Daniele Urgo aka Done: dai Remake al laser painting
53

Pubblicato su Rumor(s)cena.it, con una nota inedita di Daniele Urgo per annamonteverdi.it
Tutto è cominciato da questa immagine in cui il quadro di Hayez, Il bacio veniva “crackato” dal giovane artista Daniele Urgo aka Done, con l’inserimento “clandestino” del classico venditore di rose pakistano. Titolo: Il bacio nel posto sbagliato al momento sbagliato. Inserimento fatto a regola d’arte (digitale) come un vero remake, che è poi il titolo della serie creata per (s)doppiare i classici.

Remake

 La sera stessa che l’urban artist posta questa immagine sul suo profilo pochi mesi fa, il contatore di accessi sale a dei picchi mai visti: in poche ore sul più noto social media i “mi piace” arrivano A 15 mila, 8mila condivisioni e la rete si scatena. Ora è immagine profilo di migliaia di persone e dalle bacheche a twitter, tutti sembrano discuterne a 140 caratteri alla volta. L’artista diventa una web celebrity e l’immagine un caso di successo virale. Si scomoda persino la rivista Wired. Sarà arte o adbusting? Ai suoi detrattori Done, che ha terminato da poco i suoi studi accademici, risponde per le rime proprio su una bacheca di facebook. Il modo più rapido per arrivare a tutti.

L’operazione di rivisitazione digitale non è solo curiosa e bizzarra, e non c’è solo il ritocco digitale: l’arte multimediale per intero può effettivamente travolgere gli argini della tradizione, creare disturbo al sistema dell’arte, mettendolo in crisi, proprio come il venditore di rose, inopportuno e non gradito. In questo senso il quadro –e tutta la serie dei Remake – è molto simbolico.

L’arte digitale non va al traino di quella tradizionale e usare le stesse metodologie critiche e gli stessi principi estetici per leggerla, catalogarla, interpretarla è un grave errore. Rivendicare la specificità del linguaggio digitale, come fa indirettamente Done, è corretto; quello che bisognerebbe aggiungere -e impegnarsi a insegnare dentro e fuori le Accademie- è una maggiore sensibilità generale a queste nuove forme d’arte nate con i new media e che si impongono sempre di più ma senza soppiantare quelle passate. E a imporre questa diversità in questo caso, non è un’arte qualsiasi, è l’hacker art, vera arte di “interferenza”. Tutto quello che Daniele fa (performance di video live, laser paiting, fondali video interattivi, mapping live), lo fa infatti, con gli strumenti della rete appropriandosi della una filosofia “hacker” di condivisione dei materiali, di socializzazione dei saperi tecnologici, di uso collettivo di software liberi. Jaromil docet. Ovvero: open non è free.

 
Perché ti dedichi all’arte digitale?

Credo che la digitalizzazione dell’arte sia un fenomeno che è ormai realtà. Trovo insensato pensare che l’arte digitale non abbia un valore quanto l’arte tradizionale, l’arte si evolve, come ogni espressione umana. Studio le caratteristiche del mezzo tecnologico, soprattutto quello più sottovalutato (dall’applicazione pensata come passatempo, a quella open source, fino al programma più diffuso), per cercare di tirarne fuori le sue potenzialità comunicative e non solo estetiche, valorizzando l’idea che la digitalizzazione è a portata di tutti, come può essere l’arte.

Quale tipo di arte prediligi?

Il mio percorso artistico si sviluppa su quell’arte che può e deve comunicare non solo messaggi sociali, culturali, ma anche stimolare la curiosità. Lo spettatore come voyeur, alla ricerca di uno stimolo che porti l’osservatore ad un’esperienza visiva digitale. Sicuramente un contatto che s’avvicina maggiormente ad un pubblico contemporaneo che è cresciuto con le nuove tecnologie e internet, che comprende più facilmente le potenzialità di questi mezzi. Dal’altronde è inevitabile accettare che questi sono i nuovi media della comunicazione e perciò il futuro e la necessaria evoluzione dell’arte. Ma ciò non toglie la volontà di avvicinare soprattutto chi non è cresciuto con la tecnologia, ad una nuova visione dell’arte e ad un nuovo approccio contemplativo e di documentazione, che vive direttamente con i nuovi mezzi comunicativi. È difficile combattere il bigottismo o il rifiuto verso l’inevitabile evoluzione dei media, ma attraverso la modestia e l’ironia, credo che si possa ampliare il pubblico senza porsi con arroganza in metodi che a priori scartano gli spettatori meno giovani o meno pratici delle tecnologie.

Il mio è quindi un modo di avvicinare questo pubblico e contemporaneamente prendere le distanze da quell’arte elitaria, soprattutto contemporanea, che diffida e si disinteressa delle persone che non sono in quel giro d’arte (o commercio?). Spesso è l’arte del guadagno che detta legge nella nostra epoca e sarebbe utopico pensare diversamente. Così le domande nascono spontanee: perché dovremmo innamorarci per qualcosa che è costruita per spillarci soldi? Perciò la cultura è a pagamento? E se fosse così, siamo sicuri che stiamo parlando di cultura? È perciò inevitabile rimanere legati al passato, non per il denaro in sé (tanti spenderebbero denaro per un libro d’arte), ma per l’intenzione per la quale quell’opera è stata creata. È quindi una “guerra” bilaterale e l’hacker art, in tutte le sue forme, si pone come movimento “partigiano” per la cultura e la conoscenza condivisa, attraverso le nuove tecnologie.

 Come giudichi il successo della tua immagine tratta da Il bacio?

E’ stato inaspettato per me. La serie d’immagini “Remake” era nata come un’idea giocosa. La mia intenzione era quella di rivisitare in chiave contemporanea dei classici della storia dell’arte, un po’ per scherzo, un po’ per accendere un interesse nello spettatore nel riammirare le opere originali. Molte persone si sono riviste in quell’immagine e in molti si sono fermati a quello, altri invece sono andati oltre, altri ancora hanno rifiutato l’immagine per principio, escludendone un valore artistico; comunque sia, ha dato un’emozione e quello era il mio obiettivo. Vorrei inoltre sottolineare che il mio scopo non era creare un’immagine virale, come molti possono credere. Dietro c’è un’attenzione particolare nella costruzione del remake, dai particolari visibili (come il venditore di rose) a quelli meno visibili (le scritte cancellate sui muri, non sono lì a caso); oltre alla complessità di un’elaborazione digitale tecnica, c’è anche una riflessione estetica sul senso dell’operazione. Dal punto di vista tecnico ogni tanto rispolvero la tavoletta grafica e utilizzo quelle tecniche di fotomontaggio e ritocco fotografico utilizzate in genere per la pubblicità. Attraverso i programmi classici di queste tecniche e cercando di applicare la semiotica, mi diverto nell’intreccio tra arte e ironia.

La tua è un’operazione di hacker art,ti riconosci nel movimento?

 L’Hacker Art la considero sinonimo di condivisione libera e di contemporaneità. Penso che lo scambio, la conoscenza, internet e le nuove tecnologie debbano essere alla portata e per tutti. Inoltre penso che sia più un modo di procedere nella condivisione di un’emozione e del sapere, di farsi beffa di quei modi di pensare bigotti ristretti, spesso tabù di cui non parlare o toccare, tanto radicati nella nostra società. La cosa che più mi piace nel pensare all’Hacker Art è che più che un procedimento artistico, è un insieme di più procedimenti che la rendono un modo di muoversi decisamente innovativo.

Sei partito dalla street art (con evidenti omaggi al maggior artista underground, Gianluca Lerici, aka prof. Bad Trip) e ora ti dedichi al laser painting, un’evoluzione del grafitismo in epoca digitale. Arte urbana. Puoi spiegare pieghi questo passaggio?

Si tratta di una ricerca approfondita sull’evoluzione dell’arte urbana, attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie. Praticamente ho pensato che la street art stesse vivendo un periodo di stallo e che serviva una forma diversa per ravvivare e rinnovare i procedimenti artistici legati all’arte urbana, introducendo la video/performance nella street art. Così ho pensato di utilizzare un’applicazione open source (L.A.S.E.R. Tag) creata dai Graffiti Research Lab, che permette il riconoscimento del segnale del laser verde, traducendolo in una traccia che si crea in diretta. L’applicazione però non aveva avuto cambiamenti significativi nel tempo (quando la presi in mano, l’ultimo aggiornamento risaliva al 2006), probabilmente perché era stata creata esclusivamente per fare tag. Così ho pensato di portare avanti quest’applicazione, soprattutto nell’utilizzo, creando pennelli, cambiando colori, trasformando i difetti del programma in vantaggi, gestendo nuove periferiche esterne e modificando il procedimento.

 Si può considerare una originale forma di rivalutazione degli spazi urbani?

Il progetto si è sviluppato sull’analisi della street art e dei suoi valori intrinseci: l’effimero, la rivalutazione degli spazi urbani e dell’idea di appropriazione simbolica di questi. Si è cercato di rappresentare un racconto attraverso la narrazione video live, come scenografia e completamento visivo della traccia, reale e nello stesso tempo digitale/virtuale. Contrastanti e correlati come un immaginario onirico, incubi, sogni, come speranze e paure, un rapporto stretto con la città e la sua evoluzione inquietante di quello che potrebbe essere un futuro che si spera non si realizzi mai. Premonizioni simboliche nella visione, oscure forse, ma piene di fiducia nella sensibilità umana. Il percorso è stato quello di una rivalutazione urbana, partendo dalle periferie, avvicinando il pubblico verso una nuova visione dei graffiti, come un’evoluzione stessa dell’atto, non invasivo. Spettacolare nella visione, in modo da attirare l’attenzione dello spettatore, il quale nell’osservare si domanda il significato di ciò che sta osservando. E già la domanda e la conseguente risposta sono sinonimo di approfondimento, educazione visiva verso qualcosa d’inaspettato e innovativo. L’accettazione di questo nuovo metodo, corrisponde con la sensibilizzazione verso una città meno grigia, più dinamica e sensibile verso l’arte e le nuove tecnologie. Affermazioni che nascono da un’esperienza diretta e non teorica, che lasciano intendere una speranza verso la possibilità di evolvere il nostro pensiero comune verso nuovi orizzonti.

 Come funziona la performance?

 La performance racconta una storia, in genere legata ad un immaginario onirico che però si riflette su temi sociali, culturali, reali, come in un sogno o incubo appunto. Praticamente, attraverso una webcam, il raggio del laser viene tradotto dal computer come traccia che, in tempo reale, viene modificata manualmente in diverse caratteristiche, a seconda di come si vuole la dimensione, il colore, il pennello, il tipo di tratto. Non c’è la possibilità di tornare indietro (ctrl+Z per intendersi) e il tratto è difficile da gestire, perciò serve parecchio allenamento e capire come tradurre il proprio tratto grafico con un nuovo mezzo. Inizialmente la performance nasce in esterni, come vera arte urbana, quindi la ricerca della superficie su cui operare è complessa. Va calcolata la luminosità dello spazio, il colore della superficie, la distanza (serve anche per scegliere la potenza del proiettore) e verificare che il tipo di superficie sia regolare, liscio e sgombro da balconate e finestre. In realtà la ricerca di queste superfici è più semplice di quanto possa sembrare, le città sono piene di potenziali “lavagne di proiezioni”. Il vero problema è l’elettricità, ma ci sono diversi metodi per sopperire la mancanza, da un allaccio diretto da una casa all’utilizzo di un generatore (che comporta a sua volta un problema di rumorosità, ma maggiore mobilità). Chiaramente in interni questi problemi non si presentano. L’evoluzione della performance ha portato maggiori compatibilità con spazi indoor, più legati alla qualità d’immagine (in relazione al buio) e all’impiego di mezzi tecnici più sofisticati che in esterni sarebbero difficili da gestire, ricreando così la situazione ideale. Alla fine che la performance sia esterna o interna, sono due modi diversi di vivere la stessa esperienza. Personalmente preferisco l’esterna. In interna è come il post-graffitismo: facilmente raggiungibile e visibile, ma non nel suo habitat naturale.

Laser painting

 Fai anche animazioni video?

 Credo che quando si parla di arte digitale sia molto facile passare in diversi campi dell’arte e farli influire tra loro. Cerco di unire tutte le esperienze artistiche che conosco e che pratico, cercando di creare qualcosa di multidisciplinare e interattivo. Per questo motivo è più facile anche la collaborazione e trovare nuove combinazioni diventa sempre più stimolante. L’animazione è un esempio di come unire video ed illustrazione, per poi integrare il tutto anche con la performance.

Live set, vjing, videoart live, electronic live, visual set, digital performance… che definizioni usi per i tuoi live?

 In effetti è un po’ complesso definire con esattezza in un termine. Io li definisco semplicemente performance di laser painting, anche se ultimamente grazie alla collaborazione con l’artista Ai Di Ti Vision (Angela Di Tomaso), stiamo introducendo l’interazione tra le due discipline (visual e laser painting), cercando di creare una forma narrativa del tutto singolare, a metà tra l’utilizzo del laser come pennello e del video in sound react come scenografia dinamica del racconto. Inoltre stiamo cercando anche altre forme d’interattività e sperimentando nuove soluzioni.

 Quali sono i gruppi che fanno multimedia o digital performance che preferisci?

Mi sono avvicinato come interesse sull’interattività tra video e spazio osservando le scenografie di Josef Svoboda, del gruppo Motus, Studio Azzurro, i mapping di AntiVJ e Urban Screen, interessanti sono gli interventi urbani del gruppo Sweatshoppe e dei Graffiti Research Lab.

 Che ne dici dell’azione di Bansky che ha fatto vendere a un vecchio in strada, delle sue opere a 60 $?

 Bansky ha sempre iniziative interessanti e molto riuscite. Forse l’impatto mediatico del suo arrivo a New York però, ha tolto una delle cose fondamentali dell’arte urbana: la sorpresa. Questo penso abbia portato molte persone a pensare che quelle opere non erano di Banksy, ma di una qualsiasi persona che voleva farsi 60 $ approfittando del suo arrivo in città. Il concetto è semplice, di facile comprensione e di forte impatto con un’arte alla portata di tutti; forse però fatta nel momento e nel posto sbagliato. O forse semplicemente le avrebbe dovute regalare: a parer mio sarebbe stato ancora più notevole, senza togliere nulla a Banksy.

Beckett secondo Maguy Marin: Umwelt. Testo di Salvo Gennuso
52

Maguy Marin, francese di origine spagnola, è una danzatrice e coreografa, senza dubbio la maggior esponente della nouvelle danse francese. Dirige la Compagnie Maguy Marin che ha sede a Tolosa. Formatasi al Mudra (Bruxelles) con Maurice Béjart, Alfons Goris et Fernand Schirren, ben presto Maguy ha elaborato un percorso artistico personale che dalla danza l’ha portata a sondare nuovi territori nella creazione contemporanea, fino a divenire l’interprete maggiore della non-danza. Il suo spettacolo simbolo è May B, creazione del 1981, replicato centinaia di volte in tutto il mondo e tutt’ora in tournee. Nel 2012 è stata l’ospite principale del Festival D’Automne a Parigi, dove ha presentato ben sei sue produzione, fra nuove (Nocturnes e Faces) e repertorio (Cap au pire, Ça quand même, Cendrillion, May B). Nelle sue creazioni sono spesso evidenti tracce dell’opera di Samuel Beckett. Umwelt è una creazione del 2004 da cui è nata una nuova produzione nel 2013. Lo spettacolo è stato visto al Théatre Paul Eluard di Bezons, Paris, 7 gennaio 2014.

«Sans ici ni ailleurs où jamais n’approcheront ni n’éloigneront de rien tous les pas de la terre.» ( Samuel Beckett- Pour finir encore)

C’è una situazione di vaghezza che ti prende all’ingresso in sala: una vaghezza derivata dalla strana scenografia che ti si presenta, sul palco aperto, fatta da una serie di lamine verticali, poste sul fondo, sottili, larghe mezzo metro l’una circa, disposte su più file e a una certa distanza l’una dall’altra, come a formare dei separé, delle piccole quinte.  Il colore vagamente – torna la parola “vago”, mi viene da pensare che vague in francese significa “onda”, e vague è una delle parole essenziale del vocabolario beckettiano, “vague” (onda) che assomiglia a “bague” (anello) – vagamente grigio, si intuisce che la superfice, secondo come la luce vi pioverà sopra, potrà diventare uno specchio che rimanderà però una realtà “vaga”.

La scena è in realtà divisa in tre parti: nella prima, verso il fondo, queste lamine di ghiaccio, quinte fissate solo al pavimento; poi la parte centrale, vuota; quindi  la terza parte, verso il proscenio, che presenta tre chitarre, disposte a terra con il corpo a favore del pubblico e il manico rivolto al fondo.

Lo spettacolo inizia con i danzatori – ma possono ancora dirsi danzatori, se in tutto lo spettacolo ci sarà solo una breve figura di danza? – che si presentano al pubblico, lo guardano o si fanno guardare, come più vi piace. Poi scompaiono. In May B, verso oltre la metà dello spettacolo, la Marin fa entrare tutti i suoi personaggi, i personaggi di Beckett, che fermi si fanno guardare o ci guardano. Il discorso mi pare riprenda da lì, con una differenza: qui non ci sono personaggi, non c’è Hamm, non c’è Clov, non c’è Pozzo né Lucky; i danzatori, come potremmo incontrarli per strada, vengono fuori dai corridoi fra le fila delle lamine-quinte, sostano per qualche secondo, più di qualche secondo, e poi scompaiono. Da qui in poi avviene il cataclisma: intanto la negazione alla vista, come se i danzatori rifiutassero di performare il loro copione di fronte al pubblico, e perciò quasi tutto avviene di spalle, laddove non è possibile, di fianco  a guardare verso destra o sinistra del palco, e ciò che succede si può raccontate come l’esplosione di un meccanismo che mette in scena l’uomo, l’essere umano, nelle sue più banali e convenzionali forme, nell’esecuzione di un gesto comune, tutto in una solitudine di atti, solo sporadicamente interrotta, quando si cerca una relazione, più spesso una relazione fra uomo e donna, che porta in sé i segni della disperazione, un uomo che guarda il mondo e la donna che si butta al suo collo nel tentativo di farsi sorreggere, coppie che si baciano ma scompaiono subito, nella subitanea incertezza del tempo, e poi ancora uomini che sorreggono sulle spalle donne nude, come quarti di bue, cosa che in effetti avverrà pure.

I danzatori appaiono e scompaiono da queste quinte, mosse da un vento incessante, sconvolte da una musica materica che interferisce con il suono delle tre chitarre, le cui corde vengono sollecitate da una fune senza fine che si srotola da uno “gliommero” , meglio, da un mulinello posto sull’altro lato del palco.

Gli attori compiono i loro gesti semplici, radersi, alzarsi i pantaloni, si presume dopo aver defecato, fischiare un fallo in una posa da arbitro di calcio, contare soldi, asciugarsi il viso, prima in una soluzione solitaria, poi più attori contemporaneamente, che sortiscono dalle diverse fughe fra le quinte, che intanto vengono sconvolte da questo vento e dalla musica.

Di tanto in tanto uno di loro si ferma, poi sono in due, poi in tre e così via, a fermarsi di fronte al pubblico a guardarci o guardare la scena, che in effetti si illumina, e a questo punto si compie come un miracolo: la danza non è sparita, diventa un effetto indotto, vediamo le nostre “vaghe” sagome e poi il resto della scena – scena che man mano si riempie di detriti, di oggetti buttati dopo essere stati consumati, ossa, materiale di scarto, donne, bambini, parrucche – riflessa nelle quinte più prossime alla nostra vista, tutto si muove e danza, fino a che non si ritorna a questo inutile giro, che rimanda nella mia memoria a Quad di Beckett, lo penso immediatamente,   per l’insensatezza del movimento che sembra come il meccanismo di un orologio, nella sua inesausta ripetizione, e la conferma di Quad come elemento strutturato nel pensiero dell’azione mi viene quando dal fondo, fra le quinte, compaiono dei personaggi completamente avvolti in una djallaba, come prescrive Beckett; appaiono in un movimento quasi a pendolo e scompaiono.

Non c’è altro in questo spettacolo, forse non può esserci altro. Non c’è la devastante bellezza di Faces, né il dominio dell’assoluto di May B. C’è il radicalismo incondizionato di un’artista che metta in scena l’uomo, e facendo ciò reinventa costantemente l’idea dello spettacolo dal vivo. Con Umwelt siamo dalle parti del capolavoro. Lo spettacolo parla all’intelligenza dell’anima e della ragione, per questo va visto, fatto sedimentare e rivisto. Ha ancora perle da mostrarci, dopo averci ferito con la sua visione.

Immagine di copertina Timothy A.Clary/ AFP

 Umwelt, con Ulises Alvarez, Charly Aubry, Kaïs Chouibi, Estelle Clément Bealem, Laura Frigato, Daphné Koutsafti, David Mambouch, Mayalen Otondo, Ennio Sammarco
 Musiche di Denis Mariotte

Salvo Gennuso è regista teatrale, drammaturgo. Dirige la compagnia Statale 114 di Catania. Lavora per il teatro, nel sociale, si occupa di letteratura e arte.

 

BECKETT secondo Maguy Marin: Cap au Pire. Testo di Salvo Gennuso
51

Nel cuore di Beckett, oltre Beckett, malgrado Beckett. Cap au pire di Maguy Marin

Negli ultimi anni della sua vita, Samuel Beckett ha scritto delle opere molto brevi, spesso oscure, dove la lingua e il significato sono portati a dissoluzione, ivi compresa la parola, che rimane ad essere non già significante, ma cosa, immagine spuria, in un (dis)ordine senza sintesi nel quale non è prevista nessuna sintassi logica, né accorporazione di parole a costruire, seppur sfuggevoli, discorsi. La sua prosa procede per impulso, come traducendo sempre un aspetto visuale, una forzata visione dell’occhio o della mente. Tale scomposte prove – prose – mettono a dura prova la pazienza e l’intelligenza del lettore, al quale, seguendo ad un prima lettura, risultano non solo ostiche, ma vieppiù incomprensibili. Si percepisce un fondo di bellezza che si rivela solo ai più curiosi, che tornano all’origine del tormento per rifare il percorso di lettura, rivelandosi come lucida e tagliente immagine, come straordinari pezzi che interrogano. Ma cosa? Chi? 

 Foto di © Laurent Philippe / fedephoto.com. 

Fra le più difficili, forse la palma del peggiore, o migliore, pezzo tardivo nell’opera di Beckett, va a Worstward-ho, titolo mutuato dal linguaggio marinaro che significa che l’ovest è in vista (westward-ho nella vulgata ufficiale), la meta giunta, mentre nella mutazione della prima parte della parola, finisce coll’assumere il significato di “peggio tutta” o “peggio in vista”. Nell’unica traduzione ancora in commercio in Italia il titolo è rimasto in originale, mentre in francese fa Cap au pire.
Maguy Marin ha coraggio colossale a mettere in scena questa prosa, in una tenebra assoluta che non lascia scampo a nessuno, né allo spettatore né alla danza, cui lo spettacolo viene ascritto come genere: Maguy finisce ciò che Beckett ha iniziato, porta a compimento quel processo di dissoluzione che dalla lingua alla parola con la Marin arriva in scena. Bisognerebbe chiederle per quale motivo, quale urgenza l’ha spinta verso Cap au pire, ma chi frequenta assiduamente, aspramente Beckett, sa che la risposta è contenuta nella domanda, nella frequentazione.
Cap au pire va in scena per il programma del Festival d’Automne a Parigi, nella retrospettiva dedicata all’artista di Toulouse, in una sala al 104. Prima di entrare ci pregano di spegnere “realmente” i cellulari, di non lasciare per nessuno ragione lo schermo attivo, che non si illumini. Ci si immagina cosa ci aspetta: il “tutto buio”, tutto nero. La prima scena è un lampo, squarcia il buio assoluto con la forza di una rasoiata su una pelle glabra, dura un attimo, illumina ma non rivela, c’è il tempo per cogliere solo una larga striscia di luce al proscenio.

