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Marcel.lì Antunez Roca: Systematurgy Exhibition at Arts Santa Mònica
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On the 4th of February we are opening up the exhibition Systematurgy. Actions, Devices and Drawings at Arts Santa Mònica. It is a retrospective exhibition focused on the most relevant element in my career, the interactive performance and my method of creation: the Systematurgy.

This exhibition includes a selection of drawings, the most important strategy used in the creation process, a collection of devices such as dreskeletons and robots, all of them unique prototypes, and some installations, from JoAn, l’home de carn(1994) to the recent ones Metamembrana (2009) or Insultador (2014), especially created for this exhibition.

There will be also complementary activities, especially live actions. Every Friday I will present one of my performances:Epizoo, Afàsia, Protomebrana, Hipermembrana and PSEUDO and other activities with the participation of some special guests who have collaborated with me along these years.

 

Schedule Activities:

-Tuesday, 4th of February, 7pm. Exhibition opening.

-Friday, 14th of February, 7pm. Inaguration of Mural SADDi.

-Friday, 21st of February, 8pm.  Performance PSEUDO (2012). Cloister.

-Tuesday, 25th of February, 7pm. La Fura Preolímpica. Cloister. Projection of Ulele (1987) + debate with Marcel·lí Antúnez Roca, Carlus Padrissa, Pere Tantinyà, Roland Olbeter and Quico Palomar.

-Tuesday, 4th of March, 7pm. L’esperit dels 90. Cloister. Projection of Rinolàcxia (1991), Retrats (1993), Frontón el hombre Navarro va a la Luna (1993); and the documentary Satèl·lits Obscens (1996/7) + Debate with Marcel·lí Antúnez Roca, Josep Miquel Aixalà, Pau Nubiola, Sol Picó, Joan Simó and Sergi Caballero.

-Friday, 7th of March, 8pm. Poethic concert Membrana with Marcel·lí Antúnez Roca, Guillamino and Núria Martínez Vernis. Cloister.

-Friday, 14th of March, 8pm. Performance Epizoo (1994). Cloister.

-Saturday, 15th of March, 10am – 2pm and 4pm – 8pm. Conference. The challenge of the bodies. Auditorium.

-Friday, 21st of March, 8pm. Performance Protomembrana (2006). Cloister.

-Sunday, 23rd of March, 12pm. Performance ProtoPseudoKIDS (2006/12). Recommended for ages 5 and over. Cloister.

-Friday, 28th of March, 8pm. Performance Hipermembrana (2007). With Les Filles Föllen, Nacho Galilea and Marcel·lí Antúnez Roca. Cloister.

-Friday, 4th of April, 8pm. Performance Afàsia (1998). Cloister.

 

Best regards,

Marcel·lí Antúnez Roca

http://www.marceliantunez.com/

https://www.facebook.com/marcelli.antunezroca

In Performance: Stream Robert Wilson’s, Philip Glass’s, and Lucinda Child’s Einstein On The Beach
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by
Contemporary Performance

If you missed Einstein on The Beach on its three year world tour, you now have the chance to stream the entire production to your computer, phone, tablet, and TV.

Thanks to Théâtre du Châtelet in Paris and France’s Culturebox!

So block out a good 4.5 hours and enjoy this high quality multi-cam edit with great sound.

http://contemporaryperformance.com/2014/01/27/in-performance-stream-robert-wilsons-philip-glasss-and-lucinda-childs-einstein-on-the-beach/

Quando il live media diventa acquatico: Giuseppe La Spada
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Pubblicato su www.digitalperformance.it

Il popolo della rete lo conosce già molto bene  ma anche il pubblico dei live media e dello spettacolo musicale:

Giuseppe La Spada ha infatti, firmato i visual di alcuni concerti storici che portano la firma di nomi illustri della scena musicale contemporanea: SAKAMOTO e FENNESZ; ma La Spada, classe 1974, siciliano, bellissimo, è anche fotografo, direttore creativo per marchi internazionali, illustratore, videomaker. Ha firmato un progetto di net art originalissimo MONO NO AWARE inserito in STOP ROKKASHO voluto da Sakamoto per opporsi all’impianto nucleare della città di Rokkasho. Sempre per Sakamoto ha firmato la copertina di un CD. Direttore creativo di molti brand internazionali, ha realizzato videomusicali per Luca Carboni e Marco Mengoni

Ha vinto il Webby AWARD (l’Oscar della rete) ed è attualmente l’unico italiano ad avere ottenuto questo riconoscimento internazionale. Il live video è il genere a cui si sta dedicando con straordinari risultati: il progetto di La Spada + Con_cetta A Fleur è stato presentato alla Fondazione Pomodoro di Milano; lo stesso video è diventato parte di un progetto di testo+libro+immagine+ video raccolto in un delicato volume dal packaging di gusto orientale: dalla carta ricavata da particolari alghe giapponesi ai brevissimi testi in stile aiku che accompagnano le fotografie incorniciate. Una donna velata di una veste bianca con un fiore, appare come una creatura marina mitologica; il ritmo lentissimo delle immagini accompagna questa danza sotto il mare dove l’attenzione è tutta rivolta alle piccole cose, alla pietra bianca levigata, al respiro, al silenzio. Atmosfere alla Bill Viola  fanno di questo progetto video digitale di La Spada un prezioso compagno per la musica live. Il progetto Underwater riunisce un gruppo di straordinarie fotografie sott’acqua, nel mare della sua Sicilia, che ti trasportano in una dimensione senza tempo oltre la realtà. Le figure femminili che lo abitano sono eteree, antiche, sirene e come tali sono rappresentate, come in un quadro Preraffaellita: donne dalla pelle d’alabastro in un contesto di sogno fatto di colori saturi.

mono-aware

Intervista:

1. Puoi raccontare il tuo percorso artistico e come sei approdato dalla fotografia all’arte video digitale?

 Tutto nasce con la pittura con la ricerca di nuove forme segniche, sin da bambino il computer ha fatto parte della mia quotidianità e come forma non solo di intrattenimento ma di espressione. Nel tempo le due cose di sono incontrate fino a formare un percorso indissolubile. Gli strumenti digitali sono un “dono” che ci è offerto ma rischiano di prendere spazio alle idee e alle emozioni vere, paradossalmente in un momento di grande accessibilità per me stanno diventando solo “strumenti” da usare con le pinze. Nel mio percorso vedo sempre un approccio circolare, non c’è un media propedeudico all’altro tutti si contaminano. La fotografia intesa cinematograficamente, oggi è un’approccio alla cura del minimo dettaglio compositivo ed estetico, di conseguenza è in qualunque mia espressione.

2. Come si lavora per creare il quadro visivo dei concerti: in particolare, come hai organizzato i visuals per Sakamoto e Fennesz?

Sicuramente i miei studi di comunicazione visiva e immagine coordinata mi hanno sempre aiutato nell’art direction di un’intero spettacolo. Il fatto che ci sia una continuità stilistica non è sempre una cosa scontata in questo tipo di operazioni. Io seguo molto quello che la musica “dice” cerco di decodificarla, la ascolto per ore fino a “vedere” le soluzioni nel vero senso della parola. Sakamoto mi ha sempre incitato a trovare nella musica tutte le risposte. Una volta trovato l’elemento chiave parto con una ricerca estetica e valoriale. Capire tutto di quell’argomento. Poi e un lavoro di affinare e smussare tutto, anche se spesso è il computer l’unico strumento.

3. I tuoi video sono onirici e di grande impatto, minimali ed evocativi, dove l’essere umano è tutt’uno con l’ambiente marino, con la natura: come si rapportano con una scena live e con la musica? Quali programmi usi per la modificazione in tempo reale e quale pensi sia il pubblico ideale e lo spazio ideale per eventi di questa natura?

I miei video non potrebbero vivere senza musica e di conseguenza nell’esecuzione dal vivo trovano “vita” uscendo da un computer che li ha generati per incontrare la gente. L’emozione più grande e vedere i miei lavori riflessi negli occhi delle persone. Uso modul8 e un controller. Lo spazio ideale per me sarebbe in mezzo alla natura stessa, il mio sogno un live in acqua.

4. I tuoi lavori si traducono in formati diversi e approdano anche in rete o su carta in firma di libro ma con la stessa filosofia dell’immagine protetta all’interno di un mondo che deve essere sempre più ecosistenibile. C’e un messaggio anche ambientale oltre che estetico dietro i tuoi lavori?

Ho sempre pensato che la ricerca non possa essere svincolata dal fare i conti col mondo in cui si vive. Bisogna essere vigili e difendere certi valori, osservarli e tramandarli. Per me l’impegno ecologico è una prerogativa ma anche uno stimolo. La ricerca del materiale e del processo sostenibile da più soddisfazione dei limiti che si potrebbero ipotizzare. I tempi dello spreco sono finiti, bisogna pensare che tutto si esaurisce a lungo andare, usare con parsimonia le materie è fondamentale.

5.Ci sono artisti o registi che consideri dei modelli per il tuo lavoro artistico?

Ho sempre trovato ispiratori artisti nel settore della musica, poeti scrittori forse più che artisti visuali. Amo molto Jean Luc Godard, Tarkovsky, Antonioni e il cinema orientale. Mi piace cibarmi di cose di natura diversa anche se i miei riferimenti restano abbastanza immutati.

6.quale contributo pensi posso dare il video live al teatro?

Credo che possa essere una soluzione scenografica molto semplice da un punto di vista strutturale ed economico. Se usata con un grado di interazione e nn semplicemente come quinta passiva credo possa dare profondità e completezza come elemento di un “opera totale”, amplificando e prolungando il sistema drammaturgico. Mi emoziona purtuttavia la rappresentazione analogica, spero sia sempre un contributo dosato.

Beckett secondo Maguy Marin: Umwelt. Testo di Salvo Gennuso
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Maguy Marin, francese di origine spagnola, è una danzatrice e coreografa, senza dubbio la maggior esponente della nouvelle danse francese. Dirige la Compagnie Maguy Marin che ha sede a Tolosa. Formatasi al Mudra (Bruxelles) con Maurice Béjart, Alfons Goris et Fernand Schirren, ben presto Maguy ha elaborato un percorso artistico personale che dalla danza l’ha portata a sondare nuovi territori nella creazione contemporanea, fino a divenire l’interprete maggiore della non-danza. Il suo spettacolo simbolo è May B, creazione del 1981, replicato centinaia di volte in tutto il mondo e tutt’ora in tournee. Nel 2012 è stata l’ospite principale del Festival D’Automne a Parigi, dove ha presentato ben sei sue produzione, fra nuove (Nocturnes e Faces) e repertorio (Cap au pire, Ça quand même, Cendrillion, May B). Nelle sue creazioni sono spesso evidenti tracce dell’opera di Samuel Beckett. Umwelt è una creazione del 2004 da cui è nata una nuova produzione nel 2013. Lo spettacolo è stato visto al Théatre Paul Eluard di Bezons, Paris, 7 gennaio 2014.

«Sans ici ni ailleurs où jamais n’approcheront ni n’éloigneront de rien tous les pas de la terre.» ( Samuel Beckett- Pour finir encore)

C’è una situazione di vaghezza che ti prende all’ingresso in sala: una vaghezza derivata dalla strana scenografia che ti si presenta, sul palco aperto, fatta da una serie di lamine verticali, poste sul fondo, sottili, larghe mezzo metro l’una circa, disposte su più file e a una certa distanza l’una dall’altra, come a formare dei separé, delle piccole quinte.  Il colore vagamente – torna la parola “vago”, mi viene da pensare che vague in francese significa “onda”, e vague è una delle parole essenziale del vocabolario beckettiano, “vague” (onda) che assomiglia a “bague” (anello) – vagamente grigio, si intuisce che la superfice, secondo come la luce vi pioverà sopra, potrà diventare uno specchio che rimanderà però una realtà “vaga”.

La scena è in realtà divisa in tre parti: nella prima, verso il fondo, queste lamine di ghiaccio, quinte fissate solo al pavimento; poi la parte centrale, vuota; quindi  la terza parte, verso il proscenio, che presenta tre chitarre, disposte a terra con il corpo a favore del pubblico e il manico rivolto al fondo.

Lo spettacolo inizia con i danzatori – ma possono ancora dirsi danzatori, se in tutto lo spettacolo ci sarà solo una breve figura di danza? – che si presentano al pubblico, lo guardano o si fanno guardare, come più vi piace. Poi scompaiono. In May B, verso oltre la metà dello spettacolo, la Marin fa entrare tutti i suoi personaggi, i personaggi di Beckett, che fermi si fanno guardare o ci guardano. Il discorso mi pare riprenda da lì, con una differenza: qui non ci sono personaggi, non c’è Hamm, non c’è Clov, non c’è Pozzo né Lucky; i danzatori, come potremmo incontrarli per strada, vengono fuori dai corridoi fra le fila delle lamine-quinte, sostano per qualche secondo, più di qualche secondo, e poi scompaiono. Da qui in poi avviene il cataclisma: intanto la negazione alla vista, come se i danzatori rifiutassero di performare il loro copione di fronte al pubblico, e perciò quasi tutto avviene di spalle, laddove non è possibile, di fianco  a guardare verso destra o sinistra del palco, e ciò che succede si può raccontate come l’esplosione di un meccanismo che mette in scena l’uomo, l’essere umano, nelle sue più banali e convenzionali forme, nell’esecuzione di un gesto comune, tutto in una solitudine di atti, solo sporadicamente interrotta, quando si cerca una relazione, più spesso una relazione fra uomo e donna, che porta in sé i segni della disperazione, un uomo che guarda il mondo e la donna che si butta al suo collo nel tentativo di farsi sorreggere, coppie che si baciano ma scompaiono subito, nella subitanea incertezza del tempo, e poi ancora uomini che sorreggono sulle spalle donne nude, come quarti di bue, cosa che in effetti avverrà pure.

I danzatori appaiono e scompaiono da queste quinte, mosse da un vento incessante, sconvolte da una musica materica che interferisce con il suono delle tre chitarre, le cui corde vengono sollecitate da una fune senza fine che si srotola da uno “gliommero” , meglio, da un mulinello posto sull’altro lato del palco.

Gli attori compiono i loro gesti semplici, radersi, alzarsi i pantaloni, si presume dopo aver defecato, fischiare un fallo in una posa da arbitro di calcio, contare soldi, asciugarsi il viso, prima in una soluzione solitaria, poi più attori contemporaneamente, che sortiscono dalle diverse fughe fra le quinte, che intanto vengono sconvolte da questo vento e dalla musica.

Di tanto in tanto uno di loro si ferma, poi sono in due, poi in tre e così via, a fermarsi di fronte al pubblico a guardarci o guardare la scena, che in effetti si illumina, e a questo punto si compie come un miracolo: la danza non è sparita, diventa un effetto indotto, vediamo le nostre “vaghe” sagome e poi il resto della scena – scena che man mano si riempie di detriti, di oggetti buttati dopo essere stati consumati, ossa, materiale di scarto, donne, bambini, parrucche – riflessa nelle quinte più prossime alla nostra vista, tutto si muove e danza, fino a che non si ritorna a questo inutile giro, che rimanda nella mia memoria a Quad di Beckett, lo penso immediatamente,   per l’insensatezza del movimento che sembra come il meccanismo di un orologio, nella sua inesausta ripetizione, e la conferma di Quad come elemento strutturato nel pensiero dell’azione mi viene quando dal fondo, fra le quinte, compaiono dei personaggi completamente avvolti in una djallaba, come prescrive Beckett; appaiono in un movimento quasi a pendolo e scompaiono.

Non c’è altro in questo spettacolo, forse non può esserci altro. Non c’è la devastante bellezza di Faces, né il dominio dell’assoluto di May B. C’è il radicalismo incondizionato di un’artista che metta in scena l’uomo, e facendo ciò reinventa costantemente l’idea dello spettacolo dal vivo. Con Umwelt siamo dalle parti del capolavoro. Lo spettacolo parla all’intelligenza dell’anima e della ragione, per questo va visto, fatto sedimentare e rivisto. Ha ancora perle da mostrarci, dopo averci ferito con la sua visione.

Immagine di copertina Timothy A.Clary/ AFP

 Umwelt, con Ulises Alvarez, Charly Aubry, Kaïs Chouibi, Estelle Clément Bealem, Laura Frigato, Daphné Koutsafti, David Mambouch, Mayalen Otondo, Ennio Sammarco
 Musiche di Denis Mariotte

Salvo Gennuso è regista teatrale, drammaturgo. Dirige la compagnia Statale 114 di Catania. Lavora per il teatro, nel sociale, si occupa di letteratura e arte.

 

Beckett tra teatro, video e installazioni
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 Un carnevale modernista, di David Saltz

Beckett Space: A Modernist Carnival, che ho diretto nel febbraio 1996 all’Università di New York, includeva performance tecnologiche e installazioni completamente automatizzate ispirate a otto brevi piéce di Samuel Beckett: Ohio ImpromptuEh JoeNot IRockabyPlayCome and GoBreath Quad. Conteneva anche un ambiente interattivo chiamato Beckett Space

La motivazione di questa strategia non convenzionale di presentazione era quadruplice. Per prima cosa Beckett Space consentiva al pubblico di avere un dialogo più intimo con il testo, leggendo e rileggendo le opere in forma di performance, più di quanto avrebbero potuto fare in un’edizione stampata; inoltre, e tornando alle diverse opere, potevano esplorare le numerose interconnessioni che c’erano tra loro.
Secondo, Beckett Space metteva in luce la struttura ciclica della maggior parte di queste opere brevi. Nel corso di una performance di due ore e mezzo di Beckett Space, ripetevamo ciascuna delle opere tra le quattro (Not I) e le 35 volte volte (Come and Go). In alcuni casi il potenziale per ripetizioni infinite era già implicito nel testo di Beckett. Not I e Play, per esempio, finiscono esattamente come cominciano e Beckett stesso aveva stabilito che Play fosse ripetuto una volta.
Terzo, Beckett Space esplora l’interazione tra live performance e tecnologia implicita nelle opere di Beckett, specialmente da Krapp’s Last Tape in poi. La tensione tra live performance e immagini è stata molto forte soprattutto nella produzione di Not I.
Un’immagine video della grandezza di 8 piedi di una bocca di donna veniva proiettata su un muro curvo in un piccolo spazio per 15 spettatori. La voce della donna amplificata veniva da un altoparlante posto sopra l’immagine. L’attrice che recitava dal vivo era nascosta, su una bassa pedana di fronte al proiettore. Il muro opposto alla proiezione conteneva un buco attraverso cui era possibile spiare: uno spettatore alla volta poteva guardare attraverso il buco per osservare la bocca vera e sentire la voce non amplificata dell’attrice che stava recitando dal vivo di fronte a una videocamera e a un microfono. La proiezione non funzionava come la registrazione di una performance realizzata in precedenza, e non solo come un artificio fine a sé stesso, ma come una prospettiva tecnologica su una azione live. Una visione attraverso un microscopio, una esternazione concreta del sé, un’incarnazione vivida di quello che Beckett descriveva come “veemente abdicazione verso la terza persona da parte di Bocca”.
Ultima motivazione, e per me più importante: volevo sottolineare che le produzioni tecnologiche diBeckett Space evidenziavano che il modo di lavorare dell’ultimo Beckett aveva trasformato radicalmente la relazione tra testo e performance, e così ridefiniva la nozione stessa di dramma (“play”).

Infatti si può osservare come la maggior parte delle ultime produzioni non siano affatto opere teatrali nel senso convenzionale. Sono algoritmi per performance. Significativamente, via via che le piéce di Beckett incrementano la loro precisione, aumentano anche le loro restrizioni. I vincoli delle direzioni di scena di Beckett, le descrizioni delle azione fisiche, le pause, le posizioni, sono spesso espressi con precisione matematica e, come in QuadWhat Where, Come and Go, and Footfalls, sono accompagnati da diagrammi schematici che ne incrementano il rigore. Quad offre il più puro esempio di algoritmo performativo. Questa pièce non contiene dialogo, solo quattro “interpreti” che si muovono lungo il perimetro e le diagonali di un quadrato. Come un pezzo musicale e diversamente da un testo convenzionale, Beckett definisce costantemente un numero limitato di variabili dentro un intervallo di durata chiaramente definito, e mantiene un silenzio assoluto su tutti gli aspetti della performance non descritti da queste variabili.
Il vocabolario delle coppie di lettere sviluppato da Beckett per descrivere i “percorsi” dei personaggi non è semplicemente in grado di descrivere qualunque movimento che esca dai sei percorsi rettilinei, o qualunque pausa nell’esecuzione di un percorso. La precisione e i vincoli di Quad ricordano quelli di una partitura musicale; e dunque codificare l’algoritmo dei movimenti della pièce in un computer è un processo lineare. In Beckett Space abbiamo dimostrato la natura algoritmica dell’opera implementando l’algoritmo di Quad con diversi programmi di gestione ambienti e strumenti multimediali.

Per esempio, in una versione, un’animazione computerizzata creata con Macromedia Director raffigurava figure incappucciate che si muovevano su una griglia che ricorda quella di una scacchiera; in un’altra i personaggi erano rappresentati da semplici quadrati colorati. Quattro monitor di computer proiettavano simultaneamente quattro diverse animazioni di Quad; i monitor erano posti in un’alta colonna di tende al centro del Beckett Space. Gli spettatori entravano attraverso le tende e osservavano una serie di led luminosi sospesi sopra la loro testa. Un colore differente di luce rappresentava ciascun giocatore e i Led riproducevano i movimenti di Quad in sincrono con le animazioni sul monitor.
In altre opere teatrali come PlayRockaby Ohio Impromptu Beckett crea algoritmi che tengono conto di un elemento di mediazione umana. Queste opere costituiscono quelli che definisco “algoritmi interattivi”.
Questi testi sono scritti in maniera convenzionale, con battute di dialogo assegnate ai personaggi e trascritte in sequenza. Tuttavia la logica che li sottende è quella di un algoritmo costituito da due elementi principali: un testo e una regola. La regola governa il modo in cui viene detto il testo, e in ciascun caso il soggetto che emette il testo è diverso da quello che applica la regola. Per esempio inRockaby la donna è seduta su una sedia a dondolo “controllata meccanicamente senza il suo intervento”. La battuta della donna, “Ancora”, funziona esattamente con un interruttore che mette in moto sia la voce sia il dondolio meccanico; di più, dal punto di vista tecnologico è molto semplice automatizzare il dondolio, il suono e le luci in modo che sia la voce dell’attore ad attivarli elettronicamente.
Il più sofisticato degli algoritmi performativi di Beckett è quello che presiede a Ohio Impromptu. In quest’opera un “Lettore” e un “Ascoltatore”, entrambi con lunga giacca nera e lunghi capelli bianchi, sono seduti uno di fronte all’altro a un tavolo, mentre il Lettore legge ad alta voce da un libro. Non appena l’Ascoltatore bussa sul tavolo, il Lettore interrompe la lettura, ritorna all’inizio della frase precedente, legge fino alla fine della frase e attende finché l’Ascoltatore non bussa una seconda volta prima di continuare. Per la produzione di Beckett Space ho cominciato girando un video del lettore che legge l’intero testo del libro, eliminando le ripetizoini del testo di Beckett, e poi ho trasferito il video su un disco laser. in modo da facilitare l’accesso causale in playback (all’epoca in cui ho realizzato Beckett Space, trasmettere un video di alta qualità e a schermo intero su un computer non era ancora così facile).
La scena consisteva di un lungo tavolo diviso da uno schermo sul quale in retroproiezione veniva proiettata un’immagine a grandezza naturale del Lettore, creando l’illusione che il Lettore fosse seduto all’estremità destra del tavolo (per gli spettatori), così come indicato nel testo di Beckett; tuttavia solo l’Ascoltatore era reale. Sul tavolo era posizionato un interruttore a pressione in grado di cogliere i colpi dell’Ascoltatore e collegato a un computer programmato per iniziare, arrestare e riavvolgere il videodisco, in base all’algoritmo di Beckett. Quando l’Ascoltatore batteva sul tavolo nei momenti giusti (cosa che l’attore aveva imparato a fare), quella messinscena semi-automatizata seguiva il testo e le didascalie di Beckett alla lettera; in particolare soddisfaceva in una maniera fino a quel momento inedita una delle sue richieste: che Ascoltatore e Lettore siano “simili il più possibile d’aspetto”. Grazie a questo legame cibernetico, Lettore e Ascoltatore finivano per “diventare una cosa sola” agli occhi del pubblico.
La produzione portava in scena una riunificazione romantica del sé frammentato, ma solo attraverso l’assorbimento del sé nel sistema cibernetico dell’opera. Il processo portato in scena era allo stesso tempo utopico e distopico. Di qui è nata la sua peculiare combinazione: una bellezza inquietante e una tenerezza segnata dal dolore del vuoto e della perdita.

(Traduzione Anna Monteverdi. Pubblicato in www.samuelbeckett.it)

 

LA WALHALLA MACHINE: LEPAGE e WAGNER
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Lepage l’inarrestabile: dal Cirque du soleil a Wagner.

Pubblicato su Interactive Performance e su Carte Sensibili e in A.M. Monteverdi, Rimediando il teatro con le ombre, con le macchine, con i new media, La Spezia, Ed. Giacché, 2012.

Un successo senza fine

Chi visita il sito ufficiale di Ex Machina, la struttura di Robert Lepage con quartier generale a Québec City, fa fatica a crederci. Il numero di allestimenti e produzioni (concerti, spettacoli di prosa e d’opera, installazioni luminose, proiezioni videoarchitettoniche, pubblicazioni fotografiche d’arte) che la R. L. inc. firma annualmente è impressionante, come impressionante è il numero di spettacoli in tournée contemporaneamente in tutto il mondo da anni, cosa assolutamente impensabile per qualunque produzione italiana.
La Face Cachée de la Lune (che ha debuttato nel 2001) è di ritorno da un tour in Grecia, Andersen Project (realizzato nel 2005) è stato negli States nel 2012, Le Dragon Bleu è ora in Canada, Eonnagata in Giappone, The Nightingale and Other Short Fables in Olanda, Lypsinch in Australia, mentre New York ha chiuso l’anno 2011 con Il crepuscolo degli dei a firma di Lepage al Metropolitan.

Nel giro di pochi anni Lepage ha firmato uno spettacolo di ispirazione shakesperiana (The Tempest), interpretato da nativi in esclusiva per una regione del Canada, il Wendake; una gigantesca proiezione videoarchitettonica sui silos del porto di Québec City per i 400 anni della fondazione della città (The Image Mill) e due scenografie per il Cirque du Soleil (compagnia internazionale di nuovo circo con base a Montréal, fondata nel 1984 da Guy Lalibertè e Daniel Gauthier). Si tratta di Totem (2010, set designer Carl Fillion) Ka (2005, spettacolo stabile al MGM Theatre di Las Vegas; set designer Mark Fischer, l’architetto che ha firmato anche i concerti dei Pink Floyd e degli U2; una scheda completa suWikipedia).

Ma la vera fatica titanica lo ha visto impegnato, a partire dal 2008, nella regia dell’intera tetralogia wagneriana per il Metropolitan di New York diretto dal maestro James Levine. Il ciclo dell’Anello dei Nibelunghi è stato inaugurato la scorsa stagione con Das Rheingold e Die Walküre, è proseguito con Siegfried  nell’ottobre 2011 e si è concluderà nel gennaio 2012 con Die Götterdämmerung; l’intero ciclo verrà riproposto al MET nella sua interezza tra il 25 aprile e il 2 maggio 2012. Ogni produzione di Lepage è un evento accolto con enorme entusiasmo dal pubblico (ma non sempre con eguale entusiasmo dalla critica), a cui seguono girandole di premi, riconoscimenti prestigiosi che a loro volta attirano nuove commissioni milionarie. Anche il MIT di Boston lo ha recentemente insignito di un premio, l’Eugene McDermott Award in the Arts.
E’ passato molto tempo dall’epoca in cui, per finanziare i suoi primi film negli anni Novanta, come ricordava in un’intervista, era irritato alla sola idea di andare a chiedere finanziamenti per i suoi progetti artistici, a un “civil servant“. Oggi sono le grandi Fondazioni, i teatri internazionali a contenderselo a suon di milioni di dollari.

L’opera: a great meaning place
Nonostante il notevole cambio di scala rispetto ai palcoscenici e al pubblico degli inizi, la coerenza artistica di Lepage è degna di nota. Il regista e interprete quebecchese trasporta temi, motivi e idee del teatro di ricerca in territori a esso insoliti: negli stadi per i megaconcerti pop o nelle opera houseper i classici della musica lirica, veicolando in spettacoli per il grande pubblico la profondità narrativa, la visionarietà immaginifica e l’ingegno tecnico che caratterizza i suoi spettacoli teatrali. Le sue scene impongono anche un certo impegno acrobatico agli attori/ballerini/cantanti: la struttura metallica ideata per il Growing Up Tour, che si staccava da terra per salire verso l’alto, obbligava Peter Gabriel a cantare a testa in giù; in Ka gli artisti precipitano dall’alto di una piattaforma; nel ciclo wagneriano i cantanti cavalcano imponenti quanto virtuali cavalli, in bilico su una struttura alta otto metri.Nella piattaforma ideata per la tetralogia di Wagner è il movimento stesso della macchina scenica (insieme con le luci e le proiezioni) a creare una drammaturgia e un interessante dialogo con l’attore: alzandosi verticalmente, disponendosi perpendicolarmente essa evoca molteplici “luoghi”: montagne altissime, profondità marine, campi di battaglia. Quando si attraversano altri territori dell’arte la qualità della ricerca teatrale non si disperde, ma si estende ai diversi luoghi dello spettacolo, modificandone le convenzioni:

I’ve worked a lot with Peter Gabriel; his music isn’t operatic, but he creates big, popular gatherings to which architecture, dance and music are all invited. Opera needs a major makeover; the large opera houses are too in thrall to their conservative patrons. Opera should be a place for art forms to meet. It includes music, litterature, architecture, set designing, fine arts, choreography. Opera is a great meaning place.”

E’ proprio nell’ambito dell’opera che Lepage si è cimentato per la prima volta con la sua sperimentazione scenica più ardita, un’architettura in grado di accogliere immagini 3D ed effettistica cinematografica: l’ha utilizzata nella regia de La Damnation de Faust da Berlioz nel 1998 (rimasto in repertorio all’Opera di Parigi dal 2000 al 2005).

 

Per la regia del ciclo wagneriano, Lepage ha chiamato a collaborare, oltre al solito Fillion, anche i collaboratori tecnici, artisti, videomaker, i creatori di effetti visivi, persino i produttori esecutivi del Cirque du Soleil, forse gli unici in grado di garantire un allestimento all’altezza di un teatro dalla fama colossale come il Metropolitan di New York.
Anche Josef Svoboda disegnò le scene della tetralogia di Wagner Der Ring des Nibelungen, e addirittura per tre volte: al Covent Garden a Londra (1974-76), al Grand Théâtre di Ginevra (1975-77) e al Théâtre Antique d’Orange, in Francia (1988). La versione londinese, in cui lo scenografo cecoslovacco utilizzò il laser, è quella più vicina alla ipertecnologica versione di Lepage. E tra Svoboda e Lepage non bisogna dimenticare la versione “techno” dell’Anello dei Nibelunghi a firma della Fura dels Baus. 

Nella versione del 2008 de L’anello dei Nibelunghi per il Metropolitan di New York diretto dal maestro James Levine, Lepage vi aggiungerà anche un sistema di motion capture che cattura i movimenti dei cantanti e integra attori e immagini in una scena dall’aspetto di un enorme videowall. Un modo, come lui stesso racconta, per “tentare di illustrare l’energia della musica di Berlioz, estenderla non decorarla“. La tecnologia amplifica l’energia della musica perché:

“The survival of the art of theatre depends on its capacity to reinvent itself by embracing new tools and new languages. In a way, innovators in both arts and sciences walk on parallel paths: they have to keep their minds constantly open to new possibilities as their imagination is the best instrument to expand the limits of their fields.”

 E’ impossibile dissociare Lepage dal suo giovane e altrettanto geniale stage designer Carl Fillion, con il quale crea da sempre quelle macchine sceniche per le quali è universalmente acclamato. Con lui ha dato vita al mondo d’ombre viventi e video di The seven streams of the river Ota, al dispositivo roteante di Elsinore, il marchingegno per il suo più folle progetto di one-man-show; ai pannelli scorrevoli, specchianti e proiettabili di La face cachée de la lune. E’ Carl Fillion a spiegare il segreto con cui egli trasforma un’unica scena, da un’idea iniziale discussa insieme con Lepage, in un vortice infinito di luoghi:
I like to transform the scenic environment by creating elements that move and turn, on stage, in full view of the audience. My main visual signature as a designer can be found in the way I sculpt the space and keep it in motion.
 
 Per la regia del ciclo wagneriano, Lepage chiamerà ancora Fillion e si trascinerà dietro proprio i collaboratori tecnici, artisti, videomaker, i creatori di effetti visivi, persino i produttori esecutivi del Cirque du soleil, forse gli unici in grado di garantire un allestimento all’altezza di un teatro dalla fama colossale come il Metropolitan Square Garden di New York.
Per l’atmosfera del Crepuscolo degli dei la scena si libera di ingombranti oggetti per ospitare un unico monstrum leonardesco che sembra uscito dalle mani di un alchimista d’altri tempi, un erede naturale della fantasia avanguardista di Svoboda. La flessibilità e la trasformabilità, come in tutte le scenografie di Lepage, sono le caratteristiche primarie di questaWalhalla Machine e respirano insieme con l’attore che le sovrasta. Nel corso dell’intervista contentuta in Wagner’s Dream, lo stesso Lepage rivela che l’idea della macchina che contiene tutti gli ambienti gli è venuta in mente pensando all’Islanda, alla sua formazione vulcanica e tettonica, alle sue crepe e solchi dovuti alla lava, agli avallamenti e insieme alle enormi montagne, concentrati tutte in uno stesso paesaggio, tra ghiaccio e fuoco. Ancora una volta, come già accadeva in Elsinore, anche se in scala decisamente più ridotta, e poi anche con Ka, il gigantesco dispositivo progettato per il Cirque du Soleil in cui l’attore recita mentre tutto è in movimento, la macchina ha una conduzione “manuale”. La tecnologia precede: inventa, dispone, prepara, ma a guidarla è la mano dell’uomo. Ecco allora il protagonista incontrastato della scena, l’enorme macchina progettata da Fillion per l’intera tetralogia, vera opera di ingegneria meccanica, fatta di 45 assi di 9 metri di fibra di vetro ricoperta di alluminio, mobili autonomamente l’uno dall’altro e che si sollevano e ruotano a 360° grazie a un complesso sistema idraulico che permette un gran numero di forme differenti, diventando la spina di un dragone, una montagna o il cavallo delle Valchirie
Gli attori-cantanti, spesso meno agili e longilinei degli atleti del Cirque du Soleil, sono collocati sopra la struttura in posizioni davvero difficili: in alto, in bilico, scivolando sulle assi, arrampicandosi. I cantanti hanno anche dei “doppi” in veste di acrobati, che li doppiano nei movimenti troppo complessi.
La prima scena del Rheingold, con la famosissima ouverture con l’arpeggio in miB (che introduce il leitmotiv dello scorrere del fiume, delle onde, in un crescendo di strumenti), è il preludio alla scena delle Ondine, le figlie del Reno custodi dell’oro del loro padre. Questa scena ha sempre destato molte preoccupazioni per i registi, a causa della difficoltà di immaginare una scena che si svolge sott’acqua. In alcuni casi l’acqua è realmente presente in teche trasparenti in cui le Ondine sono sommerse (come nella versione della Fura dels Baus), ma di solito per simulare le onde vengono utilizzate stoffe azzurre, facilmente eliminabili dalla scena (come nella regia di Marininski per il Covent).
Lepage immagina tre sirene che scivolano in questo azzurro elettronico, con leggerezza, calandosi dalla macchina, nuotando o lasciandosi andare a corpo libero con il solo aiuto di una fune; intorno a loro una proiezione piccole pietre di mare e bollicine. Lepage spiega che:
“What happens in Das Rheingold is that we’re in a world of mists and lightning, and fire and water, an elemental realm. That’s why the set is morphing into these elements that remind us of rocks and spines. As we move on, and the Ring tells the story of demigods and human being and eventually of society, and social classes and ranks, the set slowly moves toward architectural propositions.”
 L’inclinazione dei piani si presta a un gioco di voli di scale che fa ricordare i disegni di Adolphe Appia per Wagner.
I movimenti dell’architettura di scena (costruita da Scène Éthique di Montréal) avvengono con intervalli da 5 o 10 minuti e sono controllati in parte a mano in parte da un computer. Un’uso – pare – strabiliante e fortemente realistico del 3D senza visori da parte del pubblico, è stato creato per le scene della foresta in Siegfried. Qua l’animazione con i movimenti possibili della macchina.
 Così Lepage:
It was important that we create a theatre machine that would be similarly versatile—a set that had its own life and could actually go through different metamorphoses but, at the same time feel very organic. Very early on, we decided to create a spine to the set that allows us to move things and articulate things. So the set is actually not only illustrating some of the ideas in the Ring, but it’s also literally supporting the characters and the ideas…it was important for us that the set be very nimble, very flexible, very adaptable, and alive, so that it not only moves, but it also breathes”.
 La chiameranno la Walhalla machine, qua in azione per la Cavalcata delle Walkirie. E, da vera diva, strappa applausi a scena aperta. Ecco il trailer ufficiale del MET di New York:
 Sulla superficie di questi assi che somigliano a tasti di un gigantesco pianoforte e che nei movimenti ricordano un po’ i mostri fantasy di Dune, vengono proiettate immagini in videomapping, a mostrare alberi della foresta, caverne, le acque del Reno. Sono state usate sia immagini statiche che immagini interattive, quest’ultime ottenute grazie a un sistema di motion tracking da telecamere.Réalisations con Maginaire inc., hanno realizzato gli effetti video 3D e interattivi gestiti dal software Sensei.
La macchina scenica complessiva è di tali proporzioni e di tale pesantezza (45 tonnellate) che il Metropolitan ha fatto sapere di aver rinforzato il palcoscenico. I giornali hanno parlato di “un’affascinante combinazione di complessa tecnologia e semplicità estetica”, “traditionale e rivoluzionario” ma anche di una produzione “troppo simile a un musical di Broadway” mentre il N.Y. T. va giù ancora più pesante e titola la recensione: Ring V/s Spider man.
Produzione dunque, che rimarrà negli annali anche per l’impiego di una tecnologia avanzatissima e per il numero straordinariamente alto di tecnici e progettisti, e di conseguenza, per essere forse uno dei più costosi allestimenti teatrali di tutti i tempi (si parla di sedici milioni di dollari). Cosa che non sembra aver preoccupato molto Peter Gelb, general manager del Metropolitan dal momento che ha venduto l’esclusiva della diretta HD ai teatri e ai cinema di quaranta Paesi. Per Lepage, dunque, un sold out esteso a tutti i media del pianeta.
Per chi non ha potuto vederlo dal vivo al MET può comunque vedere lo spettacolo in video grazie al cofanetto di 5 dvd appena messi in distribuzione per la Deutsche Grammaphone. Il costo non è per tutti, ma è sempre minore del biglietto per lo spettacolo teatrale (che arrivava fino ad alcune migliaia di euro). Nel cofanetto i 4 dvd corrispondono alle quattro opere (pur legate in un unicum come voleva Wagner, dalla storia, la saga germanica dei Nibelunghi) ovvero Das RheingoldDie WalküreSigfried,Gotterdämmerung. Il quinto dvd è il documentario Wagner’s Dream”: più che raccontare il processo creativo, mostra il dietro le quinte (o meglio, in questo caso, il “sotto le quinte”) della mostruosa macchina tecnologica progettata dal mago delle scene di Lepage, Robert Fillion.

The nose di William Kentridge.
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La Rivoluzione è un naso a cavallo.

