti, materiali e riflessi. Le immagini sono tutte in tempo reale e seguono il ritmo della scena, si moltiplicano attraverso l’azione dell’attore. Anche la musica e i suoni rispondono al principio del live, suoni campionati che sono un tappeto sonoro continuo vengono trasformati in diretta con variazioni di intensità, sovrapposizioni ed echi della voce del protagonista. Nella primavera del 1998 Giacomo Verde e il drammaturgo e critico Andrea Balzola pongono per la prima volta mano ad un progetto di narrazione teatrale con uso di tecnologia interattiva ispirandosi, per la stesura dei testi, alla forma e al significato del Mandala, guida della meditazione e simbolo della trasformazione spirituale dell’individuo. E’ Storie mandaliche di Giacomo Verde e Zonegemma. La scelta della tecnologia va inizialmente al sistema Mandala System per Amiga, e contestualmente si pongono le premesse per la scelta dell’iconografia e il primo abbozzo di un testo che viene concepito con caratteristiche ipertestuali, ovvero connessioni, incastri, corrispondenze tra i personaggi e i luoghi. Balzola li definisce “iperracconti”. Sono sette storie di trasformazioni nei diversi regni: umano, minerale, vegetale, animale e divino, ovvero sette storie di personaggi “linkate” tra loro a formare una rete e un labirinto: il bambino-uomo, il mandorlo, la principessa nera, il corvo, il cane bianco, la pietra del parco, l’ermafrodita. Ogni storia e ogni personaggio è associato a un colore, ad un elemento e ad un punto cardinale. La struttura del mandala è concentrica: ha quattro porte che corrispondono ai punti cardinali. Le storie portano sempre al centro: il mandala è la determinazione di un percorso che conduce all’illuminazione attraverso un rito di orientamento. Nel Mandala System è possibile fondere insieme sfondi, ambienti bidimensionali con oggetti tridimensionali attraverso la videocamera: la videocamera riprende in diretta il corpo o la mano del narratore che viene digitalizzata in tempo reale e la sagoma della figura ripresa, appare sovrapposta alle immagini e agli oggetti generati, invece, dal computer. Lo spettacolo ha attraversato diverse fasi ed è appena terminata una sua ulteriore metamorfosi con le animazioni in flash MX (programma per animazioni audiovisive 2 d usato in Internet) delle immagini che sostituiscono il Mandala system per un’ipotesi anche di futura fruizione Web. Il cyber contastorie (la definizione è di Giacomo Verde, che ci tiene a definire il narratore sulla base dell’immagine del tradizionale raccontastorie) anziché la tela disegnata, ha davanti a lui immagini in videoproiezione che lui stesso può trasformare seguendo il ritmo in tempo reale del suo racconto.

Motus. www.motusonline.it

Motus è uno dei gruppi di punta della cosiddetta generazione Novanta, o terza ondata, fenomeno esploso agli inizi degli anni Novanta che ha come epicentro la Romagna; è lì che si crea un terreno favorevole e le premesse per una nuova ricerca teatrale da parte di giovanissimi romagnoli grazie anche alla presenza del Teatro delle Albe e della Socìetas Raffaello Sanzio; gruppi che, date le caratteristiche simili, formali e contenutistiche, vengono accorpati insieme dalla critica a farne una etichetta un movimento, che contraddistingueva una nuova tendenza del teatro. I nuovi gruppi teatrali dopo essere stati per lungo tempo invisibili (questo era anche il nome di una rassegna che li proponeva a San Benedetto del Tronto) nati e cresciuti nella semiclandestinità, nelle pieghe e nell’ombra della cultura ufficiale, in spazi underground, in circuiti alternativi, extrateatrali decentrati in Romagna in centri sociali o spazi occupati (Link a Bologna, Interzona Verona) ottengono una loro visibilità di pubblico grazie al Festival Crisalide, Opera prima di Rovigo e Teatri 90: Motus, Fanny e Alexander, Teatrino clandestino, Masque teatro Teatro degli Artefatti Nuovo complesso camerata. Teatro dai forti connotati visivi, legato a un vero culto dell’immagine caratterizzato anche dall’eccesso di visione, una visione mediatizzata, televisione, video, cinema (Cronenberg), pittura e fotografia (da Warhol a Muybridge), pubblicità e che scopre ispirazione e tematiche e spazi di rappresentazione dall’ambito urbano metropolitano (dai metrò alle discoteche alle camere d’hotel); ossessiva indagine sulle tematiche del corpo (postorganico, cyber, corpo fagocitato nell’intero meccanismo tecnologico; corpo mostrato, violato, nei suoi aspetti estremi di violenza e di sesso); attenzione verso i meccanismi di visione del corpo stesso: esposto a obiettivi fotografici, e video, costretto dentro teche trasparenti. Il tema del teatro come sguardo, della ricerca di particolari dispositivi di visione è una delle costanti del giovane gruppo riminese fondato nel 1990 da Enrico Casagrande e Daniela Niccolo. Il loro teatro attraversa da sempre i territori più svariati della visione: cinema, video, architettura, fotografia. Sguardo catturato in scena da una fotocamera in Catrame tratto da Ballard e che guarda a Crash di Cronenberg; corpo dell’attore rinchiuso in teche di plexiglass e costretto in una struttura circolare in movimento in Orlando furioso, trasgressivo spettacolo che li ha imposti all’attenzione del pubblico. La caratteristica del loro teatro è che lo spettacolo nasce dapprima come installazione, come scultura scenica perché protagonista è il luogo come dispositivo scenico che si impone con le sue grandi proporzioni nello spazio dell’archittettura del teatro.