Poi ripiomba il buio, assieme ad una voce che dice il testo, con un ritmo franto, spezzato, dove ogni frase vive per se stessa, senza legami, una dizione paratattica del copione, mentre a tratti una luce flebile illumina lo spazio, porzioni di spazio, seguendo, rivelando, in questa notte senza interruzione, luoghi limitati. La luce è flebile, quando non opaca, appare da nessun luogo, scompare in nessun luogo, lotta con il buio, ancora torna ad allargare lo spazio, poi un personaggio, forse un vecchio, l’occhio fa fatica ad abituarsi, si percepisce lo sforzo delle pupille che si allargano per meglio fissare, mentre il testo ripete parole come “meglio peggio”, “verso il peggio”, “fallire”, “ancora”, l’uomo è in ginocchio o piegato, non si capisce se di spalle o no, ha una capigliatura bianca, quella si intravede, poi si scoprono un vecchio e un bambino, teste bianche opache e mani bianchissime che si tengono, si muovono come se dondolassero, destra sinistra, destra sinistra, camminano, rimangono fermi, si allontanano, ma lo si percepisce appena, in questa oscurità appena sfiorata da questa luce grigia, lattiginosa, opalescente, che non rivela, disegna contorni sfocati. Così, in questo vuoto che ci assale, è lo spazio a danzare, la luce, che diventa onda, che illumina solo dove vede, che lotta ancora con un altro spazio che sfugge, che si fa tenebra. 

Lo spettacolo si dipana come una sequenza seriale di luce e buio, ma luce e buio non sono correlati né antinomici, hanno realtà e ontologia a prescindere l’uno dell’altro, esistono separatamente e in sequenza, la luce diventa la musica, l’unica, grazie alla quale lo spazio danza, perché rimbalzando su di essa, lo spazio su la luce, non viceversa, i diversi luoghi prendono corpo, esistono, si direbbe, come proiettati fuori dalla testa che li pensa, ecco che appare un legame, fra luce e buio, perché è la testa che pensa lo spazio e pensandolo lo illumina, ed è la stessa testa che pensa prima l’uomo in ginocchio, poi le ossa, poi il dolore dell’uomo in ginocchio, che si alza in piedi, come se questa verticalità, il tentativo di recuperare la verticalità con la posizione eretta, fosse garanzia della sparizione del dolore, ma il dolore rimane, ce lo dice la voce che diventa sempre più un martello, dentro i nostri occhi, perchè si comincia a sentire con gli occhi, e la luce, sempre più flebile, evanescente, a tratti diventa quasi chiara, ci restituisce il corpo, i corpi, i due, l’uomo e il bambino, l’uno, l’uomo con la testa fra le mani, la donna, una vecchia donna, perchè improvvisamente appare una donna, vecchia donna, evocata dal testo, protesa sul corpo dell’altro, forse del vecchio, forse dell’uomo con la testa china, danza quasi come un’aquilone, perchè tutte queste “ombre” sembrano non avere peso, ed è questo il capolavoro della Marin, restituire il senso della presenza, in una dimensione senza gravità nella quale questi corpi perdono peso, diventano forme pure, sospese, come se chi guarda fosse dentro la testa della voce, o fosse nella voce, come se tutto diventasse spazio e pensiero materiale, ma senza massa, e la sofferenza delle ombre in scena diventa la nostra stessa sofferenza, diretti al peggio, per fallire, meglio fallire, meglio peggio fallire, ancora, ancora, litania di parole che diventano tortura, e difatti parte del pubblico non regge, fugge, sfidando la raccomandazione iniziale di tenere spenti gli schermi dei cellulari che invece si mostrano ben accesi, per farsi largo, per non cadere scendendo dalle scale, luce che illumina una personale via di fuga, mentre chi rimane accetta con la Marin di fare questo viaggio, dentro un vertigine verticale, orizzontale, dove tutto è vuoto, tutto è oscuro, tutto è Beckett, tutto è teatro o danza o come più vi piace chiamarlo, “un’esperienza”, come mi dirà lei alla fine, quando incontrandola le comunico il mio godimento e le mie uniche parole: “tutto è oscuro, tutto è vuoto, tutto è Beckett”. 
Tutto questo è una lingua nuova che traduce ciò che dovrebbe forse essere, in questo scorcio di tempo, lo spettacolo dal vivo, o almeno uno delle sue forme.
Il pubblico, alla fine, applaude. Liberato. Alla fine si applaude. Alcuni con convinzione altri per educazione: poi la sorpresa finale quando si accendono le luci sul palco: non c’erano attori sulla scena, tranne uno. Tutto il resto, pupazzi, marionette, abbandonate lì, a terra, sulla sinistra della scena, a formare un cumulo, “l’impossibile cumulo” direbbe Clov, cumulo di ombre che si pensavano umane, e invece sono marionette, ed è in questo tragico che si rivela il grottesco, ma il grottesco cos’è, non lo puoi spiegare, lo fa nei testi Beckett. Questa immagine grottesca, partendo da Beckett, l’ha creata Maguy Marin.

Foto in copertina di © Laurent Philippe / fedephoto.com. 

CAP AU PIRE créé le 8 novembre 2006 à PANTIN
Centre National de la Danse de Pantin
Solo pour Françoise Leik
Texte de Samuel Beckett

Rimediando il teatro di Beckett con il video
50

Pubblicato in Atti del convegno dell’ADI (Associazione Docenti di Italianistica), Università di Sassari, 2012.

Come hanno trattato o interpretato la materia e le visioni beckettiane gli artisti multimediali nelle loro installazioni, videoperformance e spettacoli tecnologici? E’ opinione comune che sia la stessa poetica di Samuel Beckett, così radicalmente altra rispetto ad una scrittura drammaturgica tradizionale, oscillante e sospesa in un tempo a-dimensionale, nella rinuncia all’illusione della comunicazione, nella negazione della possibilità di un raccontare, nell’inutilità di ogni agire, ad aprirsi ad apporti creativi altri, offerti dalla specificità del mezzo video e filmico.

Ersilia D’Alessandro ha parlato di una loro “vocazione cinematografica”, Avantaggiato di un Beckett “ultramediale”[1]. Non è solo il Beckett filmico e tele teatrale (da Film con Buster Keaton ai tele play ai radiodrammi: Ghost trio, Quad, But the clouds, Di’Joe) ad aver offerto notevoli spunti ad artisti video, quanto alcuni testi brevi che hanno avuto rarissime rappresentazioni teatrali per l’oggettiva impossibilità di messa in scena.

Si può parlare effettivamente, di una “vocazione all’immagine” di alcuni testi corti di Beckett (scritti dal 1963 al 1982) che, più ancora della nota produzione teatrale (Finale di partita, Aspettando Godot, Giorni felici) hanno offerto un ambito straordinario di sperimentazione video artistica (video creativa o video teatrale).

Si tratta di prose e testi teatrali dal minimo ingombro che si offrono quali rapide illuminazioni, pennellate di spessore concettuale e di  esasperata bellezza. Per queste densissime miniature, di fulminante respiro, Beckett creò il neologismo di dramaticules a sottolineare la compressione drammatica che le sostanzia e la decaduta pretesa di qualsiasi io autoriale: PlayCome and GoBreath, Catastrophe.

Dello stesso periodo (dal 1963 al 1972) sono alcune prose brevi in cui lo scrittore irlandese abbandona definitivamente la forma narrativa dei romanzi “adulti”, ritorna in parte al francese degli esordi, e imprime alla scrittura una vera e propria torsione sottrattiva (Trilogy, Not I, Comment c’est, All the strange away).

Pensiamo a Non io, monologo torrentizio dell’unico personaggio Bocca, in cui la testa della protagonista, come decollata, illuminata da un violento fascio di luce, secondo le indicazioni dell’autore, si staglia su un fondale di fitta e impenetrabile oscurità. Nei brandelli sconnessi del veloce monologo, affiorano frasi di una memoria drammatica che la protagonista assicura non appartenerle. Il passato che la donna maledice, spesso con toni di oscena e blasfema ferocia, è il ricordo di un dolore cosmico senza rimedio.

Pensiamo, poi, alla assenza pressoché assoluta di azione contenuta in Come and Go (la versione breve e al femminile di Aspettando Godot, in cui tre donne anziane sedute in una panca, sono in attesa di qualcosa da moltissimi anni e mantengono dei segreti che si sussurrano alternativamente all’orecchio) in cui emergono solo gli sgargianti colori precisamente individuati da Beckett per le vesti delle donne. In Breath Beckett arriva a immaginare una sola situazione scenica della durata programmata di 35 secondi.

Testi quindi, quasi refrattari alla scena, persino restii anche alla forma libro e che prevedono sotterraneamente, un linguaggio altro rispetto alla letteratura e al teatro. Mi riferisco per esempio, a Play e alla dinamica convulsa del racconto di un tradimento, scritto per tre personaggi secondo una logica da montaggio alternato. Il racconto prevede non “non stop”, un circuito infinito di parole (Repeat again è l’indicazione di Beckett per gli attori, quando ciascuna delle loro versioni termina).

E’ evidente quindi, un processo di definitiva spoliazione poetica, di scarnificazione linguistica in cui la parola sopravvive come reperto estremo, come elemento residuale di una comunicazione di per sé lacunosa e intermittente: questa è stata la fonte di ispirazione per un gruppo nutrito di artisti legati al video teatro, per la “nuova ondata anni Novanta” e per la nuovissima generazione di artisti multimediali che usano il video per produzioni creative autonome.

Il video sembra offrire una sorta di rimedio, un risarcimento, una soluzione creativa alternativa per visualizzare in forma di immagine, quell’universo beckettiano fatto di sintetiche o scarnificate partiture che hanno la densità e la forza della parabola. Si tratta talvolta di pochi  suggerimenti scritti da Beckett più che di trame con indicazioni di movimento  che implicano, sul piano della regia video, inquadrature e montaggio di grande precisione, costruite sull’attesa e sull’assenza, lunghi piani sequenza in cui la macchina da presa, sempre presente come “occhio belva” incarna un ruolo: quello della coscienza o della morte che incombe.

 Anche in questi testi presi in esame, come nella più ampia produzione teatrale matura, le figure di Beckett sono in una condizione di immobilità (in Play dentro urne), di scacco, di prigionia soffocante autoindotta (All the strange away), in silenzio, in attesa, protesi verso il nulla. Atterrano nel fango (Come è), si rialzano ogni volta per riprendere l’andatura vacillante, inforcano le stampelle, si spostano su sedie a rotelle o sedie a dondolo (Passi), strisciano, annaspano, si osservano invecchiare e marcire (Come and go), si guardano andare in pezzi, tragici testimoni di un vuoto mai definitivo, mai risolutorio (“la morte stenta ad arrivare”).

Il corpo umano è accecato dalla luce abbagliante (All the strange away) imprigionato in una scatola di cui si danno ossessivamente le dimensioni, o di un sacco dove condividere vita e punizioni reciproche (Come è). Trasposte sul monitor queste partiture visuali accentuano i ruoli dei personaggi nella loro fissità spaziale e esasperano la condizione di ripetitività della loro esistenza senza via di fuga (Play) grazie a loop  e ralenti, piani sequenza silenziosi e incombenti, primi piani soffocanti.

Breath, sorta di grado zero della scrittura, testo-lampo della durata obbligata di 35 secondi, con luce intermittente e null’altro in scena se non cumuli di spazzatura, si ispira l’artista greco Nikos Navridis per l’omonima installazione video esposta alla 51a Biennale di Venezia e Damien Hirsh. David Mamet e William Kentridge guardano invece, a Catastrophe (1982, dedicato al drammaturgo ceco Vaclav Havel) per il loro omaggio video a Beckett. Un attore (Protagonista) è in piedi su un podio mentre, con l’aiuto di un Assistente, un Regista lo prepara per uno spettacolo teatrale che sembra non consistere in null’altro che nella sua stessa apparizione fisica. Viene trattato come un oggetto, spogliato, messo in posa. Della sua volontà non si tiene conto ed è a tutti gli effetti un manichino nelle loro mani, trattato come una vittima degradata e umiliata. Ma la fine è particolare: il regista chiede di illuminarlo per avere la sua “catastrofe” o conclusione. Mentre la luce è tutta su di lui, anziché rimanere immobile come da copione, l’Attore alza la testa spegnendo lo scroscio di applausi. Proprio con questo gesto finale egli riafferma, a un passa dal baratro, la sua dignità. I tre personaggi corrispondono ai tre ruoli nel potere di uno Stato: un dittatore, un servo che obbedisce ed esegue gli ordini, il popolo che subisce e poi si ribella. Il teatro svela la gerarchia della società.

 Il cortometraggio di Mamet con l’interpretazione di Harold Pinter (Director), Rebecca Pidgeon (Director’s Assistant) e con l’ultima toccante apparizione di John Gielguld (Protagonist) fa parte del progetto Beckett on film (2000) prodotto da RTE, Channel 4 e Irish Film Board, presentato al 57° Festival del Cinema di Venezia nella sezione Nuovi Territori. La storia si svolge dentro un teatro tra ombre inquietanti e fari di scena. L’anziano attore ha ancora la forza, nel finale, di ribellarsi.

 Monument (3’,1990) di William Kentridge è il secondo cortometraggio della saga di Soho Eckstein. La tecnica di animazione usata è quella usuale di Kentridge, lo stop motion, ovvero una successione di immagini filmiche di fasi diverse del disegno a carboncino realizzato appositamente per raccontare la storia. In questa come in altri episodi della saga, la tematica affrontata è quella della storia postcoloniale del Sudafrica, degli orrori del capitalismo e dell’apartheid, complice questa volta, la simbolica trama beckettiana della relazione di potere tra Regista-Attore-Assistente. Monument è stata esposta come installazione alla Tate Gallery.

Nel 1968 Bruce Nauman, esponente dell’area concettuale americana e tra i pionieri della videoarte statunitense insieme con Dan Graham e Peter Campus, crea Beckett Walk o Slow Angle Walk.  Si tratta di un’opera video-performativa che mostra il dispositivo video nella duplice funzione di processo e immagine spazializzata. In Beckett walk una telecamera fissa collegata a un monitor per ciascun lato di uno spazio architettonico quadrato che si sviluppa in altezza, riprende dall’alto la persona che ne percorre il perimetro. I suoi movimenti non sono naturali: Nauman realizza una sorta di happening o performance mediatica ripetitiva, a loop: il performer con le mani dietro la schiena alza una gamba a 45 gradi e la lascia poi ricadere a terra con grande rumore.

Comportamenti bizzarri, rovesciamenti del corpo che vengono ritagliati nella scatola del monitor e che contrastano con quel geometrico percorso obbligato che regolamenta il suo tracciato nello spazio. Come ricorda Valentina Valentini: “Non è gratuito il riferimento a Beckett, che è stato un incontro importante per Nauman, perché in entrambi il linguaggio è un elemento che trova in se stesso il proprio fondamento, non sta al posto di…, non è uno strumento espressivo legato alla dimensione soggettiva e intersoggettiva di locutori e perlocutori”[2].

Natalia Antonioli regista teatrale toscana con un background di studi filosofici, ha percorso per un’occasione specifica nel 1999 (il Premio Autore Donna) l’itinerario beckettiano con una serie di installazioni video e sonore che risultarono vincitrici della sezione Nuove Proposte. L’autrice nel catalogo curato da Marina Corgnati, le definisce “microregie”, concertazioni installattive dalla durata minima, quasi istantanea, seguendo scrupolosamente le indicazioni beckettiane per i suoi dramaticules.

Passi è realizzato come un tracciato di scritte bianche con correttore (frasi dal testo stesso di Beckett) su materiale plastico scuro posto a terra a formare gli otto numeri del gioco infantile della campana. Il gioco  non termina mai perché ricomincia sempre, e così è per la voce registrata associata all’installazione: un cadenzato ripetere delle parole beckettiane per bocca di bimba.  Tra le installazioni spicca senz’altro la resa video-letterale di Ohio Impromptu. Il tavolo con due sedie e due monitor propone un dialogo impossibile e infinito tra Ascoltatore e Lettore, tra Io e Non io: un interlocutore assente – simboleggiato dalla neve del televisore non sintonizzato – e un video-braccio che comanda ma dà regole non ascoltate.

In tutte le installazioni i frammenti del testo originario sono sparsi in forma di sasso o cemento inciso (Giorni felici III), di carta ghiacciata (Quella volta), accartocciata, di ritagli di singole minuscole lettere ricomponibili a scelta da chiunque secondo il meccanismo della casualità. Il teatro è dietro un’unica immagine che condensa, “ghiaccia” quell’istante, “quella volta” e si concede ma per tracce fossili, all’archeologo-visitatore. Metronomi a battere il tempo per nessun strumento, voci inabissate che si disperdono dentro coni metallici, vetri che accolgono bocche afone, corpi smembrati dall’occhio della telecamera, dondoli dal movimento inarrestabile, giochi della morte e giochi dell’infanzia.

I monitor isolati, gli oggetti casuali, le sequenze narrative monche sono lì a sostituire attori e trama e a testimoniare un’assenza imprecisata o un’attesa infinita. L’installazione è infatti, una scena provvisoriamente abbandonata, laddove una presenza umana si è dileguata e ha lasciato ombre elettroniche e guanti in lattice, borsetta, ombrellino e collana di perle. Nella dimensione irricostruibile e indecifrabile del luogo e della storia, nella negazione del tempo e contemporaneamente nella resa di “creature in fuga”, il senso di un Beckett messo per una volta in mostra e non in scena.

Studio azzurro nel 2004 ha firmato le scenografie digitali per Neither. All’opera musicale per soprano e orchestra concepita da Morton Feldman nel 1976, Beckett aggiunse su commissione dello stesso compositore, il libretto. Feldman chiese infatti a Beckett per l’opera, la “quintessenza” della sua poetica, che fu prontamente consegnata in forma di un pugno di righe come una sorta di suprema astrazione o distillato del suo pensiero, intorno al tema universale dello stare al mondo, in una condizione sempre oscillante tra l’io e il non io.

Studio Azzurro sceglie una dimensione evocativa quasi surreale, sorretta da pochi oggetti in formato video digitale, che rimandano al mondo beckettiano: un dondolo, l’uccello in gabbia, un uomo nel letto, l’albero, le scale, una porta semiaperta che non è retta da alcun muro, una lama di luce in un palcoscenico vuoto, quel teatro secondo le stesse parole di Paolo Rosa, simbolo di nessun luogo e insieme crogiuolo di tutti i luoghi possibili.

Waiting for Godot sbarca su Internet nel 1997. Presentato al Digital Story Telling Festival. Waiting for Go.com è uno spettacolo di teatro on line con uso delle chat room e con personaggi interpretati da utenti collegati in quel momento; icone grafiche rappresentano non solo Didi e Gogo (Estragone e Vladimiro) ma anche altri personaggi improbabili come Mister Muscle, che si inseriscono ogni qual volta entra un nuovo utente; Waiting for Go.com ha un suo ambiente visivo offerto dalla piattaforma Palace.com che non è altro che il palcoscenico virtuale della rappresentazione. Del testo non rimane pressoché nulla se non alcune suggestioni dei personaggi. Il pubblico era costituito anche dagli spettatori reali del festival grazie a video-proiezioni. Nel resoconto on line sul sito della compagnia, dal titolo Clicking for Godot l’autore Scott Rosenberg esalta la nascita di un genere, il digital puppet theatre in un nuovo teatro on line, le cui modalità di (non) comunicazione rimanderebbe proprio al tema dell’assenza in Beckett:

 IIn Aspettando Godot nulla accade per due volte in ciascuno degli atti. Nelle chat rooms nulla accade la maggior parte delle volte, le persone si ritrovano ogni sera e aspettano per lo più che accada qualcosa, che qualcuno dica qualcosa di interessante, che un diversivo gli aiuti a passare il tempo. 

 L’artista multimediale e musicista Roberto Paci Dalò creatore della compagnia Giardini Pensili si è dedicato a Beckett in un paio di occasioni: la prima volta con l’installazione visiva e sonora Beck/ett realizzata a Castel Sant’Elmo per la grande mostra dedicata al Living Theatre e curata dalla Fondazione Morra, con la voce campionata di Julian Beck. Nel 2006 ha dato vita a uno spettacolo videopoetico (altrimenti definito dall’autore “esecuzione scenica”) di notevole valore a partire dall’ultima produzione poetica di Beckett e interpretato da Gabriele Frasca e Patrizia Valduga, a loro volta poeti (e traduttori) in scena insieme a una giovane attrice francese, Caroline Michel. Qual è la parola si regge su atmosfere rarefatte, trasparenze, voci sussurrate o disperse, parole inanellate a suoni e immagini evocative, in una composizione fragilissima e intensa, sottoposta a un trattamento digitale in diretta. Proprio il digital live è quella modalità – più volte sperimentata da Giardini Pensili – che rende la tecnologia stessa significativo evento poetico in sé.

Un originale omaggio in video ispirato a Not I, monologo del 1972 di Beckett, è quello di Mald’è, giovane compagnia campana video/teatrale di Matilde de Feo e Mario Savinio. Il video di 11’ (che ha una forte pregnanza visiva, e aderenza alla poetica beckettiana e un’ottima realizzazione tecnica), è una cascata ininterrotta di parole dallo strano personaggio di Bocca (interpretata dalla stessa De Feo). Bocca va a occupare un angolo di un ambiente elettronico caratterizzato da un biancore abbagliante e da cui emergono a tratti, segni grafici esplosi e frammentati, fonemi vomitati, risucchiati e poi sparsi ancora nel vuoto elettronico. Dalla bocca “reale” ma isolata dal contesto corporeo, si passa a quella digitale, una macchia rossa che mentre parla si sfalda, si sdoppia, si sovrappone in un’infinita metamorfosi elettronica. Riconoscibile sempre più a stento come un organo fisico scompare affogato nel bianco, quel bianco accecante che domina molta parte della produzione beckettiana.

Atto senza parole I di Carlo Caprioli e regia di Enrico Maria Lamann è stato presentato a Film Maker di Milano e al Lodi Film Festival del 2005. Carlo, figlio di Vittorio Caprioli interpreta col video quell’invisibile potere che regge i fili, guida gli oggetti della sopravvivenza e quindi il destino dell’uomo nel deserto in cerca dell’acqua continuamente sottratta. E’ un’entità lontana che governa gli eventi muovendoli virtualmente da un non meglio precisato mondo parallelo fantascientifico, indossando data glove e virtual eyes. I limiti spaziali non oltrepassabili dall’uomo sono dati dal campo stesso dell’inquadratura. L’uomo è prigioniero dentro il video, dentro la scatola quadrata del monitor. Da lì il protagonista non può uscire, prigioniero senza scampo in un deserto bianchissimo e in uno schermo al plasma.

La luce bianca torna ancora a infierire e annulla i contorni delle cose, disintegrando qualsiasi apparenza antropomorfa nel muto deserto siderale materializzato da Beckett in All strange away. A questo si ispira il video di Motus A place (that again). La compagnia si cimenta in un tratteggio di corpi evanescenti come ectoplasmi che nella loro liquefazione di fronte al bianco totale, diventano figure simili alle pitture di Bacon. E’ in scena e in video l’ossessione della fine descritta esemplarmente con un minimalismo d’immagine agghiacciante. Dalle note della produzione video di MOTUS:

 Azione. Un luogo, ancora quello. Mai un’altra domanda. Un luogo. Poi qualcuno, ancora quello. Ancora le sue scarne parole che ci perseguitano come quella luce abbagliante che invade e folgora. Ovunque. Ancora quello spazio vuoto. Bianco assoluto. Dove tutto si vede. In cui tutto precipita. Senza alternative. All strange away. Diabolico tentativo di fermare il tempo, di dilatare l’istante del trapasso, definitivo, verso il momento in cui “nessun rumore di respiro è percepibile”. Immagina solo carne silenziosa. Mangiata dallo sguardo. Occhio belva. Che cerca negli angoli senza ombra. Il video indaga nelle pieghe della pelle. Con rigore scientifico. Espone. Così è la morte o meglio, così è la caduta secondo BECKETT.

Il bianco elettronico è il non luogo beckettiano. Dove affogano i pensieri sessuali, le memorie del personaggio. Come ricorda Mussapi  nell’antinferno beckettiano non c’è grido, non c’è richiesta di ascolto, perché tutto avviene dopo il corso del tempo, di cui sussistono illusorie dilatazioni dell’istante, spasimi molecolari della durata, movimenti microscopici di una immobilità ormai in fase di definitivo assestamento come lava ormai solidificata”[3].