Il progetto di William Kentridge per un allestimento teatrale basato sul racconto di Gogol’ del 1836 Il naso (Nos), tratto dai Racconti di Pietroburgo, risale al 2008, quando l’artista sudafricano si imbatté per caso nel racconto dello scrittore russo nella libreria di un aeroporto, come racconta nel programma di sala.

Non una commissione da parte di un teatro, dunque, ma un’idea che Kentridge decise di condividere con il produttore Bernard Focroulle, allargando successivamente il progetto alla regia di un’opera musicale: quella composta da Šostakovič[3] nel 1930, al suo giovane esordio operistico, ispirandosi proprio al racconto di Gogol’. Il debutto di The Nose, con la direzione musicale del giapponese Kazushi Ono e con le scene animate di Kentridge, risale al 2010 al Metropolitan di New York. Il baritono russoVladimir Samsonov interpreta la parte del protagonista.

Kentridge, si trova perfettamente a suo agio negli allestimenti d’opera, vedi le mirabili scenografie per Il flauto magico di Mozart e per Il ritorno di Ulisse in patria (da Monteverdi): le sue stesse opere animate (i famosi Drawings for Projection) e le videoinstallazioni prevedono nella maggior parte dei casi, più che dialoghi, montaggi sonori da musiche da camera o operistiche.  Kentridge “reinventa” il medium cinematografico attraverso un’insolita riscrittura del linguaggio che unisce l’arte del disegno a obsolete tecniche di animazione passo uno, allontanandosi dagli automatismi del mezzo tecnico e dai mirabolanti effetti della postproduzione computerizzata più attuale, guardando a Mélies più che a Walt Disney.

L’opera di Šostakovič prevede più di sessanta personaggi in dieci quadri scenici divisi in tre atti, un intermezzo e un epilogo. Sono quaranta i musicisti nella fossa orchestrale e quasi altrettanti i cantanti (ventisette solo per la scena settima). Come riportato dal programma, il musicista russo, sodale di Vsevolod Mejerchol’d all’epoca del teatro sperimentale di Mosca, “immagina una forma costituita da scene corte ma numerose, incatenate secondo una logica quasi cinematografica, portandoci nei diversi luoghi di San Pietroburgo“. Cinematografica, nel senso che molte scene sono giocate quasi simultaneamente in diversi punti del palcoscenico, come in un frenetico montaggio (associativo o contrastivo) di situazioni.  Cinematografica anche nella costante giustapposizione di elementi sonori anche contraddittori, dissonanti. Tutta la scena, in verticale e in orizzontale, in esterno e in interno, in profondità e in superficie, con palchetti sopraelevati, scale, piattaforme e praticabili di legno (che ricorda la scena costruttivista di Ljubov Popova per Le cocu magnifique di Crommelynck con la regia di Mejerchol’d, 1922), è impegnata a raccontare una vicenda che sembra scaturita dalla fantasia di qualche proto-surrealista. Sono invenzioni originali di Šostakovič le frenetiche e folcloristiche atmosfere da spettacolo di massa, il balagan (nel XVIII e XIX secolo l’arte dei menestrelli, saltimbanchi e venditori ambulanti, parte della cultura popolare russa) che fanno di quest’opera lirica poco rappresentata, un capolavoro di quello che viene chiamato lo style russe.

La trama, che sembra anticipare tanto il teatro dell’assurdo di Ionesco quanto le metamorfosi kafkiane, vede un assessore del collegio, Kovaliov, coinvolto in una vicenda paradossale ma descritta in modo assolutamente realistico: una mattina l’uomo si trova senza il naso mentre il suo barbiere se lo ritrova dentro un panino. L’uomo si precipita a fare un’inserzione sul giornale, che gli viene però rifiutata, vista l’assurdità della richiesta. Kovaliov inizia a cercare la parte del suo corpo che si era allontanata: senza di essa si si sente depauperato del proprio potere e della propria dignità, caduto nel ridicolo, e perciò impossibilitato a frequentare “la società”.

Finché un giorno l’Assessore del Collegio Kovaliov non si imbatte nel proprio naso, che nel frattempo è diventato Consigliere di Stato con tanto di divisa sgargiante, cappello con piume e bottoni d’oro. Lo ritrova prima in atteggiamento devoto in chiesa, poi acclamato dal popolo in una parata ufficiale, trionfante a cavallo. Ma non può fare nulla, nemmeno avvicinarsi perché in fondo, rispetto al suo naso, lui è pur sempre di rango inferiore! Il problema, così come è nato, scompare all’improvviso: inaspettatamente una mattina il naso viene ritrovato da un funzionario di polizia mentre stava prendendo la diligenza per Riga. Così il naso ritorna al suo posto. Alla fine del racconto, Gogol’ spiega che “simili fatti accadono nel mondo, raramente ma accadono”. 

Al racconto di Gogol’, Šostakovič aggiunge personaggi originali, come il servo di Kovaliov che nell’opera lirica ha una sua autonomia espressiva musicale popolare (suona la balalaica); o la figura grottesca del Dottore, che prima di riattaccare il naso a Kovaliov tenta di comprarlo. Inserisce anche situazioni corali, come le concitate scene della caccia al naso e quella degli avvistamenti di nasi in piazza, in cui troviamo una folla di ambulanti, affittasedie, una venditrice di dolci molestata da militari, e una sfilata di personaggi appartenenti ai più diversi strati della società russa: studenti, poliziotti, cocchieri, colonnelli… Ogni personaggio è associato a uno strumento: il Naso (tenore) a un flauto, Kovaliov (baritono) al corno e allo xilofono, il barbiere al contrabbasso.

Molte sono state nel tempo, le interpretazioni del racconto gogol’iano: oltre a quella freudiana, centrata sulla virile paura dell’evirazione, la più convincente rimane quella della satira grottesca della società zarista che l’autore mette alla berlina raccontando l’ascesa e la caduta del potere di Kovaliov: è forse questo il motivo per cui un autore dalla forte consapevolezza politica come Kentridge non poteva che guardare con interesse ai risvolti attuali del racconto di Gogol’, scritto alla metà dell’Ottocento. Anche la biografia di Šostakovič ha sicuramente giocato un ruolo chiave per Kentridge: la sua opera Lady Macbeth di Minsk fu messa sotto processo da Stalin, ritirata per quasi mezzo secolo e l’autore condannato. Passate le purghe staliniane, Il naso ricompare sulle scene solo nel 1974, a un anno dalla morte del musicista, quale parziale risarcimento morale.

   Kentridge inizia a lavorare ai due maggiori temi visivi ricavati dal racconto di Gogol’ (con l’aggiunta di altre interpolazioni letterarie) e al modo in cui renderli in scena: il naso e il cavallo. Un motivo ricorrente è la scala; elemento che nasce, come raccontato da Kentridge, dopo la visione del film d’avanguardia del 1930 The Life and Death of a Hollywood extra dove una comparsa cerca con tutte le sue forze di far carriera a Hollywood. Così Kentridge:

 La comparsa sale i gradini di una scala e precipita ritrovandosi di nuovo all’inizio della scala, riprova la salita e ottiene ancora lo stesso risultato, una sorta di fatica di Sisifo.Allo stesso modo io ho setacciato tutta Johannesburg cercando una scala adatta per le riprese di una particolare scena senza ottenere risultati e finendo per utilizzare la scala del mio atelier. Questa soluzione di ripiego si è rivelata poi perfetta e adatta allo spettacolo per la sua somiglianza con il podio di Lenin. Arrivato a un certo punto della lavorazione di quest’opera, non sono più riuscito a capire quello che ho utilizzato per lo spettacolo e quello che è diventato spettacolo[4].

Il naso gigantesco ha una sua dignità, un suo portamento, una sua autorevolezza. La sua massa informe ricorda quella disegnata da Alfred Jarry per il suo Ubu. La sua strana e ingombrante forma di cartapesta viene calzata in scena dal cantante-interprete (il tenore Alexandre Kravets) come fosse una maschera.  Anche il cavallo è stato oggetto di numerosi studi preparatori da parte di Kentridge, che ha lavorato in particolare sul tema iconografico del cavallo quale simbolo di autorità e potere (come si ritrova nelle varie statue equestri di condottieri dal Rinascimento in poi). Pur ispirandosi al monumento equestre di San Pietroburgo, però, l’artista sudafricano raffigura un cavallo anti-eroico che compie il suo dovere senza rubare la scena al naso con la sua imponenza. Sugli schizzi per il cavallo, spiega Kentridge:

 Quanto specifici devono essere dei pezzi di cartoncino affinché noi possiamo riconoscere ciò che vediamo? Una testa, una curva per il collo, qualche linea dritta per le gambe ed un ghirigoro per la coda è tutto ciò di cui abbiamo bisogno non solo per convincerci che stiamo vedendo un cavallo, ma per impregnare il cavallo degli attributi dell’animale vivente e delle immagini associate. Così mentre tentavo di fare cavalli minimali o residuali, cercavo anche di fare cavalli anti-eroici. Dei cavalli che avrebbero avuto il diritto minore possibile di essere sui monumenti[5]

 Durante i vari anni di progettazione dell’opera, Kentridge ha dato vita a un mondo abitato da disegni e incisioni di nasi a cavallo, seduti al caffè, nasi con gambe, nasi che stanno in piedi su compassi, nasi come condottieri o come teste in corpi di donna, e poi ancora teste di cavallo come quelle disegnate da Leonardo o come ronzini donchisciotteschi, inseriti in contesti molteplici. Kentridge infatti li colloca in arazzi ricamati a mano, in forma di collage sopra carte geografiche, li realizza in metallo a guisa di sculture tridimensionali anamorfiche, come ombre, o disarticolati nei singoli pezzi del corpo e poi riversati in filmati video animati. Questo universo di progetti, bozzetti, disegni, acquerelli, carboncini dei protagonisti e dei diversi personaggi del racconto, sono testimoniati nel catalogo della mostra Kentridge: 5 Themes: in questi anni, hanno alimentato diverse situazioni artistiche ed esposizioni che non hanno più nulla del lavoro preparatorio per la scena, ma sono già opere compiute a sé.

Tipica è la modalità artistica di Kentridge, aperta a integrare diverse tecniche ed espansa verso nuove e ulteriori traiettorie espressive: un universo di creazione che anche per The Nose, andrà ad abitare indifferentemente le installazioni, le mostre, le performance, le conferenze-spettacolo. Come per la piéce da camera Telegrams from The Nose, l’installazione videoFragments round The Nose o quella su quattro pareti contigue I am not me the Horse is not mine, in cui Kentridge non si sottrae al divertissement di animare i cavalli con la tecnica dello stop motion e di inserire sé stesso nelle animazioni, nonché di “trattare” spezzoni di film russi con l’aggiunta di scritte e colori[6]. Kentridge parla di uno spettacolo in forma di collage che aveva in mente di realizzare dopo aver letto il racconto di Gogol’:

 Avevo visto una produzione di The Nose, eccellente sul piano musicale, al Teatro Marinsky di San Pietroburgo, ma, durante la seconda parte, quando lo spettacolo entra nel vivo, ho notato che gran parte degli spettatori si è addormentata, come per proteggersi dal caos. In quel momento mi sono reso conto che la prima regola, per mettere in scena quest’opera è quella di seguire la storia: sapere dove siamo concretamente in qualunque cambio di scena, chi è la persona che canta, chi è il suo personaggio e cosa canta.[7]

Qua il trailer con intervista a Kentridge.

 In realtà di tratta di un vero cine-montaggio di sequenze agite dagli attori e di quadri visivi e animati senza soluzione di continuità; un esempio straordinario sono le scene realizzate contemporaneamente con scenografie materiali e ombre bidimensionali: il Naso entra nella diligenza ma il cavallo che lo traina è un’ombra. Oppure, nella casa di Kovaliov formata da un letto e un armadio, appare uno squarcio di luci e di panorami da una finestra che altro non sono che proiezioni in prospettiva sghemba. La scena è un gioco di scatole cinesi che contengono i diversi ambienti: gli interni e gli esterni del racconto, la Prospettiva Nevski e l’interno della casa del maggiore o la barberia; Gogol’ infatti non privilegia un solo aspetto e un solo personaggio, ma mostra una varia umanità inserita in un contesto urbano rumoroso, con le idiosincrasia dei soggetti tipici, i burocrati, i militari, il popolo.

Kentridge non disdegna un’incursione nell’arte d’avanguardia primo novecentesca: a imporsi come cifra stilistica dello spettacolo sono più l’atmosfera storica e il contesto rivoluzionario legato a Šostakovič che non all’epoca di Gogol’. C’è la Russia del Costruttivismo, del Suprematismo, del Transmentalismo, del Cubofuturismo, con citazioni quasi letterali da El Lissitzky (il quadro Colpisci i bianchi con il cuneoLa tribuna di Lenin), dai manifesti pubblicitari realizzati con la tecnica del fotomontaggio alla Rodčenko, da Tatlin (Il monumento per la terza internazionale) e soprattutto dalla scena cineteatrale di Mejerchol’d (La terra capovolta, 1928). Guardare a Mejerch’old significa guardare a quel teatro che ha realizzato per la prima volta nella storia l’utopia della “sintesi delle arti”. Bellissimo il sipario: insieme con la set designer Sabine Theunissen, Kentridge ha realizzato con minuziosa dovizia di dettagli un enorme collage fatto di ritagli di giornali, mappe geografiche, scritte in cirillico, figure di politici mutilati curiosamente del naso e macchine dell’epoca. La maquette è stata successivamente realizzata in stampa a dimensioni appropriate in uno studio professionale, il quale però ha mantenuto il più possibile una “modalità artigianale”.

Districarsi nell’universo dell’opera realizzata da Kentridge non è facile, ma è possibile rintracciare una serie ininterrotta di segni inconfondibili del suo lavoro: le parate, le processioni in nero, le ombre animate, contestualizzate nella Russia staliniana, abitano la scena di The Nose, riempita dalla musica a tratti privata del canto e della parola. Il tema visivo della processione e del corteo è un vero topos nel repertorio di Kentridge (le famose Shadow Processions), sviluppato nelle diverse tecniche e spesso associato all’ombra o a figure nere, simboli di azione, resistenza, riscatto. Anche in The Nose la scena della “processione nera” in chiesa è una delle più toccanti e potenti, ma questa volta si tratta di corpi di attori in carne e ossa che vengono mischiati a proiezioni animate di ombre e di silhouette di corpi in preghiera: è un komos contemporaneo che racconta un mondo sotterraneo e invisibile venuto alla luce, in grado di mutare la realtà in senso rivoluzionario.


[1] William Kentridge, artista visivo contemporaneo, nasce il 28 aprile 1955 a Johannesburg, Sudafrica.  Cresce in una famiglia di origine lituana ed ebreo-tedesca, in uno Stato diviso dall’apartheid. Dal 1973 frequenta l’University of the Witwatersrand, dove, nel 1976 consegue la laurea in Politica e Studi africani. Nel 1976 s’iscrive alla Johannesburg Art Foundation, specializzandosi nelle varie tecniche d’incisione e, contemporaneamente, inizia a lavorare come attore, regista e scenografo nella Johannesburg’s Junction Avenue Theatre Company. Nel 1981, lascia Johannesburg e si trasferisce a Parigi, dove studia mimo e teatro all’École Internationale de Théâtre Jacques Lecoq fino al 1982. Tornato in Sudafrica, abbandona la carriera da attore per dedicarsi completamente alla regia cinematografica, televisiva e al disegno. Il 1989 è l’anno del suo primo video d’animazione: Johannesburg, 2nd Greatest City After Paris, primo dei suoi celebri Drawings for Projections. Sono nove film animati e muti che raccontano le condizioni del Sudafrica durante la segregazione; animazioni create con uno stile inventato da Kentridge stesso basato sulla tecnica dello stop motion. Nel 1992 per la prima volta Kentridge collabora con l’Handspring Puppet Company all’opera Woyzeck on the Highveld. In quest’opera attori in carne e ossa sono affiancati da marionette di dimensioni umane inventate da Kentridge e gestite sul palco dalla Handspring Puppet Company. Nel 1995 collabora di nuovo con la Handspring Puppet Company allo spettacolo Faustus in Africa! di cui Kentridge stesso è l’autore. Nel 1994, in concomitanza con le prime elezioni generali sudafricane, che segnano la fine dell’apartheid, Kentridge realizza il film Felix in Exile; film che sarà esposto nel 1997 a Documenta X a Kassel insieme aHistory of the Main Complaint. L’attenzione da parte di un pubblico internazionale per Kentridge arriva proprio a Kassel e, nel 1998 a Bruxelles, viene allestita la sua prima retrospettiva europea. Tra il 1998 e 1999 ripropone l’opera teatrale di Jane Taylor Ubu and the Truth Commission lavorando ancora una volta con la Handspring Puppet Company, con la quale realizzerà anche Il Ritorno di Ulisse in patria. Nel 2005 reinterpreta il capolavoro musicale di Mozart, il flauto magico. Nel 2008 Kentridge presenta presso il Teatro La Fenice di Venezia l’installazione (Repeat) From the Beginning, dove viene trattato il rapporto tra teatro e musica. Nel 2009 il Time inserisce Kentridge tra le 100 persone più influenti del mondo. Tra il 2010 e il 2011 sono organizzate due sue grandi mostre itineranti che viaggeranno in tutto il mondo, la prima organizzata dal National Museum of Modern Art di Tokyo e l’altra: William Kentridge: Five Themes, organizzata dal Museum of Modern Art di New York.

[2] C.Alemani, William Kentridge, Milano, Electa, 2006, p.32.

[3] Dmitri Šostakovič nacque a San Pietroburgo il 25 ottobre del 1906 ma visse a Leningrado (il nome della città dopo il 1917) e morì a Mosca il 10 agosto del 1975. Importante personalità della musica moderna russa, si formò artisticamente nel clima politicamente e culturalmente acceso della rivoluzione sovietica diplomandosi nel 1923 in pianoforte e nel 1925 in composizione. Il clima familiare nel quale cresce il piccolo Mitja (come veniva chiamato dai parenti e dagli amici più intimi) risentì molto delle idee leniniste e contribuirà non poco a stimolare il suo spirito progressista, fino a coinvolgerlo di persona. Il suo linguaggio si rifà alla tradizione e alla cultura russa, mischiandola a una propria e originalissima visione artistica. Brillante, rapida e intensa, la carriera artistica di Šostakovič culmina con le opere Il naso (1930) e Ladv Macbeth di Mcensk(1934), fra cui si inserirono alcune felici composizioni come il Concerto per pianoforte, tromba e orchestra d’archi (1933) e la Quarta Sinfonia (1936). Soprattutto in queste composizioni il musicista rivela il suo stile tagliente, la forza di un’ironia spesso drammatica e la smagliante sapienza della tecnica, che contribuì a collocare Šostakovič non ancora trentenne, fra le figure più rappresentative della cultura musicale moderna. Dal 1936 la parabola artistica di Šostakovič si scontra con dure critiche politiche. Cresciuto con la Rivoluzione di Ottobre, credeva nel socialismo sovietico, e aderì  agli ideali del nuovo potere politico che aveva rovesciato l’ultimo zar. Ma nel 1935, la Pravda pubblicò un articolo sulla sua Lady Machbeth, dal titolo: “Caos anziché musica” a cui seguì il marchio definitivo di “formalismo” apposto dal regime alla sua Quarta Sinfonia.

[4] Dall’intervista in video contenuta nel documentario del Met.

[5] Intervista a Lepage per il documentario del Met.

[6] Molti dei materiali relativi alla produzione di The Nose e l’installazione I am not me the Horse is not mine erano in mostra alla Galleria Lia Rumma di Milano, in occasione dell’allestimento dedicato a Kentridge a Palazzo Reale e alle repliche del Flauto magico con scenografie di Kentridge alla Scala (2011).

[7] Intervista video per il documentario del Met.

Cosmotaxi parla del sito AMM
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Si parla del sito AMM! Sono ospite del Cosmotaxi di Armando Adolgiso! Merci!

“Per tutti quelli che lavorano nelle nuove forme teatrali, o studiano il rapporto fra teatro e nuovi media, c’è da pochi giorni in Rete una maiuscola, occasione per informarsi sull’espressività scenica dei nostri giorni e quella futuribile.
Quest’opportunità è data da un sito ideato e guidato da una eccellente studiosa e saggista: Anna Maria Monteverdi (in foto).
Esperta in digital performance e videoteatro, ha conseguito il dottorato di ricerca all’Università di Pisa in Forme della rappresentazione teatrale, cinematografica e audiovisiva studiando a Québec City presso la struttura produttiva di Robert Lepage.
Insegna Storia dello spettacolo all’Accademia di Torino e Digital Video all’Accademia di Brera.

Il suo website, alla ribalta dal primo gennaio, raccoglie quindici anni di scrittura on line e più di venti di ricerca teatrale allargata ai territori della performance tecnologica e del videoteatro. In mezzo ci sono quattro monografie e tre antologie pubblicate, ristampate, riedite anche in formato e-book.
Mi va qui di ricordare con piacere un intervento di Anna Maria Monteverdi su questo sito quando fu pubblicato il suo “Nuovi media, nuovo teatro. Teorie e pratiche tra teatro e digitalità”.

Ecco una dichiarazione che profila gli intenti della pubblicazione.
La scrittura critica mi è congeniale, ho nel pc decine di articoli inediti che voglio mettere on line e prima o poi diventeranno il nucleo di qualche nuovo libro. Ho sempre fatto così. La teoria dopo la pratica. Pratica da spettatrice. Da osservatrice creativa, come mi chiamava Giacomo Verde e il titolo mi piace! Il sito (che amplia il campo del precedente digitalperformance.it) ospiterà articoli già pubblicati (che verranno indicizzati tematicamente nella MonteverdiPedia) e nuove recensioni, still da spettacoli, eventi culturali, riflessioni. E’ anche un sito di supporto alla didattica perché inserisco materiali di studio, testi di conferenze e dispense visionabili dagli studenti dei miei corsi attraverso login. Ho aggiunto una pagina I LIKE dove segnalo siti interessanti, blog e materiale di comune utilità reperita in rete. Vorrei ospitare testi di altri studiosi, critici, liberi pensatori. Vorrei che il sito che fosse un collettore di pensieri teatrali sparsi senza gerarchie. Dedico il sito alla persona che in questi anni ha maggiormente guidato con il suo lavoro e il suo pensiero, la mia scrittura: l’artista Paolo Rosa, scomparso ad agosto 2013. Mi scelse nel 1994 per un volume di Studio Azzurro della Lindau che lui generosamente voleva fosse scritta da giovani critici sconosciuti. Condivisi la scrittura con talenti curatoriali, artisti e giornalisti del calibro di Andrea Lissoni, Fabio Francioni e Alessandro Amaducci. Sono partita da lì e non ho più smesso. Buona lettura!

 

 

Videomapping: il Metodo NuFormer
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Intervista a Rob Delfgaauw/NuFormer in collaborazione con Enzo Gentile

Pubblicato su Digimag

Le superfici proiettabili delle metropoli sono diventate le facciate dei grandi palazzi. Abbiamo intervistato Nu Former società olandese che ha diffuso in tutto il mondo la modalità spettacolare di mapping e proiezione video 3D su edifici tale da rispecchiare perfettamente i volumi esistenti e alterare la percezione dell’oggetto statico da parte del pubblico. Spettacoli, campagne pubblicitarie, grandi eventi. Il loro video promo Projection on Buildings da una originale video-live performance con i palazzi che sembrano sfaldarsi sotto gli occhi del pubblico o riempirsi di palline colorate, ha fatto il giro del web. Lo stile NuFormer prende campo e fa scuola.

nuformer_450Biosensori, sistemi acustici, magnetici, ottici, elettromeccanici di motion capture, messaggi MIDI: con i nuovi media si assiste a una performance live dell’attore-danzatore con la macchina “processore di media” (Lev Manovich) e con il corpo usato come hyper instrument, visto che il performer può gestire in modo interattivo e in tempo reale con il solo movimento, input provenienti da diverse periferiche e animare oggetti, ambienti, grafica, immagini, suoni, personaggi 3D. Assistiamo così alle più svariate tecnomutazioni digitali dell’attore e contestualmente anche a quelle della scena, che indossa gli attributi altrettanto proteiformi e metamorfici della maschera elettronica: trame di luci, landscape visuali e sonori, schermi trasparenti che accolgono corpi e immagini senza soluzione di continuità, dispositivi digitali interattivi che sollecitano livelli diversi di percezione, strategie spaziali immersive per soddisfare un’esigenza di mobilità, prossimità e azione del pubblico rispetto all’evento. Ambienti “reattivi” ed “esecutivi”, virtuali e “intelligenti”, vanno a configurare un nuovo spazio teatrale: non più luogo neutro contenitore di eventi, ma spazio sensibile, estensibile, modellante e modulabile.

La scena contemporanea ha sviluppato insolite modalità di proiezione su superfici diverse. Si ricerca l’effetto sfumato ed evanescente dell’immagine nascondendone la cornice schermica: proiezioni su superfici sferiche e mobili (come già in Intolleranza 1960 di Josef Svoboda e Luigi Nono), su doppio velo di tulle con l’attore reale incastonato in mezzo, (come nel concerto scenico Cos’è il fascismo e per il reading multimediale Qual è la parola di Giardini Pensili). Pannelli mobili e proiezioni su materiali dalla trama sottile che si lascia trapassare dalla luce e che mostrano immagini vaghe, memorie video di forme archetipiche sono quelle delle Crescite della Tragedia Endogonidia della Socìetas Raffaello Sanzio per mano di Carloni e Franceschetti; perfino proiezioni non più su superfici piane ma sullo spazio, su elementi naturali e gassosi come l’aria e l’acqua vaporizzata. Fabio Iaquone con il suo Digital Versatile Theatre sta sperimentando proiezioni su gas e fumo, ricreando il mito delle apparizioni fantasmatiche, mentre l’artista visiva Paola Lo Sciuto prova a incastonare a teatro un “film tridimensionale” con un sistema scenotecnico di proiezioni e rifrazioni da lei brevettato che consiste in schermi e specchi che spostano l’immagine dal piano parallelo a quello perpendicolare.

 

Ancora, enormi superfici schermiche che raddoppiano la struttura scenografica occupandone i piani alti (in By Gorky di New Riga Theater), o che delimitano la circonferenza dello spazio della rappresentazione (in Ta’ziyé di Abbas Kiarostami, un’elaborazione teatrale che recupera un antico rito Iraniano). Multipli e giganteschi sono i dispositivi per le proiezioni dell’Ospite che i Motus hanno tratto da Teorema. La scena diventa un ciclorama in (Or) o un mondo dalle proporzioni surreali in Voyage di Dumb Type, un claustrofobico cubo di schermi in (a+b)3 di Mutaimago, un enorme cilindro a specchi per immagini e luci abbaglianti nella Damnation de Faust e una gabbia di plexiglass in Metamorphosis della Fura dels Baus. La modalità di videomapping apre a soluzioni di proiezioni su enormi superfici. Proviamo a chiederlo a NUFORMER:

Anna Monteverdi: Potete raccontarci in breve qual è il vostro background artistico e tecnico e come avete cominciato?

Rob Delfgaauw: NuFormer è una società multimedia specializzata in produzioni video e progetti web. L’ufficio ha sede nei Paesi Bassi. Dopo aver visto alcuni esempi su Internet di progetti artistici relativi al mapping video è scattata in noi la scintilla di voler provare a realizzare progetti simili. NuFormer ha tutta la competenza tecnica in sede (per la modellazione 3D e animazione 3D, progettazione motion graphics, editing video e programmazione) e grazie alle nostre capacità di progettazione, siamo riusciti a creare e poi sviluppare proiezioni 3D di alto livello su edifici.

Anna Monteverdi: Da dove traete spunto per le vostre idee, a cosa vi ispirate? Ci sono progetti specifici a cui avete guardato?

 Rob Delfgaauw: Nella maggior parte dei casi lavoriamo da suggerimenti generali che vengono dati dai nostri stessi clienti. Da lì partiamo poi, per progettare il contenuto specifico per e “mappare” in modo molto accurato l’architettura dell’edificio su cui proietteremo. Le nostre idee sono originali sebbene certamente, possono prendere spunto o ispirazione da progetti visti su Internet.

 Anna Monteverdi: Sviluppate proiezioni 3D di alto livello; quali i dettagli tecnici?

 Rob Delfgaauw: Sfortunatamente non possiamo rivelare tutte le specifiche tecniche riguardanti la nostra attività e competenza. Possiamo dire comunque che usiamo un mix di tecniche tradizionali per adattare l’animazione e il materiale di archivio fotografico e video che usiamo, alle caratteristiche architettoniche dell’edificio. Ma la maggior parte del lavoro è fatto in ambiente 3D.

Anna Monteverdi: Fate disegni preliminari prima del modeling o dell’animazione?

 Rob Delfgaauw: Cominciamo con una sessione di brainstorming da cui viene fuori un’idea. Questo concept viene poi sviluppato e arriviamo a uno story board più dettagliato che rappresenta la base del processo di produzione. Partiamo da lì per il modeling, il compositing e infine per creare l’animazione 3D.

Anna Monteverdi: Che programmi usate per le proiezioni? Usate animazione vettoriale (come flash), strumenti multipurpose come vvvv o solo modellazione 3D e animazione per la creazione digitale dell’architettura di un edificio?

 Rob Delfgaauw: Usiamo molti editor 2D (vettoriali) e 3D.

 Anna Monteverdi: Come risolvete il problema dell’omografia nelle proiezioni e come riuscite a mappare precisamente la forma architettonica? Qual è il programma o il metodo?

 Rob Delfgaauw: Lo risolviamo unendo i dati e lavorando nella maniera più accurata possibile usando tecniche e strumenti avanzati.

 Anna Monteverdi: Realizzate proiezioni 3D con un gran numero di potenti proiettori. Quanti nello specifico e di che potenza luminosa? Quali o programmi per il loro controllo?

 Rob Delfgaauw: La dimensione dell’edificio e la situazione luminosa d’ambiente e altre circostanze determinano il numero di proiettori da usare. Noi usiamo diversi pacchetti software per controllare le uscite. La maggior parte dei proiettori, per lo più usati impilati, hanno una potenza luminosa di ventimila ansilumen.

Anna Monteverdi: Quanto tempo occorre per la modellazione e l’animazione?

 Rob Delfgaauw: Quello dipende veramente dalla lunghezza dell’animazione ma generalmente abbiamo bisogno di due mesi per realizzare un intero progetto.

 Anna Monteverdi: Come preparate l’ambiente urbano?

 Rob Delfgaauw: Lavoriamo con dei local manager. Loro hanno il compito di vedere quanta luce d’ambiente può essere “dimmerata”. E si preoccupano di fornire assistenza sul posto e rendere il luogo adatto al pubblico.

Anna Monteverdi: Spesso parlate di applicazioni in esterno per lanci pubblicitari, eventi e concerti. Avete anche esperienza di applicazione nell’ambito della scenografia teatrale?

 Rob Delfgaauw: Abbiamo richieste per spettacoli, performance, eventi e concerti. Siamo sviluppando una tecnica per usare proiezioni 3D all’interno specialmente per teatri in occasione di concerti. Attualmente la nostra ricerca riguarda come trovare la modalità più adatta per unire le proiezioni 3D con l’interattività e comunicare l’esperienza al pubblico. Dal momento in cui c’è abbastanza buio e la luce d’ambiente è bassa, noi possiamo proiettare indifferentemente all’esterno o in un teatro all’interno.

 Anna Monteverdi: Le vostre proiezioni sono basate su facciate architettoniche statiche. Che problemi tecnici potrebbero esserci nel caso di oggetti non statici, ovvero per seguire un oggetto in tempo reale e proiettare su di esso un video volumetrico?

 Rob Delfgaauw: Il fattore che cambia maggiormente rispetto alla proiezione su oggetti in movimento o statici è l’allineamento della proiezione sull’oggetto. Da lì la proiezione deve seguire l’oggetto in modo molto preciso, accurato. Abbiamo sviluppato speciali tecniche proprio per questo e funzionano molto bene.

Annamaria Monteverdi: Ritenete che la vostra tecnica potrebbe essere un valido supporto per gli artisti e come?

 Rob Delfgaauw: Gli artisti hanno di fronte un nuovissimo modo e un nuovo ambiente con cui esprimersi. Prova a considerare un enorme edificio come se fosse il fondale animato di un palcoscenico. E’ impressionante. Soprattutto se il contenuto viene generato in tempo reale.

 Anna Monteverdi: Avete qualche consiglio per chi comincia a lavorare nell’ambito della grafica animata, del video?

Rob Delfgaauw: Il cielo non ha limiti,lanciatevi.

 

 

 

 

L’installazione “Il soffio sull’angelo” di Studio Azzurro. Testo di Anna Monteverdi dal Catalogo
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Da sempre, penso, l’uomo ha avuto la necessità di costruirsi degli schermi, di limitare le misure e confinarle entro più lati, di dare cioè, una dimensione all’infinito che gli stava davanti. E’ per vincere definitivamente questo sentimento della paura, di limite che si potrebbe avere nella percezione dell’infinito che l’uomo genera il suo capolavoro: non più porre limiti dentro la realtà, ma porre la realtà dentro i limiti, reinventandola.  Paolo Rosa

Spazio-limite, spazio-possibilità

Tre paracadute sono sospesi nel vuoto della stretta e lunga ex struttura industriale della Marzotto – ora sede dei Dipartimenti Scientifici dell’Università di Pisa – che limita lo sguardo e impedisce loro di spiccare il volo; all’interno e all’esterno del reticolato a velatura sottile del paracadute sono proiettate immagini messe in movimento mosse da un getto d’aria direzionato su alcune zone sensibili del telone. I corpi nudi, quasi navigando in assenza di gravità, si depositano, si avvolgono nella concavità-convessità del paracadute, ripiegandosi come in un ventre. Tre paracadute dalla trama-tela di ragno che respira e si lascia attraversare dall’aria si srotolano in sospensione: sono incatenati, trattenuti nella loro dilatazione “alare” da una barriera architettonica. Il limite svelato è il mondo e il contesto è lo spazio: è lo spazio negato, lo spazio della costrizione, della distanza e dell’assenza; il limite-cornice della struttura architettonica isola e separa da ogni contatto, nega ogni “convivenza ambientale”.  L’installazione è un “osservatorio” sulle possibilità di espansione, ma non di dominio, dell’uomo: si estende dal microcosmo della tela-paracadute all’infinito dello “spazio extraplanetare” della sensibilità umana. Dal recinto architettonico che aggredisce e racchiude in gabbia il corpo colto nel suo tentativo negato di librarsi in aria (e con esso tutto il territorio dell’agire artistico e tutto il sistema dell’arte del vedere e dell’sporre) alla riappropriazione dello spazio vitale, fuori da ogni cornice-confine-schermo che rinchiude e fissa le regole dello spazio di movimento.

Cerchio, ellissi e levitazione 

La calotta del paracadute avvolge in un abbraccio parabolico i corpi che, come satelliti solidali, sono in movimento orbitante di rotazione-rivoluzione intorno al proprio o altrui asse. La circolarità è il principale tema visivo, ripetuto, in un contenimento delle varianti, nei movimenti e negli oggetti – palla, ruota, anfora – e nella forma stessa del dispositivo che li ospita, da dove partono e dove rientrano. Restare nell’orbita umana significa includere le leggi del suo esistere, correggere l’errore di parallasse, cercare altre coordinate, altri centri di gravità, altri punti di osservazione, rivendicare una presenza e una posizione nel mondo.  La forma del paracadute rimanda alla familiare sfera schiacciata ai poli, che ci contiene, il movimento elissoidale dei corpi-pianeti, alle leggi di Keplero. Ma soprattutto il volo del paracadute sopra la verticale dell’esistenza di ognuno, riconduce a un sollevarsi interiore, a una tensione di ascesa, al desiderio di oltrepassare ogni limite, staccare le ali da terra per ritornarvi, rivitalizzati da una nuova consapevolezza. Lo spettatore, collocato dentro il cerchio iniziatico dell’installazione, prende fiato, recupera le proprie forze e il proprio corpo, atrofizzato nella posizione rigida imposta dal sistema, si riappropria del proprio spazio vitale, sola sopra i confini di stati sovrani, stabilisce nuovi rapporti.  Nella città che ospita il battaglione della Folgore, quello stesso dispositivo usato dai paracadutisti diventa il simbolo di una necessaria mutazione-trasformazione dell’esistenza. Studio azzurro ci ha abituato a operazioni di straniamento di questo tipo: i raggi infrarossi – triste ricordo di una guerra del Golfo vissuta attraverso la sua versione spettacolare televisiva – in Il giardino delle cose, bucavano e rendevano concreto il buio; i raggi X ad uso della polizia aereoportuale in Il viaggio, esploravano storie intime e private; in Kepler’s Traum le immagini satellitari del Meteo ci ricordavano la comune condizione dell’essere sospesi nel cosmo mentre due quarti del pianeta combatte per un lembo di terra.

Il fiato sospeso 

L’intero atto teatrale è un rituale concepito per rinnovare la nostra vitalità, per liberarci dalla morte e ciò si compie con un respiro. Questo respiro comincia con un ansito, come quello di un bambino appena nato. Il teatro senza questo ansimare ci soffoca. Insisto sul teatro. Insisto su di esso perché lo riconosco come un rituale senza cui la nostra sopravvivenza perde terreno davanti ai confini della morte sempre invadente, la morte cala su di noi con il suo silenzio senza respiro.Lo scopo del teatro è far ansimare il pubblico.  (Julian Beck)

Il soffio anima i corpi, il respiro dà loro moto, quell’impulso generativo-cardiaco di corrente senza il quale sono materia inanimata, persi e risucchiati nel vortice profondo del vuoto dell’esistenza inautentica. Nell’installazione il respiro che riporta alla vita torna a far gonfiare il diaframma e a dar voce a grida, ha la forza propulsiva del getto d’aria artificiale all’uscita del labirinto degli specchi del Luna Park, il ritmo dell’inspirazione-espirazione degli astronauti e dei subacquei in assenza di ossigeno e la qualità rigeneratrice del pranayama yoga (letteralmente respiro guaritore”).  Il respiro è nuova creazione, apre a nuovi orizzonti, nuovi mondi e modi possibili del vivere e del sentire e assume nella sua funzione liberatrice e illuminante, la forma iniziatica di un rituale contenuto nella vita quotidiana: un rituale rigenerativo che si compie all’interno del “sacro recinto” del paracadute semplicemente con un respiro perché “Nulla è più naturale del cambiamento” (Julian Beck).  Attraverso il respiro consapevole e un sentire collettivo che elimina ogni separazione, l’uomo recupera il significato profondo delle cose, ne scopre le intime relazioni (la trama e l’intreccio). La forza gravitazionale attrae verso l’uomo in una nuova dimensione dove i corpi danzano come in un’armonia celeste, vagano nell’etere, viaggiano sulle frequenze, sulle onde hertziane e sopra gli stati.

Entrare in scena, di Fernando Mastropasqua.
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Dedicato a Julian Beck, con foto di Evandro Costa.

Entrare in scena è l’atto con cui si dà inizio allo spettacolo. Un semplice passare dal non visto al guardato, dalla confortevole tenebra delle quinte alla luce priva di ripari del palcoscenico, un passo, un semplice passo e si scavalca un confine, quella soglia di morte, la cui presenza i Greci avvertivano nel suono della parola skené. Per entrare dove? Nel teatro inutile direbbe Julian Beck: 

E’ questo forse un posto per esseri umani, questa insinuazione di lusso e ori, la pompa di queste scale, l’ingannevole grandiosità di questo candelabro, questo moderno teatro un’opera d’arte? O architettura dei potentati! O puzza di denaro! E’ qui che ha volato l’Uccello dello Spazio? Dove sono i facchini, gli operai tessili, i meccanici? Non ci sono contadini qui, nessuno di coloro che costruirono questo edificio, nessuno che abbia coltivato alimentari, qui non ci sono neri, nessuno che pulisca le fogne, nessuno che cucia nei laboratori. Per chi è questo palazzo? Dov’è il popolo? Che cosa si fa qua dentro che non li riguarda? Il tappeto è fatto per pallidi piedi patrizi, le poltrone procurano una comodità che aliena all’azione, che ostacola la partecipazione, che indulge alla passività del corpo. Muri di separazione! O possa questa nostra sonora arringa far tremare e cadere i muri, crollare prigioni, abbattere le fortezze della falsa industria, e tutte le case di divisione. Unità. La si ha, quando le persone stanno insieme e non si mettono una contro l’altra, esiste quell’armonia che dissipa la disperazione, estende l’essere e rende possibili tutte le speranze più impossibili.