Twin Rooms , Motus
Twin Rooms , Motus

Motus : da Vacancy room a Twin rooms.

Twin room è costruito intorno ad una struttura “abitabile”. Una camera d’albergo: bagno e camera da letto contigui e comunicanti percorsi a vista dagli attori in coppia, a gruppi o singoli; quasi una sensazione di immobilità di azione in questa rigida delimitazione dello spazio, e di uscita dal tempo. E’ il luogo stesso a suggerire questa dimensione astratta: la camera d’albergo è un (non) luogo intimissimo e anonimo insieme La struttura è quadro che isola e insonorizza dal mondo. E’ anche la scatola ottica davanti alla quale poter esercitare, la propria (voc)azione voyeuristica (in quanto spettatori). Lo svolgimento dello spettacolo rivela molte affinità con il procedimento filmico. Il soggetto stesso è un vero e proprio topos a lungo esplorato e rivisitato dalla cinematografia e da un certo film di genere. Il progetto teatrale è terminato con la creazione di un ulteriore dispositivo di sguardi: una struttura modulare che raddoppia la stanza: una digital room che duplica i personaggi: le immagini proiettate provenienti da telecamere in mano agli attori e da microcamere fisse contribuiscono a dare l’impressione di assistere ad un “doppio film” .Le immagini preesistenti vengono mixate live con quelle girate in diretta. La regia teatrale diventa regia di montaggio. Twin room è ispirato a DeLillo (Rumore bianco) ha avuto una prima visione in forma installattiva al Museo Pecci di Prato; in scena un “contenitore” d’ambienti: camera d’albergo e bagno che si impone quale macchina dello sguardo e simbolo di una esasperata ricerca di uno spazio interiore; un luogo riempito di oggetti, parole, suoni e immagini evocati dal cinema e dalla letteratura.Il ruolo del video in Twin rooms: moltiplicatore di sguardi, introspettivo, narcisistico, mnesico. Video come una finestra sull’io. Per certi aspetti il video esaspera operazioni come The merchant of Venice di Peter Sellars. Un eccesso di visibilità e anche un incrudelimento e una morbosità dell’occhio della telecamera che si sofferma sui corpi. E questo è in De Lillo, interessato a quello che il consumo cannibalico delle immagini potrebbe dirci sull’inconscio collettivo politico e culturale. I personaggi di De Lillo parlano sullo sfondo di immagini televisive di morte e disastri, da Piazza Tienanmen, alla tragedia allo stadio di Hillsborough. In De Lillo i personaggi passeggiano tra i grandi magazzini e si vedono ripresi dalle telecamere, i loro volti andare in diretta in televisione. Le tecnologie negli spazi urbani ci coinvolgono , nelle strade, nelle banche, vediamo immagini di noi stessi ovunque. La sorveglianza non viene soltanto assunta da istituzioni pubbliche e ufficiali, sta assumendo caratteristiche individuali e familiari. Scrive in un romanzo De Lillo: “La gente agisce in terza persona, si trasforma via via nella propria succursale di spionaggio, nella propria compagnia televisiva, nella propria stazione televisiva. Filma le percosse della polizia, i maltrattamenti delle baby sitter ai bambini che custodiscono”. C’è una video vigilanza diffusa. La città viene a costituire un mosaico di microvisioni e microvisibilità. Il video in scena quindi integra il procedimento del romanzo: lo shock dell’immediatezza, il senso di alienazione e di perdita di identità nel flusso della rappresentazione del sé: “Una sera camminavano accanto a un grande mafazzino,andavano a zonzo. E Marina guardando verso un televisore in vetrina vide la cosa più sorprendente, una cosa talmente strana che dovette fermarsi a fissarla, afferrandosi saldamente a Lee. Era il mondo che andava dal di dentro verso il di fuori. Stavano a bocca aperta a fissare se stessi dallo schermo tv. Era in televisione!” (Don DeLillo).