[1] L. Avantaggiato, MultiBeckett. Samuel Beckett tra vecchi e nuovi media, in “Biblioteca teatrale”, n. 81-82, 2007.

[2] V. Valentini, Corridoi, labirinti, soglie: come mettere in gioco lo spettatore, in Dal vivo, Roma, Graffiti , 1996.

[3] L. Mussapi, Postfazione a Beckett, S. ,Quello che è strano via

Beckett tra teatro, video e installazioni
49

 Un carnevale modernista, di David Saltz

Beckett Space: A Modernist Carnival, che ho diretto nel febbraio 1996 all’Università di New York, includeva performance tecnologiche e installazioni completamente automatizzate ispirate a otto brevi piéce di Samuel Beckett: Ohio ImpromptuEh JoeNot IRockabyPlayCome and GoBreath Quad. Conteneva anche un ambiente interattivo chiamato Beckett Space

La motivazione di questa strategia non convenzionale di presentazione era quadruplice. Per prima cosa Beckett Space consentiva al pubblico di avere un dialogo più intimo con il testo, leggendo e rileggendo le opere in forma di performance, più di quanto avrebbero potuto fare in un’edizione stampata; inoltre, e tornando alle diverse opere, potevano esplorare le numerose interconnessioni che c’erano tra loro.
Secondo, Beckett Space metteva in luce la struttura ciclica della maggior parte di queste opere brevi. Nel corso di una performance di due ore e mezzo di Beckett Space, ripetevamo ciascuna delle opere tra le quattro (Not I) e le 35 volte volte (Come and Go). In alcuni casi il potenziale per ripetizioni infinite era già implicito nel testo di Beckett. Not I e Play, per esempio, finiscono esattamente come cominciano e Beckett stesso aveva stabilito che Play fosse ripetuto una volta.
Terzo, Beckett Space esplora l’interazione tra live performance e tecnologia implicita nelle opere di Beckett, specialmente da Krapp’s Last Tape in poi. La tensione tra live performance e immagini è stata molto forte soprattutto nella produzione di Not I.
Un’immagine video della grandezza di 8 piedi di una bocca di donna veniva proiettata su un muro curvo in un piccolo spazio per 15 spettatori. La voce della donna amplificata veniva da un altoparlante posto sopra l’immagine. L’attrice che recitava dal vivo era nascosta, su una bassa pedana di fronte al proiettore. Il muro opposto alla proiezione conteneva un buco attraverso cui era possibile spiare: uno spettatore alla volta poteva guardare attraverso il buco per osservare la bocca vera e sentire la voce non amplificata dell’attrice che stava recitando dal vivo di fronte a una videocamera e a un microfono. La proiezione non funzionava come la registrazione di una performance realizzata in precedenza, e non solo come un artificio fine a sé stesso, ma come una prospettiva tecnologica su una azione live. Una visione attraverso un microscopio, una esternazione concreta del sé, un’incarnazione vivida di quello che Beckett descriveva come “veemente abdicazione verso la terza persona da parte di Bocca”.
Ultima motivazione, e per me più importante: volevo sottolineare che le produzioni tecnologiche diBeckett Space evidenziavano che il modo di lavorare dell’ultimo Beckett aveva trasformato radicalmente la relazione tra testo e performance, e così ridefiniva la nozione stessa di dramma (“play”).

Infatti si può osservare come la maggior parte delle ultime produzioni non siano affatto opere teatrali nel senso convenzionale. Sono algoritmi per performance. Significativamente, via via che le piéce di Beckett incrementano la loro precisione, aumentano anche le loro restrizioni. I vincoli delle direzioni di scena di Beckett, le descrizioni delle azione fisiche, le pause, le posizioni, sono spesso espressi con precisione matematica e, come in QuadWhat Where, Come and Go, and Footfalls, sono accompagnati da diagrammi schematici che ne incrementano il rigore. Quad offre il più puro esempio di algoritmo performativo. Questa pièce non contiene dialogo, solo quattro “interpreti” che si muovono lungo il perimetro e le diagonali di un quadrato. Come un pezzo musicale e diversamente da un testo convenzionale, Beckett definisce costantemente un numero limitato di variabili dentro un intervallo di durata chiaramente definito, e mantiene un silenzio assoluto su tutti gli aspetti della performance non descritti da queste variabili.
Il vocabolario delle coppie di lettere sviluppato da Beckett per descrivere i “percorsi” dei personaggi non è semplicemente in grado di descrivere qualunque movimento che esca dai sei percorsi rettilinei, o qualunque pausa nell’esecuzione di un percorso. La precisione e i vincoli di Quad ricordano quelli di una partitura musicale; e dunque codificare l’algoritmo dei movimenti della pièce in un computer è un processo lineare. In Beckett Space abbiamo dimostrato la natura algoritmica dell’opera implementando l’algoritmo di Quad con diversi programmi di gestione ambienti e strumenti multimediali.

Per esempio, in una versione, un’animazione computerizzata creata con Macromedia Director raffigurava figure incappucciate che si muovevano su una griglia che ricorda quella di una scacchiera; in un’altra i personaggi erano rappresentati da semplici quadrati colorati. Quattro monitor di computer proiettavano simultaneamente quattro diverse animazioni di Quad; i monitor erano posti in un’alta colonna di tende al centro del Beckett Space. Gli spettatori entravano attraverso le tende e osservavano una serie di led luminosi sospesi sopra la loro testa. Un colore differente di luce rappresentava ciascun giocatore e i Led riproducevano i movimenti di Quad in sincrono con le animazioni sul monitor.
In altre opere teatrali come PlayRockaby Ohio Impromptu Beckett crea algoritmi che tengono conto di un elemento di mediazione umana. Queste opere costituiscono quelli che definisco “algoritmi interattivi”.
Questi testi sono scritti in maniera convenzionale, con battute di dialogo assegnate ai personaggi e trascritte in sequenza. Tuttavia la logica che li sottende è quella di un algoritmo costituito da due elementi principali: un testo e una regola. La regola governa il modo in cui viene detto il testo, e in ciascun caso il soggetto che emette il testo è diverso da quello che applica la regola. Per esempio inRockaby la donna è seduta su una sedia a dondolo “controllata meccanicamente senza il suo intervento”. La battuta della donna, “Ancora”, funziona esattamente con un interruttore che mette in moto sia la voce sia il dondolio meccanico; di più, dal punto di vista tecnologico è molto semplice automatizzare il dondolio, il suono e le luci in modo che sia la voce dell’attore ad attivarli elettronicamente.
Il più sofisticato degli algoritmi performativi di Beckett è quello che presiede a Ohio Impromptu. In quest’opera un “Lettore” e un “Ascoltatore”, entrambi con lunga giacca nera e lunghi capelli bianchi, sono seduti uno di fronte all’altro a un tavolo, mentre il Lettore legge ad alta voce da un libro. Non appena l’Ascoltatore bussa sul tavolo, il Lettore interrompe la lettura, ritorna all’inizio della frase precedente, legge fino alla fine della frase e attende finché l’Ascoltatore non bussa una seconda volta prima di continuare. Per la produzione di Beckett Space ho cominciato girando un video del lettore che legge l’intero testo del libro, eliminando le ripetizoini del testo di Beckett, e poi ho trasferito il video su un disco laser. in modo da facilitare l’accesso causale in playback (all’epoca in cui ho realizzato Beckett Space, trasmettere un video di alta qualità e a schermo intero su un computer non era ancora così facile).
La scena consisteva di un lungo tavolo diviso da uno schermo sul quale in retroproiezione veniva proiettata un’immagine a grandezza naturale del Lettore, creando l’illusione che il Lettore fosse seduto all’estremità destra del tavolo (per gli spettatori), così come indicato nel testo di Beckett; tuttavia solo l’Ascoltatore era reale. Sul tavolo era posizionato un interruttore a pressione in grado di cogliere i colpi dell’Ascoltatore e collegato a un computer programmato per iniziare, arrestare e riavvolgere il videodisco, in base all’algoritmo di Beckett. Quando l’Ascoltatore batteva sul tavolo nei momenti giusti (cosa che l’attore aveva imparato a fare), quella messinscena semi-automatizata seguiva il testo e le didascalie di Beckett alla lettera; in particolare soddisfaceva in una maniera fino a quel momento inedita una delle sue richieste: che Ascoltatore e Lettore siano “simili il più possibile d’aspetto”. Grazie a questo legame cibernetico, Lettore e Ascoltatore finivano per “diventare una cosa sola” agli occhi del pubblico.
La produzione portava in scena una riunificazione romantica del sé frammentato, ma solo attraverso l’assorbimento del sé nel sistema cibernetico dell’opera. Il processo portato in scena era allo stesso tempo utopico e distopico. Di qui è nata la sua peculiare combinazione: una bellezza inquietante e una tenerezza segnata dal dolore del vuoto e della perdita.

(Traduzione Anna Monteverdi. Pubblicato in www.samuelbeckett.it)

 

I switch on. Play di Beckett in Virtual Reality, di Lance Gharavi
48

Nel 1996, pochi mesi dopo il successo dell’allestimento della nostra prima produzione di realtà virtuale, The Adding Machine da Elmer Rice, Mark Reaney e io cominciammo a far progetti per possibili esperimenti futuri. La nostra produzione di The Adding Machine fu il primo frutto della nuova struttura creata con Ronald Willis: l’Institute for the Exploration of Virtual Realites (abbreviato: VR), un’organizzazione dedita alla sperimentazione delle applicazioni dei nuovi media tecnologici a teatro. Sebbene non avessimo né il tempo né le risorse per produrre un progetto ambizioso come The Adding Machine, volevamo comunque cercare cose nuove, testare nuove tecnologie e interfacce, scoprire nuove modalità di applicazione della nostre attuali abilità. Nello specifico volevamo fare una sperimentazione integrando video stereoscopico nei mondi virtuali 3D e permettere al pubblico di interagire con essi attraverso gli occhialetti polarizzati da poco acquistati (Head Mounted Device). Questi HMD, creati da Virtual I-O, sono dotati di un paio di piccoli schermi video che aderiscono all’occhio di chi li indossa, oltre che di un paio di cuffie che permettono, oltre a una visione stereoscopica, anche un suono stereo. 

Inoltre questi occhiali hanno capacità immersive e parzialmente immersive: rimuovendo lo speciale schermo dall’esterno del minuscolo monitor video, hanno l’insolito vantaggio di permettere a chi li indossava di vedere un’immagine “stereoscopica mediata” – come un mondo virtuale o un video – e simultaneamente di osservare attraverso quell’immagine e vedere un attore sul palco. Tutto ciò che è richiesto a un oggetto o a un attore per essere visibile attraverso i visori HMD è che l’oggetto e l’attore siano sufficientemente illuminati.
Quando ho cominciato a cercare testi per un esperimento su piccola scala con questa tecnologia, Beckett mi è sembrato un autore particolarmente adatto. In primo luogo perché lo stile non realistico dei suoi drammi non avrebbe sofferto un trattamento con i nuovi media, e questo non tanto perché la brevità dei suoi lavori tardi fosse decisamente appropriata per questo progetto, ma soprattutto per il modo in cui il suo lavoro spesso giocava con l’idea di presenza, di assenza e di presenza apparente. Il dualismo presenza/assenza era stato – come notammo Reaney, Willis e io – un elemento chiave nel nostro lavoro con la realtà virtuale, e un aspetto significativo in quasi tutte le forme di cyberteatro -come noi lo chiamavamo un tempo – più innovative. Collegare Beckett alla realtà virtuale e giustapporre la problematica originale della “presenza” che essa genera sembrava una direzione appropriata e avvincente per le nostre sperimentazioni.
Dopo aver passato in rassegna diversi drammi brevi di Beckett, alla fine decisi per Play, un lavoro prodotto in Germania nel 1963. E’ un testo a tre personaggi: un uomo e due donne. Ciascuno di questi personaggi è intrappolato in una delle tre urne, da cui fuoriesce solo la testa. Per tutto il dramma, i personaggi parlano come rispondendo a un riflettore abbagliante che li illumina uno alla volta, o talvolta tutti insieme. Nella produzione questa luce divenne una specie di quarto “agente”, che interrogava i personaggi come fossero dei prigionieri, comandando loro di parlare, di confessare. Billie Whitelaw, commentando la sua esperienza nel rappresentare una di queste donne, ha detto: “Penso che Play sia un quartetto, non un trio. La luce è una parte molto attiva, una parte molto spaventosa, addirittura uno strumento di tortura” (James Knowlson, An Interview with Billie Whitelaw, “Journal of Beckett Studies”, no. 3 summer (1978) 86).

Nelle produzioni tradizionali di questo testo, gli attori nelle urne sono vivi e il personaggio della luce è, ovviamente, rappresentato da una vera luce. Se anche ci fosse un “agente” umano dietro i movimenti del riflettore – come un operatore che segue la luce — questi non sarebbe affatto visibile al pubblico e non giocherebbe alcun ruolo nel mondo della finzione drammatica. Nel mio adattamento diPlay ho invertito le funzioni. Il riflettore era l’unico “agente vivo” nella produzione. L’uomo e le due donne erano personaggi “tecnologicamente mediati“. Questo approccio metteva in risalto il ruolo attivo della luce e rimodellava il dramma, ponendo al centro della produzione la tecnologia e il suo potere potenzialmente minaccioso. Attraverso gli schermi dei visori HMD il pubblico vedeva i personaggi nelle urne come immagini video stereoscopiche dentro un ambiente virtuale. Gli spettatori potevano guardare anche attraverso le immagini e scorgere le mie azioni, poiché io stesso assunsi il ruolo della Luce. Le immagini negli occhiali HMD apparivano sovrapposte al mio corpo; l’agente che manipolava l’ambiente virtuale e che comandava ai personaggi di parlare, divenne così una figura fantasmatica ma viva che prendeva posto in una porzione di luce fioca al centro del palco. L’operatore che normalmente manipola e guida il punto di vista del pubblico attraverso i mondi virtuali nelle produzioni di Virtual Reality – un ruolo che noi denominammo VED (Virtual Environment Driver) – occupava la posizione di “agente” un questa drammaturgia. Dal momento che il movimento attraverso gli ambienti virtuali non era preregistrato, ma manipolato in modo estemporaneo da un operatore che fa sì che l’ambiente interagisca liberamente con i performer in scena, l’ambiente stesso divenne in questo modo un “agente aggiunto”.
In The Adding Machine come nella successiva produzione in realtà virtuale, il VED e il suo computer erano dietro la scena, nascosti alla vista del pubblico. Gli spettatori potevano vedere lo spettacolo della scena generata al computer direttamente sullo schermo, ma non avevano la possibilità di sapere che i mondi virtuali non erano semplicemente delle animazioni preregistrate.
Per il mio lavoro con Play mi sembrava giusto evitare di nascondere il VED e i meccanismi con cui operava. Facendo così, il VED e l’ambiente sarebbero stati un agente attivo in maniera più evidente, così come sarebbe stata chiara anche la natura real time dei media utilizzati. Inoltre, portando la persona (VED) sulla scena, questi diventava una parte concreta e visibile della drammaturgia, sebbene non necessariamente una parte del mondo fittizio del dramma. Come il direttore nella buca dell’orchestra o il koken nel teatro Kabuki, la presenza visibile del VED e la sua influenza sulla drammaturgia sarebbe stata evidente anche se non gli veniva necessariamente conferito lo status di agente fittizio.

Nel mio adattamento di Play feci un passo avanti, dando al VED il ruolo di agente fittizio, creando un manipolatore tecnologico come personaggio che il pubblico poteva vedere attraverso le lenti del mondo mediato tecnologicamente, dei personaggi di Beckett nelle loro urne.
Nella nostra produzione il pubblico in una piccola stanza di fronte a un lungo tavolo illuminato da riflettori. Un groviglio di computer e dispositivi video copriva quasi tutto lo spazio a disposizione sulla superficie del tavolo. Prima dell’inizio dello spettacolo, Reaney aveva l’insolito compito di aiutare il pubblico a indossare gli HMD. Dopo un lungo silenzio beckettiano, durante il quale gli spettatori ridevano nervosamente a causa dell’aspetto che avevano assunto indossando questi visori dall’apparenza futuristica, entravo nella stanza incarnando il personaggio della Luce. I miei capelli erano arruffati e grigi. Indossavo un abito inadatto alla taglia e di colore scuro, camminavo con passo strascicato e stanco; in alcuni momenti mi affaccendavo comicamente sulle attrezzature prima di sedermi e di cominciare a manipolare il video e i mondi virtuali.
Sovrapposto al tavolo, all’attrezzatura e al personaggio della Luce, il pubblico vedeva l’ambiente virtuale stereoscopico. Davanti a loro una enorme pianura deserta. Distante, si ergeva un’urna grigia gigantesca con i bordi superiori nascosti alla vista. All’orizzonte di questa scena surreale e apocalittica, un sole che tramontava suggeriva l’arrivo imminente della notte. Muovendo il mouse del computer il punto di vista del pubblico cominciò a cambiare, spostandosi lentamente verso la base dell’urna gigantesca. Prima di arrivare alla base, gli spettatori sembravano diventare leggeri, fluttuare lentamente nell’atmosfera fino a quando non rimanevano sospesi da terra, proprio sopra il bordo superiore dell’urna. Cominciavano a scendere dentro la cavità di quell’urna grande come un grattacielo, finché non si posavano sopra un piccolo ripiano quadrato, sempre fluttuando nel buio interno del recipiente. Tutto intorno centinaia di identici ripiani quadrati sospesi in una grata sembravano svanire in lontananza. Di fronte, su tre ripiani separati, stavano tre urne grigie, simili al contenitore in cui erano immerse ma più piccole.
Dopo pochi momenti di assoluto silenzio, non appena alzai la leva di un mixer video le teste dell’uomo e delle due donne apparvero all’imboccatura delle tre urne. Come il mondo virtuale tutto intorno, il video era stereoscopico, così che le teste apparivano tridimensionali, ed emergevano da urne ugualmente tridimensionali. Dopo un ulteriore momento di silenzio, i tre cominciarono a parlare. Come uno di loro iniziava a parlare. però, l’altro scompariva, per riapparire subito dopo e ricominciare un monologo opprimente e sforzato.

A ogni cambio di oratore, la Luce schiacciava un bottone sul mixer video, quasi a scacciare il personaggio dalla scena e a comandare a un altro di apparire e parlare. A un certo punto, nel corso di questo crudele rituale, le teste scomparivano, sebbene le loro voci continuassero a essere udibili, e il pubblico in quel momento veniva trascinato in alto, fuori dall’urna, e fatto fermare in un punto sopraelevato di fronte a una piramide a quattro lati. Poi giravano intorno alla piramide lentamente; su ciascun lato della piramide veniva proiettato un film in bianco e nero dei personaggi.
Ciascuno di questi video a loop mostrava i personaggi che distoglievano lo sguardo nervosamente e occasionalmente guardavano in camera. Inframmezzati a questi video c’erano alcune sequenze che mostravano i personaggi con i volti distorti elettronicamente e colti mentre scrivevano in una apparente sofferenza. Nel lato retrostante la piramide era proiettato un breve video del personaggio LUCE, inframmezzato da un breve segmento distorto e colorizzato elettronicamente, della sua faccia contorta dalle risate. Dopo questo breve “viaggio”, il pubblico ritornava nella posizione di partenza di fronte alle tre urne.
Le teste comparivano alla vista senza mai cessare la loro litania triste e dolorosa. Non appena i personaggi cominciavano a ripetere ancora una volta l’intera sequenza, le loro teste e le loro voci piano scomparivano fino a sparire del tutto. La Luce sedeva scomposta nella sedia, come fosse esausta della prova e fissava lo schermo del computer in silenzio. Dopo una pausa prolungata, si alzava e usciva lentamente dalla stanza.

All’inizio del processo che mi ha condotto a creare queste immagini, mi sembrava vitale mantenere le urne come immagine centrale, un’immagine che suggeriva sia morte (le urne che contengono le ceneri dei morti) sia nascita (l’urna come utero che contiene la vita). Nel testo di Beckett era implicito che i personaggi di Play occupassero una specie di infernale post mortem.
Nel mio progetto volevo suggerire esattamente questo, il che implicava anche che le tre urne e i loro occupanti non fossero altro che una singola manifestazione di una formula ripetuta all’infinito. Si alludeva a questo attraverso la natura di matrioske delle urne. Il progetto richiedeva che ci fossero urne dentro urne dentro urne e una progressione infinita dello stesso rituale di domande. La griglia di ripiani quadrati e vuoti dentro l’urna gigantesca rinforzava questa idea. Questa serie infinita di ripiani che si estendeva per un lungo tratto non solo doveva suggerire l’idea di infinità ma anche l’esistenza di un numero infinito di posti vacanti in attesa di essere occupati da urne identiche, contenenti prigionieri riluttanti e timorosi.
Il processo di creazione delle immagini video delle due donne e dell’uomo fu piuttosto lungo e coinvolgente quanto quello di costruzione del mondo virtuale. Per registrare le loro azioni sedevo in una zona di fronte a un set in green screen. Di fronte a loro un grande piano verde mascherava i loro corpi dalle spalle in giù. Li ho ripresi con un paio di telecamere vicine, per ciascun lato. Il segnale da ciascuna di queste videocamere passava a un mixer che combinava i due segnali per registrare. Ciascun segnale sarebbe stato poi mandato al monitor appropriato così che le immagini sarebbero apparse tridimensionali.
Durante la proiezione usai un mixer video per bucare lo sfondo verde e piazzare le immagini degli attori sulle immagini del mondo virtuale in modo che le teste degli attori apparissero come emergere dall’imboccattura delle urne. Usando una leva sul mixer potevo farli apparire e scomparire a mio piacimento mentre le loro voci continuavano a recitare (e a essere udibili, ndc) attraverso le cuffie degli HMD. Al termine di questo esperimento ebbi l’opportunità di discutere con il pubblico.
Essendo solo la nostra seconda produzione teatrale che mescolava realtà virtuale e teatro e il primo sforzo di utilizzare i visori HMD come dispositivi di interfaccia, non eravamo sicuri se il pubblico sarebbe stato in grado di capire il senso di questa operazione che mescolava media elettronici e performance live. Dalle loro risposte fu chiaro che avevano estratto il significato dello spettacolo dall’interazione tra diversi linguaggi dal vivo e mediati.
Molti dei commenti puntavano ad alcune delle caratteristiche di questi nuovi dispositivi di interfaccia che per noi in precedenza non erano affatto chiari. Per esempio, gli spettatori potevano scegliere di rivolgere la loro attenzione dai personaggi nelle urne guardando attraverso le immagini elettroniche all’attore in scena di fronte a loro e viceversa. La facilità con cui potevano farlo dipendeva per lo più dalla quantità di luce sull’attore e dalla luminosità delle immagini dentro i display HMD. Inoltre scoprirono che, muovendo la testa, potevano controllare la relazione spaziale tra l’attore in scena e gli oggetti dentro al mondo virtuale. Infine discussero animatamente sulle possibilità di questa tecnologia e sulle sue applicazioni nel teatro. Reaney e io accogliemmo con piacere il successo di questa produzione e usammo la conoscenza acquisita per dare forma alla successiva produzione: Arthur Kopit’s Wings. www.ku.edu/~mreaney/

(Traduzione e cura di Anna Monteverdi, su ateatro)

Lance Gharavi: Associate Professor, Assistant Director of Theatre, and Chair of the MA in Theatre program, he is an artist and scholar whose work has appeared in books and journals, on stages and screens throughout the US and abroad. An early pioneer in the field of digital performance, he was one of the co-founders of the Institute for the Exploration of Virtual Realities (i.e. VR). He is the author of Western Esotericism in Russian Silver Age Drama: Aleksandr Blok’s The Rose and the Cross. Gharavi’s work focuses on the many intersections of performance, technology, science and religion. His scholarship in these areas been published in seven countries, on four continents and translated into three foreign languages. His work has appeared in journals including Theatre Topics, Modern Drama, Text and Performance Quarterly, The Journal of Dramatic Theory and Criticism, PAJ and Esoterica. Recent works include a series of performances in Matei Visniec's two-man show, Pockets Full of Bread, at the Romanian National Theatre in Cluj-Napoca and at the Sibiu International Festival in Sibiu, Romania. His most recent book is an anthology of essays entitled "Religion, Theatre, and Performance: Acts of Faith" (Routledge 2012).