Foto di Evandro Costa. Qua una più ampia gallery

Quando mi siedo nella poltrona di velluto, circondato da fibre acetiche, se una persona grida, se un uomo muore è solo un’interruzione. Non sono preparato a reagire alla vita. Osservo soltanto. Circondato da gelidi compagni in un’atmosfera d’inganno, siedo nella fastosità. Son venuto qui per morire congelato? Come posso prorompere in emozioni? Investito di una regalità di rayon. Come posso trascendere in un ambiente di velluto, come posso trovare la chiave nell’oscurità di questa sala? Solo sognando. Ma questo sogno è menzogna, non sento nulla. E’ tutto menzogna, non ho carne, sono essenzialmente asessuato. E tutto avviene a causa della mia presenza qui.” (J.Beck, La vita del teatro, Torino, Einaudi, 1975, pp.13-14). 

L’attore entrando in scena entra nell’orrore del mondo, in quegli inferi che sono la vita stessa, e di fronte a sé trova gelidi compagni, ombre esangui, pronte a cibarsi di lui risucchiandogli la linfa vitale con gli occhi, appuntiti vogliosi taglienti come i canini di un vampiro. Il passo che ha scavalcato il confine rivela quanto questo fosse irrilevante, come un abisso dipinto. Dal mondo di morte quotidiano a quel cimitero imbellettato che è il luogo teatrale. Entrare in scena deve dunque voler dire di più, non passare un confine, ma definire un confine, perché solo tracciandolo può esserne disarmata la funzione menzognera: si può oltrepassare e lasciarselo alle spalle. Si apre, per virtù dell’attore, un luogo che è oltre la tetra esistenza di lutti presenti e di inferni promessi, nel quale il pubblico di insaziati dormienti dalla vista assassina possa balzare dalle non più comode poltrone e accogliere il respiro dell’attore:

Ansimando in cerca d’aria – è così che il pubblico viene a teatro, rigidamente avvolto dal corsetto della convenzione (legge e conformismo). Il pubblico può respirare a malapena. Si sente morire. L’intero atto teatrale è un rituale concepito per rinnovare la nostra vitalità, per liberarci dalla morte, e ciò si compie con un respiro. Questo respiro comincia come un ansito, come quello di un bambino appena nato. Il teatro senza questo ansimare ci soffoca, poco importa che ci possa divertire, lasciamo sempre il nostro spirito ancora più fiaccato dalla delusione. Insisto sul teatro. Insisto su di esso perché lo riconosco come un rituale senza cui la nostra sopravvivenza perde terreno davanti ai confini della morte, sempre invadente, la morte che cala su di noi con il suo silenzio senza respiro. Insisto che si vada a teatro in cerca di rivitalizzazione, le renouveau, sì, come pazienti che vanno all’ospedale. Stiamo morendo e andiamo a teatro in cerca d’aria fresca all’interno di un’atmosfera sempre più contaminata. Lo scopo dell’arte è far ansimare il pubblico.” (J.Beck, Theandric, Roma, Socrates, 1994, p.24) 

Considerando i primi spettacoli del Living, come un solo lungo spettacolo, potremmo riconoscere l’entrata per eccellenza nell’incipit dell’Antigone e l’uscita per eccellenza, come viaggio oltre il confine designato e distrutto, l’esodo di Paradise Now: il teatro è nella strada. Come si può stabilire il confine? Nell’Antigone l’attore invece di offrire la gola allo sguardo dello spettatore gli pianta gli occhi in faccia, come Amleto per scrutare il comportamento del re davanti allo spettacolo che rivela il suo delitto [Amleto, III,2, 85], sguardo contro sguardo, nemico contro nemico. Judith Malina ricorda che ogni attore aveva il compito di individuare il nemico in un determinato spettatore e che questo serviva ad incrinare l’unità della massa del pubblico (v. a questo proposito C. Valenti, Dove gli dèi ballano, in F. Mastropasqua, Maschera e rivoluzione, Pisa, BFS, 1999, p.38, nota 24).

L’entrata degli attori in scena obbliga ad avere la consapevolezza che tutti si è entrati in un luogo sospeso, dove non hanno più senso le convenzioni abituali, del teatro come della vita. Anche il pubblico si trova al di là del confine che gli attori hanno tracciato proprio là dove non era pensabile, e i corpi – non più le ombre infere della consuetudine – si impossessano dell’antico respiro perduto e diventano presenze, non per dimenticare il mondo, ma per rovesciarlo. Perché si entra nel teatro attraverso il mondo. Virtù anche questa dell’aver determinato il confine e averlo scavalcato. Il passo che ha permesso di superare quella soglia, si è lasciato alle spalle il mondo dell’orrore, ma non lo ha cancellato. Ognuno di noi se lo porta dentro. Risuona l’insegnamento di Amleto: l’orrore che vediamo intorno a noi è dentro di noi: “Che ci sta fare uno come me a strisciare fra cielo e terra?” [III,1,129]. Ed è proprio questa coscienza che permette ai corpi entrati in scena (attori e spettatori) di rovesciare la bruttezza in bellezza, la malvagità in pietas, il dolore in gioia:

“Si entra nel teatro attraverso il mondo, mondo che è sacro, mondo che è imperfetto, si entra nel teatro attraverso la consapevolezza di una bruttezza indistruttibile. La bruttezza della vita. Si abbraccia questa bruttezza e si dimentica ciò che è bello. […] Non vorrei dare pièces di dolore, di problemi, di idee difficili, ma di gioia, piacere, riso, esultanza, non risate crudeli, niente satira, ma gioia. Ma è faticoso provare gioia, e quindi ancora più faticoso conoscere la gioia, quando si è pallidi e il mondo è estraneo e moribondo. Desiderio di un teatro diverso, che valga ciò che siamo realmente, speranza che il teatro cambierà, ma quel che vogliamo davvero è cambiare noi stessi, cambiare tutti insieme, e che cambiando cambi il mondo.” (J.Beck, La vita del teatro, cit., p.11, 15).

 Link to Txt: Frankenstein del LIVING  by AMM

Si ringrazia Evandro Costa per la concessione delle fotografie dal suo archivio personale.

Per Paolo Rosa in memoriam
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Pubblicato su Culture teatrali

La notte tra il 19 e il 20 agosto di quest’anno è mancato Paolo Rosa. L’ultimo sguardo lo ha rivolto all’azzurro del Mediterraneo, in Grecia, a Corfù dove stava trascorrendo le vacanze con gli amici di sempre e con la moglie Osvalda. Aveva 64 anni. Ha ragione Giacomo Verde: un brutto anno questo per le arti elettroniche. La morte di Paolo Rosa rinnova il dolore per la perdita di Antonio Caronia, entrambi compilatori (tra gli altri) del Manifesto per una cartografia del reale (1992).

 Rosa era uno degli artisti visivi più talentuosi della sua generazione, fondatore insieme a Leonardo Sangiorgi e Fabio Cirifino dello Studio Azzurro, ambito di studio e di sperimentazione audiovisiva e interattiva che ha creato un nuovo modo di pensare l’arte in rapporto con la tecnologia, rendendo quest’ultima, un fondamentale strumento linguistico ed espressivo. Paolo Rosa ci teneva a ricordare sempre nei suoi incontri, la fondativa esperienza nell’ambito del Laboratorio di Comunicazione militante negli anni Settanta a Brera, dove ha mosso i primi passi esplorando fotografia e cinema, ma propendendo per quest’ultima. Disegnatore, pensatore, progettista multimediale e docente d’Accademia, Paolo lascia fiumi di riflessioni e pensieri sull’etica dell’arte nel suo faccia a faccia con la complessità contemporanea, con i “media-mondo”, e sulla sua fondamentale funzione collettivizzante e socializzante. Lascia in eredità a tutti noi il patrimonio inesauribile delle sue straordinarie pratiche artistiche visionarie che affondano le radici in una volontà d’arte totale che lambisce architettura, teatro, danza, cinema, grafica, pittura, video. Come dissociare i lavori di Studio azzurro dagli splendidi disegni preparatori da lui realizzati, che dell’opera formata (sia essa installazione, video o spettacolo tecnologico) diventano la sinopia, il bozzetto preparatorio, le fondamenta dell’intero edificio artistico ma con un forte valore estetico a sé.

Lo Studio Azzurro con Paolo Rosa ha abituato il pubblico a immergersi nella bellezza e talvolta nello stupore della tecnica, conducendolo nei territori dell’io attraverso monitor, schermi e dispositivi interattivi. Ma Paolo era ben consapevole che la potenzialità della tecnologia nelle mani di un artista non dovesse limitarsi a un puro uso funzionale o a un solo ambito estetico o poetico, ma applicarsi ad una vera mutazione sociale e antropologica della società: “Sperimentare questi linguaggi – scriveva nel 1994 – induce a confrontarsi continuamente sull’impatto che essi hanno nella società. Davvero in questo ambito di ricerca si ha la sensazione di sperimentare anche nello spazio sociale, inciampando spesso in qualche nervo scoperto della contemporaneità”. L’artista si appropria dei media per dar loro un senso diverso dalla finalità tecnica per cui sono stati progettati: con questo approccio legato all’idea di “reinventare il medium”, le tecnologie non sono più “semplici attrezzi del mestiere, docili e inerti, ma diventano portatori di senso, di una nuova visione del mondo”.

Studio azzurro ci ha abituato a operazioni di ribaltamento straneante della funzione originaria delle tecnologie, una volta approdate nell’arte: i raggi infrarossi – triste ricordo di una guerra del Golfo vissuta attraverso la sua versione spettacolare televisiva – ne Il giardino delle cose, bucavano e rendevano concreto il buio; i raggi X ad uso della polizia aereoportuale in Il viaggio, esploravano storie intime e private. In Kepler’s Traum, opera musicale ispirata alla teoria di Keplero sul movimento dei pianeti, Studio Azzurro porta in scena su uno schermo semicircolare i diversi segnali e le immagini del nostro pianeta provenienti in diretta dal satellite Meteosat, in una potente metafora della necessità di osservare la sfera che ci ospita da un insolito punto di vista, tecnologicamente “aumentato”.

Parafrasando una frase dal libro scritto a quattro mani con Andrea Balzola, L’arte fuori di sé, diventato il suo testamento teorico, la sua arte era “plurale” non solo nella condivisione della progettualità ma anche nel linguaggio e nella tecnica. Non più il solo video monocanale, non solo la semplice videoinstallazione ma videoambienti, narrazioni complesse, plurali appunto, perché si relazionano contemporaneamente con lo spazio, con la luce e con lo spettatore; sono quadri in movimento, architetture visuali e sonore che strabordano dai confini e dagli steccati a senso unico dell’arte. Il visitatore scopre dentro il cerchio iniziatico dell’opera, un nuovo mondo, talvolta un mondo interiore e può decidere con quale senso appropriarsene, o semplicemente abbandonarsi al flusso mai interrotto di stimoli, percezioni, sensazioni. “Installazioni come luogo in cui stare dentro una narrazione”. Così per CoroTavoliSensitive CityIl soffio sull’angelo e l’ultimo lavoro In Principio (e poi), ideato per il padiglione della Santa Sede della Biennale di Venezia. Se i nuovi media promuovono la creazione di uno spazio sensoriale dinamico e sollecitano a una visione e un ascolto sinestetico, nelle installazioni interattive di Studio Azzurro cosmografie di corpi giocano con il soffio, con il battito delle mani, con il suono, con luci impalpabili che danno forma a un volto. Nell’estetica liquida “sottrattiva” e relativa poetica della trasparenza di Studio Azzurro, prende campo un’interattività che si libera dall’evidenza delle corazze tecnologiche per operare in uno spazio sgombro ma sensibile, ricco di sollecitazioni emotive dove il vuoto è forma da riempire di “vibrazioni, sovrapposizioni, oscillazioni, contrasti, che sono la spina dorsale della nuova narrazione”. Per la serie di installazioni che compongono Mediterraneo gli elementi naturali, la moltitudine di lingue, il lavoro dell’uomo sono messi in connessione con la tecnologia, che è la chiave di accesso al paesaggio, ai colori, ai suoni. Si entra nell’interattività con un gesto naturale e con un corpo senziente. Ha ragione la videomaker Agata Chiusano a dire che le videoinstallazioni di Studio Azzurro “hanno conquistato uno spazio fino allora inesplorato: quello della fisicità emotiva dello spettatore”.

Questa modalità di naturale artificialità, che prevede l’esposizione di “ambienti sensibili” al calore umano, al suono prodotto dal battito di una mano, che escludono qualunque interfaccia tecnologica e promuovono, come ben stigmatizza Valentina Valentini, “lo spettatore come io narrante”, è una costante della ricerca di Studio Azzurro sin dagli esordi. Nel Nuotatore, una delle prime installazioni del gruppo, lo spettatore è materialmente immerso nella vasca vuota di acqua ma riempita di monitor sincronizzati ricostruita dentro Palazzo Fortuny ed è sollecitato a immaginarsi una storia seguendo il nuotatore nella sua linearità di percorso acquatico ma anche i relitti e le tracce inattese che interrompono la serialità dell’azione. Perché in fondo “L’idea di interattività era latente nelle nostre videoinstallazioni. Un’interattività concettuale, non fisica o parzialmente fisica perché si poteva interagire con lo spazio

Non c’è dubbio che la data di nascita del videoteatro sia sancita proprio dagli spettacoli di Paolo Rosa e Studio Azzurro in collaborazione con Giorgio Barberio Corsetti: da Prologo a diario segreto contraffatto (1985) a Camera astratta (1987), quest’ultimo considerato un “esempio-faro” del teatro elettronico italiano e che raccoglie l’eredità lasciata dal Teatro Immagine di Memé Perlini, nome storico dell’avanguardia romana.  Il Dams di Bologna nel 2003 organizzò un importante convegno dal titolo Lo schermo e lo spazio, coordinato da Gerardo Guccini, in cui Paolo Rosa intervenne proprio a spiegare le ragioni dell’innovazione del lavoro teatrale insieme con la Gaia scienza di Corsetti in cui la tecnologia entrava non quale elemento decorativo ma come appendice fondamentale per l’attore e per lo sviluppo stesso della drammaturgia: “Sono spettacoli che ci introducono alla ‘doppia scena’ e al dialogo tra personaggio naturale e personaggio artificiale, che ci dava insomma la consapevolezza che usare la tecnologia in scena voleva dire pensarla in termini drammaturgici prima ancora che scenografici. I monitor recitano, si muovono, si stancano come gli attori, mostrandosi in tutta la loro fisicità e fragilità.”

Paolo odiava correnti ed etichette e per questo motivo si tirò ben presto fuori dal contesto della videoarte e, in generale, dal cosiddetto “sistema dell’arte”. L’arte elettronica, era solito dire, ha una forza dirompente tale che fa saltare il problema disciplinare: “La videoarte ci sembrava che fosse come la bodyart, come la conceptual art, una delle tante forme e tendenze delle arti visive”.

Di Paolo Rosa ci mancherà la gentilezza, la generosità e la passione che metteva nel suo lavoro; ci mancherà il sorriso e la disponibilità a confrontarsi e a dialogare, a mettersi a disposizione di tutti, di studenti e neofiti dell’arte elettronica come di critici acclamati. Ci mancherà la persona impegnata nel suo tempo, preoccupata di dar vita più a “contesti partecipati” che a opere, a connessioni e relazioni più che a creazioni artistiche.

Avevo sentito Paolo poco prima di Ferragosto: ci legavano amicizia, studi e lavoro in Accademia a Brera. Era stato Paolo a introdurre il mio libro Nuovi media nuovo teatro a Book city a Milano.
Mi congedo facendo mio questo commosso ricordo di Sandra Lischi, studiosa di media e cinema che mi ha permesso di conoscere, all’Università di Pisa, la straordinaria lezione d’arte e di umanità di Paolo:

Ripenso all’impressionante qualità e quantità dei doni di Paolo: le sue folgoranti, problematiche sintesi teoriche; i suoi film, con quella particolare libertà di sguardo; la sua infaticabile attività di insegnante; i suoi innumerevoli testi; la sua disponibilità e curiosità umana; il suo modo di pensare, progettare e accompagnare la creazione artistica; la sua idea di impegno; la sua serietà; il suo sorriso; la grazia che metteva in tutto; e anche la garbata fermezza, la lucidità critica, lo scontento per un paese e per un sistema dell’arte sordo e cieco; la rivendicazione di spazio alla poesia e alla bellezza mai disgiunte dal senso del vivere civile, della memoria, del potere rivoluzionario del linguaggio. Sono ormai un patrimonio inciso a fondo nel nostro percorso le sue riflessioni sulla tecnologia, il suo pensiero critico sull’interattività non come dispositivo tecnico ma come possibile attivazione di sensibilità, di intelligenza coniugata con la meraviglia; la sua teoria di una ricerca che può e deve essere donata anche in una dimensione di “spettacolo” (togliendo a questa parola la pesantezza volgare che l’ha avvolta in quest’epoca); la sua consapevolezza culturale e la sua capacità visionaria. La sua teoria si incarnava nella vita stessa di Paolo: l’importanza e la responsabilità del comportamento, l’etica, l’idea del “dono” che emergono dai suoi scritti sull’arte erano anche nel suo modo di essere.

http://www.youtube.com/watch?v=N88xXGWoSXs&feature=share&list=PLKQi86dfXuoZBfN6GOTKT1tOKUyLyuG_T

Il Teatro in Kosovo
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Kosovo: i protagonisti del nuovo teatro e i centri culturali della capitale.

Pubblicato su Rumor scena 

Passaggio nei Balcani. (1)

Nonostante il conflitto nei Balcani sia terminato quattordici anni fa e il Kosovo si sia autoproclamato Repubblica dal 2008 (NSK), ancora profonde sono le cicatrici della guerra contro la Serbia, che ha riconosciuto una linea amministrativa di confine (Abl) ma non l’indipendenza della sua ex regione meridionale. Per le strade si vedono sempre meno i mezzi della sicurezza internazionale (Kfor, Unmik, Eulex, Osce), considerato che da giugno 2014 molte delle missioni militari chiuderanno e si darà il via a un processo di “normalizzazione” nell’amministrazione del governo locale. La questione dei confini e la tematica del nazionalismo sono tuttavia, laceranti e palpabili, e ad attraversare queste zone, soprattutto nella parte settentrionale del Kosovo, dove è presente l’enclave serba di Mitrovica, tornano in mente le parole dello scrittore triestino Claudio Magris: “I confini muoiono e risorgono, si spostano, si cancellano e riappaiono inaspettati. Segnano l’esperienza, il linguaggio, lo spazio dell’abitare, il corpo con la sua salute e le sue malattie, la psiche con le sue scissioni e i suoi riassestamenti, la politica con la sua spesso assurda cartografia”. (Come i pesci il mare, “Nuovi Argomenti”, 1991).

Lo sviluppo urbano dopo la fine del conflitto, ha avuto una progressione vorticosa (il cosiddetto “turbo-urbanism”), apparentemente senza un vero piano regolatore, lambendo anche aree collinari un tempo preservate dal cemento perché situate in zona sismica. Coesistenze anche violente di stili e architetture poco coerenti con il paesaggio, fanno di Pristina, la capitale, una città caotica e ben poco riconducibile a una sola tipologia edilizia. L’esterno della Biblioteca Nazionale (iniziata nel 1975) ha un’improbabile e assai orribile germinazione di 99 cupole di vetro ricoperto di rete metallica: è stata inserita tra gli edifici più brutti del mondo, nella classifica del Daily Telegraph. Allo stesso stile – Brutalismo– sono riconducibili anche il Centro sportivo (una specie di fantascientifica astronave) e il Grand Hotel. Il cuore pulsante della città si snoda sul lungo Boulevard Madre Teresa, oggi definitivamente terminato con l’allestimento di una fontana che si illumina di luci colorate e sbuca direttamente dalla pavimentazione proprio davanti al Teatro Nazionale. AI lati del Boulevard, venditori di castagne arrostite, di libri usati e di schede telefoniche si alternano a bambini rom che suonano percussioni. Non sembra, comunque, di essere in Kosovo. Piazze nuove di zecca, illuminazione, fontane, negozi e moda in vetrina che guarda all’Europa dell’Ovest, sia pur con qualche anno di ritardo. Certo, questa immagine di Pristina non rappresenta la realtà kosovara, povera e con case sovente senza acqua e elettricità. Ben due statue dedicate ad eroi o “amici” del Kosovo, fanno bella mostra di sé: una è dedicata a Ibrahim Rugova, primo presidente e capo, all’epoca del conflitto, di una sorta di movimento autonomista pacifico, e l’altra è la controversa statua dedicata al “liberatore” Bill Clinton nell’omonimo viale. Uno dei tanti segnali tangibili dei forti contrasti che qua convivono. E’ chiaro che Pristina sta vivendo una rinascita che la potrà portare ad essere in questo processo di lento decentramento culturale verso Est, una delle città europee della cultura.

Luoghi e centri culturali.

Il Teatro Nazionale di Pristina (Teatri Kombetar) è uno spazio culturale istituzionale di limitate dimensioni come capienza (300 persone circa), una pianta a ferro di cavallo senza ordini di galleria ed è considerato il “salotto buono” della città. Le attività teatrali vengono insegnate alla Facoltà d’Arte dell’Università di Pristina che ha materie come scenografia, regia, recitazione, storia del teatro e una sala teatrale interna per gli esami di profitto, anche se vengono usate metodologie d’apprendimento e repertori drammaturgici più conservativi che non innovativi.

Le istituzioni culturali di Stato sono presenti, poi, con il Museo Nazionale (che ospita sia il Museo archeologico con la famosa terracotta neolitica della Dea sul trono, emblema della città, che una terrificante esposizione stabile dedicata alla presenza militare dell’Onu in Kosovo) e il Museo etnografico ricavato da un complesso residenziale di impianto ottomano ben conservato. Capitolo a parte la Galleria Nazionale d’arte contemporanea il cui conservatore nonché artista Erzen Shkololli organizza mostre collettive della cosiddetta Balkart di notevole interesse e convegni che fuoriescono dai puri slogan nazionali: se l’evento del 2012 era stato Adrian Paci, nel 2013 si sono susseguite mostre organizzate da curatori internazionali (Charles Esche, Christine Frisinghelli e Galit Eliat). Un padiglione della 55° Biennale d’Arte di Venezia era dedicata al Kosovo.

Più che le strutture istituzionali, sono i piccoli spazi culturali decentrati i luoghi dove si concentrano le forze migliori e giovani per un possibile e radicale cambiamento di rotta verso una cultura identitaria che si emancipi ma guardi anche a Ovest dell’Europa. Per avere un’idea della vivacità e della crescita artistica del nuovo Kosovo, può essere utile consultare il sito Kosovo 2.0, rivista on line che ha un corrispettivo quadrimestrale stampato dall’ottima qualità di testi e grafica. Sono quattro fondamentalmente i centri di aggregazione della capitale: si parte da Qendra Multimedia, nel quartiere Dardania, di fatto la struttura produttiva che supporta le migliori realizzazioni nel campo teatrale e letterario del Kosovo anche grazie ai finanziamenti europei. Ideato da Jeton Neziraj, giovane drammaturgo e personaggio tra i più autorevoli nei Balcani, Qendra ha prodotto spettacoli e pubblicato un interessante volume dal titolo New literature from Kosovo elencando autori, traduttori e registi presenti in questo territorio tra cui Beqe Cufaj, Visar Krusha, Shpetim Selmani e molti altri.

adrian Paci

  Adrian Paci all’opening della mostra di Pristina, foto Enver Bylykbashi

Tetris è, invece, un open space, un locale alternativo dove vengono proposti concerti, mostre e iniziative letterarie: ricavato da un appartamento privato, il luogo è accogliente e caldo e si può bere dell’ottima Rakija (la grappa aromatizzata locale) mentre si chiacchiera con i giovani creativi della capitale che qua si danno appuntamento. All’epoca della mia presenza a Pristina, a fine novembre era in programma un vernissage dell’artista Rron Qena, pittore di talento che mescola avanguardie nei suoi coloratissimi ritratti al femminile.

Imperdibile il caffè-libreria Dit’e’ Nat, luogo molto “trendy” della capitale dalla vaga atmosfera parigina, che a certe ore del giorno (a pranzo) e della sera (dopo cena) si riempie all’inverosimile di giovani studenti universitari o intellettuali, per bere e mangiare ma anche per consultare e comprare libri e ascoltare musica jazz dal vivo. Qua è possibile conversare con la co-fondatrice, la regista cinematografica Kaltrina Krasniqi che ha fatto del locale anche il luogo di incontri mensili con il cinema. Infine da segnalare tra i luoghi d’arte alternativi Stacion – Center for Contemporary Art. Fondato nel 2006 da Albert Heta e Vala Osmani, Stacion è uno spazio per artisti, architetti, pensatori, critici, e ospita eventi e conferenze internazionali.

I Teatri.

Il teatro indipendente ODA è stato fondato nel 2002 da Lirak Çelaj, attore e Mehmeti, regista. Oltre alle sue produzioni ospita compagnie teatrali dall’Albania, Macedonia e altri paesi balcanici, Europa e Stati Uniti. Oda è membro di vari network teatrali in Europa.

Il Teatro Dodona fondato nel 1985 da Rabije Bajrami e un gruppo di altri artisti come i registi Melehate Qena eIsmail Ymeri è invece un vero simbolo di resistenza. Dedicato espressamente ai ragazzi, questo teatro è stato l’unico spazio culturale rimasto aperto durante il conflitto. Quando le scuole e le istituzioni albanesi chiusero dopo la revoca da parte della Serbia, dell’autonomia del Kosovo, il Teatro Dodona divenne un luogo di incontro per la comunità albanese, e nonostante il rischio, gli spettacoli continuavano a essere programmati; fu, come ricordò il famoso attore e regista kosovaro Faruk Begolli, direttore del Dodona “una protesta contro la violenza, una manifestazione di orgoglio e dignità, una forma di resistenza”. Dalla fine del conflitto sono stati ospitati più di 370 produzioni.

                                                          Jeton Neziraj e la drammaturgia in Kosovo.

Neziraj è la coraggiosa voce politica (spesso censurata) nel teatro del nuovo Kosovo. Autore di oltre 15 commedie (tra cui The last Supper, Yue Madeline yue; The demolition of the Eiffel Tower; Patriotic hypermarket, The bridge, War in time of love) rappresentate in tutto il mondo, discute nelle sue opere, di terrorismo, razzismo, discriminazione, corruzione, e in generale del “chaotic post-war Kosovo”, la qual cosa non è stata senza conseguenze: per la sua collaborazione con Saša Ilić sulla antologia serbo-kosovara Iz incontaminate, s ljubavlju / Nga Beogradi, mi Dashuri (Da Pristina, con Amore / Da Belgrado, con Amore) ha perso la sua posizione di direttore artistico del Teatro Nazionale del Kosovo nel 2011. Neziraj pone al centro della sua riflessione, una critica alla propaganda governativa che non risparmia neanche il teatro, e sottolinea l’importanza dell’arte in una società democratica: “Un’ondata di mania patriottica ha riempito i teatri del paese che producono sempre lo stesso noioso discorso politico: quello nazionalista”.

Neziraj ha collaborato con il famoso CZKD (Centro per la decontaminazione culturale) di Belgrado diretto daBorka Pavicevic e ha realizzato l’evento Polip International Literature Festival. La nuova scena teatrale non dovrà restare ancorata al passato, alle separazioni del conflitto, ma sicuramente dovrà essere uno strumento per il superamento del trauma, per la ricostruzione, per un nuovo dialogo e una nuova identità. La natura politica del lavoro di Neziraj, le cui opere sono state tradotte in numerosi paesi fuori dalla cerchia balcanica, è nello svelare l’ambiguità della Storia e la sua irriducibilità a un racconto coerente, e come tale, non può che essere esposta in modo distorto, sarcastico, surreale e in uno stile asciutto che taglia l’inessenziale. Neziraj mette al centro dei suoi testi, personaggi emblematici di una condizione non solo sociale e politica ma anche e soprattutto “geografica”, addirittura di frontiera: il Kosovo post-jugoslavo; le circostanze in cui essi si trovano a vivere (guerre, divieti, soprusi, persecuzioni) rendono la loro quotidianità non così lineare, sempre in balìa di deviazioni catastrofiche. Con Peer Gynt dal Kosovo, Neziraj ha scritto una storia paradigmatica della migrazione europea: il suo eroe ingenuo proveniente dal Kosovo vaga attraverso l’Europa, dove sentirà la differenza tra il sogno della libertà e la realtà. In Yue Madelein Yue, una giovane Rom espulsa dalla Germania in Kosovo viene ferita in un cantiere edile: mentre combatte per la vita, il padre combatte per avere giustizia. Ma il grande detonatore dei testi di Jeton Neziraj è l’umorismo. Mille sono le battute nascoste tra le pieghe delle frasi, richiami parodici dietro cui distruggere il potere: la vedova di guerra si innamora dell’addetto all’ufficio Missing person dove era andata a denunciare la scomparsa del marito, l’uomo che fa indossare alla sua donna il burqa, non la riconosce più, in mezzo a troppe donne velate, l’attore che deve leggere il discorso sull’indipendenza del Kosovo del Primo Ministro è in crisi perché non sa quando ci sarà questa indipendenza. Testi critici su Neziraj sono stati pubblicati su Theater der Zeit (dicembre 2013); in Italia sono apparsi alcuni articoli su Post teatro (blog di Repubblica), ateatro.it, Laspeziaoggi, e prossimamente su Hystrio (gennaio 2014) e Teatro e Storia (Febbraio 2014), tutti a mia  firma.

                                    

Il Crollo della Torre Eiffel: dal testo alla scena. Il debutto a dicembre 2013 a Pristina

The demolition of the Eiffel Tower è stato scritto durante una residenza artistica di Neziraj in Francia, in Val de Reuil, a seguito di un invito da parte del regista Patrick Verschueren ed è stato realizzato in forma di reading a New York (al Gerald W. Lynch Theater) in occasione il decennale della commemorazione dell’11 settembre. Agli inizi di dicembre, quest’anno, il testo ha avuto il suo primo debutto teatrale comleto di scrittura scenica al Teatro Nazionale di Pristina con la regia della moglie di Jeton, Blerta Neziraj. Blerta si è avvalsa della dramaturg Borka Pavicevic e di professionisti internazionali (per le coreografie Violeta Vitanova e Stanislav Genadiev, per le voci e musiche diGabriele Marangoni, per le ombre e marionette Clément Peretjatko) che affiancavano gli attori, tutti provenienti dal Kosovo. L’autore “tratta” la tematica urgente del terrorismo come una conseguenza dei conflitti religiosi e politici globali. Tra divisioni, fraintendimenti, fanatismi, violenze (vere e presunte), il testo smonta certezze e luoghi comuni e fa convivere il mito di Orfeo e Euridice con una fiaba (inventata) di atmosfera ottomana.

Due terroristi vogliono distruggere l’emblema dell’Europa per un atto sacrilego compiuto da un francese che va in giro per Parigi a sollevare indisturbato il velo alle donne che indossano il burka. Una serie di fraintendimenti portano alla verità: l’uomo cerca solo di ritrovare la donna che ama, confusa tra mille altre dietro il velo. Quindi si tratta non di una storia di sangue, di vendetta ma di una storia d’amore tra due ragazzi che si conoscono in strada vendendo rose e giornali. Intrecciata a questa vicenda, altre storie si inanellano, creando una drammaturgia costruita con sapienza, su piani paralleli. Si va da quella quasi fiabesca del condottiero Osman che distribuisce veli alle giovani donne (ma anche lui si innamorerà e vagherà a ricercare la sua amata nascosta dal velo da lui donato, cercandone lo sguardo, come Orfeo), a quella piena di non sense dei terroristi improvvisati che arrivano a Parigi per far saltare la Torre Eiffel. Tutto il dramma di Neziraj è una questione di punti di vista, di sguardi alterati o offuscati, di visioni non cristalline, di veli che impediscono la vista o la acuiscono, di sguardi negati. In buona sostanza, di filtri che ci impediscono di leggere la realtà.

Della coppia di terroristi (a metà tra Didi e Gogo di Beckett e Totò e Peppino) che vogliono far cadere il simbolo dell’Europa, viene data un’immagine non molto edificante. Criticano i modi di vita europei, additano la pornografia, litigano tra i componenti delle varie correnti religiose islamiche e conoscono, apparentemente, una sola legge, quella della vendetta. Alla fine l’unica torre che viene distrutta è quella fatta di cerini: qua Jeton Neziraj incontra felicemente lo scrittore Etgar Keret, nato a Tel Aviv l’anno della guerra dei Sei giorni (1967) i cui libri, apertamente ironici sui luoghi comuni della cultura israeliana, sono intrisi di vero humour nero.

In scena quattro attori di talento: Shengyl Ismaili, Ernest Malazogu, Armend Ismajli, Adrian Morina diretti daBlerta Neziraj in un allestimento originale che “intellettualizza” la drammaturgia e la restituisce attraverso corpi che si alternano alle marionette (e talvolta scambiandosi con queste): ne esce una perfetta partitura orchestrale per voci e ombre di grande effetto, ma anche una partitura di movimenti simile agli Actes sans paroles di Beckett. Centrale sia la progettazione di una scenografia da teatrino d’ombre, sia soprattutto l’apparato sonoro e vocale composto da Gabriele Marangoni, a lungo collaboratore della compagnia, che funge da accompagnamento ritmico dando una potente ossatura strutturale musicale dentro cui inserire una gestualità rituale e una mimica non naturalistica. Attori-manovratori di marionette, attori-cantanti, attori-acrobati: una vera prova di bravura da parte degli interpreti, molto apprezzata dal pubblico che ha affollato il teatro.

Il teatro di figura, con i cartoncini e le sagome dei personaggi restituisce la sensazione di atemporalità, perfettamente adatta alla storia leggendaria di Osman. Talvolta, nel compiere movimenti banali come in un rituale, nel ripetere come fossero nenie religiose delle frasi comuni, i personaggi stessi prendono dei tratti automatici e deumanizzanti, in un meccanismo dell’assurdo che dipinge a pieno la nostra società. Infatti la sensazione che la “burattinizzazione” sia dell’intero Occidente è forse un livello di lettura che andrebbe la pena di sondare. E se fossero la politica e la religione stessa a “tenere i fili” dei personaggi (terroristi o capi della rivolta, mandanti o esecutori) e a manovrarli? In scena ci sono figure sicuramente ridicole, private di un pensiero proprio. A loro calza perfettamente la metafora della marionetta senza volontà. Unica, viva, la donna con il burka che rispetto a tutti loro, ciechi o accecati appunto da un potere del tutto arbitrario, vede e ha la libertà agli altri mancata, di agire e scegliere. Blerta porta alla superficie sia una dimensione di affermazione di diritti che l’avversione per “tutto ciò che sembra”. Se nella società contemporanea il potere obbliga a indossare maschere sociali di finzione (che genereranno il conflitto), invece il velo non cambia la persona e il suo modo di essere: l’ironico e profondo brano cantato dalla protagonista velata, dal significativo titolo Io vedo corrisponde nella sostanza, alla frase di Amleto: Io ho dentro ciò che non si mostra.

www.qendra.org

http://www.jetonneziraj.com/

http://www.kosovotwopointzero.com/

Jeux de cartes: intervista a Robert Lepage
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Pubblicato su Interactive-performance.it

Traduzione di Giancarla Carboni

Alla presentazione del progetto Reseau 360°, in occasione del debutto francese di Jeux de Cartes, fa gli onori di casa Philippe Bachman, direttore del teatro La Comete a Chalons en Champagne e anche progettista e ideatore della Rete. Bachman ricorda che sin dalla sua prima stagione nel 2005, aveva programmato Le Projet Andersen: in quell’occasione propose a Lepage di visitare il vicino circo costruito all’inizio dell’Ottocento, che oggi ospita la scuola nazionale delle arti circensi. Si tratta di uno spazio dove negli anni, sono stati programmati anche concerti e spettacoli tradizionali. Proprio durante una conversazione sugli spazi a pianta centrale, Lepage gli suggerisce alcuni spazi simili in Inghilterra (come la Roundhouse, che ospita concerti) e così inizia da parte di Bachman, una ricerca di altri luoghi aventi palcoscenici circolari nell’Europa dell’Ovest e dell’Est, spazi con origini diverse dal circo. 

Si arriva a una interessante mappa di edifici che si originavano dal patrimonio industriale o storico (come gasometri e cisterne d’acqua) riconvertiti in tempi recenti, a spazi per eventi. Questi luoghi molto particolari condividevano – a detta di Bachman – due caratteristiche: il fatto di essere isolati e a pianta centrale.

A questo punto Lepage prende la parola per raccontare, con umiltà e semplicità, la genesi del progetto teatrale vero e proprio. Sono diversi i “temi” affrontati dal regista canadese: la ricerca della forma, la scrittura drammaturgica come un continuo “non finito”, il “racconto in cerchio”, il richiamo al circo e allo show musicale ma anche ai match di improvvisazione e al teatro medioevale… E racconta cosa significa sentirsi “attore bidimensionale” like an Egyptian”.

 

La rottura della frontalità: il teatro degli anni Sessanta

L’idea di lavorare in uno spazio circolare mi interessava. Ho ripensato al teatro gli anni Sessanta, Settanta sino agli anni Ottanta. In quel periodo il teatro provava a rompere la quarta parete e la scena tradizionale lavorando anche in spazi circolari oppure faccia a faccia col pubblico. Si recitava spesso in luoghi industriali, insomma il teatro voleva liberarsi. Si era consolidato un vocabolario legato al vecchio teatro tradizionale all’italiana dal quale ci si voleva liberare: stile di recitazione, messa in scena, tutto era messo in discussione. Era in atto una rivoluzione che avrebbe cambiato le cose. Incastrato dentro una scena video-frontale, mi sono ritrovato come un’immagine “all’egiziana”. 

Negli anni Novanta il teatro comincia ad integrare sempre più spesso le immagini. La tecnologia era più disponibile, più malleabile, più accessibile. Si usava il video, si lavorava col bidimensionale e gli spettacoli erano diventati col tempo, prigionieri di questa forma. Anche io sono tornato a quello schema frontale di scena e mi sono ritrovato “come un’immagine all’egiziana”. Tutto questo era molto interessante e divertente, certamente si stava creando un nuovo vocabolario ma io mi sono sentito imprigionato in questa nuova dimensione. L’idea iniziale infatti, era quella di liberare la scena grazie al video, ma la cosa poi, è ricaduta in una sorta di immobilismo. Nei primi spettacoli, come  che era bi-frontale (le azioni si svolgevano di fronte e dietro uno schermo ndr), non ci si preoccupava necessariamente di quello che la gente vedeva o non vedeva, sentiva o non sentiva ma si cercava di trovare una chiave di recitazione che facesse arrivare la storia agli spettatori. Così mi sono ritrovato invece, nei miei spettacoli alla fine degli anni Novanta schiacciato come in una sorta di sandwich.