PlayBeckett: folgorazione del linguaggio multimediale, testo di Massimo Puliani
47

Pubblicato in Massimo Puliani-Alessandro Forlani, Play Beckett. Visioni multimediali nell'opera di Samuel Beckett, Halley, Matelica 2006.

L’iniziazione di Beckett alla grammatica radiofonica, filmica, video-televisiva avviene … per caso (per caso? Con Beckett la parola assume un valore filosofico). Come all’origine del suo percorso drammaturgico avvolto da un’enigmatica illuminazione. Già dalla stesura di Aspettando Godot Beckett annuncia il limite della sua prosa e la necessità di superarla con la drammaturgia: “Ho cominciato a scrivere Godot per distendermi, per sfuggire all’orribile prosa che scrivevo a quel tempo. Non ho scelto di scrivere una pièce. Si è trovata così.” .
Ora, se volessimo trovare la parola giusta per indicare quest’iniziazione di Beckett alla grammatica radiofonica, filmica, video-televisiva potremmo considerare questo percorso come una … folgorazione. Certa inquietudine e curiosità intellettuale – la stessa che in gioventù lo interessò per esempio al severo studio di Dante, Vico, Joyce ma, anche, alle comiche di Charlie Chaplin e Buster Keaton, Stanlio e Ollio, dei Fratelli Marx – spinge Beckett, quand’anche in principio diffidente o poco interessato alla radio, al cinema e la televisione se non da spettatore fruitore, ad accettare per “provare a produrre qualcosa, oppure no: non ho mai pensato prima alla tecnica del dramma radiofonico” , la commissione “senza condizioni” della BBC per Tutti quelli che cadono (1956); la richiesta di una sceneggiatura cinematografica che diverrà Film della Grove Press di New York (1963); la proposta di videodramma (tele-play o video-teatro), ancora da parte della BBC, di Dì Joe (1965).
Se questo può apparire in contraddizione con la spavalda affermazione di Beckett del rifiuto di lavorare su commissione, o di “insegnare ad altri ciò che io stesso non so”, è d’altra parte interessante e fattiva conferma di un’intelligenza poetica pronta a superarsi ed a mettersi in discussione.
Folgorazione che, dopo la storica “prima” di Aspettando Godot nel 1953 al Théatre de Babylon e dopo il corpus drammaturgico composto dai più noti, rappresentati, re-interpretati e discussi capolavori del Teatro del Novecento (da Finale di partita a Giorni felici a L’ultimo nastro di Krapp, eccetera) giunge nel 1965 con Film a un punto di non ritorno. Oppure, per dirla con Franco Quadri, “all’inevitabile termine” della pièce multimediale.
Con i Dramaticules l’opera di Beckett approda ad un’idea dell’arte che attraversa e si nutre dei linguaggi più svariati, fino a costituirsi “genere a sé”. I Dramaticules sono sceneggiature in-finite, découpage o story-boards, pensieri letterari e microromanzi; materiali poetici per progetti sonori, visivi, materiali/immateriali come i sogni e gli incubi.
Perché questo sperimentare di Beckett coi linguaggi multimediali? Perché, nella ricerca che gli è propria di perfezione, egli “dismette” a un tratto il linguaggio teatrale (nel momento, si potrebbe affermare, in cui coi Dramaticules ne comprende e addirittura supera, per sempre, lo statuto) e si arrischia ad apprenderne di più (della radio, del cinema, del video: che sono fra loro ben differenti), e nuovi? Ove il rischio avrebbe potuto essere l’incapacità di comprenderli (o comprenderli solo in parte, e male) e di padroneggiarli; con conseguente banalizzazione, appiattimento o perdita di incisività di contenuti e principi. Forse, è la risposta, per lo stesso motivo per cui egli, di lingua e cultura anglosassone, decide di abbandonare la prosa in inglese e di scrivere un dramma in francese. Ovvero per un avvertimento di insufficienza al proprio sentire strutturale e linguistico; l’anelito a un superiore grado di esattezza, definizione, necessità.

Se la parola è ormai superflua, svuotata, “menzogna” (secondo una conversazione di Beckett con il cameraman Jim Lewis) e tale è il tessuto, il ritmo, il luogo privilegiato, la forma e il modo di trasmissione della parola, la via che Beckett percorre è quella dell’immediatezza dello sguardo, dell’immagine rivelata o dato visivo, del suono in sé non mediato né altrimenti tradotto.
Beckett notò, assistendo in televisione a riprese delle proprie opere teatrali, che lo strumento televisivo non era semplicemente un tramite, bensì un nuovo mezzo espressivo, che poteva raggiungere livelli diversi rispetto a letteratura e teatro e generare suoi propri significati. Si trattava di uno spazio “altro”, specifico; differente dalla pagina e dal palcoscenico per il quale elaborare appropriati testi da redigere in una lingua appropriata. Pièces, opera artistica tuttavia, non adattamento teatrale televisivo, non fiction. Uno strumento che offriva soprattutto il totale controllo della forma drammatica: non solo la possibilità di definire, con assoluta precisione, i movimenti della telecamera e degli interpreti (consapevolezza già evidente in Eh Joe); l’intensità e la durata di un suono, di un’immagine (ovvero il potersi esprimere in un linguaggio ritmico, numerico, quasi sensoriale); ma che anche determinava i modi dello sguardo. Proprio dello sguardo e allo sguardo certo, per esempio, attraverso la telecamera, era ormai l’avvertire di quel senso di tragico, di disperata ineluttabilità della fine e di impotenza delle grigie ombre dai lunghi capelli: che troppo, nell’evocare “vecchi sfatti” lasciati all’immaginazione, all’interpretazione di registi e costumisti, aveva forse già detto (scritto) senza mai comunicarlo abbastanza.
Beckett intuì la spietatezza della telecamera: che – per ferocia, brutalità, voracità ferina che proprie le sono (abitudine oggi del linguaggio mediale) – appropriatamente definì “Occhio Selvaggio”. Così come intuì il senso del replay all’apice che è Quad della produzione televisiva. Realizzato per la Scuola di Danza di Stoccarda nell’81, a pochi anni dalla fine, il videodramma è in un certo senso un testamento multimediale, una profezia di Beckett sul destino del nostro rapporto con i molti media(come, ancora nel 1958, predizione è il magnetofono personale di Krapp acceso “una tarda sera, nel futuro”), e un’entropia. Il tempo non è più ritorno eterno, forse Salvezza, come in Godot; il ripetere non è più parodia, destrutturazione – come in Commedia – in funzione di nuove, diverse possibilità; bensì replica, modulare e algoritmica. E seriale diviene ciò che si ripete; riproduzione, consumo. Il gioco (appunto play) è reiterato e ripreso all’indietro (play-back), da capo (re-play); ma non ha né protagonisti né soluzione. Quad può solo avere spettatori e, in definitiva, neppure questi sono necessari. Si chiede a chi gioca, e a chi guarda, di conformarsi e di rispondere ad uno schema, di entrarvi, accettarne le regole e assecondarne il ritmo. E inesorabilmente di divenire, infine, parte integrante di quello schema. La poetica, romantica condanna a “trovare il modo di passare il tempo, darsi l’impressione di esistere” di Vladimiro ed Estragone, nel passaggio attraverso le nuove tecnologie è svuotata di ogni lirica consapevolezza: diviene piuttosto un avvertire contemporaneo, reale, di una condizione che sa di meccanica e robotica ma pur sempre di natura antropologica.
Interessante è l’analisi – e questo è in parte l’intento del presente volume – dell’evoluzione di questaalfabetizzazione multimediale, da parte di Beckett e dei suoi più immediati e costanti interlocutori (quali per esempio Alan Schneider), nel trentennio dal ’57 (l’esordio in radio con Tutti quelli che cadono) alla morte; che lo sorprende – pare – a metà di un progetto di remake di Film il cui protagonista avrebbe dovuto essere Vittorio Gassman.
Si pretende nella ricerca linguistica beckettiana “una coerenza e padronanza rigorosa, sempre ed immediatamente tesa a cogliere l’essenza del mezzo che usa, a basare l’espressione soprattutto, se non esclusivamente, su ciò che lo definisce e lo caratterizza; una scrittura che privilegia il suono nelle pièces radiofoniche e l’immagine in quelle per la televisione” . Ma questo è vero in parte; nei lavori più maturi: mentre – come per esempio si può ancora scoprire nel testo scritto di Tutti quelli che cadono, o nello script di Film – a principio di ogni tentativo con l’inusuale, altro medium rispetto al teatro, alla prosa, incertezze impedimenti e ripensamenti (di natura tecnica, soprattutto) se ne trovano. Che però non sminuiscono o mettono in dubbio il valore dell’opera; anzi – come le gag dei tre cappelli o i “passaggi di palla” di Vladimiro ed Estragone – dichiarano le intenzioni di Beckett circa lo specifico linguaggio adottato. Definiscono di passaggio in passaggio cosa è superfluo e cosa no; cosa è necessario.
Il numero e il movimento delle camere, la diffidenza nei confronti dell’effetto speciale, l’intensità (il buio) delle luci, la combinatoria delle entrate ed uscite di macchina, i passi, le percussioni: ognuno di questi elementi è portatore di significati e contenuti; ognuno, nella produzione multimediale di Beckett, ha assunto eloquenza “geroglifica” o, se vogliamo, geometrico-ontologica.

Copertina: Joseph Kosuth

Nuovi media nuovo teatro?
46

Le definizioni, la mutazione, gli schermi

Pubblicato su “Il castello di Elsinore”

Definizioni 
Virtual (Reality) Theatre (o VT o VTheatre o VR performance), Digital Puppet Theatre, Virtual Puppetry, Interactive Theatre, Augmented Reality Theatre, Artificial Theatre, Enhanced Theatre, Expanded Performance, Cyborg Performance, Cyber Performance, Mobile Performance, Digital Performance, Computer Theatre, Mixed Reality Stage, Real Time Performance, Instant Digital Theatre, Live Online Performance, Net Drama, E-Theatre, Internet Theatre, Net Theatre, Chat Performance, Id Theatre, Webcam teatro, Hacker teatro, Web Streaming Performance, Web-based Drama, Digital Story Telling, Telematic Performance, Performance in Remote Connection, Networked Theatre, (Computer) Mediated Theatre, Intermediated Performance, Hyperdrama, Interactive Generative Stage, Multimedia Interactive Performance, Intelligent Stage, Activation Space, Multidisciplinary Media Performance, Trans-media Performance, Electronic Theatre, Live Cinema, Interfaced Theatre, Image-based Theatre, Synesthetic Theatre, Crossmedial Performance, Fractal Theatre, Machinic Performance, Recombinant Theatre, Chromakee Performance, Mocap Performance

Queste definizioni possono dare un’idea, oltre che della corsa ai neologismi nell’ambito dei nuovi media, del variegato panorama di proposte – almeno terminologiche – con cui il multimedia digitale off line e on line è sbarcato sulla scena.
Forse dovremmo aggiungere anche la riformulazione della “drammaturgia” che diventa iperdramma ovvero “una nuova scrittura ipertestuale che utilizza le nuove tecnologie audiovisive, digitali e interattive”(1); o, secondo Marcel.lí Antunez Rocasistematurgia, cioè

“una drammaturgia che ha bisogno dell’informatica, basata sul principio della gestione della complessità del computer. La sistematurgia è un processo interattivo che indaga attraverso nuovi prototipi, un arco di mediazione che include l’interfaccia, il calcolo e i nuovi mezzi di rappresentazione; sta al servizio di una narrazione, di un racconto, di un organismo teatrale ma lo fa in maniera interattiva usando uno strumento ipermediale.“(2) 

Originali anche le definizioni dei nuovi tecno-interpreti, reali o virtuali: mediattore, cybernarratore, synthetic actor, digital story teller, hyperactor (3), networked news teller (4).
Flavia Sparacino parla di “mediattori” per definire “gli agenti software digitali dotati di intelligenza percettiva e di abilità espressive e comunicative simili a quelle di un performer” (5); Lance Gharavi parla invece di “agente aggiunto” (e conia il termine di VED, Virtual Environment Driver) per definire colui che nelle sperimentazioni dell’Institute for Exploration of Virtual Reality (i.e.V.R., fondato con Mark Reaney e Ronald Willis) manipola in real time l’ambiente di realtà virtuale e guida a vista sul palco, la navigazione del pubblico attraverso i mondi virtuali (6). I cambi d’abito o di personaggio sono anch’essi virtuali (7). I costumi prendono infatti forme insolite: protesi esoscheletriche, servo-meccanismi pneumatici, potenziometri, appendici elettromagnetiche o sensori di posizionamento. Osserva il digital stage designer Paolo Atzori:

Computer indossabili contengono protesi percettive, microcamere, microfoni, sensori ecc, la sua posizione, i suoi movimenti e persino certe funzioni vitali vengono costantemente registrate, con reti di sensori e sistemi di motion tracking e video capture, in-put che vengono campionati, elaborati ed eventualmente trasferiti come informazioni per altri sistemi, come, per esempio, reti neurali con programmi per il riconoscimento gestuale.” (8) 

In Italia resistono ancora il termini generici come “teatro tecnologico” o “scena digitale”, ma le definizioni inglesi e angloamericane sottolineano più propriamente alcuni caratteri chiave, in uno scambio (che qualcuno ha definito “dialogo tra simili”) fattivo tra teatro e digitale: l’ibridazione, la sinestesia, la multidisciplinarietà, l’ipertestualità, l’interazione-reattività tra soggetto-ambiente-pubblico, la nuova percezione aumentata dai sistemi informatici immersivi, la dislocazione spazio-temporale dell’evento, la connessione tra reale e virtuale, oltre alla specificità delle tecnologie e dei sistemi (ambienti interattivi, realtà artificiale, sistemi di captazione del movimento) e delle modalità di comunicazione e “trasmissione” usati (via modem, via streaming audio/video o via mobile). Ma soprattutto focalizzano il carattere “attimale”, istantaneo del digitale: il “qui e ora” della comunicazione teatrale diventa nella sua versione tecnologica il real time on site, on line, on air oltre che on stage, naturalmente.
In questo elenco c’è un elemento innegabile: l’impossibilità a classificare in una sola definizione onnicomprensiva una pratica, una tipologia d’arte in costante evoluzione e che a causa (o in virtù) della sempre maggiore sua tendenza alla transdisciplinarietà(9), sembra sfuggire a ogni tentativo di categorizzazione. Le opere d’arte digitali (media arts), come è stato rilevato da più parti (10), si rivelano infatti in una forma mutante e combinatoria: “ibridi, eterocliti, stratificati, multi-supporto” (11). Sollecitano esperienze plurisensoriali attraverso interfacce che richiedono una partecipazione fisica, intellettiva ed emotiva integrale, anche a distanza (12).
Il teatro interlacciato con il digitale va a delineare un vero e proprio “ecosistema” (13) fatto di simbiosi-innesti-migrazioni tra linguaggi e codici. Insomma, si inaugurano “un nuovo tipo di spettacolo, di percezione e di partecipazione” (B. Picon-Vallin) e un nuovo spazio di rappresentazione, inteso come “ambiente non più luogo neutro contenitore di eventi, ma spazio sensibile, estensibile, modellante e modulabile” (14).

Spesso però una modalità non ne esclude un’altra: progetti concepiti per sofisticati sistemi di realtà virtuale in scena possono prevedere contestualmente anche modalità più tradizionali; o reincarnarsi in forma di installazioni o di operazioni intermediali; o approdare in rete e collocarsi così potenzialmente dappertutto, in un “crossing” tecnologico che sviluppa modaliltà di attraversamento e di integrazione sempre più complesse e interminabili. Le cross-ibridazioni (15) o le commutazioni (Couchot) tra sistemi, scritture, dispositivi di visione e di ascolto, complice il comune codice digitale, sono infatti potenzialmente infinite. Come ricorda Andrea Balzola,

Il testo, o meglio l’ipertesto drammaturgico, il progetto scenico, la partitura sonora-musicale, l’installazione, il video, il software, lo spettacolo, non appartengono più a generi diversi ma divengono fasi di un processo aperto, tassello di un mosaico spaziale e temporale mutante, flessibile e comunicativamente forte”. (16)

Quello che ci interessa verificare è se i nuovi media stanno effettivamente cambiando anche il teatro, quali sono le nuove forme espressive di scrittura scenica, ovvero – per prendere spunto dall’interrogativo di Manovich: “Come possono le nostre nuove capacità – archiviare masse di dati, classificarli, indicizzarli, collegarli, ricercarli automaticamente e recuperarli istantaneamente – realizzare nuove tipologie di narrazione?” (17)

Nel cyber teatro il racconto diventa una tecnonarrazione (Giacomo Verde). I materiali vengono traslocati da un linguaggio a un altro (Peter Sellars, Motus, Xlab). E’ un teatro digitale che espande il concetto di presenza alle nuove possibilità di performance globale telematica e di teleazione a distanza (Electronic Disturbance Theater; Fake), che crea un dialogo interattivo e interdipendente tra attore, spettatore e immagine attraverso dispositivi multivisione e protesi esoscheletriche (Fortebraccio Teatro, Marcel.lí Antunez, Reaney-Gharavi). Sostituisce l’attore con una presenza virtuale ma non dimentica la tradizione e l’artigianalità delle macchine antiche (Lepage e Kentridge). Innesca virus nel corpo sociale in una prospettiva politica e interventista del teatro (Critical Art Ensemble). Infine, auspica una prossimità e un’interazione con lo spazio scenico inglobando il pubblico in un environment immersivo (Dumb Type; Granular Synthesis), sollecitando memorie e percezioni multisensoriali collettive (Studio Azzurro; Giardini Pensili) e percorsi narrativi non lineari, labirintici e rizomatici (Zonegemma, TPO), trasformando l’opera in un’esperienza relazionale e socializzante vissuta all’interno di un sistema aperto (l’hacker theatre di Giacomo Verde e Jaromil).

In questa prospettiva il palcoscenico è solo uno dei possibili teatri dell’azione performativa, che può estendersi (spazialmente e temporalmente) in più ambienti interconnessi: le piattaforme multitasking dove diverse applicazioni possono operare contemporaneamente, le community web, le mailing list e i diversi network telematici (wireless, telefonia, instant messagging), in una strategia di territorializzazione multipla che non ha precedenti.

MUTAZIONE, VARIABILITA’ E TEMPO REALE 

Per Lev Manovich la variabilità (conseguenza della rappresentazione digitale e della organizzazione modulare delle informazioni) è il principio base, la “condizione essenziale” dei nuovi media all’epoca della convergenza digitale (18). Questa caratteristica “mutabile e liquida” (Manovich) applicata alla materia teatrale ha dato vita a un serie di esperienze artistiche e addirittura a nuovi format – il live cinema (19) – che giocano sulla possibilità di intervenire grazie al digital processing (il trattamento digitale delle “immagini che rispondono” secondo Edmond Couchot) sul corpus delle immagini e dei suoni in real time, dando vita a “composizioni sceniche” in costante divenire.
La metamorfosi, l’intercambiabilità e l’interattività, insieme all’immediatezza, sono dunque la caratteristica dei nuovi media, esattamente come il teatro, caratterizzato, secondo la distinzione di Kowzan (20) da:
1) compresenza fisica reale di emittente/destinatario;
2) simultaneità di produzione e comunicazione.
Béatrice Picon-Vallin sottolinea la “trasformabilità tecnologica” della nuova éra, in cui il nuovo teatro sottomettendovisi, ritrova l’antica radice:

“Sottomettere il palcoscenico a questo principio di trasformabilità e non più soltanto a quello della riproducibilità, è una nuova prova che implica senza dubbio il rafforzamento della natura stessa dello spettacolo, effimero e che cambia ogni sera.”

Biosensori, sistemi di motion capture e motion tracking, convertitori di segnali MIDI: assistiamo alle più svariate tecnomutazioni digitali dell’attore, e contestualmente anche a quelle della scena, che indossa gli attributi altrettanto proteiformi e metamorfici della maschera elettronica: vere performing machines sono gli automatics ideati dalla Fura dels Baus che negli spettacoli interagiscono con gli attori sul palcoscenico e con il pubblico (21). Robot musicali sono quelli creati dal software e robot designer catalano Sergi Jordá per Afasia di Marcel.lí Antunez Roca: un quartetto di robot costituito da chitarra elettrica, violino, batteria e cornamusa suonano grazie agli impulsi generati dai sensori indossati da Marcel.lí Antunez, che consentono anche animazioni interattive sullo schermo. In scena compare una nuova macchina, umanizzata ed “emancipata”, che “non racconta più sé stessa ma che racconta” (Studio Azzurro); le sue inattese interruzioni permettono di “far rigenerare su un palcoscenico, quella vibrazione aperta all’imprevisto, alla casualità, ai tempi di reazione” (Studio Azzurro).
Performance con la macchina o addirittura della macchina “processore di media”, ovvero l’altra metà del palcoscenico, sono quelle dei gruppi Troika e Palindrome. Questi ultimi usano il software Eyecon ed elettrodi applicati al corpo (a uso di elettrocardiogrammi e elettroencefalogrammi) per controllare suono, luci e immagini: “Il performer deve “interpretare” il sistema interattivo così che i media siano veramente parte della performance live”.

Le performance si differenziano anche per il tipo di software, oggetto mediale (22) o “grafo” utilizzato. Per la gestione live dell’archivio di immagini Roberto Castello e Giacomo Verde hanno usato il programma Arkaos (normalmente in uso per concerti di vjing); Renzo Boldrini gestiva in sintonia con la propria narrazione le animazioni in Flash per Dg Hamelin; Davide Venturini creava in Photoshop i disegni per Storie zip, mentre il mixaggio live delle immagini e il lumakey creato in diretta in Elsinore e in The Seven Streams of the River Ota di Robert Lepage creava le suggestioni coloristiche in sincrono con la rappresentazione; per Animalie e Qual è la parola Roberto Paci Dalò ha utilizzato il software Image/ine di Steim creato da Tom Demeyer. Catherine Henegan con The Shooting Gallery realizza con la rete una networked performance 2006.

L’aspetto di regia audio si impone sempre di più sulla mera creazione di una “colonna sonora”. Voci e musiche di sintesi, landscape sonori, morphing audio in real time in relazione con le potenzialità e le simbologie della narrazione acquistano una rilevanza sempre maggiore. Come afferma Mauro Lupone sound design di Xlab:

“Considerando che il suono investe lo spazio e si svolge nel tempo, articolare processi di elaborazione della voce significherà anche agire sulla memoria e su processi di percezione e di ascolto. Non solo quindi modificazioni timbriche-morfologiche, ma anche azioni in cui si esplora il sistema in relazione ai concetti di spazio e di tempo: illusioni sonore o dissociazioni visive-sonore, tendenze entropiche e accelerazioni/rallentamenti psicopercettivi connessi all’informazione, memorie e sedimentazioni che riemergono, esplorazioni nelle zone di limen del suono, moltiplicazione delle sorgenti e dei movimenti spaziali ad esse associati“.(23) 

Per la cybernarrazione Storie mandaliche con ipertesto drammaturgico di Andrea Balzola, Lupone ha creato grazie al sistema di spazializzazione audio IMEASY una gestione direzionale quadrifonica live della complessa spettromorfologia che sottostava alle sonorizzazioni delle storie (24); nell’Ospite la compagnia Motus ha utilizzato un sistema simile di spazializzazione per la gestione in tempo reale, della traiettoria di 24 fonti audio (25).

SCHERMI: teatro o cinema (e TV)? 