La scena a cerchio con Peter Gabriel: il ritorno alla teatralità 
Nel 2001 ho collaborato, per la seconda volta, con Peter Gabriel per il suo tour Growing up Live. Il palco era circolare e molto simile a quello di questo spettacolo. Nonostante non fosse uno show perfetto, mi aveva fatto ripensare all’idea di liberarmi del quadrato. Il solo modo di superare il problema di lavorare in un’area circolare, è quello di reinventarne il vocabolario. Quando c’è un gruppo che suona, si pongono dei problemi legati alla gestione dello spazio: per esempio, il chitarrista per chi deve suonare? Deve guardare il pubblico o altrove? Non era certo la prima volta che un gruppo rock suonava in uno spazio del genere, ma per me era la prima volta. Mi ponevo anche il problema del video: se non c’è uno sfondo o uno schermo, come si fa?
Mi piaceva molto l’idea del cerchio, il fatto che lo spettatore vedesse lo spettacolo e allo stesso tempo vedesse se stesso. Il pubblico guarda lo spettacolo, cerca di capire quello che succede ma allo stesso tempo vede l’eco della sua stessa reazione, si è consapevoli di far parte di una sorta di comunità. Mi sembrava che tutto ciò avesse una teatralità che io avevo perso nei miei spettacoli e avevo voglia di tornare a questo. 
Ho iniziato Jeux des cartes consapevole che sarebbe stato molto problematico lavorare in uno spazio circolare: trovare il livello di recitazione, decidere di recitare di fronte a solo una parte del pubblico ma necessariamente di spalle a qualcun altro, fare attenzione che il dettaglio sia visibile, che arrivi un’immagine molto precisa perché tutti la vedano e capiscano. Ma allo stesso tempo è questa la bellezza delle cose. E’ necessario mettersi in pericolo soprattutto a teatro, bisogna rischiare.

C’è una cosa che ho riscoperto dopo lo show di Gabriel e ancor più col Cirque du Soleil, (parlo dello spettacolo nel tendone dove non c’è uno spazio esattamente a 360° ma semicircolare, un po’ elisabettiano): l’idea che mi ha subito affascinato è che il pubblico vede la performance ma allo stesso tempo gli spettatori. Questo fa sì che il pubblico sia consapevole che si racconta una storia ma allo stesso tempo si crea anche una distanza.

Circolarità e verticalità: il circo, il teatro medioevale 
L’elemento che hanno in comune tutte queste esperienze è l’idea della verticalità. Quando il direttore del Cirque du Soleil mi chiese di collaborare con loro, mi disse che potevo fare ciò che volevo ma dovevo necessariamente sviluppare l’azione coprendo tutti i livelli dal suolo al soffitto. Mi disse che questa linea immaginaria verticale doveva essere il mio riferimento costante. Mi ha fatto capire una cosa importante e cioè che il circo è verticale, che quando si lavora su uno spazio circolare c’è necessariamente l’esigenza anche della verticalità.

 

Nel XX secolo siamo ossessionati dal cinema, dove l’immagine è orizzontale ed è la telecamera che si muove e ritrae l’uomo e il suo ambiente. Il teatro, al contrario lavora da sempre sulla verticalità. L’uomo è sulla terra, verso l’alto sono le sue aspirazioni, il suo dio, la sua morale.
Anche le storie da sempre erano scritte in quel senso: c’è l’uomo e in alto la sua volontà di crescere, le sue aspirazioni e la sua morale, più in basso il diavolo, l’inferno. Mi sono accorto che anche noi di Ex Machina, nel modo di raccontare le storie, avevamo eliminato il diavolo e dio (non ci chiamiamo infatti Deus ex machina ma solo Ex Machina dunque dall’inizio abbiamo eliminato la parola dio); volevo tornare a questo modo di raccontare le storie dove la verticalità ci forzava a ricongiungerci un po’ di più alla poesia, alla mitologia. Il cerchio insomma, ci ha messo di fronte a cose che non avevamo mai fatto, che non conoscevamo.
Per me è un’esperienza davvero molto ricca. Con l’organizzazione Reseau 360° e con Philippe è interessante discutere su cosa vuol dire lavorare in uno spazio circolare e che cosa vuol dire raccontare una storia in cerchio, quali sono i punti forti e quelli deboli, quali sono i vantaggi e quali i pericoli. Trovo che questo sia molto sano. In questo momento, non dico che le persone amino la facilità, ma c’è una sorta di accettazione degli standard industriali che dicono che tu devi raccontare una storia frontalmente, seguendo degli schemi fissi. Certo, ci sono quelli che lo fanno bene e quindi tanto meglio per loro, ma io amo complicare le cose!

Tecnici e attori dentro e sotto la scena 
Ci sono dodici persone che lavorano nello spettacolo tra attori e tecnici. Noi parliamo di tecnici ma si tratta di manipolatori che come con le marionette, muovono la struttura partecipando attivamente al racconto della storia. Si cerca con loro di capire come fare le entrate e le uscite in una struttura circolare. A partire dal momento in cui abbiamo cominciato a improvvisare, a esplorare le storie, gli attori suggerivano dei personaggi o delle situazioni e ci siamo ritrovati che erano dentro delle camere d’hotel. Allora ci siamo posti il problema di come rendere le quattro pareti delle camere; io amo molto gli ostacoli, amo molto i problemi e così proviamo varie soluzioni direttamente in scena. Prima dello spettacolo gli attori stanno almeno una ventina di minuti sotto il palco ad aspettare perché non possono entrare dopo gli spettatori, non possiamo vederli entrare. Gli attori hanno una sorta di volontà elastica per fare il vuoto nella mente e aspettare! Questa dimensione circolare è un’altra cosa rispetto a quello a cui siamo abituati, e sono queste le cose che mi attraggono..

Processo di scrittura: le carte in mano 
Io non ho tutte le soluzioni in tasca, le regole o le chiavi di ingresso: ci si imbarca in un’avventura in cui ogni tanto si trovano delle soluzioni che funzionano. C’è anche il pubblico che ci dice quello che funziona, quello che ha capito o meno e questo fa parte del processo creativo. Ci siamo riuniti attorno ad un tavolo, attori e non attori. Nei miei spettacoli ci sono sempre artisti che arrivano da diversi ambienti (cantanti lirici, imitatori, non attori etc.), che arrivano con un bagaglio di esperienza diversa. In questo caso ho dato loro le carte da gioco, che non sono esattamente un tema ma una risorsa, e insieme abbiamo giocato e parlato, abbiamo fatto delle improvvisazioni e anche delle ricerche.
Lo spettacolo è un po’ l’immagine di qualcosa che funziona bene ma prima di prendere la sua forma finale passa attraverso molti stadi e prove. Concentrando le prove in brevi blocchi di tempo (qui a La Comete 5 giorni, a Québec 10 giorni in cui abbiamo messo in piedi la struttura dello spettacolo e lo abbiamo presentato, abbiamo fatto 3 prove pubbliche) c’è sempre molto poco tempo per sviluppare il lavoro.
Tra questi blocchi ci sono 4, 5, 6 mesi. Ciò significa che non si fanno molte prove, tutto succede durante la tournèe. Arriviamo in una città dove ci prendiamo qualche giorno per discutere cosa cambiare, valutando ogni volta quello che ha funzionato o meno e si cambiano delle cose. Gli attori decidono a volte, anche di scambiarsi le battute.
Tra Madrid (dove è avvenuto il debutto assoluto, ndr) e qua a Chalons sono cambiate molte cose, a Madrid lo spettacolo infatti durava 3 ore, qui 2 ore e mezzo. I personaggi prima di trovare la linea interpretativa improvvisano, tentano degli esperimenti. All’inizio si cambiano molte cose perché ci si accorge di volta in volta di quello che non funziona e a forza di recitare, lo spettacolo inizia a prendere forma, a scolpirsi, il testo si affina e i personaggi trovano il loro percorso e la loro collocazione. Non c’è una visione di partenza di un grande autore che dice “si scrive così, si fa così”, la scrittura fa parte della dinamica del gruppo. Questo è uno spettacolo che ha bisogno di un grosso montaggio, sono necessari 2 o 3 giorni di lavoro e noi ne approfittiamo per far arrivare gli attori un po’ prima e discutere con loro. Alla fine di queste riunioni si prova e si fa una generale tecnica per capire se tutto funziona. Durante la generale tecnica si provano anche varie soluzioni drammaturgiche.

Cambiamenti dell’ultimo momento. Il teatro è uno sport 
Da quando è iniziato questo spettacolo abbiamo fatto 15 repliche. Ci sono dei punti che rimangono stabili perché funzionano. Ci sono molte cose che cambiano e altre che si solidificano, si fissano. In questa scelta, in questo modo di lavorare (ed è ciò che ci piace) c’è la scelta di mettersi in una condizione di pericolo. Le persone si affezionano ai punti più forti dello spettacolo, quelli che funzionano, quelli emozionalmente solidi. Sappiamo ad esempio, che la fine dello spettacolo sarà con il personaggio che soffre di gioco compulsivo e il suo sciamano, ma quello che dice e quello che succede cambia ogni volta, ancora non abbiamo trovato la chiave. Anche stasera cambieremo qualcosa, riscriviamo. Ma questo è il nostro sport! E’ molto sportivo quello che facciamo.  Ci sono delle cose che il pubblico non capisce ma ce ne sono altre che lo incollano alla storia. Noi ascoltiamo, arricchendo il nostro lavoro di nuovi elementi. Questo è un modo particolare di lavorare, fuori dal sistema nel quale ci si aspetta lavori subito pronti all’uso.

La narrazione non è all’altezza di un autore come me? Ma la storia non è ancora finita… 
La storia non è ancora cresciuta, i miei spettacoli sono così, può darsi che qualcuno abbia visto miei spettacoli più completi; è vero, ciò non scusa certe lacune drammaturgiche dello spettacolo. Ma è così che procediamo. Ancor prima che lo spettacolo venga scritto o messo in scena ci diciamo cosa vogliamo dire e fare e mettiamo in piedi il progetto scenografico che ci offre un terreno di gioco. Da qui partiamo per raccontare le storie e in questo terreno di gioco le cose nascono e crescono. Non sappiamo sempre dove siamo rispetto al percorso evolutivo dello spettacolo. Per esempio, quando abbiamo fatto Lipsynch a Londra c’era un ottimo impianto scenografico a supporto di idee che avevamo in testa ma che ancora non avevano trovato una forma. E la storia non reggeva ancora. Dopo tante repliche, lo spettacolo ha preso una forma precisa, esatta. E’ il mio modo di lavorare, non posso fare diversamente. Non ci sono certezze. E’ così che ho sempre sviluppato i miei spettacoli e a parte questo, c’è anche un fattore culturale. Cioè a dire che ci sono degli spettacoli che evolvono meglio all’interno di un contesto, in una certa cultura e che per diversi motivi rendono possibile la crescita dello spettacolo. Anche solo il fatto che all’inizio non ci si accorge che è mal scritto perché magari va in scena in un paese di lingua diversa. Anche questo fa parte dell’evoluzione dello spettacolo. L’itinerario dello spettacolo partecipa al suo sviluppo. Penso che dopo le date in altre città francesi (Lyon, Amiens) e inglesi (Londra), alla data di marzo a Parigi il pubblico vedrà uno spettacolo più completo. E’ sempre una nuova esperienza per chi si interessa al processo creativo, a me interessa soprattutto a quello. Ci sono persone infatti che vengono più di una volta agli spettacoli (indica Anna Monteverdi ndr) La delusione fa parte del processo ma a me questo piace.

Una questione di perfezione: il regista è un vigile urbano 

Ho una preoccupazione di perfezione per la scrittura e anche per la drammaturgia. Ma questa cresce lentamente perché si lavora con materiale umano. La tecnologia la si programma e si fa ciò che si vuole. Gli umani invece sono complessi! Per me questo è un lavoro necessario da fare, per gradi, una scoperta: non so dove andiamo ma so che c’è sempre un continente. Non sono un autore e un regista che dice “Seguitemi so dove andiamo”. Gli attori sono molto coraggiosi: nel momento in cui mi chiedono cosa devono fare nello spettacolo io rispondo che non lo so. Ed è vero, so solo che parla del gioco delle carte. Non ho subito la storia, io scavo e scolpisco il materiale che ho a disposizione. Le persone portano le loro esperienze, le loro idee e io divento un vigile urbano e a un certo punto, quando le cose circolano bene, sono in grado di vedere davanti a me le storie e di scolpire il personaggio, ma all’inizio non ci sono che idee e bisogna avere pazienza. Non sono quel tipo di artista che arriva con la visione di quello che vuole fare. Di sicuro sono come il capitano della nave che dice che non sa dove si va e quando si arriverà ma solo che c’è un continente, e che quindi si toccherà sicuramente terra. Si continua a lavorare sino a quel momento.

Il segreto: lavorare con l’agilità del rettile 
Lo spettacolo dipende anche dal tipo di tensione che si dà agli artisti. Noi pensiamo di presentare al pubblico delle cose interessanti, delle idee davanti alle quali può, più o meno, rimanere colpito, ma creiamo comunque un interesse. Anche se il pubblico non ha capito tutta la storia per intero, lo si ascolta cercando di capire se ci sono dei punti forti da valorizzare. E’ il nostro modo di aprire i giochi, mettere in campo anche la nostra ignoranza, ma c’è sempre grande fiducia. Anche se non c’è una garanzia assoluta in questo metodo di lavoro collettivo di Ex Machina, è necessario passare dagli spettatori e anche dalla critica. Raccogliamo i punti di vista e li mettiamo dentro unmulinello e ci lavoriamo.
E’ molto difficile il momento della ghigliottina della prima, il debutto: io sono riuscito a evitarla. Noi lavoriamo con l’agilità del rettile (sposta la mano da una parte all’altra mimando il serpente, ndr), cioè cerchiamo continuamente nuove vie. Ogni pubblico vuole cose diverse. Anche questo fa parte del mio lavoro. Ho detto prima della questione culturale, mi viene in mente La face cachée de la lune. Non avevo idea che trattasse temi universali e non sapevo in che modo li trattasse. Ho portato lo spettacolo in Europa ed è andato bene sino a quando non sono arrivato in Corea e il pubblico fece delle riflessioni importanti sui due fratelli della storia e su cosa significava per loro, e così mi sono reso conto che c’era una dimensione universale, ma questo non l’avevo messo in conto nel mio spettacolo, è una cosa che è nata li. Così mi sono rimesso a scrivere e ad arricchire la storia sulla base di questa riflessione. Io non so quale spettacolo lo spettatore vedrà ma cerco di confrontare sempre la storia con diverse culture e diverse persone, e questo è una vero lusso.

L’attore? E’ un cantore, uno che fa, uno che mostra 
Un buon attore normalmente è quello che partendo da un testo fa un’ ottima interpretazione e il regista può lavorare faccia a faccia con lui perché tutto è dentro il testo. Noi non abbiamo testo e allora il gioco è davvero un gioco e al momento giusto si finisce per ricreare e rifare da zero. Si cambia in continuazione e alla fine è come se avessimo avuto un buon testo sin dall’inizio. Ma il testo in realtà all’inizio non c’è, quindi io non posso dirigere l’attore, si può parlare delle idee. L’attore diventa più un cantore, uno che fa, uno che mostra.

Never ending stories 
Noi non abbiamo modo di prenderci due anni di lavoro su un solo spettacolo in Canada. Bisogna lavorare su più spettacoli e non si può provare concentrando il numero di ore a disposizione. Noi preferiamo prendere questo numero d’ore e allungarlo sui due anni di lavoro. In questo spazio di tempo le persone pensano allo spettacolo e fanno delle ricerche, tornando con delle buone idee. Utilizziamo il numero d’ore a nostra disposizione allungandole su un periodo più lungo. Si comunica con tutti i mezzi quando non ci si vede (mail, telefono etc) perché, non essendo una compagnia, lavoriamo con persone che fanno anche altre cose e vivono in città e stati diversi. Ma il lavoro di messa in pratica si fa quando siamo riuniti in gruppo prima dello spettacolo. Ad esempio, ogni volta vediamo il video dell’ultimo spettacolo per capire ciò che si è cambiato e va bene, e quello che si deve cambiare. Gli attori allo stesso tempo hanno una visione della scena nel suo complesso, a volte addirittura rimangono sorpresi vedendo quello che succede in scena e in relazione anche a questo cambiano delle cose dei loro personaggi. Quando ci incontriamo la volta successiva tutti hanno molte nuove idee. Questa è una dinamica che io trovo molto eccitante, c’è un’effervescenza… ed è sempre il rifiuto della ghigliottina della prima: si prova uno spettacolo per un anno, si fa qualche anteprima e poi il debutto e da quel momento non si muove più nulla, se alle persone piace, bene, se non piace.. è tutto finito. La ghigliottina. Io non ho voglia di stare dentro un sistema così, io penso che si debba lavorare su un progetto sino a farlo funzionare. E’ difficile farlo nel sistema attuale ma noi crediamo fermamente in questo processo creativo.
Gli attori hanno sempre voglia di recitare come quando si fanno i match di improvvisazione: non si sa se funzionerà o meno. Bisogna essere un po’ dipendenti dall’adrenalina per lavorare così.
Questo non giustifica nulla, se ci sono dei problemi drammaturgici ne siamo coscienti e cerchiamo di fare meglio. Ma è lo sport che pratichiamo, è uno sport diverso.

La creazione collettiva? Un’idea fricchettona a cui io credo ancora 
Siamo partiti da un gioco di carte, se giochiamo insieme e io chiedo ad esempio “A cosa vi fa pensare il colore rosso o il nero nel gioco delle carte?” Mi direte qualcosa e io non potrò mai essere in disaccordo con un’impressione di un altro, quindi non ci sono mai dei conflitti da questo punto di vista. Ma se si facesse così col tema della guerra nascerebbero subito dei conflitti perché tutti arrivano da una classe sociale differente e da un posto diverso e sul tema abbiamo opinioni diverse.
Si inizia con delle cose più poetiche e chiedo ad esempio ciò che le carte evocano e le persone raccontano fatti personali. Io prendo tutto questo materiale cerco di analizzarlo e intrecciarlo, cosicché il lavoro prende il colore di chi partecipa e questo spettacolo è davvero il risultato di queste sei persone più me.
Può capitare che per ragioni professionali qualcuno non possa continuare la tournèe e venga sostituito da un altro attore che cambierà ancora il colore dello spettacolo, e farà delle cose migliori o anche peggiori. Io so che in tutte le creazioni non c’è niente che si perde e niente che si crea. Molto spesso ci si riunisce intorno al tavolo portando delle idee che poi vengono abbandonate, addirittura buttate via ma che poi in qualche modo finiscono per riaffiorare facendosi strada in diversi modi e risalendo a galla per trovare la loro collocazione.
E’ così: una vecchia idea fricchettona degli anni Sessanta di creazione collettiva ma io ci credo ancora, ci sono persone che sono più al loro agio con questo modo di lavorare piuttosto che in una dittatura di regia.

L’attore deve essere in pericolo: la regola del teatro dai match di improvvisazione 
Noi non ci aspettiamo che lo spettatore si interessi al lungo processo di creazione. Noi cerchiamo di fare il meglio nel momento in cui lo stiamo facendo, per lo spettatore che c’è in quel momento, in quel luogo, senza giustificare nulla di quello che accade in scena facendo riferimento agli spettacoli precedenti o a quelli futuri. Tutte le sere cerchiamo di fare il meglio. C’è un motivo per il quale procediamo così, ed è per il fatto che il teatro abituale, convenzionale non suscita in noi lo stesso interesse. Non è una critica, non dico che quello non è un buon teatro, dico solo che quel tipo di teatro non ci mette in pericolo ogni volta che lo mettiamo in scena. Più regole ci sono, meno interessante sarà per un attore o per un regista.

Io arrivo dai match di improvvisazione e ho lavorato per il circo dove gli artisti provano i numeri di giocoleria ma non sono mai veramente sicuri di essere pronti. Credo però che lo spettatore riceva comunque qualcosa di importante ed è per questo che io difendo questo modo di fare e tutti i rischi che questo comporta. Cerchiamo di fare il meglio che si può la sera che si fa lo spettacolo; poco importa se a volte la drammaturgia è un po’ in bilico; il pubblico vede delle persone che sono in “pericolo”, che hanno questa energia e a volte questo fa scattare il miracolo, a volte è davvero miracoloso! A volte per niente.. Succede sempre che c’è qualcosa che fa scattare la molla della soluzione giusta, ci prendiamo il rischio di offrire questo.

Una drammaturgia a incastri 
Siamo sicuri che faremo come spettacolo: picche, cuori, danari e fiori ma queste carte prima eranospade, coppe, danari e bastoni. Questo perché le carte arrivano dal mondo arabo. Picche, ovvero spade è legato al mondo militare; il cuore/coppe è legato all’idea dell’amore ma è anche il sacro Graal, quindi è una carta legata alla religione, alla magia, alla superstizione, (si svolgerà un po’ nel mondo della magia a Parigi nel diciannovesimo secolo e non ha nulla a che vedere con lo spettacolo in corso).
L’altro è denari, che in inglese è diamonds, cioè legato a qualcosa che ha valore. Prima questa carta era rappresentata dalla moneta, quindi è legata al mondo del commercio; l’ultimo è fiori/bastoni che rappresenta l’agricoltore, l’operaio, ma rappresenta allo stesso modo la rivolta.
Adesso abbiamo toccato il tema militare nel prossimo ci sarà il tema della magia poi mondo degli affari e così via. Sono tutti temi collegati ed è importante per noi che nel primo spettacolo siano rappresentati tutti i semi.
E’ la prima volta che cerchiamo di seguire quattro storie contemporaneamente, normalmente negli spettacoli seguiamo le storie una dopo l’altra, qui cerchiamo di farlo contemporaneamente.

 C’è in queste quattro storie un rappresentante per ogni seme:
♠ spade/picche (la storia militare);
♥ cuori/coppe (la coppia che si sposa a Las Vegas;ci sono anche dei riferimenti alla fede e al sistema religioso);
♦ danari/ori (il mondo degli affari, col personaggio che soffre di gioco compulsivo che viene a Las Vegas per affari);
♣ bastoni/fiori (il mondo proletario, gli impiegati del casinò e della caffetteria che sono tutti immigrati e parlano in spagnolo).
Per noi è importante che le quattro carte siano rappresentate nella prima uscita in una sorta di microcosmo che inizi l’intreccio. Non sappiamo ancora se queste quattro storie avranno un legame ma sappiamo ci saranno dei temi che si intrecciano e si faranno eco lungo tutto il progetto. Il grande desiderio è quello di presentare in futuro i quattro spettacoli.

13 carte, 7 attori 
Non abbiamo ancora ingaggiato tutti gli attori ma ci saranno 7 attori per cuori. Abbiamo 13 carte, 6 attori per picche e 7 per cuori. Ci sono delle regole anche per questo: mescoleremo le carte per poi dividerle in due mazzi e decidere chi farà la terza parte e chi la quarta.
Anche per chi fa il montaggio dello spettacolo è chiara questa situazione in cui delle immagini trovano lentamente la loro collocazione, ma non si può mai forzare questo processo in modo definitivo.

Film e teatro: “Il teatro è NOW!” 
Una differenza tra far dire una cosa a un film e farla dire a uno spettacolo è che nel film si ha il materiale relativo alle riprese e si può solo cercare di incastrarlo col montaggio, cercando di far parlare le immagini ma resta tutto nelle immagini. Io invece posso benissimo dire ai miei attori, in qualsiasi momento di fare una cosa con un’intenzione completamente diversa e loro rimetteranno tutti gli orologi a zero. Nel cinema questo ovviamente, non si può fare perché è già tutto registrato. Per questo che trovo interessante recitare con questa particolarità del teatro: ogni giorno è un nuovo giorno e non si sa mai cosa accadrà.
Io non faccio molto cinema ma le prime volte che l’ho fatto, scrivevo la sceneggiatura, si girava si faceva il montaggio, poi il film veniva distribuito e durante il tempo di distribuzione magari ad un festival, parlavo con la gente del mio film e avevo l’impressione di vedere il fantasma delle mie idee passate. Quello che vedevo era quello che ero, magari due anni prima! Questo a teatro non succede mai. A teatro si parla di ciò che abbiamo fatto ieri, che faremo oggi e domani, anche se la tournèe è iniziata da cinque anni. E’ sempre now! Per questo io mi sento molto più vicino al teatro.

Di Anna Monteverdi e Giancarla Carboni.

Ricordando Julian Beck, testo di Gerald Thomas
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Note inedite raccolte da Anna Monteverdi

 Nel 1985 il giovane regista Gerald Thomas che aveva già lavorato con John Cage (qui una testimonianza di CAGE sul suo lavoro) diresse per l’ultima volta Julian Beck in un piéce da Beckett, That Time prima della sua morte. L’ho raggiunto via mail e mi ha lasciato questa testimonianza inedita.

Samuel Beckett e Gerald Thomas

Quando Julian Beck mi invitò a dirigerlo, quasi svenni. La ragione? Era uno degli uomini di teatro che avevo maggiormente ammirato (e seguito) durante la mia giovinezza a Londra, a New York e in Brasile, e improvvisamente, questa Icona, uscita per un momento dal suo Living Theatre mi invitava a dirigerlo.

Ero già conosciuto a New York per il mio legame diretto con Samuel Beckett e avevo già allestito in anteprima mondiale alcuni dei suoi testi al teatro La MaMa e in altri luoghi, con grandi risultati, non solo a New York ma anche oltre oceano. Ci presentarono. Era già molto malato e io ero senza parole.

Julian mi lasciò libero di scegliere quale testo di Beckett rappresentare, e io decisi per That Time, una premiére assoluta per l’America. Inoltre avrebbe richiesto molto poco sforzo fisico per Julian. Il brano consisteva di un personaggio che ascoltava la sua stessa voce divisa in tre parti, raccontare del suo passato. Era immobile, o almeno io l’ho reso così, con un piccolo tocco della mano sul volto ogni tanto, quando veniva pronunciata la frase “when was that?

Poiché Julian non poteva parlare con chiarezza per lungo tempo all’epoca (il cancro gli aveva colpito le corde vocali) andammo in studio e registrammo tutto, parola per parola. Prevedendo che il risultato finale sarebbe potuto essere noioso per il pubblico, decisi di usare partiture musicali. Una di John Cage, l’altra di un mio ex compagno di lavoro artistico Luciano Berio (in Zaide a Firenze, 1995, Maggio Musicale). E così il testo divenne, in qualche modo, musica. Julian sembrava sorpreso e felice dell’idea. Ricordo che che quando ascoltò per la prima volta il registratore chiese: “Sono io o avete trovato un altro attore con una voce simile a me che può cantare così meravigliosamente?” Tutti in teatro risero.

E la conclusione non fu altro che un enorme successo. Andavo a prendere Julian a casa sua (nel West End Avenue, 98th Street, a Manhattan) ogni giorno per lo spettacolo. Facemmo tutto esaurito in teatro un mese prima. Lo spettacolo si spinse fino al Theater Am Turm di Francoforte e progettammo altri viaggi, ma Julian si ammalò sempre di più durante la trasferta e dovemmo cancellare la data di Belgrado e altre ancora. Ritornammo tutti a New York. Lo spettacolo fece a un gran successo in Germania, e sullo spettacolo il critico Peter Iden scrisse un articolo molto lungo che entrava nel merito soprattutto del mio metodo del metalinguaggio teatrale: un vero uomo che stava realmente morendo, recitava sulla scena un uomo che stava morendo.

Pochi mesi dopo Julian morì. Ero a Rio e tornai subito a New York in tempo per i funerali, Allen Ginsberg fece una registrazione video della sepoltura nel New Jersey.

Questa fu una tra le più onorevoli e incredibili esperienze della mia vita. Julian mi disse: “Se vuoi fare una cosa falla grande, e più grande ancora, vattene da New York. Vai in Brasile”. L’ho fatto. Ho seguito ogni singolo consiglio che lui mi diede. Julian non era di questo mondo. Devo gran parte della mia posizione artistica oggi (71 testi e opere liriche rappresentate in 12 Paesi) al consiglio di Julian.

Dio ti benedica Julian. E’ duro credere di essere stati su questo pianeta per vent’anni senza di te. Ricordo ogni ruga sul tuo volto, tutte le volte che hai sorriso, nonostante il tuo dolore, il tuo enorme dolore metafisico di non essere stato in grado di cambiare il mondo come avevi sognato. Ma, d’altra parte, ti sei salvato dalle atrocità di George W. Bush e dalla militarizzazione ed egemonia degli Stati Uniti nel mondo, dall’invasione dell’Iraq, dalla morte di 200.000 civili che non c’entravano niente, tutto in nome del Petrolio, dell’avidità e oggi c’è ancora più discriminazione di quando eri tra noi. Il mondo è tornato indietro. Viviamo in una società orribile, Julian. Tu ci hai lasciato appena in tempo, quando la corruzione si poteva appena vedere o sospettare. Ora infetta tutti i media, tutte le istituzioni, governi e società. In qualche modo sono felice che tu non sia testimone di questa globalizzazione.

D’altra parte però sono infelice che il mondo abbia perso uno dei suoi più valorosi guerrieri. Forse se tu fossi qui, tutto questo orrore sarebbe stato colpito allo stomaco e al cuore, non avrebbe resistito al tuo carisma. Il tuo incredibile carisma. Mi spiace, sto piangendo e non riesco più a scrivere. Mi manchi troppo.

 LOVE

 Gerald Thomas-

Website: www.geraldthomas.com; videosite: http://geraldthomas.net

Photo: a sinistra Judith Malina e Julian Beck; al centro Gerald Thomas con Samuel Beckett; a destra Julian Beck in That time ritratto da IRA COHEN;

BIO: Born in 1954,Gerald Thomas has spent his life partly in the United States, England, Brazil and Germany, graduating as a reader of Philosophy at the British Museum Reading Room and “officially” beginning his life in the theater at La MaMa Experimental Theater (but having received early on in life a great inspiration by watching the rehearsals of Victor Garcia’s masterpiece staging of Genet’s Balcony in Sao Paulo in the seventies. A year later, at the Aldwych in London, Thomas was able to become an ‘intruder’ in Peter Brook’s rehearsals of the RSC in the Midsummer Night’s Dream. Back in the US, at La MaMa, Thomas became an illustrator for the Op-Ed page of the New York Times while also conducting workshops at La MaMa, where he adapted and directed a few world premiere Samuel Beckett prose and dramatic pieces. In the early eighties, Thomas began working with Beckett, the man himself, in Paris (after a lot of correspondence had been exchanged between them for almost two years), adapting new fiction by the author. Of these, the more notorious were “All Strange Away” and “That Time” staring the legendary Living Theater founder, Julian Beck in his only stage acting role outside of his own company, The Living Theater. In the mid-eighties, Thomas became involved with German author Heiner Müller, directing his works in the US and in Brazil, and began a long term – and highly questionable partnership with American composer Philip Glass.

WILLIAM KENTRIDGE E KARA WALKER.
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Dalle installazioni al teatro.

 William Kentridge[1] tra i più grandi artisti visivi mondiali, svolge un’attività artistica multipla sin dalla fine degli anni Settanta in Sudafrica: le sue opere spaziano dalle incisioni con tecniche diverse (puntasecca, acquaforte, acquatinta) ai disegni a carboncino, a gesso e pastello, ai collage, alle pitture, alle installazioni con sculture in bronzo, con mobili, arredi e schermi (che formano veri e propri teatrini in miniatura), ai film animati in 16 e 35mm, ai disegni a silhouette realizzati espressamente per i fondali teatrali. L’esposizione a Documenta Kassel nel 1997 e la personale alPalais des Beaux-Arts a Bruxelles nel 1998 ne decretano il successo mondiale.

La sua biografia è costellata di numerosi eventi legati al teatro: iscritto alla Ecole Jacques Lecoq a Parigi, scenografo attore e regista della Junction Avenue Theater Company e della Handspring Puppett Company di Johannesburg, allestisce opere dai testi di Tom Stoppard e Alfred Jarry. Famose sono le incisioni che costituiscono la serie Ubu tells the truth (1996-1997) andato in scena con la collaborazione di Handspring Puppett Company, i disegni per lo spettacolo Faustus in Africa (1995), per Confessions of Zeno (2002), per l’opera in musica Il ritorno di Ulisse in patria (1998) da Monteverdi; alcune fotografie inserite nel volume documentano l’installazione Preparing the Flute, un modellino teatrale con due film animati in 35mm con cui Kentridge reinventa il suo lavoro per le scenografie per l’opera Il Flauto magico da Mozart.

Ricordiamo soprattutto i Drawings for Projections, film animati muti realizzati da Kentridge a partire da disegni al carboncino e inaugurati con la fine degli anni Ottanta. Travagliato il lavoro di Kentridge davanti alla Bolex 16mm per creare sequenze animate composte da innumerevoli e minime variazioni e cancellature del disegno monocromo davanti alla macchina da presa, ci riporta al cinema delle origini, ai primi studi fotografici del movimento di Marey:

A differenza dell’animazione classica in cui per creare un solo secondo di filmato si realizzano ventiquattro disegni diversi su altrettanti fogli, per i suoi film Kentridge usa solo pochi fogli di carta che vengono ossessivamente disegnati, cancellati e ridisegnati a carboncino. L’artista parte da un largo foglio bianco appeso al muro e vi disegna la prima scena. Poi passa alla telecamera con cui riprende il disegno per pochi istanti. Quindi ferma la cinepresa e torna al disegno: lo altera con cancellature, aggiunte e sovrapposizioni anche solo infinitesimali, facendo evolvere l’immagine secondo la narrazione. E di nuovo torna a filmare il disegno, nato da una metamorfosi di quello precedente, di cui conserva la memoria[2].

Ma le sue opere sono inscindibili dalla storia recente del Sudafrica, dal tema dell’apartheid a cui Kentridge dedica la lunga saga di Soho Eckstein, storia di un avido e ingordo capitalista industriale simbolo stesso della corruzione e della depravazione in una Johannesburg colpita dalle ingiustizie razziali e dallo sfruttamento del lavoro operaio nelle miniere. Il personaggio che gli si contrappone è il solitario e triste Felix Teitlebaum.

Nel repertorio visivo di Kentridge le ombre sono un motivo iconologico costante e un vero topos, sviluppate nelle più diverse tecniche: dalle sculture in lamina nera di figure in sospensione tra le due e le tre dimensioni (addossate su muro o anamorfiche e disperse a frammenti nello spazio, e persino rotanti su un perno o riprese dalla telecamera/macchina da presa), alle processioni in silhouette di derelitti in marcia eseguite a collage con carta strappata (come in Portage, 2000), dalle sagome di figure nere di varie dimensioni inserite su arazzi fino ai ciclorama di profili neri su sfondo bianco o su pagine di libri e su carte geografiche, e infine alle proiezioni animate (Shadow Procession, 1999; Stair Processing Vertical Painting, 2000; Procession or Anatomy of Vertebrates, 2000).

I video, le installazioni e le opere filmiche animate di William Kentridge a partire da disegni al carboncino sono creati quali forme espressive aperte che si espandono verso inedite traiettorie artistiche, in una felice “conflittualità relazionale”: il video, come espansione del fatto grafico, diventa installazione, poi quadro scenico animato all’interno di uno spettacolo (come nel recente progetto ispirato al racconto Il naso di Gogol dal titolo I am not Me, the Horse is not Mine, 2008). L’effetto di ombre in movimento nel suo teatro (con una eco non incidentale al teatro giavanese, il wajang) è variamente combinato con le proiezioni video o filmiche, tecniche che insieme creano un gioco e uno scambio ininterrotto tra la parte frontale e quella retrostante la scena, entrambe spazio d’azione live sia dell’attore (o della marionetta) che della macchina (e del suo manovratore). Ultimo progetto portato al MAXXI di Roma è The Refusal of Time, in cui Kentridge realizza un collage di eventi e opere: film animati con una proiezione sincronica a cinque canali in cui si incastrano teatro, cinema, ombre, musica, scultura.

L’onda anomala innescata da artista politico come Kentridge, con il suo repertorio di figure nere in processione e di cortei di ombre animate, simboli di azione, resistenza e riscatto in un Sudafrica “riconciliato” all’indomani della vittoria dell’African National Congress di Mandela e della fine dell’apertheid, sta facendo scuola anche in territori non strettamente teatrali. Il motivo kentridgiano della processione di figure nere a mo’ di ciclorama e i video animati con sagome di carta, però con protagonisti schiavi, madri stuprate, sottomesse, uomini torturati (che sembrano a prima vista innocenti decorazioni che escono da lavori di découpage o dal cassetto di giochi dei bambini) sono al centro del lavoro della giovane artista afro-americana Kara Walker.

Il lessico dell’artista (quale si evince da tutte le sue opere nei più diversi formati e tecniche usati: acquarello, inchiostro o carboncino su carta, collage, figurine di carta su muro, o film in 16mm) è connotato da un voluto primitivismo (il film Possible Beginnings on the Creation of African-America, 2006 e l’allegorico tableau composto da ritagli di carta neri su parete bianca The End of Uncle Tom, 1995 o la serie negativa con figure bianche su fondo neroExcavated from the Black Heart of a Negress, 2002) di cui parla Yasmil Raymond nel catalogo dedicato alla Walker My Complement, My Enemy, My Oppressor, My Love (2008).

L’epopea della negritudine passa dalla tratta degli schiavi alla guerra tra sudisti e nordisti, al colonialismo, dal racconto dello Zio Tom, allo sfruttamento razzista, alla proclamazione dell’emancipazione femminile. Walker raffigura atti indecenti di sesso mescolati ai segni del potere, la nascita con lo smembramento e tutte le pericolose derive dal desiderio alla procreazione: violenza, allattamento, dominazione (dell’uomo sulla donna, dell’uomo bianco sullo schiavo nero: le serie di acquarelli, disegni a matita e inchiostro Do you like Creme in your Coffee and Chocolate in your Milk? e Negress Notes entrambi del 1997). I suoi lavori con proiezione video, carte ritagliate e ombra (come in Darkytown Rebellion, 2001) sono ulteriormente esaltati dalla performance dal vivo con effetti luministici colorati. Dalle ombre ritagliate su carta e incollate alla parete, alle silhouette realizzate con il supporto di mixed media fino alla animazione dal vivo in direzione performativa. L’aspetto del teatro multimediale è legato infatti, alla creazione di alcuni video come piccoli teatrini, realizzati attraverso l’animazione manuale effettuata in diretta dietro uno schermo, delle figure nere ritagliate servendosi di bastoncini, a raccontare schiavitù infinite e oppressioni millenarie.

 

Algeria e Québec nel teatro di Lepage
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Pubblicato su Historycast

l regista e attore canadese Robert Lepage (nato a Québec City nel 1957) è uno dei più acclamati artisti scenici contemporanei. Consensi unanimi e riconoscimenti per il suo teatro senza frontiere, caratterizzato da una narrazione prossima a quella cinematografica, sono arrivati dai maggiori teatri e festival mondiali. Il suo è un teatro multiculturale, ricco anche di riferimenti (critici) alla tematica del separatismo québecois.

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Gli esordi sono caratterizzati dalla famosa Trilogie des Dragons (1985) che ripercorre 75 anni di storia (1910-1985), vissuti da tre generazioni di immigrati cinesi nelle Chinatown di Québec city, Toronto e Vancouver. Il messaggio implicito nell’adozione non solo delle modalità tipiche del teatro orientale ma persino della lingua cinese, era quello di un’apertura verso nuove culture, oltre il nazionalismo imperante e lontano da ogni rivendicazione restauratrice. Nella Trilogie Lepage adotta una vera e propria “strategia di non traduzione” mantenendo in scena alcune parti interamente dialogate in cinese, testimoniando il particolare clima politico e sociale canadese e la trasformazione in atto all’interno della regione del Québec, con le successive ondate di immigrazione dall’Estremo Oriente e la contrastata relazione con la lingua e la cultura inglese.

Queste le tappe più significative della storia del Québec: la nascita della Nuova Francia (1534), la fondazione del Québec (1608) e quella della Confederazione canadese (1867), la Guerra tra Francia e Inghilterra (la “Conquista”: 1812-1814), la Rivoluzione Tranquilla (1960-1966), la Loi sur les langues officielles (1969-1974: l‘Assemblea legislativa del Québec adotta il progetto di legge 22 e il francese diventa lingua ufficiale della provincia del Québec, nella pubblica amministrazione,nelle professioni, nel commercio, nell’insegnamento), l’Ottobre (1970) e i referendum sull’indipendenza (1980 e 1995). Nel referendum popolare del 1980, che seguì di qualche anno la nascita del partito indipendentista, il Parti Québecois (1976), una minoranza sia pur consistente della popolazione del Québec (il 40%) si pronunciò a favore del separatismo, condizionando tutta la politica della Regione fino ad oggi, anche se di fatto, il referendum non diede vita ad alcuna svolta nazionalista o secessionista. Il secondo referendum sull’indipendentismo del 1995 portò i fautori del separatismo a un scarto di voti inferiore all’1% e a un riconoscimento da parte del governo federale del Québec come “società distinta”.

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Il Canada ha fatto del multiculturalismo –sia a livello delle province sia a livello federale- la sua politica ufficiale: ha promulgato sin dal 1971 il Multiculturalism Act mentre la legge 101 del 1977 del Québec che rendeva obbligatoria per gli immigrati la frequenza a scuole di lingua francese, favoriva una maggior assimilazione degli stranieri all’interno della comunità francofona, disperdendone però, le peculiarità, le tradizioni, la lingua. Con la legge 101 –la Charte de la langue française il francese diventa anche lingua di Stato e delle Leggi. Lo scopo era di franciser l’economia e rendere questa lingua il vettore privilegiato per l’inserimento nel mondo del lavoro. Come ricorda Antonella Crudo (Identità fluttuanti. Italiani a Montréal e politiche del pluralismo culturale in Québec e Canada, Luigi Pellegrini 2005) questa politica però, è “attraversata da tensioni e contraddizioni, tra il centro e le periferie, tra le nozioni di due popoli fondatori, i francofoni e gli anglofoni, le rivendicazioni dei popoli autoctoni, e degli altri gruppi che reclamano sempre di più un proprio spazio e un maggior riconoscimento politico del loro fondamentale apporto alla costruzione del Paese”.

Il Front de Libération du Québec (FLQ), l’organizzazione separatista che aveva come manifesto il volume di Pierre Vallières Negri bianchi d’America (scritto in carcere a New York nel 1966 col significativo sottotitoloAutobiografia precoce di un “terrorista” del Québec), nasce nel 1963 e sarà responsabile del sequestro e uccisione del ministro Pierre Laporte (1970);  la successiva Crisi di Ottobre segnò una durissima repressione contro i simpatizzanti dei gruppi separatisti culminata nell’imposizione da parte del governo federale guidato da Trudeau, della Loi de mésures de guerre. La vittoria del Parti Québecois e di Lévesque con lo slogan Maitres chez nous (Padroni a casa nostra) sembrava riproporre l’utopia di un Québec nazione-stato.

Nel teatro si hanno poche tracce di questi eventi. Dominique Lafon ricorda che, tranne poche eccezioni, i drammaturghi e i registi del Québec di questo periodo preferiscono sviluppare tematiche più psicologiche che ideologiche, e non intraprendere la strada di un teatro politico engagé: è una “congiura del silenzio che ha escluso dalla scena teatrale come da quella politica, non solo i protagonisti degli avvenimenti degli anni Settanta ma il discorso insurrezionale di cui erano i porta voce”. (D.Lafon, Des coulisses de l’histoire aux coulisses du théatre: la drammaturgie québecoise et la Crise d’Octobre, in “Theatre Research International”, n. 1, 1998).

 

Si discosta da questo quadro il cosiddetto Cycle Shakespeare dalla tradaptation (traduzione-adattamento) di Michel Garneau in québecois di Coriolano, La tempesta e Macbeth scritta agli inizia degli anni Settanta in piena ondata nazionalista. Sul piano letterario l’esperimento di Garneau, ricco di tracce, prestiti linguistici, arcaismi del francese del Québec, e presenza del joual, la parlata popolare dei canadesi francofoni, anticipa le prime iniziative del governo Lévesque, tra cui appunto, la Loi 101 che faceva del Québec una provincia interamente francofona. Molti letterati hanno voluto dare dignità e legittimità alla lingua “québecoise“: una lingua che ha le sue radici proprio nella valorizzazione della specificità del Québec, come veicolo di contestazione della propria indipendenza. Il joual è stato anche adottato da un’importante corrente letteraria come strumento di espressione privilegiato: così il drammaturgo Michel Tremblay che ha scritto opere interamente in joual: “Non c’è più bisogno di difendere il joual, si difende da solo. Il joual fino a che resterà così è straordinario; è più vivace che mai……Qualcuno che si vergogna del joual, è qualcuno che si vergogna delle sue origini, della sua razza, che ha vergogna di essere del Québec”.

Le scelte registiche di quegli anni, quindi, inseriscono Lepage all’interno del dibattito politico in corso sull’indipendentismo di cui Garneau fu portavoce. Lepage però, prende le distanze dal separatismo; in un articolo per “Time magazine” (9 agosto 1999) auspica un giusto equilibrio tra nazionalismo e patriottismo, tra il preservare la propria cultura e condividerla in un’ottica mondiale, oltre l’anglofonia e la francofonia. A Rémy Charest confida la propria idea di una necessità di allargare i propri orizzonti geografici: in Québec, dice Lepage, il protezionismo culturale e linguistico ha creato una mentalità xenofoba e razzista. A Josette Fèral racconta l’importanza e il ruolo degli artisti per far conoscere il proprio paese; in relazione al problema linguistico del Québec si scaglia contro l’immobilismo e il radicamento anacronistico alla propria terra (J. Fèral, L’attore deve avere sete di sapere. Conversazione con Robert Lepage, “Teatro e Storia”, n.17, 1995, p. 303).

Inevitabilmente, anche laddove non ne fa esplicito riferimento, il teatro di Lepage ricorda proprio la difficile posizione del Québec, in eterno conflitto culturale, linguistico e politico tra l’anglofonia e la francofonia e costantemente alla ricerca delle proprie radici storiche e di una non facile affermazione della propria identità.

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In Les aiguilles et l’opium (1989) il protagonista Robert, artista québécois a Parigi per un lavoro di doppiaggio, al proprio psicoanalista che gli domanda come mai si occupava di teatro, risponde con una lunga metafora sulla storia del Canada, letta ironicamente come “una tragedia shakesperiana in 5 atti”, concludendo con uno scetticismo di fondo sulle strade intraprese sia dalla parte più rivoluzionaria che da quella più moderata:

Non so cosa lei sappia del Canada e del Québec ma sono società molto “teatrali”. Quello che deve fare è guardare gli ultimi cinquanta anni della sua storia politica e vedrà che è scritta come un brutto dramma. No, non una commedia, direi che è più simile a una tragedia shakesperiana in 5 atti, una della più antiche, come Tito Andronico. Il primo atto è ambientato nel 1950, e accadde quello che è chiamato il “rifiuto globale”. Era il manifesto firmato da artisti e intellettuali che decisero di fare le cose a modo loro. E’ l’equivalente di quello che accadeva a Parigi nello stesso periodo con l’esistenzialismo, con Sarte, Albert Camus, Simone de Beauvoir. Nel 1960 c’era un movimento chiamato “la Rivoluzione tranquilla”. Non so perché si chiamasse così, forse perché c’era una rivoluzione in corso ma nessuno l’aveva notato. Poi nel 1970 abbiamo avuto l’Ottobre. C’era un gruppo di separatisti, terroristi che rapirono un diplomatico inglese (…) Nel 1980 ci fu un referendum sull’indipendenza con la risposta che tutti conoscono…La risposta fu No, conosci la domanda, era molto lunga e confusa sulla sovranità, l’associazione…E’ come divorziare ma vivere nella stessa casa, quel tipo di situazioni lì, io tengo i bimbi tu i mobili, non mi è permesso di parlare ai bimbi ma posso parlare ai mobili. Penso che la risposta sia confusa come la domanda. L’anno seguente era il 1990 e tutti in Canada speravano che sarebbe stato il quinto e ultimo atto e che ci sarebbero state le riforme costituzionali per comprendere meglio la parte inglese del Paese, quella, francese, in nativi. Come vede, molte cose accaddero in Québec negli anni con uno zero, ma niente in mezzo.

Molte delle regie di Lepage che prevedono una situazione conflittuale tra personaggi (anche quando sono interpretati da un solo attore) vengono rese scenicamente con l’uso contemporaneo del francese e dell’inglese. E anche laddove questo escamotage non viene restituito nella sua evidenza, sembra sempre che il riferimento sotterraneo sia alla questione québécoise mai irrisolta, talvolta suggerita con i caratteri della vecchia commedia, con gli stereotipi assegnati dalla tradizione ai due diversi gruppi linguistico-culturali dominanti del Québec.

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In La face cachée de la lune (2001) due fratelli del Québec non riescono a comunicare da molto tempo a causa della diversità di vita e di scelte, ma la morte della madre li farà avvicinare; Romeo and Juliet rappresentato a Saskatoon (1989) venne reso con le due famiglie dei Capuleti e Montecchi che si contrastavano parlando rispettivamente gli uni l’inglese e gli altri il francese.

L’ultimo in ordine di tempo è lo spettacolo Jeux de cartes (2013). Nel secondo episodio, Cuori, della quadrilogia dedicata al gioco delle carte (e relative simbologie), il conflitto da cui si generano le storie – che spaziano, grazie a una straordinaria tecnica drammaturgica, dalla contemporaneità all’Algeria coloniale alla Francia di fino Ottocento- è ambientata proprio in Québec: una giovane ricercatrice di Storia del cinema delle origini, conosce casualmente, nella multietnica Montréal, un taxista marocchino e se ne innamorerà. Lo scontro di natura religiosa e culturale tra la famiglia musulmana di lui e la tipica famiglia del Québec di lei, con il padre inglese e la madre francese, dà vita a una serie di sequenze esilaranti in cui possiamo identificare ben definiti gruppi sociali e mentalità tipiche: perbenismo, concretezza pratica, riservatezza, autocontrollo e puro aplomb inglese del padre, e frivolezza e protezionismo per la madre francese. Entrambi condividono una visione un po’ razzista della società –nonostante il pluralismo culturale sia considerato una conquista precoce della società canadese- e non accettano la nuova religione della figlia. Infatti la ragazza deciderà di sposare l’Islam e indossare il velo, lo hijab.

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Da questo quadro familiare non confortante e non edificante, ambientato in Québec, dietro cui possiamo riconoscere altri e ben più belligeranti scontri, si torna all’indietro –senza soluzione di continuità e mantenendo una struttura narrativa “parallela”- in Algeria, dove il giovane marocchino sbarca a seguito della morte del padre, per rintracciare le proprie origini familiari e trovare le memorie del nonno; qui scopre che le sue radici non sono affatto marocchine, ma algerine da alcune fotografie dalle quali constata anche che il nonno era uno dei capi partigiani della guerra per la decolonizzazione e l’indipendenza dell’Algeria, un membro del Fronte di Liberazione Nazionale. Uscito dalla clandestinità il FLN darà inizio alla rivolta, diventata poi guerra di massa dopo le rappresaglie delle truppe francesi contro la popolazione civile (battaglia di Algeri, 1957). E’ un omaggio di Lepage all’Algeria proprio nell’anno delle celebrazioni dei 50 anni di indipendenza: infatti proprio il 15 settembre del 1963 nasceva la Repubblica democratica e popolare d’Algeria con una Costituzione che apriva le porte a un regime presidenzialista e monopartitico con a capo Ben Bella. La trama, ben ricamata e ricca di annodamenti imprevisti, è punteggiata da molti personaggi tra passato e presente e si estende in un cinquantennio abbracciando America e Africa sotto il minimo comune denominatore del viaggio verso la libertà; una fabula che lascia sempre più il posto a un intreccio libero di muoversi avanti e indietro nel tempo, senza coerenza, seguendo piuttosto una logica cinematografica.

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Così si passa dal Québec di oggi, dove convivono vecchie lacerazioni e nuovi separatismi, all’Algeria di ieri, quella del colonialismo e della guerra di indipendenza. In mezzo alla grande Storia le memorie di resistenti, quei partigiani che hanno combattuto valorosamente o coloro che hanno vissuto clandestinamente o attraversato illegalmente i confini e sono arrivati sino in Québec, nascondendo la loro vera identità persino a figli e nipoti. Memorie di torture, quelle stesse raccontate nel terribile libro di Henri Alleg, direttore della rivista d’opposizione “Alger républicain”, perseguitato e imprigionato dai francesi. L’elettricità che darà vita alla modernità (rappresentata in scena dalla nascita del cinema) è la stessa usata dagli aguzzini contro i corpi dei prigionieri algerini. Incroci e destini di uomini, incroci e destini di macchine. L’Algeria colonizzata dalla Francia è oggetto poi, di un curioso excursus drammaturgico in cui alcuni artisti legati alle sperimentazioni tecniche (il fotografo Félix Nadar, il regista Georges Méliès) si intrecciano con le loro storie come in un ingranaggio di orologio, auspice la figura dell’illusionista Jean Eugène Robert- Houdin (che ispirò il grande Houdini), primo ad usare per le sue magie l’elettricità. In un possibile universo parallelo incontriamo, nello spazio del palcoscenico girevole, molti personaggi che, sotto il segno della Storia, vanno alla ricerca di una propria identità, di una memoria, in un cammino non facile verso la verità, per dare concretezza e solidità alle proprie vite.

Michele Sambin: dalle videoperformance musicali al Tam Teatromusica
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Pubblicato sul Catalogo Invideo 2003 e su A.M.Monteverdi, A.Balzola  Le arti multimediali digitali,Garzanti 2004 e on line su Interactive-performance.it

 “Tutto ha inizio dal binomio immagine-suono. E un artista singolo che lavora su questi due elementi. Gli strumenti che usavo negli anni Settanta erano la pellicola, prima Super Otto poi 16 mm, perché lì immagine e suono erano inscindibili e interdipendenti, poi il video. Partire per questa utopica ricerca di costituzione di un linguaggio unico che comprendesse segni visivi e segni sonori”.

Così Michele Sambin racconta oggi del suo esordio artistico sotto il segno della pittura, del cinema, del videotape d’arte e di una performatività video e musicale, solitaria. Dopo un periodo di sperimentazione filmica testimoniato da Laguna, Blud’acqua, Tob&Lia(1968-1976), che lo colloca nel novero dei registi del cinema d’artista insieme ad autori come Andrea Granchi, Sylvano Bussotti, Gianfranco Baruchello, Ugo La Pietra, Sambin si dedica al “videotape creativo” (1974).

Guardando alle storiche soluzioni di “composizione globale” e ai pittori-cineasti della prima e seconda avanguardia (Léger, Richter, Fischinger, Ray, Moholy-Nagy), ai registi indipendenti e sperimentali(Warhol, Brakhage, Snow), ai concerti Fluxus, alle esperienze americane del Black Mountain College di Cage e c., ai dispositivi video di ambito concettuale (Graham, Campus, Nauman), alle opere-evento della performance art, Sambin mette in scena la tematica principale delle sue opere: il tempo:

Quando uno cerca di mettere insieme la pittura con la musica subito scatta la dimensione temporale e su questo tema troviamo le prime esperienze del cinema sperimentale: Brakhage, Michel Snow e ancora prima il canadese Mac Laren, che disegnava il suono sulla pellicola. E’ un concetto importante per me, questo del tempo, offrire una visione che si sviluppi nel tempo. Io partivo come artista visivo, e il primo conflitto è quello che si crea tra visione – la pittura – che ha un tempo non determinato e la musica che vive solo nel tempo”.

E’ all’interno dell’Università Internazionale dell’Arte di Venezia dove era stato chiamato a tenere dei laboratori di cinema e forme plastiche (1972-1975) che per Sambin avviene il passaggio dalla pellicola al videonastro, al nastro magnetico: “Fu un momento di alta formazione, c’erano architetti come Buckminster Fuller (1) che davano un taglio trasversale alle categorie artistiche”. E’ incaricato di acquistare un’attrezzatura video e di condurre le prime sperimentazioni con il nuovo mezzo:

Era un Akai, l’antesignana del primo Sony Portapack, e aveva ancora un nastro ¼’’. Ed è stato per me un’esplosione di creatività. Con il 16 mm tre minuti di girato erano molto costosi e lunghissimi i tempi di attesa tra il fare e il vedere. Cominciava ad essere interessante anche il problema del rapporto tra video e teatro perché nelle ultime situazioni cinematografiche non presentavo più solo pellicole per la proiezione ma sonorizzavo il film dal vivo; diventava fondamentale la relazione vivente, lavoravo con l’immagine in tempo reale. L’immagine diventava uno stimolo per creare suoni”.

 Le prime esperienze di videorecording e di videoinstallazioni vanno in direzione di un naturale sviluppo performativo, tendendo sempre più ad esplodere oltre la cornice-schermo-galleria e a diventare puro evento, accadimento in tempo reale, e per il pubblico, “condizione di esperienza” (Duguet), un insediarsi direttamente all’interno del flusso “presente-continuo” delle immagini. In Ripercorrersi(1978, Prod. Centro video Palazzo dei Diamanti, Ferrara) protagonista è il pubblico che percorre uno stretto spazio che conduce a un luogo dove sono visibili su monitor, attraverso il sistema di video a loop e un gioco di ritardi di visione, rimandi ciclici del suo corpo.

 

Dice Sambin:

“Le videoinstallazioni sono un elemento fondamentale del mio passaggio al teatro: il pubblico assiste a un processo che non è solo elettronico ma anche fisico”.

Sulla performatività implicita delle installazioni video Anne Marie Duguet osservava:

«L’installazione è realizzata per essere esplorata dal visitatore che, facendo ciò, non solo ne costruisce progressivamente la percezione, ma anche mette in gioco quella degli altri visitatori. L’esistenza stessa di certe opere (….) esige un’attività particolare da parte del visitatore per potersi manifestare pienamente. Questi esegue dunque una performance che diviene spettacolo per gli altri. Bisogna insistere sulla temporalità specifica di queste opere che sono innanzitutto dei processi, che esistono solamente nella durata della loro esperienza, nel qui e ora della loro attualizzazione. Esse appartengono ad un’arte della presentazione e non di rappresentazione.» (2)

Spartito per Violoncello è una performance musicale del 1974 in cui il videotape viene utilizzato come parte integrante della composizione. Anelli e chiodi gettati sul tavolo e il movimento stesso della telecamera che riprende gli oggetti sono tradotti in linguaggio sonoro; dietro l’evento, Cage e la musica indeterminata. La video-calligrafia come spartito verrà usata in molte performance musicali tra cui Looking for listening (1977, Prod. Asac-La Biennale di Venezia). L’evento è, evidentemente, irripetibile e non prevedibile:

“In Spartito per violoncello usavo la telecamera come strumento musicale dei tempi di visione: la scuotevo, la muovevo e questo determinava un input che l’esecutore – che ero io stesso – decodificava in termini musicali. C’era un po’ di Léger, un po’ Anemic cinema. Partivo dall’idea di usare il monitor come spartito.”

Esiste anche una videoregistrazione che documenta la performance; come per molte altre videocreazioni di Sambin, più che supporto per la memoria si tratta di un’ulteriore estensione-prolungamento temporale dell’opera stessa; l’operatore crea movimenti inattesi, zoomate che esplorano dentro il monitor: in questa condivisione paritetica della dimensione della “pura durata” di corpo e macchina, e in questo proliferare di processi attivati dalla musica e dal videotape, il performer diventa contestualmente al concerto, materiale per la ripresa. Il video è il primo risultato dell’incontro con Paolo Cardazzo della Galleria del Cavallino di Venezia, con il quale Sambin stabilirà una relazione duratura di stima reciproca. La Galleria nata nel 1972 inizia infatti, a documentare le performance ospitate nello spazio espositivo, anche sulla scia dell’imponente lavoro di registrazione di Luciano Giaccari a Varese, che nello stesso periodo teorizzava le diverse tipologie videodocumentative. (3)

Sambin sarà il primo artista a sperimentare a partire dal 1976, declinando in seguito l’operazione in moltissime varianti, il videoloop, il video a bobina aperta (open reel). E’ un procedimento circolare generato dalla semplice unione delle estremità dei due nastri di registrazione e di lettura in cui l’immagine e il suono vengono ripetuti a ciclo. (4) L’artista registra ad intervalli, suoni e gesti; il nastro scorre, va alla bobina di lettura che rimanda l’immagine con un breve scarto al monitor; l’artista diventa, l’interlocutore del suo “se stesso elettronico” con cui affronta un dialogo infinito. Prendendo a prestito termini cari al Marshall Mac Luhan de The Gutemberg Galaxy (1962) e Understanding Media (1964), il video diventa “protesi”, prolungamento di una sua funzione:

Era una dimensione concettuale, più che di attenzione all’immagine perché il senso di questa operazione era quello di usare il video come possibilità di estensione espressiva di un corpo. Parlavo con me stesso, suonavo con me stesso, mi intervistavo, facevo cose che senza questi supporti non potevo fare. Il video come amplificazione, come protesi, è da intendere come strumento che non ferma un processo, ma che lo amplifica, lo moltiplica”. (5)

Nelle performance e nelle video installazioni realizzate con il videoloop – tra cui Duo, per un esecutore solo (1979); Anche le mani invecchiano(1980), Sax soprano (1980) – l’artista continua all’infinito a suonare, parlare e a (cor)rispondersi, vocalmente, musicalmente e visualmente. L’artista dà un’efficace spiegazione (e dimostrazione pratica) in Vtr and I (1978) in cui viene isolato e investigato questo specifico funzionamento autoriflettente del Video Tape Recorder. Si tratta di una vera esposizione autoanalitica del proprio lavoro d’artista, un’”operazione video-linguistica” perché il dispositivo video “è tematizzato e preso come oggetto di indagine”. (6)

L’azione performativa è della macchina, prima ancora che del corpo: il gesto mimico-facciale e sonoro ripetuto ad intervalli davanti a una telecamera, attraverso un videorecording e un feedback causato dal posizionamento della telecamera davanti al televisore, innesca un meccanismo a catena. Il corpo incontra se stesso nello spazio del monitor e si mescola alle forme astratte autogeneratesi dal video, dando vita a un effetto di sovrimpressione delle immagini con il loop e ad una loro rinascita (e metamorfosi) ciclica. La riproducibilità è (ossimoricamente) generativa. Dall’unicità della perfomance alla performatività dei media di riproduzione.
Usando il tempo non nella sua sequenzialità-consequenzialità ma con continui détournement e sfasamenti, manipolandolo, ritoccandolo, invertendolo come fosse una materia concreta e quasi plasmabile, scindendo il suono dall’immagine corrispondente (come in Echoes, 1976, Autoritratto per 4 telecamere e 4 voci, 1977 e come nel progetto di video installazione per violoncello sospeso in moto perpetuo e apparecchiature audio e video From right to left, 1981) Sambin produce un decisivo e significativo spiazzamento percettivo rispetto all’esperienza dello spazio-tempo quotidiano. Questa dimensione articolata del tempo, soggettivizzata e personalizzata, sembra suggerire proprio il valore del tempo come conquista attiva e individuale:

“Di solito la familiarità con un mondo ‘perfettamente doppiato’ in cui ogni aspetto visivo è necessariamente collegato ad un aspetto sonoro (anche il silenzio è suono) non ci fa notare questa spontanea connessione, le cose così come stanno ci sembrano naturali. Spezzare questo legame significa ottenere dei modi di percepire meno consueti, in cui ad ogni fatto non corrisponde necessariamente ciò che di solito gli viene associato”. (7)

Il videoloop viene usato in seguito, per Il tempo consuma (1979), l’opera più tautologica e concettuale di Sambin. Un “metronomo umano” (il corpo dell’artista oscillante a intervalli regolari) è ripreso da un video e trasmesso ad un monitor. Il performer scandisce la frase: “Il tempo consuma le immagini, il tempo consuma i suoni” che genera, nel processo ciclico di registrazione-cancellazione-registrazione, una grande quantità di immagini di sé ed un effettivo deterioramento fisico del nastro e di conseguenza, del suono e dell’immagine incisi. Nata come opera video è diventata videoperformance e successivamente installazione per tre videoregistratori sincronizzati, commissionata per la manifestazione milanese Camere incantate curata da Vittorio Fagone (1980). ll passaggio dal video al teatro avviene con il Tam Teatromusica, fondato da Sambin a Padova all’inizio degli anni Ottanta insieme con Pierangela Allegro e Laurent Dupont, e in un primo momento i lavori teatrali vengono ancora presentati nelle Gallerie d’arte frequentate da Sambin come videoartista e come performer:

“Il mio passare al teatro è dovuto – grazie o purtroppo – alla Transavanguardia di Achille Bonito Oliva. In quegli anni c’era una grande esplosione di performatività, anni che ho vissuto come una gioia degli intrecci delle arti, di incontri con Laurie Anderson, Marina Abramovic, personaggi che hanno tracciato una linea di non pittura, di non scultura, lontani dal mercato. La Transavanguardia spezza queste utopie degli anni Settanta perché mettevano in crisi il sistema dell’arte (i video non si potevano vendere). Bonito Oliva riporta l’arte alla disciplina: pittura e scultura. E soprattutto la restituisce al mercato».

L’orientamento estetico ispirato al rapporto immagine-suono per le videoinstallazioni e le performance e l’esperienza di musicista elettronico di Sambin si riveleranno fondamentali nella definizione della nuova composizione scenica degli anni Ottanta che, non rinunciando alla musicalità e alle tecnologie audiovisive, privilegia ideologicamente come già nelle performance degli anni Settanta, “il tempo reale e la condivisione di procedimento, l’arte dal vivo e il rapporto diretto con lo spettatore”.

Il primo spettacolo si intitola Armoniche (1980); all’immagine e al suono si unisce il gesto, in un rapporto reciproco “fluido”, “armonico”. Anche Opmet (1982) prevede l’uso di video in scena che trasformano le azioni dei performer “dentro e fuori dal Cronos o tempo universale” mentre in Lupus et agnus (1988) è lo spettatore a scegliere se assistere allo spettacolo attraverso i monitor oppure attraverso un percorso frammentato tra le azioni degli artisti nei diversi spazi. Il progetto di teatro-carcere apre una delle più fortunate stagioni del Tam Teatromusica che si conquista sul campo una propria riconoscibilità e autoralità. MeditAzioni è il progetto biennale che ha permesso di realizzare laboratori coi detenuti, spettacoli teatrali, un libro-diario della Allegro e l’opera video Tutto quello che rimane insieme con Giacomo Verde. Se il video prima era estensione del corpo dell’artista, qui diventa abbattimento virtuale di una separazione:

In carcere il video diventa fondamentale. Lo avevo abbandonato perché pensavo ‘Parla solo con se stesso, non mi interessa più’. Quando i detenuti non potevano uscire perché il magistrato non gli aveva dato il permesso, lo spettacolo era stato già programmato e la gente li aspettava fuori, ho preso una telecamera e ho chiesto loro: ‘Dite alla telecamera quello che direste se ci fosse il pubblico’”.

Il video diventa quindi strumento di vitale importanza per il teatro che, nell’impossibilità di una “diretta” qui e ora, è costretto a darsi ai propri interlocutori esterni, in “differita” e a distanza. E’ alla qualità di riproducibilità del video che è affidato il compito di trasmettere quel messaggio teatrale oltre il teatro secondo il Tam: “Attraverso l’arte,” scrive Pierangela Allegro, “la nostra religione, si può arrivare al cuore degli uomini e attraverso la condivisione (che non vuol dire tolleranza) si possono creare crepe insanabili nel muro dell’indifferenza”.

NOTE

1 Buckminster Fuller: scienziato, architetto, disegnatore, inventore della cupola geodesica. Le sue teorie tendono a modificare la tecnologia per migliorare le condizioni sociali. Molto seguito dai giovani nordamericani e dai pionieri della televisione alternativa”, da R. Faenza, Senza chiedere il permesso. Come rivoluzionare l’informazione, Milano, Feltrinelli, 1973. Rimando al libro di Faenza anche per le caratteristiche tecniche relative ai primi VTR.
2. Anne-Marie Duguet, Installazioni video e interattive. Definizioni e condizioni di esistenza, in Visibilità zero, a cura di V. Valentini, Graffiti, 1997, p.14. Sui dispositivi installattivi video vedi S.Cargioli, Sensi che vedono. Introduzione all’arte della videoinstallazione, Pisa, Nistri-Lischi, 2002.
3. Sulla Galleria del Cavallino vedi B. Di Marino, Elettroshock, 30 anni di video in Italia, a cura di B. Di Marino e L. Nicoli, Roma, Castelvecchi, 2001. Nel 1972 Giaccari scriveva la Classificazione dei metodi di impiego del videotape in arte,introducendo per la prima volta la distinzione tra “ video diretto” (caldo, creativo) e “video mediato” (freddo, documentativo). Sulla classificazione: L. Giaccari, Dalle origini della videodocumentazione al museo elettronico inElettroshock, cit., pp. 37-40.
4. Con il videoloop Sambin non intende tanto la mise en abîme del feedback visivo quanto la bande sans fin. Il nastro di registrazione video immagazzina immagini che passano al nastro di lettura con un intervallo di tempo pari alla lunghezza dello scorrimento elicoidale tra le due bobine. Il procedimento artistico rientrerebbe sia in quella categoria definita da Mario Costa dei “videoriporti”, in cui l’artista “opera per o con il video” che in quella della “videoperformance”, in cui il dispositivo video “entra a far parte, come uno specifico insostituibile, di un’azione-operazione”. (M.Costa, L’estetica dei media. Avanguardia e tecnologia, Milano, Castelvecchi, 1999, p.254-255).
5.Sambin fa riferimento sia a Io mi chiamo Michele e tu?, che alla Autointervistainserite nella video installazione Il tempo consuma per Camere incantate (Milano, 1980).
6.M.Costa, L’estetica dei media, cit.,p.255.
7.M. Sambin, Testo inedito datato 17-9-1977.Sul significato politico e sociale del tempo nel video ha riflettuto il filosofo Lazzarato, passando attraverso Marx, Bergson e Paik: «Le tecnologie del tempo ci liberano dalla percezione naturale, dalle sue illusioni e dal suo antropocentrismo e ci fanno entrare in un’altra temporalità. Esse aboliscono la subordinazione del tempo al movimento e, di conseguenza, ci permettono un’esperienza diretta del tempo(…). L’istante è in questo caso, un divenire che, invece di essere incastrato tra passato e futuro, diventa germinativo, produttore di altre coordinate ontologiche» (M. Lazzarato,Videofilosofia. La percezione del tempo nel postfordismo, Manifesto libri Roma).

Il teatro di guerra del Kosovo
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Pubblicato su Repubblica on linePost teatro di Anna Bandettini

Tradotto e pubblicato in albanese sul quotidiano Koha Ditore

Ricevo da Anna Maria Monteverdi un bel reportage dal Kosovo, con particolare attenzione al teatro di di Jeton Neziraj (in basso, a destra nella foto), drammaturgo da noi ancora sconosciuto che dovrebbe essere conosciuto. Mi fa piacere pubblicarlo per farlo leggere a chi è interessato

Di Anna Maria Monteverdi*

TEATRO DI GUERRA. JETON NEZIRAJ E IL TEATRO DEL KOSOVO

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Sono passati ormai 5 anni dall’indipendenza (febbraio 2008) e 14 dalla fine del conflitto con la Serbia, ma oggi il Kosovo è ancora sotto il controllo delle forze di polizia dell’Unione Europea (Eulex) e dell’Onu (Unmik e Kfor) : il processo di “normalizzazione” dei rapporti tra Belgrado e Pristina e di legittimazione internazionale dei confini in quest’area dei Balcani occidentali sta procedendo ma lentamente.
Il teatro non può che essere protagonista assoluto in questo territorio in cui la divisione territoriale in forma di barricate e la difficile convivenza etnica e religiosa nel post war Kosovo viene definita shakespearianamente: Romeo and Juliettism. Il teatro è una naturale piattaforma di dialogo tra i popoli, un ponte tra culture che non si incontrerebbero mai, un luogo dove la «normalizzazione» -per dirla con i termini burocratici di Bruxelles-, imposta dall’alto, frutto di negoziati, bilaterali, o attraverso meccanismi di controllo di polizia internazionale passa, con assai migliore efficacia, da un genuino senso di ricerca collettiva di valori condivisi legati alla indipendenza, alla ricostruzione morale e civile oltre i separatismi e i nazionalismi.

Fluturimi-mbi-Teatrin-e-Kosoves-460x360Tutte riflessioni e interrogativi alla base del lavoro teatrale di Jeton Neziraj, drammaturgo trentacinquenne già direttore del Teatro Nazionale del Kosovo, i cui testi, rappresentati in molti paesi europei (recentemente ha avuto successo al festival di Lipsia Euro-scene con Yue Medlin Yue) e negli Stati Uniti (con The demolition of the Eiffel Tower) lo hanno reso un personaggio da cui è impossibile prescindere occupandosi della scena balcanica.
Neziraj si ritiene un «autore in tempo di guerra». I suoi testi che trattano tematiche politiche urgenti come il problema dei profughi di ritorno, dei rimpatriati forzati, del fondamentalismo islamico, sono solo in parte assimilabili ad un «teatro documentario»; lui preferisce parlare di un lavoro di «dramatizing reality». Nel suo teatro l’umorismo e la comicità possono diventare un’arma fenomenale per distruggere luoghi comuni e convinzioni nazionaliste.

images (1)Nel dicembre scorso ha debuttato con grande successo al Teatro Nazionale di Pristina il nuovo spettacolo tratto dal suo testo Fluturimi Mbi Teatri e Kosoves (Qualcuno volò sul teatro del Kosovo) messo in scena dalla bravissima moglie, Blerta Neziraj e dalla compagnia Qendra con in scena anche due talentuosi musicisti italiani, una violinista e un fisarmonicista: Gabriele Marangoni e Susanna Tognella. La trama è divertente: un regista e la sua compagnia mentre stanno provando la più famosa piéce di Beckett, ricevono la visita del segretario del Primo Ministro. Dovranno mettere in scena l’indipendenza (ancora non avvenuta) del Kosovo. Unica incognita: la data, ancora da definire perché dovrà stare bene a tutti: Usa e membri Ue, ma anche Eulex, Kfor, Unmik… Segreto anche il testo del MInistro che dovrà essere inserito nello spettacolo. Così in questa snervante attesa beckettiana, mentre la censura interviene perché i nemici di un tempo oggi sono diventati amici, a un tecnico di palco viene in mente di attuare una eroica missione: fare una trasvolata aerea aggiustando un velivolo e lanciando volantini con scritto «Riconoscete il Kosovo». Quando la data dell’indipendenza arriva è troppo tardi e coglie il primo attore ubriaco che sul palco implora la moglie di ritornare a casa. Se l’indipendenza del Kosovo è passata attraverso il consenso dei Paesi che contano a Bruxelles, senza coinvolgere direttamente la popolazione, l’indipendenza teatrale è stata messa effettivamente a rischio. Come in un classico play-within-play infatti, la piéce di Neziraj ha rischiato di non andare in scena per una censura politica. E anche in questo caso, come per tutta l’economia kosovara, salvifico è stato il deus ex machina dall’accento germanico (ovvero, l’intervento dell’ambasciatore svizzero e tedesco).
Il registro tragicomico di Jeton Neziraj trova il suo felice compimento nella regia di Blerta che accentua il ridicolo dei personaggi di potere (con relativi servi) e della situazione generale (un’indipendenza ottenuta con il permesso dell’UE e con il benestare di tutti i paesi ospiti -non sempre così graditi- sul suolo kosovaro). La soluzione scenica è semplice ma efficace: 4 sedie che diventano un’ottima appendice attoriale, con cui gli attori davvero straordinari, improvvisano balletti, gag, atti di seduzione, proclami ufficiali. I due musicisti hanno creato una partitura ritmata coinvolgente, allegra, scanzonata e folle almeno quanto la scrittura teatrale: da Singing in the rain pizzicato alla viola fino a Mission impossibile ai cori brechtiani fatti solo con le sigle dei contingenti militari e dei paesi UE. Solo questi passaggi varrebbero tutto lo spettacolo per restituire il senso di una forte denuncia (non meno attenuata dalla scelta del registro parodico) di un sistema di potere che in Kosovo ha assunto le forme di un protezionismo UE. Lo spettacolo ha avuto una breve tournée in Albania, in Macedonia e in Serbia. Speriamo sia possibile vederlo anche in Italia.

*Anna Maria Monteverdi è docente di Storia dello spettacolo all’Accademia Albertina di Torino e Storia del teatro alla Facoltà di Lettere di Cagliari. Dopo due viaggi in Kosovo ha deciso di dedicarsi al progetto “Theatre in a state of war” traducendo i testi di Jeton Neziraj e organizzando dibattiti e iniziative sul teatro dei Balcani. info: anna.monteverdi@gmail.com

Altri testi sul Teatro in Kosovo di AMM

Architectural videomapping, Biblioteca Alexandrina (Alessandria D’Egitto)
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Si è svolto ad Alessandria in Egitto (3-6 Giugno 2013) presso la prestigiosa Biblioteca Alessandrina, il primo Workshop (in lingua inglese) su: “Architectural Video mapping & Interaction Design” nell’ambito del Progetto Europeo ENPI CBC MED “IAM” International Augmented Med.

Il corso è stato progettato e diretto da Enzo Gentile, Alain Baumann, Anna Maria Monteverdi e Rosa Sanchez con Paolo Servi a supporto della comunicazione. Un particolare ringraziamento va a Yasser Aref , Mohamed Hafez, ai partecipanti del workshop e a tutto lo staff della Biblioteca di Alessandria.

IAM NEWSLETTER

The Origins

In 2010, a group of italian multimedia experts proposed a project in the field of Augmented Reality. The Original Team of technicians developping it consisted of:

  • Lianne Ceelen-Montaleone (Expert in EU project development);
  • Enzo Gentile and Paolo Servi (Anughea Studios – IT and multimedia specialists and AR experts);
  • Anna Maria Monteverdi (University Professor, expert in new media and technologies for theatre);
  • Liliana Iadeluca (University Professor and expert in lighting techniques).

The Municipality of Alghero (Mayor S. Lubrano, Project manager P. AlfonsoG. Calaresu andM.G. Fara) supported their plan becoming Lead partner of the project.

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Che cosa è un teatro nazionale. Testo di Jeton Neziraj/Kosovo
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da Theatri dhe Nacionalizmi-Theatre and Nationalism, a cura di Jeton Neziraj e James Thompson, Prishtina 2011, Qendra Multimedia (testo raccolto e tradotto da Anna Maria Monteverdi e pubblicato su “Teatro e Storia” (Gennaio-marzo 2014)

Resistenza culturale nei teatri a Pristina (Kosovo): il Teatro Dodona

Le significative spaccature politiche degli anni Novanta e la repressione del regime di Milosevic hanno creato un clima sfavorevole per il teatro in Kosovo. La maggior parte dei teatri chiuse o si affiliò all’organizzazione di Milosevic. Il teatro Nazionale del Kosovo ebbe lo stesso destino. La maggior parte degli attori albanesi e registi furono espulsi. Per quasi dieci anni ci furono solo pochissime rappresentazioni in lingua albanese. Ovviamente tutti gli spettacoli prodotti dovevano passare dal filtro della censura imposta dalla nuova possente amministrazione serba (…). 