E’ un dato di fatto che la scena digitale monitorizzata e cablata assomigli sempre più a un set televisivo o cinematografico, dato che da tempo ne ha ormai incorporato persino i codici, oltre che le definizioni (26). Se già negli anni Settanta Wilson si appropriava del linguaggio cinematografico (ripetizioni, ralenti, flashback, fermi immagine) bidimensionalizzando la scena, nel 1998 in Monster of Grace usava pionieristicamente come sfondo un film stereoscopico in animazione 3D. Alla fine degli anni Ottanta Robert Lepage portava in teatro con Le Polygraphe un vero e proprio “spettacolo cinematografico”: simulazioni di riprese, punti di vista insoliti come fossero inquadrature di una macchina da presa, applicazione del montaggio alternato alla drammaturgia, uso frequente del flashback e del flashforward. In The Merchant of Venice Peter Sellars introduceva intensi primi piani televisivi trasmessi in diretta nei monitor, che andavano a scavare l’interiorità del personaggio, mentre il BAG ricreava un set cinematografico con la messa in mostra teatrale degli effetti cinematografici (le macchine da truquage, come le definiva Méliès).
In Twin Rooms Motus lavora sulla diretta televisiva: l’incubo mediatico descritto da De Lillo in Rumore bianco si innerva nel tessuto organico dei protagonisti: perseguitati da un invisibile occhio satellite che li raddoppia tra specchi e pareti lucide e trasparenti: nella proliferazione di corpi che contrasta con la loro solitudine, incarnano l’incubo psicotico della videosorveglianza.
Nella scena organizzata spazialmente come una composizione a intarsio, il miglior esempio di integrazione di dispositivi multischermo con la scena è senz’altro rappresentato da The Seven Streams of the River Ota (1994) di Robert Lepage, primo lavoro nato in collaborazione con Ex Machina, l’equipe multidisciplinare da lui fondata a Québec City. La scena è strutturata come la facciata di una tradizionale casa giapponese, bassa e lunga, con sette schermi-pannelli trasparenti fatti di spandex su cui vengono proiettate (e retroproiettate) immagini video e ombre: l’effetto di “incrostazione” tra l’immagine video e corpo dell’attore e tra la figura e lo sfondo monocromo luminescente (quasi un chromakey) genera un surreale dialogo tra corpi e luce, e rende quasi alla lettera il senso più profondo dello spettacolo: il legame indissolubile tra Oriente e Occidente e l’impossibilità di cancellare dalla memoria collettiva l’Hiroshima della bomba atomica. La scena attraversata dalla luce del video diventa così una lastra “fotosensibile”, una scrittura di luce, metafora di un percorso di memoria, di illuminazione e di conoscenza.
La scena contemporanea ha sviluppato insolite modalità di proiezione su superfici diverse. Se Svoboda nel 1958 all’Expo di Bruxelles inaugurava la multiproiezione (il polyécran), oggi si ricerca l’effetto evanescente dell’immagine: proiezione su doppio strato di tulle con l’attore reale incastonato in mezzo o su materiali che mantengono una “memoria di forma”, e perfino su elementi naturali e gassosi come l’aria e l’acqua vaporizzata. Fabio Iacquone con il suo Digital Versatile Theatre sta sperimentando proiezioni su gas e fumo, ricreando il mito delle apparizioni fantasmatiche. L’artista visiva Paola Lo Sciuto prova a ottenere l’effetto di “miraggio nel deserto” con un sistema scenotecnico da lei brevettato.
La sfida più attuale è quella di restituire, grazie ai nuovi materiali di matrice polimerica e plastiche fotosensibili, volumetricità e tridimensionalità interattiva all’immagine, progettando nuove architetture immateriali e liquide, pieghevoli e arrotondabili, occultando in trasparenza la superficie piatta degli schermi di proiezione e la relativa cornice di separazione. Non ci si immerge più, non c’è più nemmeno bisogno di display a cristalli liquidi, occhiali con lenti binoculari o sistemi multimonitor per ampliare il campo visivo: ora sono gli oggetti a “fuoriuscire” dal loro mondo e ad affacciarsi direttamente nel nostro.

Kathleen Ruiz, AVA project, trans-media performance.

Nuovi sviluppi riguardano le avveniristiche tecnologie per i display che avvicinano sempre di più il teatro all’immaginario fantascientifico di Matrix e di Minority Report. Secondo le ottimistiche previsioni commerciali della Liquavista, neonata società della Philips specializzata nelle tecnologie applicate ai display, gli schermi LCD lasceranno presto il posto alla tecnologia O-led (Organic Light Emitter Diode, nata però già nel 1985) che si basa su strati di polimerici organici flessibili e elettroluminescenti interposti tra due elettrodi per proiezioni tridimensionali dall’effetto simil-olografico, che creano l’illusione di immagini sospese nel vuoto. Un’altra alternativa è l’Electrowetting Display, nato nel 2003: lo schermo è composto da particelle microscopiche sospese in un mezzo denso che dà simultaneamente la diffrazione, la riflessione e la trasmissione di tutte le lunghezze d’onda della luce.

L’elemento strabiliante di questa tecnologia è che la scena dietro lo schermo è chiaramente visibile nell’area nella quale non ci sono immagini proiettate. L’applicazione è per ora limitata al campo dell’intrattenimento (discoteche o concerti e parchi divertimento) o della moda (show room). Il gruppo rock Gorillaz, che ha legato la propria immagine in videoclip ai fumetti, ha letteralmente “mandato in scena” a suonare agli Mtv Awards alcuni dei loro personaggi a cartoni animati in computer graphics, con tanto di asta di microfono, basso e batteria, proiettati su un invisibile e impercettibile schermo (27), con effetto di immagine simil-olografica come avrebbe potuto immaginarla Dennis Gabor: l’evento è stato universalmente riconosciuto come punto di svolta della virtualizzazione dei supporti.

Ricorda Lev Manovich che se tutte le azioni avverranno in un prossimo futuro nello spazio del virtuale e della simulazione, lo schermo (ultima appendice della cornice, intesa come spazio fisico separato che impedisce il movimento di chi osserva) scomparirà del tutto a vantaggio di un effetto compositivo che ricerca, “scorrevolezza e continuità” (28):

L’apparato della realtà virtuale si ridurrà a chip impiantato nella retina e connesso via etere alla rete. Da quel momento porteremo con noi la prigione non per confondere allegramente le rappresentazioni e le percezioni (come nel cinema) ma per essere sempre in contatto, sempre connessi, sempre collegati. La retina e lo schermo finiranno per fondersi”. 

Ma per ora in teatro gli schermi, più che eliminati, si sono invece ingranditi. A caratterizzare la scena degli ultimi anni il fenomeno del gigantismoEnormi schermi delimitano la circonferenza dello spazio della rappresentazione in Ta’ziyé di Kiarostami, un’elaborazione teatrale che recupera un antico rito iraniano. Ugualmente enormi sono i fondali elettronici in alta definizione dell’Ospite di Motus, quello di Voyage e il ciclorama semicircolare di (Or), due spettacoli di Dumb Type; di Aladeen, di Gorky, le alte pareti avvolgenti come un gasometro di Granular Synthesis.

Del resto le gigantesche proiezioni ormai fanno parte del paesaggio metropolitano e costituiscono l’armamentario basico della pubblicità, raggiungendo formati terraquei (il maxischermo pubblicitario da 24 metri inserito in un dirigibile formato da centinaia di led luminosi che lo rende visibile a 4 chilometri di distanza). Anche lo show design li ha impiegati, anche se in modi sempre più creativi: vedi le straordinarie invenzioni videosceniche e luministiche di Mark Fisher per i concerti rock dei Pink Floyd e degli U2, quelli di Robert Lepage per il Secret World Tour e il Growing Up Tour di Peter Gabriel e quelli a led con software generativo degli United Visual Artist per i Massive Attack.


NOTE

“Il passaggio dalla macronarrazione lineare alla micronarrazione non sequenziale fa seguito a due innovazioni portate dall’evoluzione interattiva dei media. La prima è lo zapping, cioè l’uso televisivo del telecomando che frammenta la fruizione di un programma e consente una visione parallela di più programmi. La seconda innovazione, ancora più radicale, è quella aperta dai nuovi media digitali, on line come il web e off line come cdrom e dvd, dove lettura-visione-ascolto non sono più lineari ma sviluppano una navigazione non sequenziale e ipertestuale. Allora la scrittura drammaturgica o si frantuma caoticamente come nella narrazione destrutturata, oppure elabora delle unità testuali minimali e nomadi, ma compiute, che possono agganciarsi e sganciarsi nell’ipertesto spettacolare” (A. Balzola, Verso una drammaturgia multimediale, in A. Balzola-A. Monteverdi, Le arti multimediali digitali, Milano, Garzanti, 2005).
2 Intervista di Anna Maria Monteverdi a Marcel.lí Antunez Roca in www.ateatro.it .
3 E’ Claudio Pinhanez a dare una definizion dell’hyperactor: “Un iperattore espande il corpo in modo da far accendere le luci, attivare suoni o immagini su uno schermo nel palcoscenico; controllare la risultante sembianza laddove la sua immagine o la sua voce sia mediata attraverso il computer; espandere le sue capacità sensorie ricevendo informazioni attraverso cuffie o occhiali-video o controllare strumenti fisici come videocamere, parti del set, robot o altri macchinari teatrali” (C. Pinhanez, Computer Theatre in www.cybertsge.org; cit da Pericle Salvini, Tesi su Teatro e tecnologia, Università di Pisa).
4 “Il Networked News Teller è un attore di strada che porta con sé un computer indossabile con un occhio privato. Il computer esegue un programma che aggiorna le notizie costantemente sull’occhio privato dell’attore. Costruisce poi una pagina web che riporta la stessa notizia secondo i diversi punti di vista dei differenti news provider. Dopo aver scelto la notizia da discutere attraverso il suo occhio privato, il News teller interroga i passanti chiedendo la loro opinione. Il performer può recitare la notizia per strada basandosi sull’interazione con il pubblico e con le notizie che appaiono sul portatile… Questa ricerca tecnoartistica è direttamente ispirata al lavoro teatrale dell’attrice Anna Deavere Smith chiamato Twilight” (F. Sparacino, La realtà aumentata nella danza e nel teatro, in A. Menicacci-E. Quinz, La scena digitale. Nuovi media per la danza, Venezia, Marsilio, 2001).
5 F. Sparacino, La realtà aumentata nella danza e nel teatro, cit., p. 101: “Definiamo mediattori immagini video, suoni, discorso, oggetti testuali in grado di rispondere al movimento e al gesto in modo credibile, estetico, espressivo e divertente. I mediattori sono agenti software la cui personalità influisce non soltanto sul loro stato interno (sentimenti) ma anche sulla percezione del comportamento dell’interprete (intenzioni) e sulle aspettative riguardo a interazioni future con attori umani”.
6 Un resoconto dettagliato di Play di L. Gharavi, spettacolo in realtà virtuale dell’i.e.V.R,. è on line su www.ateatro.it n.101,
7 Ci riferiamo all’interessante progetto di teatro d’opera The Jew of Malta, libero riadattamento da Christopher Marlowe con musica originale di André Werner e uso di sistemi di motion tracking commissionato dalla Biennale di Monaco. Protagonista centrale è Machiavelli: le coreografie e la scenografia sono basate sull’idea che tutto ruota intorno a lui. Così la topografia dei luoghi e gli ambienti virtuali sono generati real time dall’attore che interpreta Machiavelli grazie a un sistema di rilevamento ottico del movimento. Pochi attori interpretano tutti i personaggi dell’opera e i rapidi cambi di costume (anche questi virtuali) sono possibili grazie a proiezioni di trame e stoffe sui loro stessi corpi. tracciati real time da videocamere a raggi infrarossi.
8 P. Atzori, Activation space, p. 347 in A. Menicacci-E. Quinz, cit.
9 Accogliamo il concetto di trasndisciplinarietà riferito alle arti digitali come l’ha espresso da Sally Jane Norman nel Rapport d’étude à la Délégation aux Arts Plastiques Ministère de la Culture (1997) dal titolo appunto«Transdisciplinarité et Genèse des Nouvelles Formes Artistiques »: «La transdisciplinarité est une notion polysémique par excellence ( . …) Avant tout, nous avons voulu que la transdisciplinarité serve de point de départ à un dialogue sur le rôle et la place de l’art, dans une société profondément transformée par les technologies de l’information et de la communication».
10 Cfr. Claudia Giannetti, Aesthetic paradigms of media art inserito nella rivista digitale Media art dello ZKM www.medienkunstnetz.de; e inoltre E. Couchot-N. Hillaire, L’art numerique, Paris, Flammarion, 2003.
11 E. Quinz, cit.
12 Sul tema delle interfacce vedi il numero monografico Interfaces, “Anomalie_digital arts” n. 3, Paris, 2003; e inoltre L. Poissant (a cura di), Interfaces et sensorialité, Presses de l’Université du Québec, 2003.
13 Sull’ecosistema tecno-teatrale vedi l’introduzione di Anna Maria Monteverdi al suo Il meglio di ateatro-Teatro e nuovi media. “Con la parola ecologia – come è ormai dato acquisito grazie agli studi sulla fenomenologia di Merleau-Ponty, sull’epistemologia genetica di Piaget, sull’ecologia della mente di Bateson e sull’ecologia sociale e della cultura di Ingold – non si intende unicamente l’ambiente naturale circostante ma la relazione complessa tra gli elementi che compongono una certa “nicchia ecologica” (dunque animali, esseri umani ed oggetti tecnologici compresi) e la loro interazione sociale e ambientale. L’approccio metodologico “ecologico” si presta a nostro avviso a un’analisi integrata e non “riduzionista” degli elementi chiavi del tecnoteatro: ibridazione, connettività, scambio, simbiosi, interazione, rizomaticità. Dobbiamo inoltre a Bonnie Marranca il riferimento sistematico al teatro come “ecologia”: nel suo libro Ecology of Theater la studiosa americana fondatrice del “Performance Art Journal” offre una singolare interpretazione teatrale “ecocritica” dei giganti del teatro sperimentale degli anni Settanta-Ottanta: Wilson, Monk, Shepard, Breuer, Mabou Mines alla luce dell’idea di una “drammaturgia come ecologia”. Come è noto, inoltre, numerosi sono gli studi sul rapporto tra sistemi digitali, realtà virtuale e pensiero ecologico: l’ambiente virtuale come ecosistema digitale auto-organizzato, l’evoluzionismo tecnologico (Longo, Sini), la “connettività del sapere” e l’ecologia cognitiva di Pierre Lévy in base alla quale “non c’è più soggetto o sostanza pensante, né materiale, né spirituale… in una rete in cui dei neuroni, dei moduli cognitivi, degli umani, delle istituzioni di insegnamento, delle lingue, dei sistemi di scrittura, dei libri e dei calcolatori si interconnettono, trasformano e traducono delle rappresentazioni” (Lévy, 1992).
14 A. Balzola, cit.
15 Prendo in prestito questo termine assai chiarificatore da Derrick de Kerchove (“Perform Arts”, estate 2006).
16 A. Balzola, cit.
17 L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, p. 294
18 Un nuovo oggetto mediale non è qualcosa che rimane identico a se stesso all’infinto, ma è qualcosa che può essere declinato in versioni molto diverse tra loro: L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, p. 57 e seg.
19 Il vjng, trans-genere per eccellenza, è una performance video live che il digitale sta evolvendo in forme sempre più elaborate. E’ stato “nobilitato” anche nel nome, diventando live cinema: il prestigioso festival di arte elettronica “Transmediale” di Berlino edizione 2005 lo ha elevato al rango di altre storicamente forme di espressione tecnologica, ben più radicate, dedicandogli una sezione curata da Hans Beekmans (che ne è anche diventato il “teorico”). Molto diffuso in ambiti artistici oltre che nell’area dell’intrattenimento musicale, il vj come il dj – che facut’n’mix e scratching di tracce musicali preesistenti tramite campionatori- usa o mixer analogici o programmi digitali di gestione

LA WALHALLA MACHINE: LEPAGE e WAGNER
45

Lepage l’inarrestabile: dal Cirque du soleil a Wagner.

Pubblicato su Interactive Performance e su Carte Sensibili e in A.M. Monteverdi, Rimediando il teatro con le ombre, con le macchine, con i new media, La Spezia, Ed. Giacché, 2012.

Un successo senza fine

Chi visita il sito ufficiale di Ex Machina, la struttura di Robert Lepage con quartier generale a Québec City, fa fatica a crederci. Il numero di allestimenti e produzioni (concerti, spettacoli di prosa e d’opera, installazioni luminose, proiezioni videoarchitettoniche, pubblicazioni fotografiche d’arte) che la R. L. inc. firma annualmente è impressionante, come impressionante è il numero di spettacoli in tournée contemporaneamente in tutto il mondo da anni, cosa assolutamente impensabile per qualunque produzione italiana.
La Face Cachée de la Lune (che ha debuttato nel 2001) è di ritorno da un tour in Grecia, Andersen Project (realizzato nel 2005) è stato negli States nel 2012, Le Dragon Bleu è ora in Canada, Eonnagata in Giappone, The Nightingale and Other Short Fables in Olanda, Lypsinch in Australia, mentre New York ha chiuso l’anno 2011 con Il crepuscolo degli dei a firma di Lepage al Metropolitan.

Nel giro di pochi anni Lepage ha firmato uno spettacolo di ispirazione shakesperiana (The Tempest), interpretato da nativi in esclusiva per una regione del Canada, il Wendake; una gigantesca proiezione videoarchitettonica sui silos del porto di Québec City per i 400 anni della fondazione della città (The Image Mill) e due scenografie per il Cirque du Soleil (compagnia internazionale di nuovo circo con base a Montréal, fondata nel 1984 da Guy Lalibertè e Daniel Gauthier). Si tratta di Totem (2010, set designer Carl Fillion) Ka (2005, spettacolo stabile al MGM Theatre di Las Vegas; set designer Mark Fischer, l’architetto che ha firmato anche i concerti dei Pink Floyd e degli U2; una scheda completa suWikipedia).

Ma la vera fatica titanica lo ha visto impegnato, a partire dal 2008, nella regia dell’intera tetralogia wagneriana per il Metropolitan di New York diretto dal maestro James Levine. Il ciclo dell’Anello dei Nibelunghi è stato inaugurato la scorsa stagione con Das Rheingold e Die Walküre, è proseguito con Siegfried  nell’ottobre 2011 e si è concluderà nel gennaio 2012 con Die Götterdämmerung; l’intero ciclo verrà riproposto al MET nella sua interezza tra il 25 aprile e il 2 maggio 2012. Ogni produzione di Lepage è un evento accolto con enorme entusiasmo dal pubblico (ma non sempre con eguale entusiasmo dalla critica), a cui seguono girandole di premi, riconoscimenti prestigiosi che a loro volta attirano nuove commissioni milionarie. Anche il MIT di Boston lo ha recentemente insignito di un premio, l’Eugene McDermott Award in the Arts.
E’ passato molto tempo dall’epoca in cui, per finanziare i suoi primi film negli anni Novanta, come ricordava in un’intervista, era irritato alla sola idea di andare a chiedere finanziamenti per i suoi progetti artistici, a un “civil servant“. Oggi sono le grandi Fondazioni, i teatri internazionali a contenderselo a suon di milioni di dollari.

L’opera: a great meaning place
Nonostante il notevole cambio di scala rispetto ai palcoscenici e al pubblico degli inizi, la coerenza artistica di Lepage è degna di nota. Il regista e interprete quebecchese trasporta temi, motivi e idee del teatro di ricerca in territori a esso insoliti: negli stadi per i megaconcerti pop o nelle opera houseper i classici della musica lirica, veicolando in spettacoli per il grande pubblico la profondità narrativa, la visionarietà immaginifica e l’ingegno tecnico che caratterizza i suoi spettacoli teatrali. Le sue scene impongono anche un certo impegno acrobatico agli attori/ballerini/cantanti: la struttura metallica ideata per il Growing Up Tour, che si staccava da terra per salire verso l’alto, obbligava Peter Gabriel a cantare a testa in giù; in Ka gli artisti precipitano dall’alto di una piattaforma; nel ciclo wagneriano i cantanti cavalcano imponenti quanto virtuali cavalli, in bilico su una struttura alta otto metri.Nella piattaforma ideata per la tetralogia di Wagner è il movimento stesso della macchina scenica (insieme con le luci e le proiezioni) a creare una drammaturgia e un interessante dialogo con l’attore: alzandosi verticalmente, disponendosi perpendicolarmente essa evoca molteplici “luoghi”: montagne altissime, profondità marine, campi di battaglia. Quando si attraversano altri territori dell’arte la qualità della ricerca teatrale non si disperde, ma si estende ai diversi luoghi dello spettacolo, modificandone le convenzioni:

I’ve worked a lot with Peter Gabriel; his music isn’t operatic, but he creates big, popular gatherings to which architecture, dance and music are all invited. Opera needs a major makeover; the large opera houses are too in thrall to their conservative patrons. Opera should be a place for art forms to meet. It includes music, litterature, architecture, set designing, fine arts, choreography. Opera is a great meaning place.”

E’ proprio nell’ambito dell’opera che Lepage si è cimentato per la prima volta con la sua sperimentazione scenica più ardita, un’architettura in grado di accogliere immagini 3D ed effettistica cinematografica: l’ha utilizzata nella regia de La Damnation de Faust da Berlioz nel 1998 (rimasto in repertorio all’Opera di Parigi dal 2000 al 2005).

 

Per la regia del ciclo wagneriano, Lepage ha chiamato a collaborare, oltre al solito Fillion, anche i collaboratori tecnici, artisti, videomaker, i creatori di effetti visivi, persino i produttori esecutivi del Cirque du Soleil, forse gli unici in grado di garantire un allestimento all’altezza di un teatro dalla fama colossale come il Metropolitan di New York.
Anche Josef Svoboda disegnò le scene della tetralogia di Wagner Der Ring des Nibelungen, e addirittura per tre volte: al Covent Garden a Londra (1974-76), al Grand Théâtre di Ginevra (1975-77) e al Théâtre Antique d’Orange, in Francia (1988). La versione londinese, in cui lo scenografo cecoslovacco utilizzò il laser, è quella più vicina alla ipertecnologica versione di Lepage. E tra Svoboda e Lepage non bisogna dimenticare la versione “techno” dell’Anello dei Nibelunghi a firma della Fura dels Baus. 

Nella versione del 2008 de L’anello dei Nibelunghi per il Metropolitan di New York diretto dal maestro James Levine, Lepage vi aggiungerà anche un sistema di motion capture che cattura i movimenti dei cantanti e integra attori e immagini in una scena dall’aspetto di un enorme videowall. Un modo, come lui stesso racconta, per “tentare di illustrare l’energia della musica di Berlioz, estenderla non decorarla“. La tecnologia amplifica l’energia della musica perché:

“The survival of the art of theatre depends on its capacity to reinvent itself by embracing new tools and new languages. In a way, innovators in both arts and sciences walk on parallel paths: they have to keep their minds constantly open to new possibilities as their imagination is the best instrument to expand the limits of their fields.”

 E’ impossibile dissociare Lepage dal suo giovane e altrettanto geniale stage designer Carl Fillion, con il quale crea da sempre quelle macchine sceniche per le quali è universalmente acclamato. Con lui ha dato vita al mondo d’ombre viventi e video di The seven streams of the river Ota, al dispositivo roteante di Elsinore, il marchingegno per il suo più folle progetto di one-man-show; ai pannelli scorrevoli, specchianti e proiettabili di La face cachée de la lune. E’ Carl Fillion a spiegare il segreto con cui egli trasforma un’unica scena, da un’idea iniziale discussa insieme con Lepage, in un vortice infinito di luoghi:
I like to transform the scenic environment by creating elements that move and turn, on stage, in full view of the audience. My main visual signature as a designer can be found in the way I sculpt the space and keep it in motion.
 