.(3)-1386843631La storia culturale del Kosovo nel periodo 1992-1998 ha il fulcro nel Teatro Dodona, un piccolo teatro per ragazzi e per bambini, fondato agli inizi degli anni Novanta e costruito in un’area periferica di Pristina. In quegli anni, fino al dopoguerra, rimase praticamente l’unico luogo in Kosovo a sviluppare attività culturali differenti in Albania. Questo teatrino di 162 posti a sedere sul suo piccolo palcoscenico programmò diverse attività giornaliere (fino a cinque) con tutto esaurito.
Dodona ha prodotto per lo più commedie e spesso testi di diversi autori stranieri. In un’insolita interpretazione diAspettando Godot (1995) di Beckett, apparve in scena un bidone metallico. Il Godot con la regia di Fadil Hysaj fu accolto come l’attesa di una libertà che non arrivava mai. Il bidone, così come altri elementi della rappresentazione, furono ispirati dall’oppressione e dalla violenza che il regime di Milosevic stava facendo subire agli albanesi. Lo stesso regista aveva messo in scena anche Le sedie di Ionesco, in un allestimento che si poteva leggere come una metafora del vuoto spirituale e dell’isolamento che aveva pervaso il Kosovo negli ultimi anni. Una delle commedie di maggior successo di quel tempo, Profesor, jam talent se jo mahi (Professore, sono un talento non uno scherzo) del regista e attore Faruk Begolli, fu rappresentato circa 360 volte. Di solito la sala del teatro si riempiva completamente. Spesso il pubblico finiva per buttare giù la porta per entrare, o si arrampicava strisciando sul tetto del teatro. Nell’atmosfera generale di violenza che dominava l’esterno, quel teatro era una specie di piccola oasi, uno spazio dove la gente poteva respirare liberamente e sentire il senso della dignità umana. Dodona diventò la “mela proibita”: il pubblico affrontava la paura della polizia serba e veniva a teatro per vedere gli spettacoli. Gli attori di solito dormivano dentro il teatro, perché uscire di notte e viaggiare era pericoloso. Una sera, dopo una replica, la polizia serba ordinò agli attori di bruciare la bandiera albanese che avevano tra gli oggetti di scena. Il balletto Odisea Shqiptare di Beckett (Odissea Albanese) del celebre coreografo Abi Nokshiqi fu proibito il giorno della prima perché “conteneva elementi nazionali albanesi”. Il Teatro Dodona continuò la sua attività fino a cinque giorni prima dei bombardamenti della Nato sulle truppe e sulla polizia serba.
Durante quei giorni alcuni criminali sconosciuti uccisero la giovane attrice del Teatro Dodona, Adriana Abdullahu, e ferirono altri membri della compagnia. Adriana era una delle attrici di maggior talento della sua generazione. Durante la guerra la maggior parte degli attori che lavorava al Teatro Dodona furono espulsi con forza da Pristina. Faruk Begolli fu uno dei pochi che riuscì a scampare rifugiandosi in casa della sorella, da qualche parte nella città di Pristina.

Il dopoguerra 

Durante la guerra in Kosovo l’edificio che oggi ospita il Teatro Nazionale del Kosovo (ex Teatro del Popolo) fu danneggiato dalle bombe cadute lì vicino. Anche la maggior parte degli altri teatri subì danni gravi. Finita la guerra, passò un lungo periodo prima che questi teatri potessero ricominciare a lavorare. Uno dei primi testi allestiti al Teatro Nazionale dopo la guerra in Kosovo fu l’Amleto di Shakespeare con la regia dell’inglese David Gothard: venne letto come uno spettacolo che sollevava il dilemma tra vendetta e perdono. 

teatronazionaleA un certo punto uno degli attori, a mezza scena, narrava la sua storia: durante la guerra era stato catturato dai soldati serbi; dopo averlo percosso gli chiesero di recitare qualcosa da Shakespeare. L’attore scelse il monologo “Essere o non essere” dell’Amleto. Il dilemma del principe di Danimarca corrispondeva certamente al suo: morire o restare in vita? Quell’Amleto fu lo spettacolo di maggior successo del dopoguerra in Kosovo: restò in cartellone per due anni, un destino toccato a ben pochi allestimenti.
Dopo la fine del conflitto, molti degli spettacoli kosovari che parlavano di guerra furono realizzati nello spirito del cosiddetto “teatro documentario”, in cui erano evocati con grande pathos momenti della guerra. Altri autori preferirono evitare tematiche di guerra o presentare la guerra in modo indiretto. Il regista Bekim Lumi portò in scena La lezione di Ionesco con il protagonista assomigliava a Hitler, con la stella di David cucita sulla sedia dove avveniva l’omicidio. L’intera rappresentazione era una metafora della tendenza umana a usare la violenza sugli altri.
I teatri e le compagnie indipendenti sono proprio quello che è mancato in questi anni nel teatro del Kosovo. Tranne l’Oda Teatro e Teatrit Te Babes, infatti, non ci sono altri teatri indipendenti in Kosovo. Molte delle compagnie e dei gruppi teatrali che si sono insediate in Kosovo dopo la guerra, a parte il Quendra Multimedia, non sono riusciti a sopravvivere.
Quendra Multimedia, fondato nel 2002, ha sviluppato decine di progetti teatrali. Nel 2007 presentò Darka e fundit(L’ultima cena), uno dei più ambiziosi progetti del dopoguerra. Un team congiunto di artisti svizzero-kosovaro lavorò per due mesi, producendo due “azioni teatrali” che furono rappresentate in spazi teatrali non convenzionali. Dopo un intenso lavoro preparatorio, lo spettacolo fu allestito un piano di un palazzo abbandonato dove aveva avuto sede il giornale in lingua albanese “Rilindja”, uno dei più famosi edifici in Pristina. Fu rappresentato tre volte di seguito di fronte a un grande pubblico: presentava con grande coraggio la situazione del dopoguerra in Kosovo e il dilemma tra vendetta o perdono.
Il riferimento era chiaro: lo spettacolo era per albanesi e serbi, ma il messaggio e le questioni che sollevava erano senza tempo e universali. Lo spazio scenico era pieno di organi di animali, cuori, teste, polmoni… In una scena, un’attrice spiegava come i serbi l’avevano violentata mentre tagliava un cuore di un animale con un coltello. Lo spettacolo aveva due livelli narrativi. Il primo consisteva dei racconti degli attori sulla loro esperienza della guerra in Kosovo. Alcune di queste storie erano vere, altre state create per lo spettacolo. Il secondo livello comprendeva dialoghi tra vittime e carnefici: era un piano immaginario, in cui la performance cercava di rispondere filosoficamente e politicamente a alcune domande su vendetta o perdono, in particolare nel contesto del Kosovo. Per esempio, è possibile il perdono? Come ottenerlo? E’ necessario che i carnefici chiedano perdono, perché il perdono venga loro concesso? Un assassino è più forte o più debole dopo che ha commesso un omicidio? Queste e altre domande diventarono tangibili e sembravano esser comprese nello stesso momento in cui le altre storie di guerra venivano rappresentate dagli attori in scena.

Il teatro in un nuovo stato 

Come nuovo stato, il Kosovo ha regolari attività teatrali regolate per legge. La legge spiega generalmente il ruolo e la funzione del Teatro Nazionale del Kosovo (Teatri Kombetar i Kosoves, TKK): la più importante istituzione teatrale del paese deve produrre spettacoli, portare il pubblico a teatro, far conoscere la migliore drammaturgia nazionale e mondiale. Nonostante questo, la fisionomia e il ruolo del teatro sono al centro di un processo di professionalizzazione ancora in atto. Si sta chiarendo lentamente la prospettiva di un Teatro Nazionale rispetto al pubblico, alla drammaturgia nazionale e allo stato. In particolare, la relazione con la drammaturgia nazionale e con lo stato sono diventati i due temi controversi nel dibattito sul teatro di questi anni.

Il nuovo stato finanzia il TKK e le sue altre attività perché rappresenta l’istituzione nazionale che identifica lo stato del Kosovo. Ma uno stato deve necessariamente avere un Teatro Nazionale?
A parte questa nazional-mania, lo stato non mostra un vero interesse per il teatro e per il suo sviluppo. Attraverso le sue strutture, cerca soprattutto di tenere il teatro nelle sue mani, mantenendone il controllo. Questo non avviene attraverso un controllo di tipo politico, o con la censura dei contenuti delle produzioni. Per prima cosa il controllo è esercitato attraverso restrizioni dei fondi o limitando l’accesso ad altre risorse, come l’uso della sala o di altri spazi interni. Le principali strutturale statali (il governo e la presidenza del Kosovo) continuano infatti a usare il teatro per differenti iniziative, soprattutto omaggi a eroi della storia passata o recente.
La gerarchia del potere (non quella ufficiale) sul TKK va dal Ministro della cultura, gioventù e sport (e risale fino al Primo ministro), all’ufficio del Presidente fino al Segretario, al direttore del dipartimento della Cultura, dell’Ufficio spettacoli, e infine all’ufficio organizzativo del Teatro. Questa catena illegale di comando è condizionala soprattutto dal fatto che TKK è finanziato con denaro pubblico. Ogni sforzo per tagliare queste reti di comando porta a conseguenze che vanno da pressioni che possono condurre a rimozioni dall’incarico o alla cancellazioni di fondi, passando per ricatti e pressioni burocratiche.
Subito dopo la dichiarazione d’indipendenza, una mattina, all’ingresso del teatro, alcuni funzionari pubblici issarono un cartello con scritte cubitali “Repubblica del Kosovo”, e poi “Ministero della Cultura, Gioventù e Sport” (in caratteri più piccoli) e più in basso ”Teatro Nazionale” (in caratteri decisamente più piccoli). Il cartello fu rimosso a seguito della pressione dei media e non è più stato rimesso, ma questo episodio, e le proporzioni delle lettere che indicavano le diverse istituzioni,i mostravano chiaramente la gerarchia di forze e anche la relativa autonomia del teatro in relazione alle altre strutture dello Stato.
Il rifiuto da parte dell’organizzazione del Teatro TKK nel 2009 di soddisfare una formale richiesta da parte dell’ufficio del Primo Ministro, che richiedeva di usare la sala per attività memoriali, causò uno scandalo mediatico e politico che portò quasi alle dimissioni del Direttore Generale. In effetti le dimissioni furono date molti mesi l’incidente, visto che il direttore non era più in grado di fronteggiare la pressione politica e la crescente burocrazia del Ministero della cultura.
Rispetto alla programmazione, negli ultimi anni il teatro ha sviluppato un repertorio “politicamente corretto”. In altre parole, il teatro non solo non fa niente senza lo stato ma contribuisce direttamente all’idea di “costruzione dello stato” attraverso la promozione dei “valori nazionali”. In sostanza, il teatro non ha alcun potere di creare o provocare opinione. A causa della continua crisi, provocata dalla scarsa affluenza del pubblico, il suo ruolo nella società è marginale. L’adozione di questo ruolo “opportunistico” è stata proprio una dei fattori chiave che ha portato il pubblico a rifiutarsi di andare a vedere quelle rappresentazioni.
Le circostanze create dopo la dichiarazione di indipendenza hanno sollevato un altro dibattito: quali sono i confini di una drammaturgia nazionale? L’ampia nozione di drammaturgia albanese (che include l’opus integrale della drammaturgia scritta da autori albanesi) ha cominciato a essere ridotta alla sola “drammaturgia kosovara”. La tendenza viene sostenuta principalmente dai drammaturghi interessati alla “riduzione quantitativa del mercato”. Più piccolo è il mercato, e più crescono le loro possibilità.
In queste nuove circostanze politiche, il teatro deve porsi alcune domande cruciali: 

Che cosa è un teatro nazionale? 

Quali testi della drammaturgia nazionale dovrebbero essere portati su un palcoscenico di un teatro nazionale?
Quali sono i “grandi temi nazionali” adatti a un teatro nazionale?
I testi nazionali fanno di un teatro nazionale un teatro ancora più nazionale?
Un teatro nazionale si denazionalizza quando porta in scena Shakespeare, Molière o altri autori contemporanei? 
E così via con altri dilemmi…
Il repertorio del TKK negli ultimi due anni ha avuto un rapporto di 4 a 2 tra drammaturgia straniera e drammaturgia nazionale: questa proporzione continua a essere il tema più discusso. I critici notano che “questo è un teatro nazionale” e quindi nel suo repertorio dovrebbero esserci testi nazionali in misura più massiccia. Seguendo questo ragionamento, gli autori locali sono diventati più consapevoli dei problemi della nostra società e, considerando che il teatro è “uno specchio dove la società proietta i suoi problemi”, l’idea di dare maggior spazio alla drammaturgia nazionale ha un senso. E’ un’idea giusta che ha basi fondate. Nonostante questo, sorgono alcuni problemi se prendiamo in esame la drammaturgia prodotta da autori albanesi e dal modo in cui questi ultimi affrontano la questione: in molti casi manca il senso critico, o il coraggio di affrontare diversi temi e tabù. Il passato viene affrontato in maniera parziale, evidenziando solo alcuni momenti ed eventi, all’interno di una cornice molto selettiva. Vengono così taciute debolezze, errori e colpe all’interno della società albanese, che magari vengano letti come la conseguenza di imposizioni esterne, come l’“influenza dei nostri nemici”. 

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Perché abbiamo creato questi schemi e perché questi schemi continuano a influenzare i drammaturghi? La ragione principale è certamente legata alle circostanze politiche e sociali. E’ ragionevole che il principale obiettivo di una nazione oppressa, politicamente non consolidata, fosse la libertà. E i lavori drammaturgici che non contribuivano a questo ideale, ma avevano a che fare con altri problemi (ritenuti marginali), erano di solito considerati pericolosi o responsabili del rallentamento del processo di avvicinamento a questo ideale. Nel mostrare i problemi interni del paese, ci fu la preoccupazione che si potessero dare messaggi negativi al mondo, suggerendo così che noi fossimo una nazione che non meritava la libertà. Dunque sulle nostre scene una madre albanese non poteva mai essere una puttana; un combattente per la causa nazionale non poteva mai diventare un traditore e i serbi erano quasi sempre soldati ubriachi che bestemmiavano e uccidevano a sangue freddo.
Anche i registi teatrali albanesi non sono ancora in grado di affrontare i testi albanesi. Dal momento che i loro interessi nel teatro sono spesso più vicini all’interesse del teatro in quanto istituzione, nella maggior parte dei casi preferiscono mettere in scena un testo riconosciuto dalla drammaturgia internazionale piuttosto che un testo nazionale. Comunque la minoranza, quelli che lavorano con testi nazionali, in genere portano in scena “codici teatrali” che si suppone rammentino al pubblico qualcosa di “storico”, “culturale”, “tradizionale” o “nazionale”. In queste circostanze, alla luce della discussa qualità della drammaturgia nazionale, è più facile e meno rischioso optare per testi stranieri, perché il successo del prodotto finale – lo spettacolo – è più importane dell’assenza della drammaturgia nazionale dal programma di un teatro.
In questa crisi di identità che il teatro del Kosovo vive in questo periodo, la domanda più importante sembra molto impegnativa: cosa è di fatto un valore nazionale e cosa dovrebbe affermare o contestare questi valori?
Se oggi lo stato (a causa del suo interesse nazionale) promuove la coesistenza tra serbi e albanesi, il teatro deve accettare questo valore come un dato di fatto, oppure opporsi, esaminando la realtà, dal momento che, per esempio, questo valore viene spesso negato e per nulla accettato? Questo valore (che lo stato promuove), per quanto importante, viene ampiamente contestato, ma opporsi a esso potrebbe significare sostenere il nazionalismo e mettere in pericolo il futuro del nuovo stato. Il compromesso – cioè evitare di affrontare temi come questi – può essere però considerato opportunismo e questo non porta alcun beneficio al teatro.
Ma quali sono oggi i temi nazionali importanti? Secondo un gruppo di pseudo-artisti, questi temi sono il frutto della storia e sono legati all’idea della formazione della nazione e dello stato e così via. Secondo questa logica, il Teatro Nazionale dev’essere un caposaldo di questi temi e la dicitura di “Teatro Nazionale” significa proprio questo.
L’approccio a questi argomenti in molti casi ha escluso ogni tipo di confronto con i “fatti storici” o con il possibile “lato oscuro” degli eventi storici, che potrebbero essere immediatamente etichettati come “antinazionali”. Questo approccio ha fatto in modo che il teatro diventasse il tramite di una storia “senza sangue”, proprio come i libri di storia. (…) Il teatro del Kosovo dovrebbe essere un teatro libero! 

Il tecnoartista Giacomo Verde
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Di Anna Monteverdi, dal catalogo Riccione TTV, 2004.

“Le tecnologie cambieranno in meglio il mondo ma solo se saranno usate secondo un’etica diversa da quella del profitto personale incondizionato”.Giacomo Verde

Giacomo Verde è videomaker, tecnoartista, mediattivista legato alla sperimentazione delle tecnologie povere con le quali mostra, nelle installazioni e a teatro, come la creatività non dipenda da un forte dispiegamento di mezzi.

Le sue oper’azioni sono variazioni sul tema della necessità di un uso politico delle immagini e di una riappropriazione-socializzazione dei saperi tecnologici. Verde riflette da tempo sulla possibilità di fondere l’esperienza estetica con la pratica comunicativa dell’arte in un’ottica di decentramento produttivo, esplorando anche attraverso i diversi media e il web, nuovi modi di “fare mondo” e “creare comunità” con l’obiettivo di agitare le acque dell’arte con la forza dell’attivismo e di creare eventi e contesti sempre più “partecipati”: dai laboratori per i bambini ai Giochi di autodifesa televisiva, fino alla creazione di Tv comunitarie interattive come la MinimalTV.

La pratica del teatro sperimentale, il legame strettissimo con le tradizioni popolari (Verde è stato suonatore di zampogna e artista di strada 1 ) lo hanno condotto “naturalmente” verso l’utilizzo del video in scena:

 Negli anni Ottanta ho scoperto la possibilità di usare i video in scena come elemento drammaturgico, oltre che scenografico. Così mi sono accorto che lo strumento video si adattava molto bene alle mie capacità artistiche, permettendomi di esprimere visioni difficilmente realizzabili con altri strumenti comunicativi e dato che mi occupavo di cultura popolare, mi è sembrato naturale fare i conti con la televisione e le comunicazioni elettroniche, che oggi hanno ereditato e modificato gli archetipi dell’immaginario popolare. Occuparmi di video e di televisione (che sono due cose ben diverse) ed ora di computer, è stato come decidere di vivere nel contemporaneo, superando vecchie e inutili ideologie di comportamento artistico, accettando il confronto creativo piuttosto che la fuga conservativa”. 2

 A teatro l’accento è posto sul live, sulla performatività dei media, per comprendere questa realtà tecnologicamente aumentata, come scrive in un suo testo Per un teatro tecno.logico vivente (in A. M. Monteverdi, La maschera volubile, 2000, Titivillus). Verde parla di una tecnonarrazione che possa rivitalizzare l’antica arte della narrazione orale con i nuovi strumenti comunicativi e faccia sentire lo spettatore necessario alla rappresentazione; la tecnologia deve essere un mezzo che amplifica il contatto, il tempo reale e non una gabbia che detta regole e ritmi preregistrati e immutabili. Verde è anche attore-narratore e autore di videocreazioni teatrali, e spesso mette al servizio di altri artisti le proprie competenze video-teatrali, collaborando con Babelia, Giallomare minimal teatro, Casa degli Alfieri, Teatro della Piccionaia, Luigi Cinque, Nanni Balestrini.

In questi ultimi anni ha sviluppato una propria tecnica per la creazione di videofondali live e/o interattivi per performance e reading poetico-musicali (tra cui Rap di fine millennio e Fast Blood, insieme con il poeta Lello Voce e il musicista Frank Nemola) che gli permette di creare ogni volta, quasi improvvisando, immagini suggestive e astratte, capaci di adattarsi a diverse situazioni artistiche. Nelle ultime versioni il dispositivo prevedeva anche l’inserimento di spezzoni di immagini videoregistrate ma manipolate in tempo reale attraverso un software utilizzato dai vj, ArKaos.

Il Teleracconto, ideato nel 1989 e inaugurato con la versione teatral televisiva di Hansel e Gretel (H & G Tv), coniuga narrazione teatrale realizzata con piccoli oggetti e macroripresa in diretta. Una telecamera inquadra in macro alcuni oggetti collocati vicinissimo alla telecamera; questi, attraverso la riproduzione televisiva e soprattutto attraverso la trama del racconto orale associata alla disponibilità immaginativa del pubblico, si trasfigurano fino a diventare quello che la storia ha necessità di raccontare: il guscio di una noce può sembrare il volto della strega, le dita alberi nodosi, un pomodoro un fuoco brillante!

Il performer gioca sullo spiazzamento percettivo. Lo studioso Antonio Attisani aveva parlato per il teleracconto di una originale “maschera elettronica“: il video è maschera, ovvero supporto che crea e impone una propria sintassi ma non elimina l’attore e con esso con il suo sapere, la sua tecnica e la sua responsabilità.

Coi Teleracconti Verde ci mostra come è facile attraverso una telecamera “far credere che le cose sono diverse da quelle che sono”, in altre parole, che le immagini trasmesse dalla televisione non sono quelle della realtà ma quelle di chi vuole fissare per noi un punto di vista sul mondo.

Le telecronache della Guerra del Golfo ma soprattutto quelle di Genova in occasione del meeting G8 ci hanno insegnato quanto potente sia la macchina spettacolare dell’informazione, la “gestione della catastrofe” e la simulazione-contraffazione degli eventi. Solo limoni (Documentazione videopoetica in 13 episodi, con Lello Voce, 2001, prod. Shake – SeStessiVideo – ReseT) utilizza modalità e tipologia narrativa antitelevisiva (utilizzando anche materiali girati da altri videomaker e considerati “non commerciabili”) per svelare i dietro le quinte e le efferate strategie di violenza e di offuscamento della verità di quel gran teatro del mondo che è stato Genova. A prevalere è il rumore di fondo: protagonisti sono l’anziano genovese che guarda gli scontri e le commenta, il proprietario della casa che ospita, suo malgrado, tre cecchini sul tetto, il corteo coloratissimo dei migranti, la gente affacciata dalle finestre che butta acqua ai manifestanti accaldati (e poi dopo, limoni per aiutarli a sopportare i lacrimogeni), il punto di ristoro, l’accampamento, il momento della vestizione e delle protezioni con armature di plastica e gomma, il clima generale di festa. Ma anche la città blindata, la violenza contro i manifestanti, la forza iconoclasta dei black block, il saccheggio di un supermercato, la risposta alle cariche della polizia. Non calpestate le aiuole testimonia l’episodio più tragico e più emblematico perché il cadavere di Carlo Giuliani, intravisto tra le gambe dei carabinieri e attraverso i loro scudi trasparenti appoggiati a terra, quel corpo coperto da un lenzuolo e la chiazza di sangue è ciò che non ci farà mai dimenticare quei tre giorni di Genova.

ETICA HACKER:

La medesima “attitudine politica” sta dietro a tutte le creazioni di Verde, una “attitudine hacker” che se non si esprime direttamente nei contenuti, si materializza nell’elaborazione di dispositivi “low-tech” che dimostrano un uso creativo ma a basso costo e alternativo a quello proposto dal mercato, dei media elettronici. Nel sito www.verdegiac.org si possono trovare le istruzioni per rifare da casa l’installazione del videoloop interattivo. Possiamo considerare una sorta di mixaggio tra teleracconto e videofondali-live lo spettacolo oVMMO dalle Metamorfosi di Ovidio con Xear.org. L’attore Marco Sodini declama con parole, azioni e coreografie gli antichi miti di trasformazione. Sullo sfondo, immagini create in diretta da Verde con oggetti prelevati dal quotidiano e “metamorfosati” fino a diventare puro colore. Presente e visibile in scena, il tecnoartista mette in atto un doppio dispositivo di ripresa, la webcam che riprende sia lo spazio con l’attore che le videoproiezioni, e la videocamera che riprende sullo schermo del computer le immagini della webcam sulle quali vengono sovrapposti piccoli oggetti, materiali e riflessi.

Anche la musica e i suoni curati dai musicisti Mauro Lupone e Massimo Magrini, rispondono al principio del live: suoni campionati che creano un tappeto sonoro continuo vengono trasformati in diretta con variazioni di intensità, sovrapposizioni ed echi della voce del protagonista.

Nel 1998 Giacomo Verde e il drammaturgo e critico Andrea Balzola pongono per la prima volta mano ad un progetto di narrazione teatrale con uso di tecnologia interattiva ispirandosi, per la stesura dei testi, alla forma e al significato del Mandala, guida della meditazione e simbolo della trasformazione spirituale dell’individuo. Nasce Storie mandaliche insieme con l’associazione ZoneGemma. Sono sette storie di trasformazioni nei diversi regni: umano, minerale, vegetale, animale e divino, ovvero sette iperracconti di personaggi “linkati” tra loro a formare una rete e un labirinto: il bambino-uomo, il mandorlo, la principessa nera, il corvo, il cane bianco, la pietra del parco, l’ermafrodita.

 Ogni storia e ogni personaggio è associato a un colore, ad un elemento e ad un punto cardinale e conducono al centro, esattamente come il mandala. Ma ogni sera il percorso è diverso e la strada-racconto che porta al centro viene decisa ogni volta assieme agli spettatori. Lo spettacolo ha attraversato diverse fasi ed è stata inaugurata al Teatro Fabbrichino di Prato nel febbraio 2004 una sua ulteriore metamorfosi con le animazioni create da Lucia Paolini in FlashMX (programma per animazioni audiovisive 2D usato in Internet) per un’ipotesi di futura fruizione Web con le sonorità digitali avvolgenti ed evocative di Mauro Lupone. Le immagini e i suoni hanno la funzione di memorizzazione del percorso e di immersione nel tema e nelle caratteristiche dei personaggi, e ci introducono in una geometria narrativa esplosa oltre la pura linearità diegetica.

Il cyber contastorie (la definizione è di Giacomo Verde, che ci tiene a definire il suo ruolo di tecnonarratore sulla base dell’immagine del tradizionale raccontastorie) anziché la tela disegnata, ha davanti a lui immagini animate in videoproiezione che seguono il ritmo in tempo reale del suo racconto.

Storie mandaliche, luogo politonale di ricerca di un teatro della parola, è la possibilità di giocare una parola differente, che prende corpo, suono e immagine potendo sdoppiarsi, metamorfosarsi e riconvertirsi in nuovo significato conferendo allo spettacolo mobilità di identità e di senso, come era nell’originaria natura della maschera. Possiamo notare il grande paradosso italiano per il quale quello che viene considerato da tutti uno degli esempi più emblematici del teatro multimediale, non ha ancora avuto possibilità di circuitare regolarmente nelle sale e nei Festival teatrali

Nel teatro globale di Connessione remota, uno dei primissimi esperimenti italiani di webcam theatre, andato contemporaneamente in scena e in diretta web per la prima volta dal Museo d’arte contemporanea di Prato nel maggio 2001, gli spettatori potevano assistere alla performance dal web, incontrarsi in rete, chattare tra loro e dialogare e scrivere in tempo reale con lo stesso narratore-performer: “Questi esperimenti mi hanno confermato l’intuizione di poter fare un teatro con/per la rete tenendo conto del senso di comunità che spesso si attiva in Internet in maniera più convincente di tanti altri luoghi materiali”.

Tra le installazioni di argomento teatrale: Inconsapevole Macchina Poetica ispirata a Julian Beck e al Living theatre, uno dei primi risultati del progetto di creazioni artistiche EutopiE, sulle nuove utopie possibili (www.eutopie.net). Nella Inconsapevole Macchina Poetica (2003) Verde insieme con Lupone e Magrini predispone un programma in cui il visitatore, sollecitato da suoni e immagini, deve rispondere a domande sulla percezione soggettiva e interpersonale della vita e del mondo.

Le risposte si mescolano come in un gioco dada, ai pensieri e alla visione anarco-rivoluzionaria di Beck che con il Living Theatre ha fatto dell’Utopia un luogo praticabile nella vita e nell’arte. Si diventa così, inconsapevolmente creatori, perché “Ognuno è un artista sublime” (J. Beck, La vita del teatro). Verde ha documentato, inoltre, molte situazioni teatrali; tra i suoi più recenti lavori: un’intervista a Judith Malina sullo spettacolo Resistence e un’intervista (con Antonio Caronia) a Marcel.ì Antunez  in occasione del Malafestival di Torino.

Pillole di spettacolo per T.V.P#000. Cercando Utopie prima documentazione video del progetto EutopiE che unisce grazie al lettering la performance realizzata al Politeama di Cascina (2003) alle linee teoriche e ai testi del Sub Comandante Marcos e di Edoardo Galeano.

La faccia nascosta del teatro. Conversazione con Robert Lepage (2001) è il video creato a partire dalle riprese del back stage de La face cachée de la lune a Montréal e dall’intervista in italiano al regista canadese Robert Lepage in occasione del Festival dei Teatri delle Americhe. Il video racconta il teatro tecnologico di Lepage attraverso una doppia (e contemporanea) narrazione visiva: quella della straordinaria scena trasformista creata per La face cachée de la lune con il suo affollamento nel dietro le quinte e quella dell’intervista al regista attraverso la semplice tecnica mixer della dissolvenza continua. Verde documenta il setting dello spettacolo e mostra quell’equilibrio necessario al teatro – di cui parla l’artista canadese – tra la parte in ombra e la parte in luce dello spettacolo, ovvero tra la parte artistica e quella tecnica. Il video contiene tutta l’estetica di Verde: l’antitelevisività, l’inciampo, l’errore, l’imprevisto, l’informalità, per privilegiare come sempre, al di là e oltre l’arte, la comunicazione diretta.

Note 1 Sulla prima esperienza di artista di strada Verde ha scritto il diario Frantumando generi in Arte immateriale, arte vivente (1990); ed anche Strada-Internet in E. Quinz, Digital performance, Parigi, Anomos, 2001: dall’esperienza del teatro di strada al web con la stessa logica di ricerca di un’aggregazione collettiva, inseguendo sempre una reale “connessione emotiva”. Sulle diverse “formazioni” artistiche di Verde vedi anche A. M. Monteverdi Vita in tempo di sport. La Bandamagnetica di Giacomo Verde in Catalogo Teatri dello sport, a cura di A. Calbi, Milano, 2002. 2 Intervista a Giacomo Verde a cura di R.Vidali, “Juliet”, n. 71, febbraio-marzo 1995, p.35

Integrazione cinematografica nel teatro di Robert Lepage: Le Polygraphe
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Atti del convegno dell'Università di Roma su Cinema e intermedialità a cura di M.M.Gazzano

 

La scena di Robert Lepage, attore, regista teatrale cinematografico e d’opera, creatore di scenografie multimediali per concerti rock (1), è costellata da una vera polifonia di linguaggi e di immagini (fotografiche, video e in grafica 3D). L’effetto di ombre nel suo teatro è combinato variamente con le proiezioni video in diretta, tecniche che insieme creano un gioco e uno scambio ininterrotto tra la parte frontale e quella retrostante la scena, entrambe spazio d’azione live sia dell’attore che della macchina. Per questo motivo Iréne Perelli-Contos e Chantal Hébert affermano che il “medium di Robert Lepage è l’immagine” (2), mentre Ludovic Fouquet sostiene che nei suoi spettacoli Lepage fa della scena “una piazza forte dell’immagine” (3).

La sua originale drammaturgia gioca su più livelli narrativi: in un’architettura stratificata fatta di trame visionarie si intrecciano storie di esplorazioni simboliche, di perdite e di riconciliazioni; vicende lontane nel tempo e nello spazio si incastrano come scatole cinesi offrendo sguardi speculari, percorsi obliqui di memoria, investigazioni introspettive che relazionano la Storia al quotidiano. La scena – un vero trionfo di mechané e techne antica, commista a tematiche e tecniche postmoderne di appropriazione e citazione dai linguaggi della comunicazione mass mediatica – in costante divenire per mezzo del movimento e della luce come nell’utopia craighiana, diventa “maschera” per l’attore, ovvero corpo espanso e insieme luogo metamorfico dell’essere che si rivela, in ultima analisi, multiforme e illuminante macchina della verità.

Nel lavoro artistico di Lepage dove “non è il teatro che si meccanizza ma è la macchina che si teatralizza” (4), la tecnica è metafora di una condizione esistenziale di mutabilità perenne, di un processo di memoria e di conoscenza (dell’Io, della Storia), di un nuovo sguardo inteso come illuminante esperienza interiore; la scena è concepita come materia viva e palpabile, suscettibile di innumerevoli trasformazioni, pulsante all’unisono con il corpo dell’attore del quale è suo naturale riflesso, articolazione, appendice. Le tecnologie dell’immagine diventano metaforiche lenti addizionali per vedere il piccolissimo o ingigantire, oppure costituiscono uno specchio interiore. Producono una sorta di occhio supplementare, una protesi che ci protegge, ci fortifica e contemporaneamente ci permette di “vedere oltre“, oltre la visione binoculare umana. Producono una visione stereoscopica o addirittura a raggi X (come in Elseneur, spettacolo definito dallo stesso Lepage un encefalogramma del protagonista Amleto, ovvero “una timida esplorazione dei meandri dei suoi pensieri” 5).

Il procedimento di racconto per immagini è evidente soprattutto in Les aiguilles et l’opium (1990). Un senso di angoscia esistenziale, di impossibilità di fuga pervade lo spettacolo che parla attraverso le figure di Jean Cocteau e Miles Davis, di dipendenze (dalla droga e dall’amore). Su un pannello-lavagna rivestito di spandex sopra il quale l’attore si muove e danza appeso con un cavo all’alto del proscenio, vengono proiettate immagini che creano lo “sfondo” drammaturgicamente adeguato: il vortice dei Rotorelief di Marcel Duchamp (o la spirale nella scena dell’Ermafrodita in Le sang d’un poète di Cocteau, 1930) (6), che crea l’illusione di un uomo risucchiato dentro le sue spirali. Di particolare intensità le immagini proiettate sullo schermo di piccoli oggetti posti su una lavagna luminosa (due tazzine di caffé a tradurre sinteticamente un incontro al bar; una piantina di Parigi, delle chiavi) o l’ombra dell’uomo che offre il suo minuscolo braccio alla gigantesca siringa (azione composta da oggetti collocati in realtà a distanza: la siringa posta su una lavagna luminosa e l’uomo posto dietro lo schermo-lavagna). L’effetto di composizione dell’immagine e di “incrostazione” (ovvero “intarsio” tra ombre di oggetti di dimensioni diverse ma senza un vero lumakey) tra corpo reale e immagine in proiezione è senz’altro la caratteristica di questo spettacolo. L’uso della tecnologia delle immagini come metafora della memoria è esemplificato in Les sept branches de la rivière Ota, spettacolo, commissionato dal governo giapponese tra le attività di commemorazione del cinquantesimo anniversario della bomba atomica su Hiroshima. La tecnologia video – che nello spettacolo racconta attraverso immagini in movimento le storie orientali e occidentali che cominciano o finiscono a Hiroshima – associata all’antica tradizione del teatro d’ombre, diventa metafora stessa del processo di memorazione.  La scena, strutturata come una tradizionale casa giapponese, bassa e lunga, opaca e trasparente, diventa una lastra “fotosensibile”, o piuttosto un muto teatro d’ombre.

Il cinema è un riferimento fondamentale per Robert Lepage, il quale spesso ha dichiarato che la cultura audiovisiva, cinematografica e televisiva ha da sempre influenzato il suo teatro portandolo a “réinventer le vocabulaire narratif“. In quanto canadese, anzi in quanto québecois:

In Québec non c’è tradizione letteraria. Il nostro Molière è ancora in vita, ha cinquant’anni e si chiama Michel Tremblay. La tradizione letteraria non è presente come in Europa. La nostra tecnica di scrittura deriva effettivamente dalla televisione o dal cinema. Il teatro non è ufficializzato dalla scrittura: non si parla di scrittura teatrale ma piuttosto di uno spazio di scrittura cinematografica affiliata al teatro. Per quanto mi riguarda trovo la scrittura cinematografica più teatrale del teatro, risponde veramente alle regole della tragedia greca: le sceneggiature sono strutturate, sono dei sistemi shakespeariani. Mi stupisco dunque molto che la gente di teatro rifiuti questa scrittura. Con lo zapping, ciascuno può seguire una storia senza che venga raccontata in maniera lineare. Davanti al suo televisore uno spettatore può guardare contemporaneamente il calcio e un dibattito. E finisce per trovare il filo di ciò che guarda. E’ come a teatro, è in grado di trovare il filo tutto da solo, sa che questo è un flashback (…) Troppa gente considera il teatro qualcosa di superato.

Più che usare immagini cinematografiche, Lepage struttura la scena stessa come un grande schermo (i sette pannelli che compongono la casa giapponese in Les sept branches de la rivière Ota, il muro in Le polygraphe, la parete scorrevole in La face cachée de la lune, l’enorme cornice televisiva in Apasionada). La trama è spesso suddivisa in sequenze e “quadri” che ritagliano e isolano la scena letteralmente “incorniciandola”, ricreando vere e proprie inquadrature e movimenti della macchina da presa, mentre la storia procede attraverso originali raccordi imitando le modalità e le tecniche del film secondo un procedimento narrativo non lineare, con distorsioni temporali in forma di analessi (flashback) e prolessi (flashforward), che mettono in crisi la cronologia stessa del racconto.

La citazione al cinema è presente anche nella finzione teatrale: in Les sept branches de la rivière Ota un’équipe di cineasti americani sta filmando un documentario su Hiroshima; in Les aiguilles et l’opium il protagonista è a Parigi per un lavoro di postproduzione di un film; in Le polygraphe la protagonista è un’attrice che dopo molti provini, è stata scelta per girare un film. L’universo teatrale di Lepage è inoltre costellato di scritte proiettate in scena che segnalano la separazione da una sequenza all’altra oppure servono a dare indicazioni di luogo e di tempo, o a indicare i “credits” come i titoli di coda dei film.

LE POLYGRAPHE O LA RICERCA DELLA VERITA’

Le polygraphe, spettacolo creato con un lungo work-in-progress nel 1987-88 (ma con una prima ufficiale a Londra nel febbraio 1989) ed interpretato inizialmente dallo stesso Lepage insieme con l’attrice Marie Brassard (che fu anche co-autrice del testo) e con Pierre-Philippe Guay, ha avuto nel 1996 una versione giapponese e nel 2000 una versione italiana. Da una tragica vicenda autobiografica (l’omicidio di un’ amica nel 1980 all’epoca in cui Lepage frequentava il Conservatoire d’Art Dramatique di Québec) il regista trae gli elementi per un allestimento che gioca a confondere teatro e cinema, il racconto teatrale con la suspense del thriller e del film poliziesco (con echi da certa filmografia hitchcockiana) e con le tecniche cinematografiche. Il tema dello spettacolo, ambientato in parte a Québec e Montréal e in parte a Berlino il cui Muro è una simbolica presenza (soprattutto a partire dal 1989, anno della sua caduta) ma anche pratica parete di proiezione, è la verità. O meglio, la ricerca di una verità che, simile a una Matrioska, come si racconta nello spettacolo, sembra contenerne molte altre. Una donna è stata uccisa in circostanze misteriose e alcune persone a lei vicine vengono sospettate; tra di esse il suo ragazzo, François, uno studente di scienze politiche di venticinque anni che sta svolgendo una ricerca sul muro di Berlino. Dopo sei anni un regista decide di farne un film e per il ruolo della vittima sceglie una giovane attrice, Lucie, che abita porta a porta con François, il maggior sospettato dell’omicidio e sottoposto alla macchina della verità (poligraphe in francese). Questi, poiché non era mai stato informato dal medico Christof circa il risultato del test in quanto omicidio non risolto, cade in uno stato di angoscia e di ossessione che lo porta ad atti estremi di autodistruzione. Lucie (attrice teatrale dilettante alle prese con l’emblematico monologo amletico) conosce anche il criminologo incaricato delle indagini nel Metro di Montréal casualmente perché entrambi assistono al suicidio di un ragazzo, e in seguito hanno una relazione. Christof le rivela l’esito della macchina della verità; Lucie, a conoscenza dell’innocenza di François non potrà però rivelargliela. La vicenda termina con il suicidio di François sotto un metro. Sesso, sangue e morte sono strettamente collegati nello spettacolo, in un contrasto che ricorda le vicende e l’atmosfera che animeranno, sette anni dopo Les sept branches de la riviére Ota: la morte e la devastazione della bomba atomica si mescolano alla sensualità e all’invito alla “rigenerazione”. Come afferma lo stesso Lepage:

In Le Polygraphe la morte è un importante tema costantemente legato alla sessualità. Uno dei personaggi è un medico legale. Mentre seziona un cadavere, spiega come è fatta la carne, come circola il sangue, come funzionano o non funzionano più i vari organi. I dettagli sono insignificanti. Ciò che è importante è che egli ha entrambe le mani immerse fisicamente in un corpo. Quando vuoi far risaltare il giallo in un quadro usi il nero. Quando vuoi esaltare un tema musicale usi il contrappunto. Lo stesso vale per i temi di un dramma. Se vuoi rivelare la vita e vuoi che gli istinti sopravvivano e si riproducano, spesso devi avvicinarti ad essi attraverso la morte“.