 Per la regia del ciclo wagneriano, Lepage chiamerà ancora Fillion e si trascinerà dietro proprio i collaboratori tecnici, artisti, videomaker, i creatori di effetti visivi, persino i produttori esecutivi del Cirque du soleil, forse gli unici in grado di garantire un allestimento all’altezza di un teatro dalla fama colossale come il Metropolitan Square Garden di New York.
Per l’atmosfera del Crepuscolo degli dei la scena si libera di ingombranti oggetti per ospitare un unico monstrum leonardesco che sembra uscito dalle mani di un alchimista d’altri tempi, un erede naturale della fantasia avanguardista di Svoboda. La flessibilità e la trasformabilità, come in tutte le scenografie di Lepage, sono le caratteristiche primarie di questaWalhalla Machine e respirano insieme con l’attore che le sovrasta. Nel corso dell’intervista contentuta in Wagner’s Dream, lo stesso Lepage rivela che l’idea della macchina che contiene tutti gli ambienti gli è venuta in mente pensando all’Islanda, alla sua formazione vulcanica e tettonica, alle sue crepe e solchi dovuti alla lava, agli avallamenti e insieme alle enormi montagne, concentrati tutte in uno stesso paesaggio, tra ghiaccio e fuoco. Ancora una volta, come già accadeva in Elsinore, anche se in scala decisamente più ridotta, e poi anche con Ka, il gigantesco dispositivo progettato per il Cirque du Soleil in cui l’attore recita mentre tutto è in movimento, la macchina ha una conduzione “manuale”. La tecnologia precede: inventa, dispone, prepara, ma a guidarla è la mano dell’uomo. Ecco allora il protagonista incontrastato della scena, l’enorme macchina progettata da Fillion per l’intera tetralogia, vera opera di ingegneria meccanica, fatta di 45 assi di 9 metri di fibra di vetro ricoperta di alluminio, mobili autonomamente l’uno dall’altro e che si sollevano e ruotano a 360° grazie a un complesso sistema idraulico che permette un gran numero di forme differenti, diventando la spina di un dragone, una montagna o il cavallo delle Valchirie
Gli attori-cantanti, spesso meno agili e longilinei degli atleti del Cirque du Soleil, sono collocati sopra la struttura in posizioni davvero difficili: in alto, in bilico, scivolando sulle assi, arrampicandosi. I cantanti hanno anche dei “doppi” in veste di acrobati, che li doppiano nei movimenti troppo complessi.
La prima scena del Rheingold, con la famosissima ouverture con l’arpeggio in miB (che introduce il leitmotiv dello scorrere del fiume, delle onde, in un crescendo di strumenti), è il preludio alla scena delle Ondine, le figlie del Reno custodi dell’oro del loro padre. Questa scena ha sempre destato molte preoccupazioni per i registi, a causa della difficoltà di immaginare una scena che si svolge sott’acqua. In alcuni casi l’acqua è realmente presente in teche trasparenti in cui le Ondine sono sommerse (come nella versione della Fura dels Baus), ma di solito per simulare le onde vengono utilizzate stoffe azzurre, facilmente eliminabili dalla scena (come nella regia di Marininski per il Covent).
Lepage immagina tre sirene che scivolano in questo azzurro elettronico, con leggerezza, calandosi dalla macchina, nuotando o lasciandosi andare a corpo libero con il solo aiuto di una fune; intorno a loro una proiezione piccole pietre di mare e bollicine. Lepage spiega che:
“What happens in Das Rheingold is that we’re in a world of mists and lightning, and fire and water, an elemental realm. That’s why the set is morphing into these elements that remind us of rocks and spines. As we move on, and the Ring tells the story of demigods and human being and eventually of society, and social classes and ranks, the set slowly moves toward architectural propositions.”
 L’inclinazione dei piani si presta a un gioco di voli di scale che fa ricordare i disegni di Adolphe Appia per Wagner.
I movimenti dell’architettura di scena (costruita da Scène Éthique di Montréal) avvengono con intervalli da 5 o 10 minuti e sono controllati in parte a mano in parte da un computer. Un’uso – pare – strabiliante e fortemente realistico del 3D senza visori da parte del pubblico, è stato creato per le scene della foresta in Siegfried. Qua l’animazione con i movimenti possibili della macchina.
 Così Lepage:
It was important that we create a theatre machine that would be similarly versatile—a set that had its own life and could actually go through different metamorphoses but, at the same time feel very organic. Very early on, we decided to create a spine to the set that allows us to move things and articulate things. So the set is actually not only illustrating some of the ideas in the Ring, but it’s also literally supporting the characters and the ideas…it was important for us that the set be very nimble, very flexible, very adaptable, and alive, so that it not only moves, but it also breathes”.
 La chiameranno la Walhalla machine, qua in azione per la Cavalcata delle Walkirie. E, da vera diva, strappa applausi a scena aperta. Ecco il trailer ufficiale del MET di New York:
 Sulla superficie di questi assi che somigliano a tasti di un gigantesco pianoforte e che nei movimenti ricordano un po’ i mostri fantasy di Dune, vengono proiettate immagini in videomapping, a mostrare alberi della foresta, caverne, le acque del Reno. Sono state usate sia immagini statiche che immagini interattive, quest’ultime ottenute grazie a un sistema di motion tracking da telecamere.Réalisations con Maginaire inc., hanno realizzato gli effetti video 3D e interattivi gestiti dal software Sensei.
La macchina scenica complessiva è di tali proporzioni e di tale pesantezza (45 tonnellate) che il Metropolitan ha fatto sapere di aver rinforzato il palcoscenico. I giornali hanno parlato di “un’affascinante combinazione di complessa tecnologia e semplicità estetica”, “traditionale e rivoluzionario” ma anche di una produzione “troppo simile a un musical di Broadway” mentre il N.Y. T. va giù ancora più pesante e titola la recensione: Ring V/s Spider man.
Produzione dunque, che rimarrà negli annali anche per l’impiego di una tecnologia avanzatissima e per il numero straordinariamente alto di tecnici e progettisti, e di conseguenza, per essere forse uno dei più costosi allestimenti teatrali di tutti i tempi (si parla di sedici milioni di dollari). Cosa che non sembra aver preoccupato molto Peter Gelb, general manager del Metropolitan dal momento che ha venduto l’esclusiva della diretta HD ai teatri e ai cinema di quaranta Paesi. Per Lepage, dunque, un sold out esteso a tutti i media del pianeta.
Per chi non ha potuto vederlo dal vivo al MET può comunque vedere lo spettacolo in video grazie al cofanetto di 5 dvd appena messi in distribuzione per la Deutsche Grammaphone. Il costo non è per tutti, ma è sempre minore del biglietto per lo spettacolo teatrale (che arrivava fino ad alcune migliaia di euro). Nel cofanetto i 4 dvd corrispondono alle quattro opere (pur legate in un unicum come voleva Wagner, dalla storia, la saga germanica dei Nibelunghi) ovvero Das RheingoldDie WalküreSigfried,Gotterdämmerung. Il quinto dvd è il documentario Wagner’s Dream”: più che raccontare il processo creativo, mostra il dietro le quinte (o meglio, in questo caso, il “sotto le quinte”) della mostruosa macchina tecnologica progettata dal mago delle scene di Lepage, Robert Fillion.

The nose di William Kentridge.
44

La Rivoluzione è un naso a cavallo.

Il progetto di William Kentridge per un allestimento teatrale basato sul racconto di Gogol’ del 1836 Il naso (Nos), tratto dai Racconti di Pietroburgo, risale al 2008, quando l’artista sudafricano si imbatté per caso nel racconto dello scrittore russo nella libreria di un aeroporto, come racconta nel programma di sala.

Non una commissione da parte di un teatro, dunque, ma un’idea che Kentridge decise di condividere con il produttore Bernard Focroulle, allargando successivamente il progetto alla regia di un’opera musicale: quella composta da Šostakovič[3] nel 1930, al suo giovane esordio operistico, ispirandosi proprio al racconto di Gogol’. Il debutto di The Nose, con la direzione musicale del giapponese Kazushi Ono e con le scene animate di Kentridge, risale al 2010 al Metropolitan di New York. Il baritono russoVladimir Samsonov interpreta la parte del protagonista.

Kentridge, si trova perfettamente a suo agio negli allestimenti d’opera, vedi le mirabili scenografie per Il flauto magico di Mozart e per Il ritorno di Ulisse in patria (da Monteverdi): le sue stesse opere animate (i famosi Drawings for Projection) e le videoinstallazioni prevedono nella maggior parte dei casi, più che dialoghi, montaggi sonori da musiche da camera o operistiche.  Kentridge “reinventa” il medium cinematografico attraverso un’insolita riscrittura del linguaggio che unisce l’arte del disegno a obsolete tecniche di animazione passo uno, allontanandosi dagli automatismi del mezzo tecnico e dai mirabolanti effetti della postproduzione computerizzata più attuale, guardando a Mélies più che a Walt Disney.

L’opera di Šostakovič prevede più di sessanta personaggi in dieci quadri scenici divisi in tre atti, un intermezzo e un epilogo. Sono quaranta i musicisti nella fossa orchestrale e quasi altrettanti i cantanti (ventisette solo per la scena settima). Come riportato dal programma, il musicista russo, sodale di Vsevolod Mejerchol’d all’epoca del teatro sperimentale di Mosca, “immagina una forma costituita da scene corte ma numerose, incatenate secondo una logica quasi cinematografica, portandoci nei diversi luoghi di San Pietroburgo“. Cinematografica, nel senso che molte scene sono giocate quasi simultaneamente in diversi punti del palcoscenico, come in un frenetico montaggio (associativo o contrastivo) di situazioni.  Cinematografica anche nella costante giustapposizione di elementi sonori anche contraddittori, dissonanti. Tutta la scena, in verticale e in orizzontale, in esterno e in interno, in profondità e in superficie, con palchetti sopraelevati, scale, piattaforme e praticabili di legno (che ricorda la scena costruttivista di Ljubov Popova per Le cocu magnifique di Crommelynck con la regia di Mejerchol’d, 1922), è impegnata a raccontare una vicenda che sembra scaturita dalla fantasia di qualche proto-surrealista. Sono invenzioni originali di Šostakovič le frenetiche e folcloristiche atmosfere da spettacolo di massa, il balagan (nel XVIII e XIX secolo l’arte dei menestrelli, saltimbanchi e venditori ambulanti, parte della cultura popolare russa) che fanno di quest’opera lirica poco rappresentata, un capolavoro di quello che viene chiamato lo style russe.

La trama, che sembra anticipare tanto il teatro dell’assurdo di Ionesco quanto le metamorfosi kafkiane, vede un assessore del collegio, Kovaliov, coinvolto in una vicenda paradossale ma descritta in modo assolutamente realistico: una mattina l’uomo si trova senza il naso mentre il suo barbiere se lo ritrova dentro un panino. L’uomo si precipita a fare un’inserzione sul giornale, che gli viene però rifiutata, vista l’assurdità della richiesta. Kovaliov inizia a cercare la parte del suo corpo che si era allontanata: senza di essa si si sente depauperato del proprio potere e della propria dignità, caduto nel ridicolo, e perciò impossibilitato a frequentare “la società”.

Finché un giorno l’Assessore del Collegio Kovaliov non si imbatte nel proprio naso, che nel frattempo è diventato Consigliere di Stato con tanto di divisa sgargiante, cappello con piume e bottoni d’oro. Lo ritrova prima in atteggiamento devoto in chiesa, poi acclamato dal popolo in una parata ufficiale, trionfante a cavallo. Ma non può fare nulla, nemmeno avvicinarsi perché in fondo, rispetto al suo naso, lui è pur sempre di rango inferiore! Il problema, così come è nato, scompare all’improvviso: inaspettatamente una mattina il naso viene ritrovato da un funzionario di polizia mentre stava prendendo la diligenza per Riga. Così il naso ritorna al suo posto. Alla fine del racconto, Gogol’ spiega che “simili fatti accadono nel mondo, raramente ma accadono”. 

Al racconto di Gogol’, Šostakovič aggiunge personaggi originali, come il servo di Kovaliov che nell’opera lirica ha una sua autonomia espressiva musicale popolare (suona la balalaica); o la figura grottesca del Dottore, che prima di riattaccare il naso a Kovaliov tenta di comprarlo. Inserisce anche situazioni corali, come le concitate scene della caccia al naso e quella degli avvistamenti di nasi in piazza, in cui troviamo una folla di ambulanti, affittasedie, una venditrice di dolci molestata da militari, e una sfilata di personaggi appartenenti ai più diversi strati della società russa: studenti, poliziotti, cocchieri, colonnelli… Ogni personaggio è associato a uno strumento: il Naso (tenore) a un flauto, Kovaliov (baritono) al corno e allo xilofono, il barbiere al contrabbasso.

Molte sono state nel tempo, le interpretazioni del racconto gogol’iano: oltre a quella freudiana, centrata sulla virile paura dell’evirazione, la più convincente rimane quella della satira grottesca della società zarista che l’autore mette alla berlina raccontando l’ascesa e la caduta del potere di Kovaliov: è forse questo il motivo per cui un autore dalla forte consapevolezza politica come Kentridge non poteva che guardare con interesse ai risvolti attuali del racconto di Gogol’, scritto alla metà dell’Ottocento. Anche la biografia di Šostakovič ha sicuramente giocato un ruolo chiave per Kentridge: la sua opera Lady Macbeth di Minsk fu messa sotto processo da Stalin, ritirata per quasi mezzo secolo e l’autore condannato. Passate le purghe staliniane, Il naso ricompare sulle scene solo nel 1974, a un anno dalla morte del musicista, quale parziale risarcimento morale.

   Kentridge inizia a lavorare ai due maggiori temi visivi ricavati dal racconto di Gogol’ (con l’aggiunta di altre interpolazioni letterarie) e al modo in cui renderli in scena: il naso e il cavallo. Un motivo ricorrente è la scala; elemento che nasce, come raccontato da Kentridge, dopo la visione del film d’avanguardia del 1930 The Life and Death of a Hollywood extra dove una comparsa cerca con tutte le sue forze di far carriera a Hollywood. Così Kentridge:

 La comparsa sale i gradini di una scala e precipita ritrovandosi di nuovo all’inizio della scala, riprova la salita e ottiene ancora lo stesso risultato, una sorta di fatica di Sisifo.Allo stesso modo io ho setacciato tutta Johannesburg cercando una scala adatta per le riprese di una particolare scena senza ottenere risultati e finendo per utilizzare la scala del mio atelier. Questa soluzione di ripiego si è rivelata poi perfetta e adatta allo spettacolo per la sua somiglianza con il podio di Lenin. Arrivato a un certo punto della lavorazione di quest’opera, non sono più riuscito a capire quello che ho utilizzato per lo spettacolo e quello che è diventato spettacolo[4].

Il naso gigantesco ha una sua dignità, un suo portamento, una sua autorevolezza. La sua massa informe ricorda quella disegnata da Alfred Jarry per il suo Ubu. La sua strana e ingombrante forma di cartapesta viene calzata in scena dal cantante-interprete (il tenore Alexandre Kravets) come fosse una maschera.  Anche il cavallo è stato oggetto di numerosi studi preparatori da parte di Kentridge, che ha lavorato in particolare sul tema iconografico del cavallo quale simbolo di autorità e potere (come si ritrova nelle varie statue equestri di condottieri dal Rinascimento in poi). Pur ispirandosi al monumento equestre di San Pietroburgo, però, l’artista sudafricano raffigura un cavallo anti-eroico che compie il suo dovere senza rubare la scena al naso con la sua imponenza. Sugli schizzi per il cavallo, spiega Kentridge:

 Quanto specifici devono essere dei pezzi di cartoncino affinché noi possiamo riconoscere ciò che vediamo? Una testa, una curva per il collo, qualche linea dritta per le gambe ed un ghirigoro per la coda è tutto ciò di cui abbiamo bisogno non solo per convincerci che stiamo vedendo un cavallo, ma per impregnare il cavallo degli attributi dell’animale vivente e delle immagini associate. Così mentre tentavo di fare cavalli minimali o residuali, cercavo anche di fare cavalli anti-eroici. Dei cavalli che avrebbero avuto il diritto minore possibile di essere sui monumenti[5]

 Durante i vari anni di progettazione dell’opera, Kentridge ha dato vita a un mondo abitato da disegni e incisioni di nasi a cavallo, seduti al caffè, nasi con gambe, nasi che stanno in piedi su compassi, nasi come condottieri o come teste in corpi di donna, e poi ancora teste di cavallo come quelle disegnate da Leonardo o come ronzini donchisciotteschi, inseriti in contesti molteplici. Kentridge infatti li colloca in arazzi ricamati a mano, in forma di collage sopra carte geografiche, li realizza in metallo a guisa di sculture tridimensionali anamorfiche, come ombre, o disarticolati nei singoli pezzi del corpo e poi riversati in filmati video animati. Questo universo di progetti, bozzetti, disegni, acquerelli, carboncini dei protagonisti e dei diversi personaggi del racconto, sono testimoniati nel catalogo della mostra Kentridge: 5 Themes: in questi anni, hanno alimentato diverse situazioni artistiche ed esposizioni che non hanno più nulla del lavoro preparatorio per la scena, ma sono già opere compiute a sé.

Tipica è la modalità artistica di Kentridge, aperta a integrare diverse tecniche ed espansa verso nuove e ulteriori traiettorie espressive: un universo di creazione che anche per The Nose, andrà ad abitare indifferentemente le installazioni, le mostre, le performance, le conferenze-spettacolo. Come per la piéce da camera Telegrams from The Nose, l’installazione videoFragments round The Nose o quella su quattro pareti contigue I am not me the Horse is not mine, in cui Kentridge non si sottrae al divertissement di animare i cavalli con la tecnica dello stop motion e di inserire sé stesso nelle animazioni, nonché di “trattare” spezzoni di film russi con l’aggiunta di scritte e colori[6]. Kentridge parla di uno spettacolo in forma di collage che aveva in mente di realizzare dopo aver letto il racconto di Gogol’:

 Avevo visto una produzione di The Nose, eccellente sul piano musicale, al Teatro Marinsky di San Pietroburgo, ma, durante la seconda parte, quando lo spettacolo entra nel vivo, ho notato che gran parte degli spettatori si è addormentata, come per proteggersi dal caos. In quel momento mi sono reso conto che la prima regola, per mettere in scena quest’opera è quella di seguire la storia: sapere dove siamo concretamente in qualunque cambio di scena, chi è la persona che canta, chi è il suo personaggio e cosa canta.[7]

Qua il trailer con intervista a Kentridge.

 In realtà di tratta di un vero cine-montaggio di sequenze agite dagli attori e di quadri visivi e animati senza soluzione di continuità; un esempio straordinario sono le scene realizzate contemporaneamente con scenografie materiali e ombre bidimensionali: il Naso entra nella diligenza ma il cavallo che lo traina è un’ombra. Oppure, nella casa di Kovaliov formata da un letto e un armadio, appare uno squarcio di luci e di panorami da una finestra che altro non sono che proiezioni in prospettiva sghemba. La scena è un gioco di scatole cinesi che contengono i diversi ambienti: gli interni e gli esterni del racconto, la Prospettiva Nevski e l’interno della casa del maggiore o la barberia; Gogol’ infatti non privilegia un solo aspetto e un solo personaggio, ma mostra una varia umanità inserita in un contesto urbano rumoroso, con le idiosincrasia dei soggetti tipici, i burocrati, i militari, il popolo.

Kentridge non disdegna un’incursione nell’arte d’avanguardia primo novecentesca: a imporsi come cifra stilistica dello spettacolo sono più l’atmosfera storica e il contesto rivoluzionario legato a Šostakovič che non all’epoca di Gogol’. C’è la Russia del Costruttivismo, del Suprematismo, del Transmentalismo, del Cubofuturismo, con citazioni quasi letterali da El Lissitzky (il quadro Colpisci i bianchi con il cuneoLa tribuna di Lenin), dai manifesti pubblicitari realizzati con la tecnica del fotomontaggio alla Rodčenko, da Tatlin (Il monumento per la terza internazionale) e soprattutto dalla scena cineteatrale di Mejerchol’d (La terra capovolta, 1928). Guardare a Mejerch’old significa guardare a quel teatro che ha realizzato per la prima volta nella storia l’utopia della “sintesi delle arti”. Bellissimo il sipario: insieme con la set designer Sabine Theunissen, Kentridge ha realizzato con minuziosa dovizia di dettagli un enorme collage fatto di ritagli di giornali, mappe geografiche, scritte in cirillico, figure di politici mutilati curiosamente del naso e macchine dell’epoca. La maquette è stata successivamente realizzata in stampa a dimensioni appropriate in uno studio professionale, il quale però ha mantenuto il più possibile una “modalità artigianale”.

Districarsi nell’universo dell’opera realizzata da Kentridge non è facile, ma è possibile rintracciare una serie ininterrotta di segni inconfondibili del suo lavoro: le parate, le processioni in nero, le ombre animate, contestualizzate nella Russia staliniana, abitano la scena di The Nose, riempita dalla musica a tratti privata del canto e della parola. Il tema visivo della processione e del corteo è un vero topos nel repertorio di Kentridge (le famose Shadow Processions), sviluppato nelle diverse tecniche e spesso associato all’ombra o a figure nere, simboli di azione, resistenza, riscatto. Anche in The Nose la scena della “processione nera” in chiesa è una delle più toccanti e potenti, ma questa volta si tratta di corpi di attori in carne e ossa che vengono mischiati a proiezioni animate di ombre e di silhouette di corpi in preghiera: è un komos contemporaneo che racconta un mondo sotterraneo e invisibile venuto alla luce, in grado di mutare la realtà in senso rivoluzionario.


[1] William Kentridge, artista visivo contemporaneo, nasce il 28 aprile 1955 a Johannesburg, Sudafrica.  Cresce in una famiglia di origine lituana ed ebreo-tedesca, in uno Stato diviso dall’apartheid. Dal 1973 frequenta l’University of the Witwatersrand, dove, nel 1976 consegue la laurea in Politica e Studi africani. Nel 1976 s’iscrive alla Johannesburg Art Foundation, specializzandosi nelle varie tecniche d’incisione e, contemporaneamente, inizia a lavorare come attore, regista e scenografo nella Johannesburg’s Junction Avenue Theatre Company. Nel 1981, lascia Johannesburg e si trasferisce a Parigi, dove studia mimo e teatro all’École Internationale de Théâtre Jacques Lecoq fino al 1982. Tornato in Sudafrica, abbandona la carriera da attore per dedicarsi completamente alla regia cinematografica, televisiva e al disegno. Il 1989 è l’anno del suo primo video d’animazione: Johannesburg, 2nd Greatest City After Paris, primo dei suoi celebri Drawings for Projections. Sono nove film animati e muti che raccontano le condizioni del Sudafrica durante la segregazione; animazioni create con uno stile inventato da Kentridge stesso basato sulla tecnica dello stop motion. Nel 1992 per la prima volta Kentridge collabora con l’Handspring Puppet Company all’opera Woyzeck on the Highveld. In quest’opera attori in carne e ossa sono affiancati da marionette di dimensioni umane inventate da Kentridge e gestite sul palco dalla Handspring Puppet Company. Nel 1995 collabora di nuovo con la Handspring Puppet Company allo spettacolo Faustus in Africa! di cui Kentridge stesso è l’autore. Nel 1994, in concomitanza con le prime elezioni generali sudafricane, che segnano la fine dell’apartheid, Kentridge realizza il film Felix in Exile; film che sarà esposto nel 1997 a Documenta X a Kassel insieme aHistory of the Main Complaint. L’attenzione da parte di un pubblico internazionale per Kentridge arriva proprio a Kassel e, nel 1998 a Bruxelles, viene allestita la sua prima retrospettiva europea. Tra il 1998 e 1999 ripropone l’opera teatrale di Jane Taylor Ubu and the Truth Commission lavorando ancora una volta con la Handspring Puppet Company, con la quale realizzerà anche Il Ritorno di Ulisse in patria. Nel 2005 reinterpreta il capolavoro musicale di Mozart, il flauto magico. Nel 2008 Kentridge presenta presso il Teatro La Fenice di Venezia l’installazione (Repeat) From the Beginning, dove viene trattato il rapporto tra teatro e musica. Nel 2009 il Time inserisce Kentridge tra le 100 persone più influenti del mondo. Tra il 2010 e il 2011 sono organizzate due sue grandi mostre itineranti che viaggeranno in tutto il mondo, la prima organizzata dal National Museum of Modern Art di Tokyo e l’altra: William Kentridge: Five Themes, organizzata dal Museum of Modern Art di New York.

[2] C.Alemani, William Kentridge, Milano, Electa, 2006, p.32.

[3] Dmitri Šostakovič nacque a San Pietroburgo il 25 ottobre del 1906 ma visse a Leningrado (il nome della città dopo il 1917) e morì a Mosca il 10 agosto del 1975. Importante personalità della musica moderna russa, si formò artisticamente nel clima politicamente e culturalmente acceso della rivoluzione sovietica diplomandosi nel 1923 in pianoforte e nel 1925 in composizione. Il clima familiare nel quale cresce il piccolo Mitja (come veniva chiamato dai parenti e dagli amici più intimi) risentì molto delle idee leniniste e contribuirà non poco a stimolare il suo spirito progressista, fino a coinvolgerlo di persona. Il suo linguaggio si rifà alla tradizione e alla cultura russa, mischiandola a una propria e originalissima visione artistica. Brillante, rapida e intensa, la carriera artistica di Šostakovič culmina con le opere Il naso (1930) e Ladv Macbeth di Mcensk(1934), fra cui si inserirono alcune felici composizioni come il Concerto per pianoforte, tromba e orchestra d’archi (1933) e la Quarta Sinfonia (1936). Soprattutto in queste composizioni il musicista rivela il suo stile tagliente, la forza di un’ironia spesso drammatica e la smagliante sapienza della tecnica, che contribuì a collocare Šostakovič non ancora trentenne, fra le figure più rappresentative della cultura musicale moderna. Dal 1936 la parabola artistica di Šostakovič si scontra con dure critiche politiche. Cresciuto con la Rivoluzione di Ottobre, credeva nel socialismo sovietico, e aderì  agli ideali del nuovo potere politico che aveva rovesciato l’ultimo zar. Ma nel 1935, la Pravda pubblicò un articolo sulla sua Lady Machbeth, dal titolo: “Caos anziché musica” a cui seguì il marchio definitivo di “formalismo” apposto dal regime alla sua Quarta Sinfonia.

[4] Dall’intervista in video contenuta nel documentario del Met.

[5] Intervista a Lepage per il documentario del Met.

[6] Molti dei materiali relativi alla produzione di The Nose e l’installazione I am not me the Horse is not mine erano in mostra alla Galleria Lia Rumma di Milano, in occasione dell’allestimento dedicato a Kentridge a Palazzo Reale e alle repliche del Flauto magico con scenografie di Kentridge alla Scala (2011).

[7] Intervista video per il documentario del Met.

Salve, sono il primo schiavo di BIT, testo di Giacomo Verde
43

Come si dà l’anima a un personaggio virtuale, di Giacomo Verde.

Pubblicato in A.M.Monteverdi, Nuovi media, Nuovo teatro, Milano, FrancoAngeli, 2011.

Bit è un burattino virtuale governato da un cyberglove, ovvero un guanto con sensori. E’ nato 15 anni fa e ha animato molte situazioni (al Museo della scienza di Napoli) e ora è diventato uno spettacolo teatrale per bambini (Bit, Bold e Biancaneve, produzione Giallomare Minimal teatro con Giacomo Verde e Renzo Boldrini). Bit fa parte del Progetto Euclide, ideato e coordinato da Stefano Roveda (Studio azzurro) dal 1993, con la collaborazione artistica di Giacomo Verde e attualmente gestito da Antonio Bocola di “E-tica: sistemi interattivi e interfacce naturali. Ha partecipato a Italian’s Got Talent, Canale 5.

Bit, e prima di lui gli altri personaggi virtuali della famiglia Euclide, sono stati creati dall’incontro con il pubblico. Ricordo che a volte provavo delle battute, prima di incontrare le persone, ma spesso poi, non funzionavano come immaginavo perché il rapporto che si stabiliva con la gente era diverso da come mi aspettavo. Specialmente i primi tempi. Adesso infatti quando “prendo in mano” un nuovo personaggio mi limito a inventare e provare le gag visive (le entrate, le uscite, le trasformazioni, le smorfie possibili) ma quasi mai le battute perché in effetti le battute me le suggerisce il personaggio nel momento dell’incontro con il pubblico. Anche per questo dico che sono il suo “schiavo”. In effetti quando animo Bit mi trovo a dire cose che altrimenti non direi, a fare battute o a sollecitare confidenze che con qualsiasi altra “maschera” (perché in effetti di una maschera elettronica si tratta, piuttosto che di un burattino) non potrei fare. Con Euclide-Bit ho potuto sperimentare il gioco della “comunicazione teatrale” fuori dai tempi e dalle tecniche imposte dal palcoscenico. Ho capito fin dall’inizio che non si trattava di fare uno spettacolo o di fare scherzi tipo “specchio segreto” (anche per questo abbiamo scelto io e Stefano Roveda, di tenere l’animatore sempre visibile) perché la possibilità offerta da questa “maschera elettronica” è quella di far “recitare” anche gli spettatori: è una maschera doppia che trasforma anche il pubblico da passivo ad attivo. Infatti i momenti più interessanti e divertenti, sono quando le persone dialogano con il personaggio dicendo di essere altro da quello che sono, o quando inventano spiegazioni fantastiche per rispondere alle risposte di Bit.
Sarebbe stato facile inventare delle gag tipo cabaret, ma siccome penso che una delle caratteristiche delle nuove tecnologie sia la possibilità di creare interattività, ho cercato di sviluppare il più possibile un altro aspetto della performance: per me la bravura di un animatore-schiavo di Bit, infatti, sta nella capacità di far giocare la gente, di farla parlare, di riuscire ad attivare la comunicazione e il dialogo anche tra le persone che si trovano di fronte allo schermo, nel riuscire cioè a mettere a proprio agio chiunque. L’animatore di Bit deve saper ascoltare prima di saper parlare e animare.
E’ incredibile quanto si possa rimanere in silenzio animando Bit; proprio come quando si parla con un amico: il silenzio è una pausa per far nascere nuovi pensieri e non un vuoto da riempire. Inotre mi sono accorto che, per animare Bit, bisogna anche avere dimestichezza con il mondo informatico, per due motivi: primo perché non si rimane intimoriti di fronte al computer che genera il personaggio; secondo, perché la gente pretende da un personaggio simile, di avere anche informazioni sui computer. Un’ultima caratteristica, ma fondamentale, è non dimenticare mai che il personaggio e l’animatore sono due cose diverse.

Una volta mi è capitato di salutare un bambino che si era fermato molto tempo a parlare con il personaggio. L’avevo fatto così, d’istinto, perché mi pareva ormai di conoscerlo e avevo l’impressione che anche lui mi riconoscesse. Ma mentre lo salutavo mi rendevo conto del suo imbarazzo nel rivolgermi la parola “fuori dal gioco”. In effetti lui aveva parlato con Euclide-Bit e non con me. Un altro esempio. A volte accade che qualche bambino non sia contento delle risposte o del comportamento del personaggio, allora viene al tavolo da dove lo muovo e mi chiede con un tono di voce e atteggiamento diverso da quello che usa con Bit, di far cambiare le reazioni del personaggio. Dopodiché torna di fronte allo schermo e continua a dialogare con Bit, quasi con la consapevolezza di parlare con un personaggio che usa un umano e non viceversa. Infatti l’umano è per così dire, lo “schiavo” di Bit.
Peccato che certi adulti non si rendano conto della bellezza di questo gioco!

Giac-BitNapoli

Hotel Pro Forma: Interview to Ralf Richardt Strøbech
42

Danish performance group Hotel Pro Forma: an interview to Ralf Richardt Strøbech, expert in animation and video montage

Hotel Pro Forma is an international laboratory of visual music performance and installations. The structure of the work is strongly anchored in music, visual arts and architecture and does not follow traditional theatrical structures. Since 1985 Hotel Pro Forma has produced more than 50 works shown in over 30 countries, ranging from exhibitions to performances. The artistic director is visual artist Kirsten Dehlholm. 

Laughter in the dark. The mind deceives (2014) from Vladimir Nabokov’s novel tells the story through a series of visual and audio effects. The audience experiences how their own senses are influenced and challenged in combination with the main characters. The world seen through the eyes of Charles Darwin forms the basis for the performance Tomorrow, in a year. In War Sum Up. Music. Manga. Machine 12 singers and a striking light design that give a powerful visual impression of the nature of war. Hotel Pro Forma’s striking visuals blend with pop-duo The Knife’s ground-breaking music to create a new species of electro-opera. The performance Cosmos+ will consist of a composition of live performance, projections, optical illusions, light, music, sound and text. Analogue actions and low-technology installations will be combined with interactive monuments and high-technology tools. Relief: a motion picture relief: in this performance that takes place on a two-dimensional screen, the audience is given headphones and taken on a journey to the Ukrainian harbour city of Odessa.Real-life stories based on interviews with the people of Odessa are intertwined with the writings of Nabokov to create a new self-understanding. Through the 3D sound-scape heard only through the headphones, the audience’s perception of 2 and 3D are challenged. Perception and reality are set in relief.

ANNA MARIA MONTEVERDI: Which is your personal artistic background and the theatrical and aesthetic models that influenced you and when you decided to be a part of the group?

RALF RICHARDT STRØBECH. Kirsten Dehlholm founded Hotel Pro Forma in 1985, I have been with HPF since I graduated from the Royal Academy of Fine Arts, School of Architecture, in Copenhagen. That will soon be five years since.
Back in the 90s, I worked briefly as an opera singer, and was in that way connected to the performance Operation: Orfeo, that toured already back then. Some years ago I was appointed artistic director, working closely with Kirsten on conceptualizing and directing the pieces, working also with stage design.
I have always been drawn to aesthetics that relied more on structure, texture and space than on psychological narrative, since I believe that it is better to make room for multiple emotions and comprehensions than to project them specifically. The somewhat abstract narration that exists in architecture is actually also my ideal in theatre.

ANNA MARIA MONTEVERDI: In your productions with Hotel Pro Forma theatre, film, video, light, music, images are conciliated in an ideal unicum dramaturgy; how do you project this type of multimedia performance: beginning from a previous text or mixing all your sources creating a performance text after the rehearsals only? 

RALF RICHARDT STRØBECH: Each performance has a different point of departure, or rather points of departure. It could be an existing text or fragment, a social condition, an existing space, a technology, a philosophical theme, or even a person. Sometimes combining two or more seemingly detached points of departure creates a space for navigation that is very productive. In the special case of the Relief-performance it was geopolitical and cultural changes in Eastern Europe that created the point of departure, but this was quickly combined with texts by Vladimir Nabokov and binaural (3D) audio technique to provide the right balance of supporting and contradictory elements to create a multilayered performance.
You are quite right in saying that the actual goal of the performances is to create exactly this unicum dramaturgy of separate elements. The finished piece tries to strike a balance between internal logic and external representation. A sort of world-building with opinions.

ANNA MARIA MONTEVERDI: Could you tell about the steps of a digital creation according to Hotel Pro Forma? And is there a single language which has more importance than the others?

RALF RICHARDT STRØBECH. Creating art in digital media very often is a problem of creating enough information to refer to external reality. Relief works with two kinds of digital creation, audio based and visual. In both cases the goal is to investigate the informational relief between the artificially created and the passively recorded.
Consider being in a street full of urban noise with your eyes closed. There would be a tremendous amount of information, cars, people talking, wind, animals, brooming of fallen leaves and putting up tables outside cafés. There would also be a fundamental acoustic situation that somehow portrayed the configuration of surrounding buildings as well as materials and even the position of the person listening. Normally your perception sorts out this chaos and points you to hear what you need to hear the most, e.g. to avoid being hit by a car or to spot your friend in the crowd. When you record reality to use in a performance, you need to do the cleaning up of reality in order to make the spectator hear something specific/intended. Now, creating this situation digitally from scratch is somehow the reversed situation. How do you get enough information into the rendering to make it reveal something other than its construction? How and what to put into the “image” to make it communicate what you want, perhaps even to approach itself to a “realistic” or multifaceted representation? This is really the subject matter of relief, exploring the gap between the recorded and the created, between too much and too little. In the case of visuals, I try to de-animate video, and to animate still photos, trying to see what happens to representation of reality as they approach.

ANNA MARIA MONTEVERDI: In Italy the digital performance as a genre is considered not so positive, too much “alternative”, nearer to visual arts than the theatre, so that the official theatres schedule very few digital projects. Is it that way also in Denmark?

RALF RICHARDT STRØBECH: It is very unfortunate that the distinction between visual arts and theatre is stressed so much, really it is to the benefit of no one. It would be much better if artists made pieces that drew on the means accessible – in the right way, at the right time, and for the right reasons. Unfortunately production realities, theatre profiles and audience expectations do not support this way of thinking, most people like to have an idea about what they will get before going to see something, also in Denmark. But it would be much better for everyone if we could gradually develop a broader attitude toward experiments and curiosity, going to the theatre to wonder and think together in the meeting between the artists and the audience through the performance.

ANNA MARIA MONTEVERDI: In Denmark does it exist a centre or a place for artistic researches in interactive media applied to the Theatre and doesn’t it exist any festival dedicated to them? 

RALF RICHARDT STRØBECH: As far as I know, there is no such place in Denmark. But it is very possible to work in mixed media on more traditional venues, and it is definitely possible on some of the open stages that exist. And it is not looked on as too “alternative” as such, but it definitely isn’t part of the mainstream either.

ANNA MARIA MONTEVERDI: Which are the most important examples of international digital performance group, near to your artistic experience?

RALF RICHARDT STRØBECH: I have really tried to figure out what to answer to this question, and I can’t really make my mind up. Naming any one group or person would somehow point in a direction, indicating the future of digital performance in general. But I really believe that the future lies in individual experiments, not connected with style and tradition or any one practitioner. Around the world, interesting things are going on, this is a field still very much in progress. Still, with this in mind, I could mention the Croatian group BADco whom I have met and seen on various festivals around Europe, and the Italian group Ortographe. I don’t know whether their work can be classified as digital performance as such, but it is certainly extremely interesting and points toward the future even if it does it with and through the past. Another extremely interesting artist is Tony Dove, based in New York, who really does an amazing job pushing the limitations of interaction in narration. But in every work of art, if done with sufficient care, love and brains, there will be something to investigate further and to fertilize your own imagination. Canonical answers just make everybody stare in the same direction, thus missing what is behind them.

ANNA MARIA MONTEVERDI: In a first glance some of your shows are similar as a structure to some of the best theatre pieces by Bob Wilson: as a matter of fact also in your works lights and images (and sounds) make the space and also Wilson began in architecture. Is it correct this parallelism? Which is the relationship between theatre and architecture in your show?

RALF RICHARDT STRØBECH: Architecture is the most important art form. It shapes our entire understanding of the world by giving us a space from which to look back onto the world. It is in this sense that the performances are architectural, they provide a platform for understanding much bigger issues. Understanding theatre as a form of architecture also liberates me from the linear dramaturgy of the progressive narrative, it is no longer a corridor with rooms on the side, but rather a free-flowing movement through inter-connecting spaces of meaning and ambience. Architecture is structured liberty, perhaps Robert Wilson would agree on this.

ANNA MARIA MONTEVERDI: Steve Dixon speaks about Augmented Stage for describing multimedia theatre. Is it correct as definition?

RALF RICHARDT STRØBECH: Unfortunately, I don’t know his theory, but the term Augmented Stage certainly sounds intriguing. The use of other media allows for different connotations altogether, new and old traditions are brought to the table. It means new possibilities for contextualizing, expanding the on stage as well as the off stage, and allows for treating time and space with more freedom and plasticity.

ANNA MARIA MONTEVERDI: How the rules of the director and the function of the actor and of the collaborators (and also of the audience) are changing in this new forms of theatre? Is it right to affirm that in a digital perspective the theatre is becoming more and more a collective creation?

RALF RICHARDT STRØBECH: Actually, I don’t think that the role of the director changes very much. Directing is a very personal matter, so how it is done is not depending on the used media so much as it is defined by the personal style and the subject matter at hand. Since using digital media is very often a very slow process (just think of the painstakingly slow business of frame by frame animation!), it involves “directing” the collaborators more in the pre-production, requiring a more defined idea to begin with, so as to not waste too much time as the deadlines approach. Digital art forms as a rule do not lend themselves easily to improvisation, at least not in my experience. Much effort is put into the technical aspects of the production, to make live feeds have an acceptable resolution, edited material to have the right relationships to the performance as a whole, and so on. The risk is, of course, that the performers slide to the background in this technical mayhem. The fact is, that no matter how much expression new media can bring to the stage, the performer almost inevitably provides the point of entry for the spectator, since identification with a person is so much easier than identification with, say, a vacuum cleaner.
As to the collectiveness of the digital performance, it really depends on how much technology you know yourself. If you know nothing of the possibilities at hand, you are clearly at the mercy / in the good hands of the person actually executing the required task, which can be a bad or a good thing respectively. The amount of collectivity has almost nothing to do with the medias used, it is only connected to the creative process and to how well you know and trust your team.

http://youtu.be/L_Hr-mtAFbo

ANNA MARIA MONTEVERDI: Which is the relationship between your works as installations and the theatre pieces? The spectator is involved in the work in the same way?

RALF RICHARDT STRØBECH: The most fantastic thing the classical theatre has brought the world, is to engage the audience emotionally in an almost unbelievable way, just think of the excruciating agony in Romeo and Juliet, the exuberant joy in The Tempest, the fathomless hopelessness in Uncle Vanya. The best thing brought by installation as an art form is the wonderful sensation of almost, but not quite, grasping the fundamental truths of the world with a side effect of incomprehensible beauty. The first relies on leading the spectator through a successive series of events, the latter on setting the spectator free to form his or her own quasi-narrative. Of course I am nowhere near obtaining those two things at the same time, but it actually is what I am striving for, the artistic drive, that make me want to make the next piece, always. It may sound impossible, beside the point, or pompous even, but I think it is good to have goals that are hard to reach.

ANNA MARIA MONTEVERDI: ”Relief” has three variations inside around a powerful central concept: it could be translated as: a) the human metamorphosis due to a personal choice b) the scientific sense c)the geopolitic sense. In all of these three meanings the figure of Nabokov is like a conjunction, a symbolic metaphora such as Ukraina. Could you express the starting point of the work? Do you consider it a politic work?

RALF RICHARDT STRØBECH: First came the ambition to make a piece about the geopolitical/cultural changes that happen in the active zones around the edges of well-defined entities (Europe/Russia). This was broadened to the abstract concept of the relief that of course has the somewhat disturbing dual meaning of something in-between and something clarified. Nabokov intuitively became a good friend in this field, since he, as you rightly put it, functions as a conjunction, he is an entity that functions well in these overlapping fields of sense, riding comfortably the agitated space between and on the dual concepts of reality/fictionscience/arteast/west, and belonging/annihilation. He seemed to provide a position where these pairs of concepts were no longer mutually exclusive, but rather different aspects of the same preoccupation. It is a political work because it is subjective, trying to develop an attitude on big issues, not because it tries to transmit a fixed message. In the end it is still up to the individual spectator to form his or her own opinion.

ANNA MARIA MONTEVERDI: In Relief you used 3D animation, historical images from the archives and interviews from the street and the actor as human being (the character Nabokov). Is it for making clear the different degrees of reality, the duality between reality/fiction? Do you think, in this case that the meaning is clear enough to the audience?

RALF RICHARDT STRØBECH: We tend to consider Film more real then Drawing. History more real than Anecdote. Passers by in the street more real than Actors, even though this is not necessarily so. Everything is real, you can only argue for a gradual relation to referential objectivity. So what you consider real is a matter of personal opinion. My hope was to make people see the reality of this, if not in an intellectual sense, then hopefully on a more subconscious level. I certainly don’t think that this meaning is clear to the audience, I rather think, that what they previously thought was objectively real is now a little bit more obscure.

ANNA MARIA MONTEVERDI: In the notes you speak about the importance of different levels of perception and during the show you used 3d sound, headphones for audience, and sophisticated audio-video systems. Is the “immersivity” through all the senses the real objective of the show?

RALF RICHARDT STRØBECH: If I drop a glass to the floor in front of you, you see the glass break and hear the breaking sound simultaneously. If you see the same thing on film, I can make the two cognitive inputs break apart, thus clarifying the artificiality of the media. It is difficult, if not impossible, to not think that either the visual or the acoustic input is the true happening and that the other is either too early or too late. Which event you consider true is highly individual. I split up sound and image to play with one of the most basic relief phenomena, that of similarity between visual and acoustic information. As the play moves on, the audience in general hopefully gives up comparing the two information and become immersed in the collected sensory information available. This is a clear objective, give up thinking and start sensing, but it is not the purpose of the piece, just another way to construct it.

ANNA MARIA MONTEVERDI: Hotel Pro Forma made a show about Andersen, also Robert Lepage did it and also Lepage was inspired by a biographical episode not so known, like you. Did you see this Lepage’s work? What is your opinion?

RALF RICHARDT STRØBECH. I did see it, yes, and I also rather liked it, it was very playful and imaginative. Using Andersen is just as much a pretext, for Lepage as well as for us, a kind of giant McGuffin to access other areas of interest such as narrationtheatre and imagination in the case of Robert Lepage, and individualitytravel, and imagination in the case of our production.

ANNA MARIA MONTEVERDI: The digital performance will substitute the traditional theatre?

RALF RICHARDT STRØBECH. I hope not! but I guess that the distinction will gradually diminish as traditional theatre will incorporate more and more technology, and, hopefully, digital performance will stop distinguishing itself so much from the classical, as I mentioned before there is merit in both fields. It is important that we learn from each other instead of creating artificial and fruitless wars.

More: Hotel Pro Forma: Nomadic Theatre Without Borders? by MILDA OSTRAUSKAITE

Cosmotaxi parla del sito AMM
41

Si parla del sito AMM! Sono ospite del Cosmotaxi di Armando Adolgiso! Merci!

“Per tutti quelli che lavorano nelle nuove forme teatrali, o studiano il rapporto fra teatro e nuovi media, c’è da pochi giorni in Rete una maiuscola, occasione per informarsi sull’espressività scenica dei nostri giorni e quella futuribile.
Quest’opportunità è data da un sito ideato e guidato da una eccellente studiosa e saggista: Anna Maria Monteverdi (in foto).
Esperta in digital performance e videoteatro, ha conseguito il dottorato di ricerca all’Università di Pisa in Forme della rappresentazione teatrale, cinematografica e audiovisiva studiando a Québec City presso la struttura produttiva di Robert Lepage.
Insegna Storia dello spettacolo all’Accademia di Torino e Digital Video all’Accademia di Brera.

Il suo website, alla ribalta dal primo gennaio, raccoglie quindici anni di scrittura on line e più di venti di ricerca teatrale allargata ai territori della performance tecnologica e del videoteatro. In mezzo ci sono quattro monografie e tre antologie pubblicate, ristampate, riedite anche in formato e-book.
Mi va qui di ricordare con piacere un intervento di Anna Maria Monteverdi su questo sito quando fu pubblicato il suo “Nuovi media, nuovo teatro. Teorie e pratiche tra teatro e digitalità”.

Ecco una dichiarazione che profila gli intenti della pubblicazione.
La scrittura critica mi è congeniale, ho nel pc decine di articoli inediti che voglio mettere on line e prima o poi diventeranno il nucleo di qualche nuovo libro. Ho sempre fatto così. La teoria dopo la pratica. Pratica da spettatrice. Da osservatrice creativa, come mi chiamava Giacomo Verde e il titolo mi piace! Il sito (che amplia il campo del precedente digitalperformance.it) ospiterà articoli già pubblicati (che verranno indicizzati tematicamente nella MonteverdiPedia) e nuove recensioni, still da spettacoli, eventi culturali, riflessioni. E’ anche un sito di supporto alla didattica perché inserisco materiali di studio, testi di conferenze e dispense visionabili dagli studenti dei miei corsi attraverso login. Ho aggiunto una pagina I LIKE dove segnalo siti interessanti, blog e materiale di comune utilità reperita in rete. Vorrei ospitare testi di altri studiosi, critici, liberi pensatori. Vorrei che il sito che fosse un collettore di pensieri teatrali sparsi senza gerarchie. Dedico il sito alla persona che in questi anni ha maggiormente guidato con il suo lavoro e il suo pensiero, la mia scrittura: l’artista Paolo Rosa, scomparso ad agosto 2013. Mi scelse nel 1994 per un volume di Studio Azzurro della Lindau che lui generosamente voleva fosse scritta da giovani critici sconosciuti. Condivisi la scrittura con talenti curatoriali, artisti e giornalisti del calibro di Andrea Lissoni, Fabio Francioni e Alessandro Amaducci. Sono partita da lì e non ho più smesso. Buona lettura!