 I rapporti, con risvolti sessuali espliciti, tra Christof, Lucie e François il principale indiziato, sono alla base dello spettacolo suddiviso in ventidue brevi sequenze frammentate con soluzioni di vera “cineficazione”: dissolvenze, flashback, primi piani, proiezioni, slow motion, accelerazioni, alternate scenes, con richiami espliciti al linguaggio cinematografico e alle convenzioni che regolano la comunicazione audiovisiva. La narrazione, costituita da una successione di quadri (alcuni dei quali esclusivamente visivi) solo apparentemente slegati tra loro e aventi continui spostamenti di tempi e di luoghi, mette il pubblico teatrale nella condizione di dover indagarne il senso, ricostruendo l’enigmatica vicenda: la macchina da presa – come ricordava André Bazin a proposito dei film di Cocteau – è lo spettatore.

Con Le Polygraphe si preannuncia l’interesse di Lepage verso una scena “integrata”, che attinga con grande disinvoltura al linguaggio e alla cultura dei vari media, dal cinema alla televisione. Questo libero e spregiudicato uso dei linguaggi in scena non significa però confusione tra le diverse arti, come precisa Lepage:

Il cinema, anche quello visto su grande schermo e in Dolby stereo, non potrà mai dare quello che dà il teatro. Non lo dico perché sono un purista. Lo dico perché il cinema è un’esperienza individuale mentre il teatro è un’esperienza collettiva” .

Gli oggetti e lo spazio

Pochi oggetti concreti “a funzionamento simbolico”, richiamano immediatamente – tra tensione verso il realismo e gusto metafisico – una storia drammatica di incomunicabilità, di solitudini, di drammatiche esplorazioni interiori, di silenzi, violenze, separazioni e morti: il muro, lo scheletro, lo specchio.

 Le proiezioni di diapositive e l’aggiunta di pochi altri oggetti di arredo (un rubinetto, un tavolo) permettono di trasformare il muro in stazione del metro, interno di discoteca, ristorante e appartamento; l’immagine fotografica è anche usata per evocare lo spettro della morte: nella scena iniziale al corpo di Lucie si sovrappone in proiezione l’immagine spettrale di uno scheletro che ha il suo corrispettivo nella scena finale: il corpo nudo di François diventa uno scheletro con un eguale gioco di specchi e di proiezioni. Lo scheletro come presenza funesta anticipatrice di eventi tragici (come nella scena della Danse macabre di Saint-Saens presente ne La règle du jeu di Jean Renoir, 1939) non può che richiamare sia le iconografie delle medioevali danze macabri o i Trionfi della Morte che raccontano – come ricorda M. L. Testi Cristiani – “l’umana Commedia o la moralité”, che le pitture surrealiste di Dalì e gli inquientanti manichini dei quadri metafisici di De Chirico. Come nel surrealismo e nella metafisica lo scheletro funziona quale dépaysage, oggetto insolito ed estraneo alla generale collocazione della storia inserito per associazione illogica e psichica, a metà strada tra visionarietà onirica e proiezione inconscia dei personaggi. Proprio il quadro metafisico Piazza d’Italia (1913) di De Chirico presenta un lungo portico lungo l’asse prospettico centrale e soprattutto, in posizione avanzata rispetto ad esso e completamente frontale a tagliare la metà del quadro, un lungo muro di mattoni che può vagamente ricordare l’ambientazione scelta per Le polygraphe. Il muro permette lo svolgimento di azioni davanti e dietro di esso, stabilendo così, anche una distanza fisica tra gli eventi spazialmente distanti, narrati. Tale procedimento verrà perfezionato proprio ne Les sept branches de la rivière Ota in cui è usata dagli attori tutta la profondità del palco grazie all’espediente della presenza di una parete orizzontale divisoria fatta di schermi trasparenti – a ricordare la facciata di una casa giapponese. Questi attraverso l’uso particolare di luci e proiezioni di video e di ombre permettono una narrazione che disloca eventi temporalmente e spazialmente lontanissimi tra loro (dal 1945 al 1985 e dall’Oriente all’Occidente) in luoghi diversi della scena ma tutti raccolti, esattamente come in Le Polygraphe, intorno a un unico ambiente avente una forte pregnanza simbolica. Scheletro e muro, inoltre sono strettamente collegati insieme nel racconto teatrale: così come l’innalzamento del muro di Berlino nel 1961 che delimitava il confine tra Est e Ovest ha significato la morte per centinaia di persone che dalla Repubblica democratica volevano entrare nella Repubblica federale, così il cadavere sezionato prelude a quel suicidio finale la cui motivazione sarà proprio la consapevolezza da parte di François di una prigionia all’interno di un muro di silenzio, associato all’impossibilità di comunicare la propria innocenza. Lo specchio è, inoltre, una costante presenza negli spettacoli di Lepage: solitamente simbolo nel suo teatro, di un necessario percorso di indagine autoanalitica dei protagonisti generato da una frattura o una perdita, in questo caso diventa porta verso un altro mondo (come nel film di Jean Cocteau Le sang du poète, 1930) e oggetto di scambio fra la realtà e il mondo interiore. Lo specchio – oggetto orfico per eccellenza – registra, secondo una famosa frase di Cocteau che è anche presente nella conversazione tra Lucie e Christof al ristorante, “la mort au travail”:

 “Les miroirs sont le portes par lesquelles la mort vient et va. Du rest, regardez-vous toute votre vie dans une glace et vous verrez la mort travailler comme les abeilles dans une ruche de verre.

Cinema o teatro?

Nella prima scena denominata Il filtro (Québec, 1983) abbiamo una simultaneità di situazioni: sulla destra il criminologo Christof Haussmann legge un rapporto di autopsia di un cadavere servendosi per indicare le ferite sulla vittima, di uno scheletro in posizione fetale. Sulla sinistra François Tremblay illustra ai suoi compagni universitari una relazione sul muro di Berlino. La connessione tra i due discorsi è evidente: il taglio sul corpo ha inferto un blocco al passaggio del sangue ossigenato, il muro di Berlino ha impedito la libera circolazione di persone e di idee. Si parla di un omicidio e contemporaneamente della Storia. La metafora anatomica e il procedimento di montaggio parallelo (alla Griffith) o anche l’effetto a “doppia finestra” video contigua e comunicante, che prevede un passaggio di parole e intrecci di frasi tra i due personaggi, fanno slittare continuamente il discorso dal teatro al cinema alla denuncia politica e sociale. Il muro di Berlino (che nella scena 7 arriverà letteralmente a sanguinare perché “...la Storia è scritta con il sangue“) ha inciso profondamente sul corpo della collettività abitante la zona Ovest così come profonda è la ferita da arma di taglio del cadavere sottoposto all’autopsia del criminologo tedesco:

 François: ….I sovietici, da parte loro, hanno costruito un muro di più di quaranta chilometri che l’ha tagliata in due.

Christof: L’avevano tagliata alla mano sinistra, al braccio destro, colpita alla cassa toracica con un proiettile perforandole il polmone e si può supporre che il colpo fatale sia stato inferto qui

François e Christof: …In pieno cuore

François….della città

Christof.…tra la quinta e la sesta costola

François: Il muro della vergogna, come lo chiamano i tedeschi dell’Ovest, venne eretto allo scopo di bloccare….

François e Christof.…l’emorragia….

François…di berlinesi…

Christof….che è seguita

François..passando da Est a Ovest…

Christof: …è stata occasionata dal sezionamento del setto.

L’incipit che simula il montaggio parallelo con conseguente ritmo sostenuto, risponde anche alla classica funzione di tale procedimento nei film, ovvero di presentazione sintetica al pubblico dei personaggi e delle vicende della storia. In questo caso il montaggio parallelo prelude anche all’intreccio drammaturgicamente significante tra muro e cadavere, le cui immagini diventano un vero leit motiv visivo, facendo precipitare il racconto continuamente dal piano realistico a quello simbolico e viceversa.

Lo stesso espediente della contemporanea doppia colonna narrativa (il cui corrispondente filmico è appunto, il montaggio parallelo) viene riproposta nella scena 19: durante il trasloco Lucie trova una cintura borchiata: François dice di usarla per alcune pratiche omosessuali sadiche. Dietro il muro grazie a uno specchio appare Christof che sta parlando a una conferenza sugli effetti devastanti provocati dalla macchina della verità: mentre spiega i danni permanenti che può causare psicologicamente a una persona che si dichiara innocente, François descrive a Lucie come si stringono con forza i lacci e come si benda la persona per renderla maggiormente vulnerabile, racconto che lo riporta con la memoria all’episodio della macchina della verità, in un vortice di ricordi in soggettiva, violenti e drammatici, in bilico tra innocenza e colpevolezza, tra verità e menzogna:

Christof: In primo luogo, la macchina della verità registra la minima variazione della velocità e del palpito del cuore, indicando anche, con un disegno nel grafico, se c’è un aumento, oppure nel caso di certe persone, una diminuzione della pressione arteriosa.

François: Stringo un poco

Christof: La respirazione del soggetto interrogato offre un’altra lettura delle modificazioni fisiche provocate dai nervi. L’apparecchio poi controlla il livello di sudore della persona interrogata. La macchina della verità può rivelare la minima variazione dello stato fisico e psichico prodotta durante l’interrogatorio

François: (Benda gli occhi di Lucie) Così hai realmente la sensazione di essere vulnerabile…

 Nella scena 4 (François; interno, notte) François, cameriere in un ristorante di Montréal, apparecchia, sparecchia e dialoga con clienti immaginari a velocità sostenuta in una specie di accelerazione mediatica e recita con la stessa accelerazione il testo della scena successiva. Con una frequenza ossessiva fanno poi la loro comparsa nella mente di François, come un incubo incancellabile, l’immagine del lie-detector e la voce del criminologo che gli rivolge la solita domanda:

 “François mi sente?…Ma non può vedermi vero? François stiamo per procedere a un test… Siamo o no in Canada? Siamo o no in estate? Lei ha assassinato o no Marie-Claude Légarè?”.

 In questo caso si unisce anche il motivo del flashback diegetico che, più che far tornare indietro il racconto, crea una pausa sostenuta la cui funzione è quella di focalizzare l’attenzione sulla psicologia del personaggio.

Nella Scena 5 (Audizione, interno, giorno) Lucie fa il provino per un film; le viene chiesto di improvvisare una scena drammatica. Nella scena successiva (Metrò, Interno notte) Lucie assiste al suicidio di un ragazzo e in stato di choc, viene soccorsa dal crominologo Christof. Alla fine della scena Lucie è ancora dentro la sala cinematografica per il provino. La scena del metro non è altro dunque, che un flashback che Lucie ha richiamato alla sua mente volontariamente (quasi stanislawskianamente) per ritrovarsi in una condizione emotiva drammatica come richiestole per il provino ed essere così più realistica nella sua interpretazione. Nella scena 13 (La ferita; interno, notte) Lucie e Christof sono a tavola al ristorante serviti da François quando in un’azione esasperatamente rallentata quasi come un fermo fotogramma, viene accidentalmente rovesciato sulla tovaglia il vino rosso che sembra ricoprirsi di sangue e richiama l’omicidio in cui a vario titolo tutti e tre sono coinvolti e introduce con un climax estremamente significativo, la tensione tipica del thriller cinematografico. Lo slow motion che produce un effetto di estensione temporale, enfatizza infatti un evento diegetico di breve durata per creare un crescente effetto di suspense.

Se Le Polygraphe è costruito interamente attraverso una sequenza a episodi con “effetto cinema”, appropriandosi dello “spazio-tempo filmico” ed in base ad un ordine del racconto non lineare, ricco di passaggi al passato, il finale addirittura arriva a “mostrare” al pubblico teatrale i personaggi non solo frontalmente ma da punti di vista insoliti, con una visione dall’alto, per esempio, come se si trattasse di un movimento della macchina da presa rispetto al soggetto, giocando sullo spostamento radicale verso il linguaggio cinematografico (e che ancora una volta ricorda Le sang d’une poète di Cocteau, scena “La leçon de vol, la petit fille au mur”).

 Gli attori, per mostrare questo insolito punto di vista, sono atleticamente posizionati in maniera da stare in bilico sul muro in posizione antigravitazionale, mentre nella scena 16 si ripropone una sorta di coreografia come riassunto visivo in forma di corti flash, ovvero in avanzamento veloce (il line up). In questo scorrere finale della vicenda, i personaggi si muovono velocemente con gesti essenziali e sono completamente nudi (è la resa davvero letterale della ricerca della “nuda verità”).

Le polygraphe, thriller metafisico, corre sul filo di un doppio cammino di verità: mentre si cerca il vero assassino attraverso vari indizi, ricostruendo ciò che accadde grazie alla macchina della verità, si rivela che il cinema è illusione (Lucie usa un liquido irritante per piangere sul set). Se la verità passa per una menzogna (l’innocente François sottoposto al lie-detector alla fine non è più sicuro di essere tale), la finzione cinematografica gioca ad apparire terribilmente reale (“A volte bisogna soffrire quando vuoi far sembrare che stai davvero soffrendo”). Come il bisturi seziona il corpo dell’assassinata per scoprirne la causa della morte, così l’occhio della cinepresa incombe minaccioso sull’attrice, rovesciando inaspettatamente la vicenda tragica e la rappresentazione del dolore (è cinéma-verité o la realtà?) e giocando un macabro gioco la cui posta è la vita stessa: “Il regista mi pare un po’ insistente, voglio dire, con l’occhio della sua camera… Oggi abbiamo girato una scena in soggettiva, sa, come se si vedesse l’azione attraverso gli occhi di un assassino che guarda la sua vittima attraverso un lampo di luce. Ma durante la ripresa (…) avevo l’impressione di essere guardata (…) Mi è sembrato di essere fatta a pezzi (…). Sì… sai com’è… un piano della bocca che urla, primo piano del coltello nella schiena, la mano che gratta il pavimento”. Se la reazione spontanea dell’indiziato è secondo la polizia, la prova dell’innocenza e la macchina l’unico strumento in grado di registrare le alterazioni di emozioni e di afferrare quindi, la verità al di là e oltre ogni simulazione, lo spettacolo afferma con decisione il contrario: l’impossibilità di approdare ad una verità unica e definitiva che appare al contrario sempre più inafferrabile. La presenza di Amleto interpretato da Lucie sul palcoscenico, contribuisce a fornire la visione di una gravosa e sofferta ricerca interiore: le storie di tutti i personaggi, dal criminologo Christof a Lucie Champagne a François nello spettacolo non sono altro che le storie degli Amleti che hanno gettato uno sguardo sulle cose del mondo, ne hanno visto l’orrore e sono stati colpiti da un dolore insopportabile. In questo senso è esemplare la scena 2 completamente muta e ambientata all’istituto medico-legale: di fronte alla macchina della verità Christof, tormentato da apocalittici dubbi di innocenza e colpevolezza, sta maneggiando un teschio. Queste le indicazioni del copione:

“Christof sta terminando la redazione di un rapporto sopra un test del poligrafo. Chiude il detector, sistema le sue carte, tira fuori di tasca una sigaretta e l’accende, poi sempre dalla tasca cava una lettera che rilegge con emozione, si direbbe per la centesima volta. Prima di uscire, dopo aver indossato il cappotto incrocia lo scheletro che ora è in piedi e ne prende con dolcezza la testa in mano, imitando inconsapevolmente la posizione tipo di Amleto”.

 Le Polygraphe (di cui Lepage firma anche una regia cinematografica nel 1996 tiepidamente accolta dalla critica) condivide con Le Confessionnal (suo successivo film ispirato esplicitamente a I Confess di Hitchcock) il tema della ricerca di una verità che attraversa labirinticamente meandri nascosti della vita dei personaggi mettendone in luce drammi interiori inespressi o rimossi e relazioni irrisolte.

NOTE

 (1) Vedi A.M.Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage, Pisa, Bfs, 2004, La tecnologia è la reinvenzione del fuoco in E.Quinz (a cura di) Digital performance, Paris, Anomos, 2002; Attore-specchio-macchina, in A. M. Monteverdi, O.Ponte di Pino, Il meglio di ateatro, Milano, Il principe costante, 2004; A.M.Monteverdi, La scena trasformista di Lepage in “Teatro e storia” n.25, 2005.

(2) “E’ chiaro che la pertinenza dell’immagine come medium risiede meno nella sua capacità di rappresentazione che nei suoi effetti metaforici sullo sguardo, incitando lo spettatore a vedere ‘altrimenti’ e più lontano di quanto l’occhio non veda. Se in generale ‘i media sono cambiati e hanno cambiato la nostra maniera di pensare, sia sul piano della forma che del contenuto’ quello che l’immagine teatrale sta cambiando in quanto medium, è in modo particolare, la nostra maniera secolare di vedere, interrogando e esplorando in scena quello sguardo nuovo che la nostra epoca posa sul mondo“. I. Perelli-Contos, C. Hébert, L’oeuvre de R. Lepage, cit., p. 277. La frase tra virgolette è di Robert Lepage ed è tratta da I. Perelli-Contos, C. Hébert, La tempête Robert Lepage, cit., p. 64.

(3) L. Fouquet, Clins d’oeil cinématographiques dans le théâtre de R. Lepage, “Jeu”, n. 88, 1998.

(4) Irène Perelli-Contos e Chantal Hébert si sono soffermate a lungo sull’uso metaforico delle tecnologie nel nuovo “teatro immagine” secondo Lepage. Rimandiamo senz’altro all’importante saggio (riferito in particolare agli spettacoli Circulation e Les sept branches de la rivière Ota) L’écran de la pensée ou les écrans dans le théatre de Robert Lepage, in B. Picon-Vallin (a cura di), Les écrans sur la scène, Lausanne, L’Age d’Homme, 1998.

(5) Nota di Robert Lepage allo spettacolo Elseneur, datata settembre 1995 e consultabile al sito http://www.cicv.fr/reseau/epidemic/geo/art/lepage/prj/els.html

(6) Il riferimento visivo immediato è alle semisfere rotanti di Anemic cinema (1925-1926, 7′, 35mm), film muto realizzato da Marcel Duchamp in collaborazione con Man Ray.

I giocattoli di Dioniso, di Fernando Mastropasqua
7

Sul mito dell’invenzione del teatro

 

Cratere di Prònomos, 410 a.C. circa, Napoli, Museo Archeologico Nazionale. 

Il mito della invenzione del teatro ci è tramandato dalla tradizione orfica.
Clemente, vissuto nel II secolo dopo Cristo ad Alessandria, ma probabilmente ateniese e certamente di cultura greca, allievo e forse a un certo punto direttore della scuola cristiana, ci informa sul nucleo centrale dei misteri dionisiaci. La fonte è molto attendibile, dato che, prima di convertirsi al Cristianesimo, Clemente è stato iniziato ai misteri. Clemente ci dice che i misteri erano basati sulla storia di un piccolo dio ammazzato e su quella di una donnetta piagnucolosa. Allude evidentemente al mito di Dioniso fanciullo sorpreso e fatto a pezzi dai Titani e a quello di Demetra in lutto alla ricerca della figlia Persefone, rapita sottoterra da Ade. Il mito di Dioniso ci è pure conservato da Clemente che cita i versi di Orfeo in cui il mitico cantore, fondatore delle iniziazioni e delle rappresentazioni drammatiche, come attesta un passo di Nonno di Panopoli, elenca i giocattoli con cui si trastullava il piccolo dio. Essi rappresentano l’apprendistato di Dioniso a un particolare gioco. Dalla citazione di Orfeo veniamo a conoscenza di quattro giocattoli, altri quattro sono menzionati da Clemente nel commento del passo:

«ma i Titani si insinuano con l’astuzia: dopo di averlo ingannato con giocattoli fanciulleschi, ecco che questi Titani lo sbranarono, sebbene fosse ancora un bambino, come dice il poeta dell’iniziazione, Orfeo il Tracio: “la trottola, il giocattolo rotante e rombante, le bambole pieghevoli e le belle mele d’oro delle Esperidi dalla voce sonante”. E non è inutile menzionarvi come oggetto di biasimo i simboli inutili di questa iniziazione: l’astragalo, la palla, la trottola, le mele, il giocattolo rotante e rombante, lo specchio, il vello». 

Affresco dalla Villa dei Misteri, Pompei.

Gli otto giocattoli rimandano tutti alle arti e alle tecniche teatrali. La trottola – il termine greco è più esattamente «pigna», con cui veniva adornata la punta del tirso dionisiaco ­ richiama la danza rotatoria su se stessi per procurarsi uno stato di estasi. Accompagnata dal suono del giocattolo rotante e rombante, ossia il rombo, costituito di una tavoletta a forma di pesce fissata a una corda che si faceva roteare. Secondo la lunghezza della corda, la velocità di rotazione, la grandezza della tavoletta si potevano ottenere infiniti suoni, che erano connessi con Dioniso: il muggito taurino, il sibilo del vento, il rombo del tuono, ecc. In questo totale abbandono al ruotare su se stessi e contemporaneamente roteando il rombo, si provocava uno stato allucinatorio che produceva visioni, forme, figure. Sono le immagini in azione: marionette, automi semoventi, come quelli costruiti da Dedalo, maschere. Fino all’attore.
La trance provoca azioni e suoni, mentre dalle figure emergono canti ricchi di sapienza e di verità nascoste. Esse sono contenute nell’ultimo giocattolo citato da Orfeo: le mele d’oro. Il viaggio allucinatorio infatti trasporta nel giardino delle Esperidi, ai confini del mondo occidentale, in quel «tramonto» (Nietzsche in Così parlò Zarathustra lo fa parlare al tramonto, quando Zarathustra è così pieno di sapienza che non può più trattenerla e trabocca da lui) in cui tre ninfe-serpenti cantano dolcissimi canti. Sono le custodi dell’albero delle mele d’oro che sorge al centro del giardino. I suoi frutti sono dorati perché generati dai semi del gregge (il vello d’oro) sepolto sotto l’albero. Il termine greco mélon permette infatti l’ambiguità tra frutto (mela, pera, arancia) e pecora. Il frutto non somiglia poi molto a una mela, ma secondo Erodoto somiglia alle nespole o alle olive, insomma un frutto più vicino al grappolo d’uva che non alla mela. Tanto più che spremuto dà un succo dolcissimo che inebria e dona l’oblio. Il quarto giocattolo dunque allude all’ebbrezza dionisiaca che dà un canto sapiente, un logos poetico e divino.
Le immagini scaturite dal delirio allucinatorio della danza e del rombo rotanti conoscono le tecniche del canto e della declamazione, la possibilità di riprodurre infiniti suoni e melodiose parole piene di saggezza. Degli altri giocattoli ricordati da Clemente, alcuni sono ripetuti, come la trottola, il rombo, le mele, altri sono assimilabili, dunque ripetizioni chiarificatrici, come la palla che evoca il gioco della palla, gioco costituito di danza e canto, come quello cui sono intente Nausicaa e le sue ancelle quando Ulisse emerge dinanzi a loro, e che amplia la danza rotatoria a un altro movimento che somiglia a quello degli astri. Se la palla dunque si connette alla trottola, il vello si connette alla mela, sottolineando il rapporto del frutto con il suo seme. Rimangono l’astragalo e lo specchio. L’astragalo, il gioco dei dadi in relazione con la divinazione, richiama il tempo («Il Tempo è un fanciullo che gioca a dadi», Eraclito). La trottola che oltre a girare su se stessa per effetto della palla si abbandona a una danza degli astri dichiara la costruzione di un altro universo e dunque di un nuovo tempo. Il teatro vive nella visione di immagini che portano a un altro spazio e a un altro tempo. Il teatro si fa distruttore dell’ordine, come il corteo dionisiaco che costituito di menadi e amazzoni sovverte e rovescia ogni cosa che incontri: rischio e sapienza (astragalo e specchio).
La funzione distruttiva in base a una più profonda conoscenza, instillata dalle mele d’oro, porta a contemplare nello specchio verità sconosciute. L’atto è pericoloso e porta lo smembramento di sé, come il piccolo Dioniso fatto a pezzi dai Titani, proprio mentre gioca con l’ultimo giocattolo, lo specchio. Nella interpretazione orfica l’arte del teatro si denuncia come la suprema visione dell’altro, dello sconosciuto, ma insieme rivela il carattere di illusione. La potenza sta nella coscienza che l’illusione crea.

Affresco dalla Villa dei Misteri, Pompei.

Lo specchio (presente nella cesta mistica, come nel rituale affrescato nella Villa dei Misteri di Pompei) fonte di conoscenza, condizione della trasfigurazione che la maschera impone all’iniziando come all’attore, infinito contenitore di immagini ma fugaci, porta il gioco al supremo piacere e insieme ne rivela la precarietà e i limiti. E che il gioco sia quello del teatro troviamo conferma sul cratere di Prònomos, un vaso del V sec. a.C., in cui emerge nella illustrazione dell’arte teatrale la figura allegorica di Paidià, il Gioco, che proietta verso lo spettatore nel gesto di onore presso i Greci (il braccio proteso verso l’altro) una maschera, i cui lineamenti in stucco dovevano creare l’illusione in chi guardava del suo affiorare dalla superficie del vaso per essere accolta dall’osservatore.

Cratere di Prònomos, 410 a.C. circa, Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Cinematography Of The Stone Age: William Kentridge
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Pubblicato su Digimag.

The South African artist William Kentridge is one of the most renowned contemporary visual artists and proposes a poetic view on ancient taste where art and technique come together in the original value and significance of techné: the shows are based on his original filmed animations and recalls those theatres from the beginning of the century that experimented with the rudimental techniques of luminous animation (drawings on pieces of mobile glass, projected thanks to a Magic Lantern), promoting a primitive form of optical art.

William Kentridge’s biography is rich with events and experiences connected to the theatre: he frequented the Ecole Jacques Lecoq in Paris, he became a set designer, actor and director of the Junction Avenue Theatre Companyand the Handspring Puppet Company in Johannesburg and he put on shows by writers Tom Stoppard and Alfred Jarry; he later became the director of short animation films shot on 16mm as well as an author of drawings and incisions: in their anxious-ridden black comedy where there is a harsh social critique of the South African government before the democratic elections of 1994 in South Africa and before the creation of the Nelson Mandela’s African National Congress, and his pictorial allusions to Goya, Bacon, Grosz and Weimar artists that coexist with the atmospheres of the theatre of the Gran Guignol and Beckett-like dramas.

He worked for Ubu tells the truth (1996-1997), doing drawings and graphics that make up the visual corpus of the successive filmed animations created for the show that went on stage with puppets entitled Ubu and the Commission of the Truth; he then worked on the drawings for the show Faustus in Africa (1995), on the scenes forConfessions of Zeno (2002), on the musical opera The return of Ulysses (1998) from Monteverdi; Preparing the flute on the other hand is a little theatrical model with two animated films in 35mm where Kentridge reinvents his work for the sets of the Magic Flute by Mozart.

 The Drawings for Projections make up the heart of Kentridge’s artistic elaborations and is extended to the theatrical sets: these are animated films and mute films created from carbon drawings and inaugurated at the end of the 80’s with masterpieces such as Monument (1990) based on Beckett’s Catastrophe. His work behind the Boles 16mm is difficult and particular, where he creates animated sequences, without a script or storyboard: the sequence is composed of minimal variations and erasures of a few carbon and monochrome pastel drawings on paper, which conserve the evident traces of their own metamorphosis, an action that goes back to the origins of cinema, the first photographic studies of the Marey and Muybridge movement.

The coffee maker becomes a mine through animation, the stethoscope a telephone: the outside landscape absorbs the dramatic memories and social happenings that it went through; the automation of the medium used by Kentridge counter opposes, according to Rosalind Krauss, the “luck” and free interpretation of the technique that modifies and at times contradicts the conditions and nature of the support: from the flow of images of film to the immobility of drawings.

As Carolyn Christov-Bakargiey recalls, Kentridge has deep interest in different techniques, but does not appreciate the “innovative practices per se, nor the historical evolutions of art, style and technique and prefers obsolesce”, and underlines the deep meaning of this open modality, expanded and processed through the recording of the drawing for its projection, which contains the imperfections but also the layers of memory, against the “dulling” of society: “In his art an erasure – counter opposed to the distinct lines – is also a healthy metaphor for the protest against certainty and preconceptions at the base of human and social relationships in the world that only appears to be more interactive and democratic than the digital era. The erasure puts into questions any definitive affirmation that is possible”.

Kentridge talks about a pre-cinematographic technique or rather, a “cinematography of the stone age”, and the criticRosalind Krauss underlines the “reinvention of the cinematographic medium” through the re-writing of a new linguistic code and the recuperation of a craft-like practice that was lost forever in the era of computerized programming: Kentridge, although he uses the technique of stop-motion animation that records the phases of drawing, “does not pursue the cinema as such but instead builds a new medium on the technical support of a common cinematic practice of mass culture”. In other words, according to Krauss, Kentridge’s animations would be more similar to a flicker book, to a rotating cylinder of a Phenakistoscope, the taumatrope, in other words those instruments that are obsolete today and that primitively and rudimentally anticipated the recording of images in motion

This is Kentridge’s direct testimony: “the technique that I take on to make these films is primitive. Traditional animation takes thousands of different drawings that are recorded in sequence to make a film. This generally implies the work of a team of animators and consequently the fact that the whole film must be projected beforehand. The images are drawn by the main animator and the intermediate phases are completed by the assistant animators, whereas the others work on going over lines and colouring. The technique I use consists of a sheet of paper stuck to a wall in a studio, I put in the camera in the middle of the room, usually an old Bolex. I sketch a drawing on a sheet of paper and then I go to the camera, I take one or two frames, I (marginally) modify the drawing, I go back to the camera then to the drawing, then to the camera and so on. In this way every sequence, compared to every frame of the film, is one unique drawing. In all there will be about 20 drawings per film instead of the thousands that you would expect. It’s a similar procedure to doing a drawing, more than to doing a film. Once the film has been elaborated by the camera, the completion, the editing, is the addition of sound, music and the rest works as for any other film”.

The graphic and film works of William Kentridge cannot be separated from the recent political struggles of South Africa, the theme of the Apartheid which he dedicates a long saga to, Soho Eckstein, the story of a greedy and cynical capitalist who is a symbol of the corruption and depravation of Johannesburg that is under pressure from constant racial injustice and the exploitation of workers in mines. A character that is opposed to Soho Eckstein is the solitary and sad Felix Teitlebaum. History of the Main Complaint was created in 1995, Felix in Exile, in 1994, the year of the first democratic elections in South Africa.

When Kentridge is asked to collaborate in the form of a exhibition on his incisions made for the graphical series Ubu tells the truth he adds a naked human figure as a narrative element placed inside the white profile of a shapeless mass of King Ubu who takes all the forms of power, with his pointed head and his spiral stomach on the black-slate background of a blackboard. Ubu, the emblem of institutionalised cruelty becomes the “grey area” inside us and the system (“The structure” as Julian Beck would have said…) which we are responsible for. These drawings and these incisions have become the central nucleus of animation for the show Ubu and the commission of the truth in collaboration with the Handspring Puppet Company (1995); it is a violent protest against the events and racial conflicts of South Africa before the elections.

The animation technique in this case, compared to the experimental mode of the other drawing for projection on Soho Eckstein, is different as it enriches the rudimental cut outs of newspapers, the processions of dark silhouettes like glued-on shadows and metallic parts onto paper, white chalk drawings on dark paper and films of other archive material that are a testimony to the violence and repression, as well as that of the police armed with whips that attacks the crowd in Cato Manor in 1960 or attacks a group of students at Witz University during a state of emergency in 1980 and that of the revolt in Soweto in 1976. The theatrical viewpoint began from the disturbing revelations that came out of the courts of the Commissions for the enquiry into the truth and reconciliation of South Africa. The Commission was created with the purpose of recording the witnesses of the horrors, the abuse and violations of human rights.

 Woyzeck on the Highveld 

 Even William Kentridge works on Woyzeck as Robert Wilson had done in the Theatre (with music by Tom Waits) and William Herzog in the cinema with Klaus Kinski in 1979; the drama was written by Buchner in 1837 and was incomplete because of the death of the author, and so is a fragmented text, as it has been defined, in “stations”. It talks of the unhappy story of the soldier Franz Woyzeck, who dies humble jobs to support his companion Marie and their son who has not yet been baptised. To make more money he does everything for the captain and is a human guinea pig for a doctor for some experiments; Marie betrays him. Woyzeck finds Marie had his rival at a dance in a tavern, and madness and hallucinations bring him to kill the woman.

Kentridge had put on Buchner’s Woyzeck in 1992; in the program notes of the show Kentridge wrote that he was close to this drama as he had seen it as an emblem of conflict (social, political and emotional) after a show in the 70’s and since then he tired to imagine a different context from that of Prussia of the 19th century.

The new context could be none other than the South Africa of today. The second aspect that pushed him to the representation was the desire to work with the company Handspring Puppet Company in a mixed performance where the drawing could be united with the general frame of the representation where the actors were taken away and replaced by puppets where other ways to transmit the emotional depth where not guided by the face of the actor. The third reason was the desire to put an animated film onto the stage that would have a dynamic rapport with the movement of the puppets on stage and that would update the ancient culture of the theatre of figures and the shadow theatre.

Today’s work seen at the Eliseo Theatre during the Romaeuropa festival kept an extraordinary force thanks to the presence of the wooden puppets of human proportions that were guided efficiently by stagehands that were not wearing hoods that awaken an ancient curiosity, and the able animated work of Kentridge.

This takes us, without words, into Woyzeck’s head, exploited, overwhelmed, offended, persecuted by the powerful and betrayed, he who thinks differently, who is the emblem of the persecuted and the humble ill-treated man who at the end succumbs to his own nightmares, goes mad and kills the woman he loves as a definitive act of self annihilation and rebellion. Woyzeck’s mind races between objects, processions of shadows and desires that are not expressed, dreams, psychological disturbances, and enchanting wonders. The sky is a forest of stars and is the only ray of light in an impossible happiness. The technique Kentridge uses is extraordinary as is that of the stagehands of the puppets: in both cases the hand that gives the soul tot eh object. The spectator can be considered the sum of the artistic work of William Kentridge, also because of the theme that is dealt with, that has the South African Apartheid as its foundation.

Kentridge e la cinematografia dell’età della pietra
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Il sudafricano William Kentridge, uno dei massimi artisti visivi contemporanei, propone una poetica dal gusto antico in cui arte e tecnica si ricongiungono nel valore e nel significato originario di techné: gli spettacoli basati sulle sue originalissime animazioni filmate ricordano infatti i teatri d’ombre orientali e quei teatri di inizio secolo che sperimentavano le rudimentali tecniche dell’animazione luminosa (disegni su pezzi di vetro mobili, proiettati grazie alla lanterna magica), promuovendo una primordiale forma di teatro ottico.

La biografia di William Kentridge è costellata di eventi ed esperienze legate al teatro: iscritto alla “Ecole Jacques Lecoq” di Parigi, diventa scenografo, attore e regista della Junction Avenue Theater Company e della Handspring Puppet Company di Johannesburg e allestisce testi di Tom Stoppard e Alfred Jarry; diventa in seguito anche regista di corti in animazione girati in 16mm, oltre che autore di disegni a matita, a pastello, a gessetto e a carboncino su carta, e di incisioni: nella loro angosciante commedia nera si palesa una dura critica sociale al governo sudafricano prima delle elezioni democratiche del 1994 in Sudafrica e prima della fondazione dell’African National Congress da parte di Nelson Mandela.

Lavora ai disegni per lo spettacolo Faustus in Africa (1995), e per Ubu Tells the Truth(1996-1997): i suoi disegni e lavori grafici costituiscono il corpus visivo delle successive animazioni filmate realizzate per lo spettacolo andato in scena con marionette dal titolo Ubu and the Commission of the Truth; alle scene per Confessions of Zeno (2002), all’opera in musica Il ritorno di Ulisse in patria (1998) da Monteverdi; Preparing the Flute è invece un modellino teatrale con due film animati in 35mm con cui Kentridge reinventa il suo lavoro per le scenografie per Il flauto magico da Mozart.
Drawings for Projections costituiscono il cuore dell’elaborazione artistica di Kentridge estesa anche alle scenografie teatrali: sono film animati e muti realizzati a partire da disegni a carboncino e inaugurati alla fine degli anni Ottanta con capolavori come Monument (1990). liberamente ispirato a Catastrophe di Beckett, Sobriety, Obesity and Growing Old (1991), Felix in Exile (1994), History of the Main Complaint (1996).
Travagliato e singolare il lavoro dell’artista davanti alla macchina da presa Bolex 16mm per creare sequenze animate, senza sceneggiatura o storyboard: la sequenza è composta da minime variazioni e cancellature dai pochi disegni a carboncino e pastello monocromo su carta, che conservano tracce evidenti della propria metamorfosi, azione questa che ci riporta al cinema delle origini, ai primi studi fotografici del movimento di Marey e Muybridge. La caffettiera diventa nell’animazione una miniera, lo stetoscopio un telefono: il paesaggio esterno assorbe le memorie, anche drammatiche, e le vicende sociali che lo hanno attraversato.

All’automatismo del medium utilizzato, Kentridge contrappone, secondo Rosalind Krauss, la “fortuna” e la libera interpretazione della tecnica che modifica, e per certi aspetti contraddice, le condizioni e la natura stessa del supporto: dal flusso di immagini del film alla staticità del disegno. Come ha ricordato Carolyn Christov-Bakargiev, Kentridge — pur avendo interessi nelle più diverse tecniche — non apprezza “le pratiche innovative per sé, né le evoluzioni storiche nell’arte, nello stile o nella tecnica e preferisce l’obsolescenza”, e sottolinea il profondo significato di questa modalità aperta, espansa e processuale di ripresa del disegno per proiezione, che contiene le imperfezioni ma anche gli strati della memoria, contro l’“ottundimento” della società:

Nella sua arte la cancellatura è una metafora della perdita della memoria storica – dell’amnesia che inghiotte a livello sociale, ingiustizia, razzismo e brutalità. (…) Tuttavia la cancellatura – in contrapposizione al nitido tratto — è anche una metafora della sana contestazione delle certezze e dei preconcetti alla base dei rapporti umani e sociali nel mondo solo apparentemente più interattivo e democratico dell’èra digitale. La cancellatura mette in dubbio che qualsiasi affermazione definitiva sia in assoluto possibile.

Kentridge parla significativamente di una tecnica pre-cinematografica. O meglio, di una “cinematografia dell’età della pietra”, e il critico Rosalind Krauss sottolinea la “reinvenzione del medium cinematografico” attraverso la riscrittura di un nuovo codice linguistico e il recupero di una pratica artigianale perduta per sempre in epoca di programmazione computerizzata: Kentridge infatti, pur usando la tecnica di animazione fotogramma per fotogramma che registra le fasi successive del disegno, “non persegue il cinema come tale ma piuttosto costruisce un nuovo medium sul supporto tecnico di una pratica cinematica diffusa e di cultura di massa”.

In sostanza, secondo la Krauss, le animazioni di Kentridge sarebbero più affini ai flicker book, al cilindro rotante del fenachistoscopio, al taumatropio, cioè a quegli strumenti ottici oggi obsoleti che hanno primitivamente e rudimentalmente anticipato la registrazione di immagini-movimento. Questa la testimonianza diretta dello stesso Kentridge:

“La tecnica che adotto per realizzare questi film è alquanto primitiva. L’animazione tradizionale si avvale di migliaia di disegni diversi ripresi in sequenza per realizzare il film. Questo generalmente implica lavoro per una squadra di animatori e di conseguenza il fatto che tutto il film debba essere progettato in anticipo. Le immagini di base sono disegnate dall’animatore principale e le fasi intermedie sono completate dai disegnatori assistenti, mentre altri provvedono ai ripassi delle linee e alla colorazione. La tecnica che uso io consiste in un foglio di carta attaccata alla parete dello studio, mentre in mezzo alla stanza piazzo la macchina da presa, in genere una vecchia Bolex. Abbozzo un disegno sul foglio poi vado alla macchina da presa, scatto uno o due fotogrammi, modifico (marginalmente) il disegno, torno alla macchina poi al disegno, poi alla macchina e così via. In questo modo ogni sequenza, rispetto a ogni fotogramma del film, è un unico disegno. In tutto ci saranno in un film circa venti disegni invece delle migliaia che ci si aspetta. E’ una procedura più simile al fare un disegno, che al girare un film. Una volta elaborato il film nella macchina, il completamento, cioè l’editing, l’aggiunta di suoni, musiche e il resto funziona come per qualunque altro film”.
Le opere filmiche e grafiche di William Kentridge sono inscindibili dalla storia politica recente del Sudafrica: dal tema dell’apartheid, a cui dedica la lunga saga di Soho Eckstein, storia di un avido e cinico capitalista simbolo stesso della corruzione e della depravazione in una Johannesburg colpita dalle ingiustizie razziali e dallo sfruttamento del lavoro operaio nelle miniere.

downloadIl personaggio che si contrappone a Soho Eckstein è il solitario e triste Felix Teitlebaum. Felix in Exile è stato realizzato nel 1994, anno delle prime elezioni democratiche in Sudafrica. Quando a Kentridge viene chiesto di elaborare in forma di esposizione le sue incisioni realizzate per la serie grafica Ubu Tells the Truth, aggiunge come elemento narrativo una figura umana nuda collocata dentro il profilo in bianco dell’ammasso informe del Re Ubu che si impossessa di tutte le forme di potere, con la testa a punta e pancia a spirale nello sfondo nero-ardesia di una lavagna. Ubu, emblema della crudeltà istituzionalizzata, diventa la “zona d’ombra” dentro di noi e dentro il Sistema (“la Struttura” avrebbe detto Julian Beck…) e di cui noi stessi siamo responsabili.
Questi disegni e queste incisioni sono diventati il nucleo centrale delle animazioni per lo spettacolo Ubu and the Commission of the Truth, in collaborazione con l’Handspring Puppet Company (1995). Si tratta di una violenta denuncia contro la situazione poliica e gli scontri razziali del Sudafrica prima delle elezioni.

La tecnica di animazione in questo caso, a differenza della modalità sperimentata per gli altri drawings for projection su Soho Eckstein, si arricchisce di ritagli grossolani di giornale, processioni di sagome scure come ombre applicate con colla e parti metalliche ai fogli, di disegni a gessetto bianco su carta scura e anche di filmati e altro materiali d’archivio che testimoniano violenze e repressioni, tra le altre quelle della polizia che munita di frusta, attacca la folla a Cato Manor nel 1960 o che assale un gruppo di studenti alla Witz University durante lo stato di emergenza nel 1980 e quelle della rivolta di Soweto nel 1976. La riflessione teatrale partiva dalle sconvolgenti rivelazioni emerse dalle udienze della Commissione d’inchiesta per la verità e la Riconciliazione in Sudafrica, creata con lo scopo di registrare le testimonianze degli orrori, degli abusi e delle violazioni dei diritti umani nel paese ai tempi dell’apartheid

Robert Lepage, The Buskers Opera
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Un (video)teatro in fuga dalla cornice…
Pubblicato su Exibart
The Busker’s opera liberamente tratto da L’opera da tre soldi di Brecht, mette in campo l’abilità di “gioco” del geniale e poliedrico Robert Lepage che usa Brecht per ironizzare (e accusare) i mass media e immaginario collegato, usando con grande disinvoltura le tecnologie video della diretta e permettendosi anche un formidabile corto circuito tra musica e spettacolo teatrale vero e proprio.
Brecht aveva concepito L’opera da tre soldi con “ballate da leggere e da cantare” e Lepage celebra a suo modo l’attualità del drammaturgo regista tedesco e del suo dramma di un mondo votato alla perdizione, in cui ladri e sfruttatori sono vittime dello stesso sistema e dove si dimostra il fondamentale assunto politico secondo cui i metodi della malavita e quelli dei gentiluomini si equivalgono.
Lepage usa un grande schermo al plasma telecomandato in grado di muoversi su guide per tutta la profondità e in tutta l’altezza del palco, libero da supporti a terra. Lo schermo nasconde al suo interno una telecamera, e il dispositivo complessivo (occhio che riprende, schermo che diffonde) diventa ironico correlativo oggettivo di stati d’animo; il dispositivo video sorveglia e insegue i personaggi che all’istante vengono televisivizzati, incorniciati, diventando personaggi di una reality tv, ospiti di un talk show, attori di una soap, protagonisti luccicanti di un video clip.
Dà l’avvio alla storia il giovane artista di strada, percussionista di piatti, legnetti, bicchieri e latte di benzina, impegnato in un concerto povero quanto straordinario per raccogliere i soldi per la sopravvivenza quotidiana. La storia tra la giovane e virtuosa Polly (che si esercita allo scratching disco) e il bandito Macheath (un cantante alla Beach Boys) nel mascheramento spettacolare, diventa una fiction dalle tinte forti, mentre il signore e la signora Peachum sono l’uno il cantante easy listening e l’altra una specie di Ivana Trump che si esprime con vocalizzi alla Callas.
Tutta la trama dell’opera è spostata sui nuovi luoghi di potere a cui l’arte si svende (l’industria musicale e i media, e tra tutti il tubo catodico) per necessità o per sete di successo. Un solo elemento scenografico caratterizza lo spettacolo, una cabina telefonica che aprendosi, srotolandosi, può diventare qualunque luogo, da un interno domestico, a locale a luci rosse, alla galera. L’orchestra è ben visibile e ampio spazio è lasciato ai “solo” dei musicisti-attori che incarnano le diverse personalità dell’opera brechtiana rivisitati e interpretati alla luce dei “generi” musicali che incarnano al meglio la loro personalità: jazz, rock, ska, disco, melodico, rap, classica.
Il messaggio è chiaro: quando l’arte viene inglobata cannibalicamente dentro la cornice, insomma nel triturarifiuti dello show business, non c’è più scampo, tutto diventa commestibile. Unica salvezza per la libertà creativa dell’artista, l’uscita dalla finzione spettacolar-televisiva che fa ritornare i protagonisti sulla strada. Come buskers.
Gallery:  Trailervideo
bio
Robert Lepage (Quebec City, 1957) è attore e regista teatrale, cinematografico e d’opera. La sua biografia è costellata di una serie di successi internazionali Vinci, Geometry of miracle, The seven streams of the river Ota, The Needle and the Opium, La face cachée de la lune con musiche originali di Laurie Anderson e Apasionada. Strabilianti le macchine sceniche dei suoi spettacoli che prevedono l’uso del video, ideate dallo stage designer Carl Fillion. Ha fondato Ex machina, struttura teatrale e multimediale che ha sede a Québec e In extremis images, società di produzione cinematografica.

IAM International Augmented Med: the Project
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INTRODUCTION

The International Augmented Med (I AM) project is an international cooperation project involving fourteen partner organisations in seven countries around the Mediterranean Sea. It is funded by the 2007-2013 ENPI CBC Mediterranean Sea Basin Programme. The 14 partners exchange expertise, support each other with technical assistance and develop joint activities to provide innovative services to the tourism sector in each of their countries.  By supporting this key sector, they will assist economic development in the region.

The I AM project aims to establish a self-sustaining cross-sector cooperation network (linking experts in IT/multimedia and tourism promotion) which will develop innovative services for the enhancement of natural and cultural heritage sites. By doing so it aims to encourage a better geographical and seasonal spread of tourism arrivals and income thanks to the diversification of tourism products and tourism locations.

The innovative services consist in the application to a number of heritage sites of a variety of multimedia techniques in the field of Augmented Reality (overlaying virtual, digital elements on reality), including advanced interactive techniques.

For example:

Videomapping (2D and 3D projections combined with sound and lighting effects ) on cultural heritage sites, monuments and historic buildings;
Interactive videoinstallations at sites or related to sites (responding to voice and movement of viewer);
Mobile applications (allowing a viewer to point a mobile phone camera at a site and display information or other virtual elements);
3D modelling and virtual reconstructions of archeological sites (to be viewed through AR goggles);
Augmented Reality (3D pop-up) guide books.

FACTS

Programme priority: Sustainable Tourism
Duration: 36 months
Project start/end: 20 October 2012 – 19 October 2015
Total budget: € 3.060.650
ENPI CBC MED contribution (90%): € 2.754.583
Countries involved: 7 (Italy, Spain, Egypt, Jordan, Lebanon, Palestine, Tunisia)

THE PROGRAMME

The 2007-2013 ENPI CBC Mediterranean Sea Basin Programme is a Cross-Border Cooperation initiative funded by the European Neighbourhood and Partnership Instrument (ENPI). It aims to promote sustainable and harmonious cooperation at Mediterranean Basin level by dealing with common challenges and enhancing endogenous potential. It finances cooperation projects to contribute to the economic, social, environmental and cultural development of the Mediterranean region. Fourteen countries participate in the Programme: Cyprus, Egypt, France, Greece, Israel, Italy, Jordan, Lebanon, Malta, Palestinian Authority, Portugal, Spain, Syria, Tunisia. 

In 2010, a group of italian multimedia experts proposed this project in the field of Augmented Reality. The Original Team of technicians developping it consisted of:

  • Lianne Ceelen-Montaleone (Expert in EU project development);
  • Enzo Gentile and Paolo Servi (Anughea Studios – IT and multimedia specialists and AR experts);
  • Anna Maria Monteverdi (University Professor, expert in new media and technologies for theatre);
  • Liliana Iadeluca (University Professor and expert in lighting techniques).

The Municipality of Alghero (Mayor S. Lubrano, Project manager P. AlfonsoG. Calaresu andM.G. Fara) supported their plan becoming Lead partner of the project.

tutti

Attore-Specchio-Macchina: Robert Lepage
1

Robert Lepage regista e interprete (parte 1).

Pubblicato su A.M.Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage, Pisa, BFS, 2004

Robert Lepage, attore, drammaturgo, regista teatrale e cinematografico, nasce a Québec City il 12 dicembre 1957. Si forma come attore al Conservatoire d’Art Dramatique di Quebec dal 1975 al 1978, mantenendo sino ad oggi nel suo teatro la priorità del linguaggio corporeo, del lavoro fisico e mimico derivatogli dal metodo impartito dalla scuola: 
La mia formazione è interessante perché non è classica, non è legata al testo; tutti gli insegnanti venivano dalla scuola di Jacques Lecoq; il suo è un vocabolario, un modo di lavorare poetico, ricco e aperto, completamente aperto, e gli attori possono sviluppare qualcosa di molto personale“.1

Lepage soggiorna brevemente a Parigi per frequentare la scuola teatrale di Alain Knapp, nel quartiere di Montparnasse, dove apprende i rudimenti dell’improvvisazione teatrale, della creazione collettiva e il concetto di attore-creatore:
I went to Alain Knapp who had something called the Institut del Personalité Créatrice – translated as a place for good manner. I wasn’t there a full year, only a part. He had a way of approaching theatre in a very creative way. He never distinguished what a director and an actor do. He worked mainly on improvisation – things would happen spontaneously and had to be written as they were going. So you learned to be an actor and at the same time be a director because you had to see what you were composing, and you had to be a writer so that the structure was also working. His goal was to try to make total theatrical creators”2

Ritornato in Canada nel 1979 fonda, con Richard Fréchette, la compagnia Théâtre Hummm…:
The name came from an onomatopeic line that comic strip by a cartoonist called Fred. In January 1979 we put on our first show in a bar. It was called L’attaque quotidienne and was all about the daily tabloids. (I and Richard Fréchette) started at the end because people reading these papers often begin with the back page. Our shows were based on collective improvisations and observation, methods that were fashionable at the Conservatory and in much of the Québécois theatre world”.3

Dopo una prima esperienza artistica (En attendent) si unisce definitivamente nel 1982 a Théâtre Repère, la compagnia di ricerca di Québec City fondata da Jacques Lessard e nel giro di pochi anni ne diventa il nome di spicco. “Un’avventura collettiva“, così Lepage definirà questa esperienza. Ne sarà co-direttore dal 1987 al 1989, quando accetterà di ricoprire per tre anni il ruolo di direttore artistico del Théâtre Français al Céntre National des Arts di Ottawa. 

La trilogie des dragons
Circulations, diretto da Lepage nel 1984 con Théâtre Repère, è rappresentato in tutto il Paese e vince il Premio come migliore produzione canadese al Quinzaine Internationale de Théâtre di Quebec.
Lepage ha 27 anni; da quel momento lo accompagnerà la fama di conquistatore di trofei artistici e di enfant prodige della scena americana.
Ma la sua carriera conosce la vera svolta nel 1985 con La trilogie des dragons che ripercorre 75 anni (1910-1985) di storia vissuta da tre generazioni di immigrati cinesi nelle Chinatown di Quebec City, Toronto e Vancouver. Canada e Cina si intrecciano e dialogano in questo spettacolo-fiume che gli garantirà il primo vero successo internazionale. Viene rappresentato, infatti, in Messico, in Australia, in Europa, negli Stati Uniti.
Lo spettacolo si divide in tre parti: Il Dragone Verde, Il Dragone Rosso e Il Dragone Bianco e coinvolge sei culture: quebecoise, inglese, anglocanadese, francese, cinese e giapponese. Nella versione di sei ore è di passaggio anche in Italia, presso lo spazio Ansaldo, per MilanOltre (18 ottobre 1991), dove Franco Quadri, riconoscendo un’impronta assolutamente originale nella realizzazione (ma con raffinatezze che gli ricordano “il Bob Wilson degli anni d’oro“), annota:
La struttura è quella del romanzo-fiume. La saga familiare, depurata dalla cornice spettacolare dei film del genere, che attraversa tre generazioni, raccontando le vicende di due cugine dal 1915 al 1986 quando una delle due s’è da tempo suicidata, dai giochi di bambini alle nevrosi di donne, alle rispettive storie di famiglia (…) Con qualche audace flash orientale, è quindi anche una storia del Canada: ma il passaggio da un semplice clima paesano al senso di malattia che contrassegna, complice la guerra, la bellissima seconda parte, fino all’irrompere della stupidità nostra contemporanea nell’ultima, è caratterizzata dalle ondate di immigrazione, specialmente quelle asiatiche (…)4.

Lo spettacolo, come riporta la critica e i giornali dell’epoca5, è creato attraverso le suggestioni tipiche del teatro di Lepage di questi anni: spazialità multipla, luci evocative, azioni fisiche, scenografia semplificata e ridotta a strati di sabbia sul palcoscenico.

Il testo integrale della trilogia non è mai stato pubblicato ma Diane Pavlovic in un numero speciale della rivista canadese di teatro “Jeu”6 ha dedicato un’intera monografia a La trilogie des dragons, analizzandone la genesi, ricostruendo nei dettagli tutto lo spettacolo, opera che non isolatamente testimonia l’interesse di Lepage per l’Estremo Oriente e la sua apertura nei confronti di una cultura non solo non canadese ma neanche francese (una vera dichiarazione politica, ricordando il forte movimento separatista e l’ossessione per la francofonia tipica della regione del Québec da dove proviene Lepage).
La critica ha giustamente messo in luce de La trilogie la tematica del multiculturalismo che prosegue, in seguito, con altri spettacoli dedicati all’Oriente, a versioni in giapponese dei suoi spettacoli e a regie per l’Opera di Tokyo. Il multilinguismo (che porterà Lepage a mettere in scena un Romeo et Juliet bilingue – inglese e francese – a rappresentare vecchie e nuove divisioni) diventa conflitto di identità e contemporaneamente possibilità di comunicazione oltre le differenze culturali.
Marta Dvorak ricorda come “Lepage fait de l’interculturalisme l’une de ses spécificités (et il en fait une déclaration politique aussi bien qu’une affirmation de principes artistiques)…Vu la susceptibilité du Québec en ce qui concerne l’infiltration de l’anglais dans sa langue et sa culture, le «patriotisme» de Robert Lepage a souvent été mis en doute“.
La studiosa riporta anche una dichiarazione del regista apparsa sul quotidiano di Montreal, “Le devoir” (20 luglio 1992): “Le Québec est multiple, il est dans le village global et pas seulement dans la francophonie, il doit faire partie du monde! Mon acte nationaliste est de faire du théâtre ici et ailleurs, avec men racines et mes langues, mon histoire7.

trilogie2Sempre sulla questione politica Lepage ha dichiarato: “I find myself emotionally very torn about nationalism as it’s understood here. On the one hand I believe in it, in the sense that I think we’re different and so we should assert and develop our culture. On the other hand, nationalism leads some people to become closed and exclusive, which I find extremely repulsive.”8
L’interculturalismo legherebbe Lepage a esperienze analoghe di artisti come Eugenio Barba, Ariane Mnouchkine e Peter Brook, che in maniera diversa hanno utilizzato nei loro spettacoli forme e moduli narrativi e recitativi e temi dal teatro No, dal teatro bunraku e provenienti da tradizioni anche molto distanti, africane, asiatiche, indiane, orientali9.

E’ proprio ne La trilogie des dragons che Lepage adotta un vera e propria “strategia di non traduzione10, mantenendo in scena parti interamente dialogate in cinese, e in cui l’interculturalismo mostra tutte le sue specificità, testimoniando il particolare clima politico e sociale canadese e la trasformazione culturale in atto all’interno della regione del Québec, con le successive ondate di immigrazione dall’Estremo Oriente. La legge 101 del 1977, che rendeva obbligatoria per gli immigrati la frequenza a scuole di lingua francese, favoriva una maggiore assimilazione degli stranieri all’interno non tanto della società canadese quanto della stessa comunità francofona, disperdendone però le peculiarità, le tradizioni, la lingua. Dice a questo proposito Lepage:

“I don’t think people really understand how important an achievement it was for us to perform The dragons’ trilogytwo thirds of which we did in French, for a month to packed houses in London. It was an important event. There were no subtitles, no simultaneous translations, and people still remeber it. It even became a reference point in the théâtre world. Don’t you think that that kind of show has an important impact on people’s understanding of Quebec? Yet, when someone puts English into a French show in Quebec, it’s interpretated as being federalist or proCanadian. That’s plain stupid!”11 

c-lepage_robertLa Harvie, nell’analizzare i due spettacoli di Lepage in cui più evidente appare il tema del multiculturalismo (La trilogie des dragons e Les sept branches de la rivière Ota, rilevando anche le differenze e l’evoluzione della strategia culturale sottesa), sottolinea il rischio di un’arte che si dichiari aperta ad una totale riconciliazione d’identità con mondi lontani, esotici e orientali, il rischio cioè che l’Occidente sintetizzi superficialmente queste culture con schemi e stereotipi più “romantici” che “reali”, più ritagliati in una rappresentazione a misura dell’Occidente che non storicamente esatti. In effetti, nell’individuare quale tipologia di Oriente scaturisca dai due spettacoli, la Harvie ne nega una prospettiva orientalista, e rileva piuttosto la ri-creazione di un Oriente pieno di luoghi comuni e più immaginato che fondato: “The Orient is never realized in the play, it remains a complex fantasy viewed from the West”12.

Proprio l’immagine poco “problematizzata” e molto stereotipata della Cina quale emerge dallo spettacolo è oggetto delle critiche più feroci, da cui Lepage si difende rispondendo che non si tratta di evocare una Cina reale, ma quello che la Cina rappresenta per l’intera cultura e il popolo canadese (ivi compreso, dunque, lui stesso):

The China of the Trilogy was a China that suited what we wanted to say in the production. And the country itself is something like that, but it’s also many other things. China has its smeless, its textures, its rules, its sensations, none of which we know but none of which we needed for the show. It’s not important to be geographically precise. It’s like our use of an anecdote: what’s important is that it fits in the show (…) My fascination with the East also helps me to understand the west. For many years now the former has helped me understand the latter. How can you understand the West, the culture of the twentieth century, when you’re a Quebecers with virtually no culture means at your disposal to interpret the world? You need a mirror, and one of my first mirrors was the East.13 

Gallery

Vinci
Nel 1986 Lepage realizza Vinci, ispirato al genio di Leonardo e suo primo spettacolo “solo” (modalità sempre più “frequentata” e sperimentata dal regista). Vincitore del Coup de Pouce al Festival del Teatro di Avignone, Vinci è realizzato semplicemente con luci colorate, proiezioni di scritte luminose e diapositive (“Tutta la tecnologia che avevo a disposizione”, dirà Lepage), e ricorda alcuni spettacoli italiani della postavanguardia dei primi anni Ottanta. Viaggio, specchi, luci e ombre, assenza di un testo narrativo e assenza quasi totale di scenografia sono gli elementi di quello che è considerato il “manifesto” del teatro di Lepage, uno spettacolo della durata di un’ora e mezzo giocato quasi esclusivamente sulla visualità, con alcuni momenti di vivacità mimica e comica.

Philippe, un giovane fotografo di Quèbec alla ricerca di una propria identità artistica e professionale, arriva in Europa nonostante la paura di volare; ancora vivo è il ricordo dell’amico cineasta Marc, suicidatosi per non compromettere la propria integrità come artista, non essendo riuscito a conciliare l’aspetto economico del “fare arte” da quello etico. Il suo viaggio ha un momento di vera “illuminazione” alla National Gallery di Londra dove, di fronte al quadro di Leonardo del La Vergine col Bambino e S. Anna, riconosce il segno tangibile del genio del Rinascimento e a lui affida i propri interrogativi. E’ dunque a Leonardo, il quale, come ricorda Philippe, “haissait la souffrance humaine et construisait des machines de guerre“, che Lepage affida simbolicamente il compito di sciogliere il dilemma morale dell’artista. La sibillina risposta di Leonardo è che L’art c’est un paradoxe, un eterno conflitto tra sentimento e razionalità: ” L’art, c’est le résultat d’un combat entre ta tete et ton coeur. L’art, c’est un conflit. S’il n’y a pas de conflit, il n’y a pas d’art, Philippe; il n’y a pas d’artiste sans conflit. L’art, c’est un paradoxe“.
A Firenze, entrando nei grandi spazi del Battistero e del Duomo, Philippe comprende la bellezza di quell’arte antica che ha al suo centro l’uomo e l’armonia del Cosmo e scopre la personalità di un artista come Leonardo in cui simbolicamente arte e tecnica coincidevano:
En travaillant sur Vinci j’ai découvert combien était floue à l’epoque la démarcation entre qui est un sculpteur, qui est un peintre, qui est un médecin, qui est un architect. L’art et la technologie ètaient une chose. Et c’est un peu l’esprit de ça, moi qui m’interesse. Elle m’interesse si elle fait évoluer l’art, et l’art s’il fait évaluer la technologie“.14
giocondaDopo aver incontrato Mona Lisa in un fast food, Philippe si imbatte in Leonardo in persona dentro un bagno pubblico. Là, davanti ad uno specchio che mostra i due personaggi uno riflesso dell’altro, come due facce di un unico doppio, Philippe comprende dalla persona stessa di Leonardo la necessità di convivere con quel senso didécalage (secondo la stessa parola che usa spesso il protagonista) che è inscritto nel mondo e nella creazione artistica, tra aspirazione ideale ed effettualità.
Il tema dello specchio, presenza costante quasi ossessiva degli spettacoli di Lepage (vetri riflettenti occupano buona parte della scena), ha portato il critico James Bunzli a interrogarsi se tale oggetto negli spettacoli “solo” non rimandi anche ad un elemento autobiografico: il personaggio e i suoi molteplici doppi non sarebbero altro, dunque, che lo stesso Lepage, il quale parlerebbe di sé attraverso l’universo travagliato dei suoi personaggi, specchiandosi letteralmente nelle loro angoscie morali, nelle loro crisi d’amore, di solitudine, nei loro dubbi sull’arte e sulla vita. 15
Lepage parla dell’aspetto visuale di Vinci (che si inscrive perfettamente nell’universo del teatro-immagine) e di come un semplice utilizzo della luce con le mille variabili di ombre e chiaroscuri, abbia permesso di far immergere letteralmente il pubblico nel tema dello spettacolo. Le luci diventano una vera “incarnazione” del soggetto e (macluhaniamente) il messaggio:

“The shape of a show depends on its subject (…)Vinci is a good example. Having gone to Italy and done my research on the show, I came to the conclusion that with or without money, with or without technical means, the show had to create the impression of technical ingenuinity. I didn’t have precise ideas about the visual appeareance of the show, only the feeling that to reveal Leonardo da Vinci’s genius and his gifts as an engineer we had to develop a show that was equally resourceful. That’s how you open up what there is to say. Even if you barely scratch the surface of the infinite number of his works and writings, the show will express this resorcefullness through its form, by presenting things on the verge of flight, on water, by presenting the play of shadow and light, chiaroscuro. Rather than I naming da Vinci’s obsessions, you make them come alive. That’s how best to tell the story, to make da Vinci comprehensible to the audience. In theatre, the audience has to be immersed in the show’s argument, and to be immersed in the argument every sense has to seize it and so the form has to become an incarnation of the subject and themes. If we have nothing to say the form remains simply the form, the medium the medium. But if we have something to say, the medium will be the message”.16

Il teatro in questo senso produce un nuovo sguardo, un’inedita “esperienza” visiva, sollecitando lo spettatore a guardare come normalmente non si guarda, perché il teatro mostra l’invisibile. Il tema del vedere, dell’essere prima ciechi e poi acquistare una vista interiore, è una delle costanti della drammaturgia di Lepage e il tema principe di Vinci.
L’interrogativo di Philippe che cerca spiegazioni all’instabile equilibrio tra aspirazione artistica e necessità esterne, ha la sua risposta definitiva (la sua “vittoria”) nel vedere sotto una chiara luce, il lato nascosto e rimosso del proprio io interiore. Il motto di Giulio Cesare alla conquista della Gallia, con una divertente modificazione, diventa il simbolo dello spettacolo: “Veni, vidi, vi(n)ci“. E il volo finale non può che essere spiccato con le “ali” progettate da Leonardo.
In Vinci vengono proiettati in scena i disegni al tratto di Leonardo, primo artista della modernità e simbolo del superamento di quella mentalità che contrapponeva le arti liberali alle arti meccaniche. Vengono riprodotti la sua scrittura “al contrario”, i suoi quadri, i disegni preparatori e i progetti per la costruzione di macchine da guerra (che diventano il motivo del dilemma morale dell’artista). Tra le opere, anche il Canone delle proporzioni, il cartone preparatorio per l’affresco de La Madonna col bambino e Sant’AnnaLa Gioconda, studi o disegni, proiettati al “negativo”. L’effetto sulla scena è quello di un’incisione luminosa, ovvero di una scrittura di luce, esattamente nell’etimologia originaria greca di scrittura, che è appunto incidere (grafo significava in origine sia disegnare che scrivere, apportare segni: i primi dipinti rupestri sono ad incisione o a graffito). Alcune immagini proiettate sembrano infatti vere xilografie, immagini con la sola delineazione del contorno escludendo i chiaroscuri.
Leonardo nella parte quinta del suo Trattato della pittura intitolata Dell’ombra e lume, e della prospettiva, descriveva tutti i fenomeni ottici legati agli effetti e alla propagazione della luce solare sui corpi e la relativa produzione delle ombre, anteponendo a tutto, il sapere conquistato con l’esperienza sensibile. Il principio che sta alla base della pittura secondo Leonardo è infatti, innanzitutto, la modellatura dei corpi attraverso “ombra e lume” quale è desunta dall’osservazione diretta dei fenomeni atmosferici: “La pittura non può pervenire alla sua perfezione senza la manuale operazione; della qual pittura i suoi scientifici e veri principi prima ponendo che cosa è corpo ombroso, e cosa è ombra primitiva e ombra derivativa, e cosa è lume.” 17
Per mostrare i disegni di Leonardo Lepage in Vinci non si limita, dunque, a proiettare le sue opere, ma fa in modo che tutta la scena sia realizzata come un quadro secondo l’idea di Leonardo stesso, cioè “fatto di sembianti di lumi ed ombre”, mostrando attraverso il tratto grafico di un quadro ancora in corso di realizzazione, anche il non finito dell’opera. Dice Lepage: ” Je travaille avec la lumière. Et parfois, pour certains spectacles, il y a des thèmes et sous-thèmes qu’on ne connait pas encore et qui s’imposent, comme il y des éléments qui s’imposent. Ainsi, lorsque j’ai fait ma recherche sur Vinci, c’etait l’option de la lumière qui s’est imposée. Il m’apparaissait important que Vinci soit lumineux et que tous les yeux de lumière soient intégrés d’une façon simple, artisanale et ingénieuse parce que Vinci était ingénieux.18

Polygraphe

pol

Le Polygraphe, spettacolo creato nel 1987 ed interpretato inizialmente dallo stesso Lepage insieme con l’attrice Marie Brassard (che fu anche co-autrice della sceneggiatura) e con Pierre-Philippe Guay, ha avuto nel 1996 una versione giapponese e nel 1999 una versione italiana19 Il tema dello spettacolo, che gioca a confondere teatro con il cinema,ambientato in una versione successiva, a Berlino nel 1989, anno della caduta del Muro – presenza ossessiva e ingombrante, ma anche pratica parete di proiezione – è la verità. O meglio, la ricerca di una verità che, come una Matrioska, sembra contenerne molte altre. Una donna è stata uccisa in circostanze misteriose e alcune persone a lei vicine vengono sospettate. Dopo sei anni un regista decide di farne un film e per il ruolo della vittima sceglie una giovane attrice, Lucie, che abita porta a porta con François, il maggior sospettato dell’omicidio e sottoposto alla macchina della verità (poligraphe in francese). François, poiché non era mai stato informato dal crimonologo circa il risultato del test, cade in uno stato di angoscia. Lucie conosce casualmente anche il medico incaricato delle indagini. I rapporti, con risvolti sessuali espliciti, tra il criminologo, l’attrice e l’accusato è alla base dello spettacolo suddiviso in 25 brevi sequenze con soluzioni di vera “cineficazione”: dissolvenze, azioni di slow motion, flash back. 

In questo spettacolo si preannuncia l’interesse di Lepage verso una scena “integrata”, che attinga con grande disinvoltura al linguaggio e alla cultura dei vari media, dal cinema alla televisione, per “farla finita” con la questione della “specificità”. Il suo teatro “maschera” un universo cinematografico che influenza narrazione, interpretazione e scenografia, prendendone a prestito, al di là dei limiti dei generi e dei linguaggi, forme e modalità. Secondo Ludovic Fouquet si tratta di un tentativo di cercare nuove possibilità espressive per il teatro: 

Lepage mêle ces deux univers (théâtre et cinéma) avec le souci de les fondre dans une meme pratique; il ne s’agit pas de faire du cinéma au théâtre, mai de redécouvrir le théâtre, d’aller chercher de nouvelles possibilités de cet espace de départ, cet espace sacré, qu’est le plateau de théâtre. En outre, cette rèférence audiovisuelle fait tellement partie de la culture mondiale des publics, qu’elle devient un formidable moyen de communication, mais surtout de connexion. Un imaginaire commun se trouve instantanément, qui va permettre toutes les explorations20.

Polygraphe è costruito interamente con un montaggio “cinematografico” di eventi ed una narrazione non lineare, ricca di passaggi al passato mentre nel finale viene proposto una sorta di riassunto visivo (il “line up”) in “avanzamento veloce”. Un libero e spregiudicato uso dei linguaggi che non significa, però, confusione tra le diverse arti, come precisa Lepage: “Cinema, even with an enlarged screen and Dolby stereo, will never be able to give what theatre can give. I don’t say this because I’m a purist. I say this because cinema is an individual experience and theatre is a collective one“.21
Molte sono le dichiarazioni di Lepage che chiariscono che si tratta di un atteggiamento non “antiteatrale”, ma soltanto “libero” dalle convenzioni e dalle classiche divisioni tra le arti. La tecnologia, tutte le nuove tecnologie, liberano l’arte dai modi tradizionali di rappresentazione.
Intervistato sull’argomento Lepage risponde così:

Des gens ayant remarqué que mon théâtre avait une facture très cinématografique, on m’a fait de nombreuses propositions. J’ai longtemps considéré que le cinéma n’élait pas ma place et j’etais davantage intèressé par le melissage entre le théâtre et le cinéma. Mais, j’ai senti que certains sujets que je traitais sur scène seraient plus intèressants au cinéma. J’ai eu la piqure. J’ai becaucoup aimé travailler sur un plateau et aussi comprendre comment le cinema d’aujourd’hui nous oblige à réinventer le vocabulaire narratif. C’est une chose qu’au théâtre on ne fait pas. Le théâtre est millénaire, le cinéma n’est que centenaire. Il y a donc plus d’espace au cinéma au niveau de l’écriture et de la narration22.

Lepage parla spesso di una cultura audiovisiva, cinematografica e televisiva che ha da sempre influenzato il suo teatro portandolo a “réinventer le vocabulaire narratif”. In quanto canadese, anzi in quanto québecois:

Au Québec, il n’y a pas de tradition littéraire. Notre Molière à nous, il est encore vivant, il a 50 ans et il s’appelle Michel Tremblay. La tradition littéraire n’est pas présente comme en Europe. Notre technique d’écriture vient effectivement de la télé ou du cinéma. Le théâtre ne c’est pas officialisé par l’écriture. On ne parle pas d’écriture théâtrale, mais plutôt d’une espàce d’écriture cinématographique affiliée au théâtre. Moi, je trouve l’écriture cinématographique plus théâtrale que le théâtre, elle répond vraiment aux lois de la tragédie grecque: les scénarios sont structurés, ce sont des systèmes shakespeariens. Je m’étonne donc beaucoup que les gens de théâtre refusent cette écriture. Avec le zapping, chacun peut suivre une histoire sans qu’on la lui raconte de façon linéaire. Devant sa télé, un spectateur peut regarder en même temps du foot, un débat et un polar. Et il finit par trouver le fil de ce qu’il regarde. C’est pareil au théâtre, il est capable de trouver le fil tout seul, il sait ce qu’est un flash-back. Trop de gens considèrent le théâtre comme un truc passéiste.23

Oltre che usare immagini e citare tecniche prettamente cinematografiche, Lepage struttura la scena stessa come fosse un grande schermo (i tre pannelli di Elseneur, le sette stoffe che compongono l’esterno della casa giapponese in Les sept branches de la rivière Ota, il muro in Polygraphe, la parete scorrevole in La face caché de la lune, l’enorme cornice televisiva in Apasionada).
Lo spettacolo è inoltre composto visivamente da “quadri” luminosi che ritagliano la scena (letteralmente “incorniciandola”) ed emergono dal buio come un close-up filmico, mentre la storia è resa attraverso i raccordi e le modalità tipiche del film, con distorsioni temporali in forma di analessi (ovvero, flashback) e prolessi (flashforward). A questo proposito ricorda Ludovic Fouquet che “cette utilisation-référence à l’univers du cinéma n’influence pas que la scénographie mais on s’en doutera, la fable, la chronologie elles-mêmes. Tous ces spectacles développent une esthétique du collage, du montage en cut cinématographique beaucoup moins dépendant de la chronologie habituelle (ce qui n’est pas sans analogie avec le fonctionnement en tableaux du théâtre d’images, auquel intéresse aussi beaucoup Lepage)… Le jeu avec le cadrage sous-tend une manipulation de la vision du spectateur qui est invité à découvrir sous plusieurs angles un même dispositif et une même fable. Lepage mele ces deux univers avec le souci de le fondre dans une même pratique24.
L’interesse di Lepage per il cinema lo fa approdare alla realizzazione di quattro film25, tra cui proprio la versione per le sale cinematografiche di Le polygraphe nel 1995.

Tectonic Plates 

downloadNel 1988 Lepage inizia a lavorare a Tectonic plates, spettacolo dedicato all’Oriente a cui collaborano artisti europei e asiatici; pensato per un teatro quale utopico luogo dove gli opposti (Oriente e Occidente) si incontrano, lo spettacolo viene realizzato come un pastiche di cultura globale. Gli spettatori si trovano di fronte ad un’originale e stravagante lettura degli stilemi orientali, tra antichità e modernità futuristica in un gioco di richiami tra la cultura cinese e quella occidentale; lo spettacolo scoperchia scatole multiple dal cui interno affiorano immagini di quotidianità rituale e di contemporaneità ipertech.
Christie Carson individua in Tectonic Plates un gradino in avanti rispetto a La trilogie des dragons (ma con un risultato meno coerente) per quanto riguarda la “esperienza pratica di scambio interculturali” che dimostra “un reale coinvolgimento nel processo collaborativo culturale”26.
Lo spettacolo, creato con Marie Gignac, ha avuto 3 diverse “fasi” di creazione e molti problemi nell’allestimento. Fortissime furono le critiche. Robert Levesque, critico teatrale e grande antagonista di Lepage, lo definì un “fallimento”. La versione definitiva fu considerata quella allestita al National Arts Centre di Ottawa, in francese e in inglese, dopo tre anni di lavoro.

tectonic-plates-001

Così Lepage:
Tectonic plates was a difficult project, the cause of many disagreement and clashes before the work come together. We were frequently letting people go or putting together new teams… When we started Tectonic Plateswe thought we had a lot of freedom, both in form and content, mostly because of The dragon’s trilogy where we had mixed very different forms and styles. But this wasn’t the case. We had sung Kurt Weil’s music in the middle of a show on China. We had set Tai Chi to music by Peter Gabriel and Philippe Glass. The possibilities had seemed infinite. And it all worked. It had all converged on the same point, the idea of becoming a complete being, of bringing togethe the Yin and the Yang… 
Things became more complex because we were no longer speaking of connvergence.The ideas themselves would collide, unite and then come apart, create an extraordinary whole, then drift and break apart. This is what happened for four years. We had extraordinary meetings and enormous collisions.27

Contemporary Performance Network
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Contemporary Performance Network is a resource and community organizing tool for artists, scholars and audiences. The term Contemporary Performance is used to describe hybrid performance works and artists that travel between the fields of Experimental Theatre, Dance, Video Art, Visual Art, Music Composition and Performance Art without adhering to one specific field’s practice.

 Caden Manson is Editor and Curator of Contemporary Performance Network and co-founder and artistic director of Big Art Group, a New York City performance company founded in 1999. The company uses the language of media and blended states of performance in a unique form to build culturally transgressive and challenging new works. Since its inception, it has toured nationally and internationally and produced critically acclaimed works including the ‘Real Time Film’ trilogy Shelf Life, Flicker, and House of No More, SOS; and its reality-based theatre series The People. He has co-created, directed, video and set designed 11 Big Art Group productions. Manson has shown video installations in Austria, France, USA and Germany; performed PAIN KILLER in Berlin, Singapore and Vietnam; Taught in Berlin, Rome, Paris, Montreal, and Bern; his ensemble has been co-produced by the Vienna Festival, Festival d’Automne a Paris, Hebbel Am Ufer, Rome’s La Vie de Festival, Theatre Garonne, and Wexner Center for The Arts. He is a recipient of the 2001 Foundation For Contemporary Art Fellowship, is a 2002 Pew Fellow and received a 2009 Fellowship from the Pennsylvania Council on the Arts. He lives in New York City.

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