 

 

Della presenza invisibile della maschera: Theatre du Soleil e Dumb Type
40

Voyage di Dumb Type e Le dernier caravansérail (Odyssées) del Théâtre du Soleil, di Erica Magris

Voyage di Dumb Type è il risultato scenico di un progetto artistico di lunga durata, nato all’indomani dell’11 settembre, nel cui ambito è stata realizzata anche una videoinstallazione intitolata Voyages. Lo spettacolo consiste in un’azione di poco più di un’ora, composta di diversi quadri fra loro indipendenti ed è fondato sull’interazione di tecnologie digitali all’avanguardia e movimenti di danzatori-attori. Dumb Type, infatti, è un collettivo giapponese di sperimentazione multimediale, nato a Tokyo nel 1984 e composto da artisti provenienti dalle arti plastiche, dalla danza, dalla musica, dalla videoarte e dall’informatica. Le dernier caravansérail del Théâtre du Soleil è il titolo di uno spettacolo composto da due parti: Le fleuve cruel e Origines et destins.  Insieme costituiscono un tutto unitario, che consta complessivamente di sei ore di rappresentazione. Il dittico richiede quindi agli spettatori un investimento di tempo, di energie (e di denaro!) molto forte e ne sconvolge l’intera giornata: nel periodo invernale capita di raggiungere il teatro verso mezzogiorno e mezza, quando il sole è alto, per poi uscirne a sera, avvolti dall’oscurità. Il Théâtre du Soleil è una troupe permanente guidata da Ariane Mnouchkine la cui ricerca, iniziata nel 1964, si fonda sul lavoro dell’attore, nella riscoperta e nella reinvenzione di forme teatrali occidentali e orientali, in un territorio di confine fra tradizione e avanguardia, fra internazionalità e radicamento nella società e nella cultura francese. Quest’ultima creazione si inserisce coerentemente nel percorso di Mnouchkine e del suo gruppo, da sempre impegnato nella realizzazione di un teatro storico e impegnato: tratta infatti del attuale e bruciante problema dei rifugiati, che fuggendo dai loro paesi devastati dalla guerra, si avventurano in cammini impervi e crudeli verso un Occidente sognato che in realtà non può o non vuole accoglierli.

Perché parlare insieme di due spettacoli all’apparenza così distanti ed eterogenei? Le forti emozioni suscitate dalle due rappresentazioni hanno sollecitato pensieri e interrogativi comuni. Le riflessioni sull’una e sull’altra opera si sono così intrecciate, costituendo un tessuto di questioni che coinvolge il teatro in generale, il suo valore e la sua funzione nel mondo contemporaneo. Una ragione profonda si trova al fondo della vicinanza di queste due creazioni, una rarissima presenza le unisce: la maschera.

Le dernier caravanserrail.

Mnouchkine ama spesso dire che nel Teatro con la T maiuscola la maschera c’è sempre, che può essere più o meno trasparente fino ad essere invisibile, ma c’è. Fernando Mastropasqua definisce la maschera un “grembo risonante”, il luogo di un “passaggio estremo” dal “tempo del vivere al tempo del morire”, che non è annullamento ma “assunzione di altre, irraggiungibili, desiderate identità” e “deifica potenza di creare enti, persone, mondi”. In ognuno di questi spettacoli la maschera c’è: maschera del digitale in un caso, maschera arcaica e tecnologica insieme della Babele dei luoghi e dei linguaggi nell’altro. Si tratta di una maschera che non si appoggia sul volto degli attori, ma che ingloba la scena intera. Il palcoscenico diventa uno spazio in movimento al servizio della metamorfosi dell’attore e dell’esperienza di rivelazione, liminale tra realtà e immaginario, vissuta dallo spettatore. Seguendo un percorso di comparazione critica delle due creazioni, tenterò di spiegare questo nodo, che è a mio avviso fondamentale nella comprensione del senso del teatro e che possiede una portata particolare per quel che concerne il rapporto dell’arte teatrale con le nuove tecnologie.

Voyage.Il viaggio: una corda tesa sul palcoscenico

La considerazione è sicuramente banale, ma entrambi gli spettacoli sono imperniati sul tema del viaggio, vale a dire dello spostamento, reale o metaforico, nello spazio e nel tempo. Essi condividono un’immagine scenica forte dell’attraversamento, del pericolo, del tramite che può unire un punto ad un altro: la corda tesa da un lato all’altro del palcoscenico. Nel secondo quadro di Voyage, due attori immersi nell’oscurità di una cavità sotterranea esplorano lo spazio buio con i loro caschi muniti di lampade.

Ad un certo punto iniziano a percorrer uno stretto cammino all’orlo dell’abisso, reso da una sottile striscia di sassi parallela alla linea del proscenio. In questo percorso obbligato, si tengono ad una corda tirata da un lato all’altro del palco, posta sulla verticale della striscia pietrosa. I due si incoraggiano e si rincuorano reciprocamente, si aiutano per superare il precipizio: ma uno di essi cade, la corda non l’ha salvato, e il sopravvissuto cerca invano di riportarlo alla vita con la sua danza. Le fleuve cruel si apre con una scena intitolata “Un passage”: i personaggi, devono traversare un fiume impetuoso, reso acusticamente da un frastuono di acque e visivamente da un telo plumbeo mosso da alcuni attori, che copre interamente la scena. Qualcuno è già passato, qualcuno è rimasto dall’altra parte. Il passaggio si fa attraverso una piccola imbarcazione appesa ad corda tesa da una parte all’altra. La scelta è di separarsi o di correre il rischio di essere inghiottiti dai flutti, e cadere in una separazione irrimediabile.

Per Dumb Type, il viaggio, come suggerisce l’indeterminatezza del titolo dello spettacolo, è una metafora della condizione umana contemporanea ed è affrontato da differenti punti di vista: da situazioni concrete, come il sistema delle comunicazioni aree, con le sue hostess militarmente e ridicolmente sorridenti, le esplorazione, le missione militare, fino ai viaggi della mente nei sogni e nella memoria fino al “viaggio” per eccellenza, il passaggio dalla vita alla morte e al distacco netto ed irreversibile che esso genera fra “chi è andato” e “chi resta”.

Le dernier caravanserrail.

Il Soleil si concentra, come abbiamo visto, su un volto particolare del viaggiare, trattando dei viaggi dei profughi. Ma come indica già la scelta del termine “odissee” nel sottotitolo, il Soleil non ha inteso costruire una cronaca né un documentario, ma di dare una voce poetica alle testimonianze raccolte da Ariane Mnouchkine, elevandole alla dimensione di “mito” della contemporaneità. Le vicende dei personaggi in scena, pur delineati con estrema precisione e concretezza, diventano il luogo di esperienze e di questioni che coinvolgono l’umanità nella sua dimensione esistenziale e sociale.

Il tema del viaggio si combina nelle due creazioni con la rottura della linearità dell’azione teatrale a vantaggio di una forma esplosa che renda conto del movimento caotico e dello spaesamento: scene separate in cui lo spettatore deve trovare un proprio orientamento personale, i propri fili conduttori, il proprio percorso. Il viaggio diventa quindi metafora a sua volta del teatro, dello spostamento insieme fisico e mentale che costituisce lo spettacolo teatrale per attori e spettatori. Viaggio percettivo dal cosmo all’inconscio nel caso dei Dumb Type, un viaggio nella memoria degli individui dimenticati e persi nelle strade del mondo per il Théâtre du Soleil. Il teatro si qualifica quindi come esperienza e come conoscenza. Torna alla mente il saggio di Walter Benjamin Il narratore e riaffiorano queste parole, a proposito della trasmissione dell’esperienza nella narrazione:

Il narratore prende ciò che narra dall’esperienza – dalla propria o da quella che gli è stata riferita -; e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia. Questa caratteristica della narrazione secondo Benjamin scaturisce dalla capacità del narratore di svolgere il suo racconto lasciando all’ascoltatore-lettore-spettatore il compito di relazionare gli eventi e la libertà di spiegarseli attraverso il filtro del proprio intelletto e della propria sensibilità:

Se l’arte di narrare si è fatta sempre più rara, la diffusione dell’informazione ha in ciò una parte decisiva. Ogni mattino ci informa delle novità di tutto il pianeta. E con tutto ciò difettiamo di storie singolari e significative. Ciò accade perché non ci raggiunge più alcun evento che non sia già farcito di spiegazioni. In altri termini: quasi più nulla di ciò che avviene torna a vantaggio della narrazione, quasi tutto a vantaggio dell’informazione. È, infatti, già la metà dell’arte del narrare, lasciare libera una storia, nell’atto di riprodurla, da ogni sorta di spiegazioni. Lo straordinario, il meraviglioso, è riferito con estrema precisione, ma il nesso psicologico degli eventi non è imposto al lettore. Che rimane libero di interpretare la cosa come preferisce; e con ciò il narrato acquista un’ampiezza di vibrazioni che manca all’informazione.

Il Soleil e Dumb Type hanno quindi costruito due forme di narrazione che, nella trasmissione dell’esperienza, hanno la capacità di coinvolgere sia la dimensione individuale che la dimensione collettiva degli spettatori, di coinvolgerne le corde più intime e di indurre degli interrogativi di portata sociale e politica. Nell’incontro dell’umanità trasfigurata della scena e dell’umanità comunitaria della sala riposa l’essenza dell’evento teatrale. Come afferma in una frase illuminante Elie Konigson, lo spettatore è uno sciamano, investito dalla società a percorrere il cammino di conoscenza del teatro: “Lo spettatore si trova in posizione intermedia fra la città e la scena, fra la società civile e la società teatrale (cioè scenica). Il ruolo propriamente sciamanico dello spettatore, questo delegato della città, verso i mondi impossibili dell’aldilà scenico, si esprime anche attraverso questi corpi in apparenza assopiti, immobili, presenza pesante del retro-teatro urbano, attento alle ombre mobili della scena“. Entrambi gli spettacoli agiscono in questo campo di intersezione di pubblico e privato, e fanno della scena il luogo altro in cui interrogarsi sulla vita e sul mondo.

Il teatro faccia a faccia con il mondo contemporaneo

Voyage e Le dernier caravansérail nascono entrambi dalla volontà di interrogare il ruolo dell’arte teatrale di fonte agli avvenimenti del mondo contemporaneo. Interessante a questo proposito è comparare i programmi redatti dal gruppo giapponese e da quello francese. Dumb Type scrive:

Un’atmosfera di opaca incertezza senza precedenti ci circonda. Addormentati o svegli, se cercate di dimenticarla e di paralizzare il vostro spirito, essa non vi lascia, come una seconda pelle di ansia e di paura. Simulate indifferenza, non resisterete a lungo, non ci metterete una croce sopra, come se si trattasse di problemi altrui o di eventi separati da voi dallo schermo della televisione. Molte più persone di quante possiamo immaginare si confrontano con un sentimento di crisi, lottando per trovare un nome per questa condizione. In queste circostanze, cosa potrebbe risultare più ridicolo e derisorio che delle innocenti “attività artistiche”? Dobbiamo chiederci incessantemente perché proviamo ancora ad esprimerci attraverso le arti dello spettacolo, perché perseveriamo nella nostra attività creativa. Abbiamo deciso deliberatamente di non ricorrere al linguaggio né di commentare in altro modo le circostanze che ci circondano attualmente. Cerchiamo di ritrovare una comunicazione reale senza utilizzare le parole. È possibile? Ancora una volta dobbiamo rimettere in questione l’essenza stessa dello spettacolo.

Hélène Cixous, la scrittrice da anni legata al Théâtre du Soleil, scrive nella premessa che apre il libretto-programma:

Oggi, nuove guerre gettano sul nostro pianeta centinaia di migliaia di nuovi fuggitivi, frammenti di mondi disgregati, brandelli tremanti di paesi devastati i cui nomi non significano più rifugi-riparo natali, ma rovine o prigioni: Afghanistan, Iran, Irak, Kurdistan…, la lista dei paesi avvelenati aumenta ogni anno. Ma come raccontare queste innumerevoli odissee? Quanti nuovi piccoli teatri bisognerebbe inventare per dare a ogni destino impazzito il suo effimero asilo? Come non sostituire la tua lingua straniera con la nostra lingua francese? Come conservare la tua lingua senza mancare di gentilezza e di ospitalità nei confronti del pubblico, il nostro ospite nel teatro? Come comprendersi col cuore senza comprendersi a parole? Come non appropriarsi dell’angoscia altrui facendone del teatro? Come non sbagliare per illusione o per paura di comprensione? Come dire tutto senza una parola? E se non ci riusciamo? È la domanda del rifugiato nel suo viaggio.

Il faccia a faccia con il mondo contemporaneo ha quindi costituito per entrambi i gruppi la scintilla che ha innescato il processo della creazione teatrale. L’imperativo della realtà pone al teatro il problema cruciale di trovare nuove forme di spettacolo, che le corrispondano e che sappiano dare un senso all’attività artistica. Come affermava Mejerchold agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso “il fattore principale che dalla scena influenza lo spettatore, la carica interna che noi gli dobbiamo fornire, il nucleo centrale di cui abbiamo voluto parlare è senz’altro il pensiero, l’idea, il contenuto è quel che passa da un cervello all’altro […]. Ma il fatto è che quando desideriamo che il nostro pensiero si travasi nella sala teatrale, che l’idea giunga allo spettatore e questi ne afferri il contenuto, dobbiamo perfezionare, affilare, rendere duttili e veramente efficaci i mezzi di espressione. […] La preoccupazione del “che cosa” implica la preoccupazione per il “come” “.

Sia Dumb Type sia il Soleil nel loro confronto fra “cosa” e “come” partono dalla constatazione dall’inadeguatezza del corrente linguaggio verbale. Tale punto di partenza esclude sia ovviamente la messa in scena di un testo teatrale preesistente sia una scrittura drammaturgica testuale appositamente messa a punto per lo spettacolo. È la scrittura scenica nel suo insieme a dover essere inventata, avendo sempre presente la necessità di rispondere adeguatamente al mondo. Le risposte date dal Théâtre du Soleil e da Dumb Type sono chiaramente diverse. Nonostante ciò, mi pare fondamentale che esse scaturiscano da un’esigenza forte e comune.

Dumb Type, proseguendo nel suo particolare percorso di ricerca, risponde con l’immersione, tanto del performer quanto dello spettatore, in un universo teatrale che si serve delle nuove tecnologie, per esplorare la nostra mente in reazione alla realtà. A livello spaziale, questo universo è determinato da uno schermo gigante, che ricopre il fondo scena e che viene duplicato dal pavimento a specchio, in un gioco di doppi e di inganni percettivi che riverbera nella sala fino ad immergerla nello spazio-tempo dello spettacolo. Il suono e la sua amplificazione sono altrettanto importanti nella definizione dell’ambiente teatrale, che viene a coincidere con il territorio di confine fra il dentro di noi stessi e il fuori del mondo. Lo schermo, su cui sono proiettate immagini ad altissima definizione o luci colorate nettissime, riflette la visione mediatizzata e digitalizzata del mondo che caratterizza la nostra epoca. La percezione digitale della realtà si trasforma sulla scena in organismo poetico, in cui la presenza dei performer ne innesca le vibrazioni. La compenetrazione dell’umano e del tecnologico è totale.

Nel quinto quadro una ragazza distesa al centro di un tappeto verde circolare posto al centro del palco, immobile, come se stesse dormendo, enumera con la formula “I wish I was” una serie di sogni, aspirazioni, desideri. La voce ci giunge mediata dall’impianto di amplificazione. Sul fondo dello schermo scorrono immagini bellissime di elementi naturali, probabilmente anche di sintesi, in cui i cambiamenti dell’inquadratura non sono più i movimenti della macchina da presa cinematografica, ma gli spostamenti propri del digitale. Queste visioni digitali acquistano un senso profondo nel momento in cui diventano la manifestazione dell’inconscio della figura umana sul palco (e delle figure umane nella sala), che, a sua volta, riceve il senso della sua presenza dall’ambiente tecnologico in cui è immersa. La stessa sinergia è evidente nel settimo quadro: gli attori si avvicendano in un ritmo lento al centro del palcoscenico con il viso rivolto al pubblico. Rimangono fermi, in piedi ed il loro corpo viene attraversato da parole: la pronuncia della parola genera un segno scritto fatto di luce, che scorre dall’alto verso il basso passando sugli attori. Le parole (“per sempre”, “adesso”, “una volta”, “ogni momento”, ecc.)evocano la temporalità della vita ed il suo inesorabile trascorrere in ogni istante: ogni attore, con essenziali gesti e espressioni minime, dà un vissuto a queste parole, la carica con le sue emozioni, le sue contraddizioni, le sue paure, i suoi interrogativi senza risposta e le sue incertezze.

La parola, con il suo duplice valore di segno sonoro e grafico, ha una fondamentale importanza anche nello spettacolo del Théâtre du Soleil. La maledizione biblica di Babele e la frammentazione dell’umanità in centinaia di lingue e di culture è uno dei fulcri su cui ruota la forma de Le dernier caravansérail. Gli attori si esprimono non solo in francese, ma anche in inglese, persiano, bulgaro, russo, e altre lingue che non sono stata in grado di riconoscere, e si muovono nell’impasto sonoro creato da Jean-Jacques Lemêtre, composto da musiche originali, da canti di altri popoli, dalle voci reali di chi ha raccontato la sua storia a Mnouchkine, e dai rumori a volte assordanti del mondo. La tecnologia rende virtualmente possibile il dialogo fra le parti eterogenee di questo magma linguistico: il passaggio dal suono al segno proiettato sul fondo del palco è infatti il passaggio da un idioma all’altro. La sincronia fra scritto e orale è il simbolo della possibilità dell’incontro.

Nella griglia costituita da questo insieme di suoni e parole, gli attori entrano ed escono dalla scena su carrelli mobili senza mai toccare col proprio corpo la superficie del palcoscenico: si tratta di piccole scenografie praticabili, il cui movimento sul palcoscenico vuoto induce lo spettatore ad una percezione multipla dell’azione teatrale, di ispirazione cinematografica. Il riferimento al cinema, ed in particolare al cinema muto, è molto forte, evidente anche nell’uso dei titoli proiettati sul fondo grigio ad introdurre ogni scena. Inoltre, i media entrano direttamente in scena in due sequenze che raccontano gli assurdi interrogatori subiti da un rifugiato kurdo in un campo di detenzione in Australia. L’interrogatore e l’interrogato comunicano attraverso una telecamera a circuito chiuso che trasmette in diretta da un set nascosto: noi vediamo il funzionario del governo australiano a mezzo busto su un carrello al centro del palco. Nella parete del carrello di fronte al pubblico è incastrato un monitor, su cui è trasmessa l’immagine del rifugiato. L’immagine elettronica e lo schermo diventano un’altra figurazione delle griglie e delle barriere, che trionfano nella realtà, ma che il teatro ha il potere di annientare temporaneamente proprio nell’atto di metterle in scena.

Voyage.

Dietro queste soluzioni complesse non c’è una mente unica, ma un lavoro collettivo. La valutazione dell’unione di “cosa” e “come” di cui stiamo parlando non può prescindere dall’esame del processo creativo. La dialettica fra mondo e teatro, fra individuale e collettivo che sono alla base del contenuto degli spettacoli e del loro rapporto con gli spettatori, si rispecchiano nei procedimenti della creazione. La creazione collettiva dietro una perfetta concertazione

Voyage, è il risultato del lavoro di sei sotto-gruppi della compagnia: ognuno di essi ha elaborato a suo modo il tema comune del viaggio. Ne è sortito un mosaico di scene, dai toni e dalle atmosfere molto diverse, che però stupisce per la coesione e per la perfetta sincronizzazione nella composizione dei diversi materiali utilizzati. Corpo, immagine e suono non sono posti l’uno accanto all’altro, ma sembrano scaturire contemporaneamente dalla stessa fonte di energia. Traspare inoltre l’urgenza dell’opera teatrale, un bisogno che si incarna ugualmente in ogni elemento dello spettacolo e che secondo me ne fa l’intensità. Anche il lavoro del Soleil è una “creazione collettiva”, portata al suo estremo. Un segno di questa radicalizzazione: se negli anni Settanta, nel periodo d’oro della creazione collettiva al Soleil, Mnouchkine poneva ancora il suo nome in locandina all’ultimo posto, ma sotto la dicitura “mise en scène”, in questo caso, tutti, attori, aiutanti, musicista e regista, sono ugualmente ritenuti responsabili della creazione ed inseriti in un lungo elenco in ordine alfabetico sotto la dicitura “Odissee raccontate, ascoltate e comprese, improvvisate e messe in scena da”. Nello spettacolo, lascia a bocca aperta come tutte le azioni e tutti gli elementi scenici siano perfettamente coordinati in un concertato in cui la troupe teatrale si trasforma in un’orchestra perfettamente accordata.

Mi sembra che entrambi gli spettacoli, posseggano quella organizzazione musicale del teatro di cui erano alla ricerca Appia, Craig, Meyerchold per creare la “nuova scena” del Ventesimo secolo. proprio grazie alla responsabilità comune del processo creativo, la sintonia musicale degli elementi dello spettacolo dà origine ad una partitura “calda”, in cui individuale e collettivo si fondono in un’intensa fonte di energia emozionale.

L’opera d’arte totale: composizione scenica e posizione dello spettatore

Per le complessità degli elementi messi in gioco sulla scena teatrale, per i modi della loro combinazione e per la loro perfetta concertazione musicale, Voyage e Le dernier carvansérail possono essere inseriti nella scia delle sperimentazioni imperniate sul concetto di “opera d’arte totale”, che ha suscitato le più interessanti ricerche del secolo scorso, come mostra il fondamentale volume curato da Elie Konigson L’oeuvre d’art totale (Paris, Editions du CNRS, 1995). La riflessione sulle possibilità e sulle modalità di realizzazione dell’opera d’arte totale portano gli sperimentatori più innovativi a superare la sintesi delle arti propugnata da Richard Wagner, perseguendo un distacco dalla mimesi della realtà ed il raggiungimento di una nuova teatralità. Fondamentale a questo proposito risulta il breve scritto Kandinski La composizione scenica del 1912, che, potremmo dire, esprime non solo le idee del pittore sull’arte scenica, ma anche le esigenze comuni e le aspirazioni che animavano i tentativi di riforma e rinnovamento dell’arte teatrale degli uomini di teatro della stessa epoca. Kandinski propugna una composizione scenica sinestetica, in cui a coordinare gli elementi della scena, il suono, la visione, l’azione non è un insieme di dati esteriori, quali ad esempio la trama e l’ambientazione, ma una serie di connessioni interiori. libertà di trasformazione continua dettata da una rete di connessioni interiori. Questa composizione astratta complessa, costruita su una libertà totale di trasformazione, attraverso l’utilizzazione di assonanze e dissonanze, di cooperazioni e di reazioni, non rappresenta la realtà, ma costituisce un evento spirituale di vibrazioni condivise dagli spettatori. L’attenzione allo spettatore e la sua inclusione nell’evento spettacolare, costituisce un altro aspetto caratterizzante della tensione all’opera d’arte totale fin dalle origini rinascimentali del teatro moderno, come ha sottolineato Elie Konigson. Egli riscontra due tendenze generali nell’arte teatrale occidentale: l’una riposta sul rapporto dell’attore con il testo, l’altra fondata su “uno spazio di azione teatrale che attinge le sue strutture fra i resti recuperati e riaggiustati della ritualità”.

Guardando storicamente a questa tendenza, Konigson afferma che “a partire dal Rinascimento, unitamente alla classificazione delle arti […] si verifica l’inclusione determinante dell’architettura come contesto e attore della collaborazione fra le arti. L’architetto, superando il ruolo assegnatoli, diventa regista e organizzatore della festa nell’edificio ecclesiastico, nel palazzo e in seguito, nel XVIII secolo nel monumento teatrale. In questo modo, l’apparato include per la prima volta anche il partecipante, fedele, cortigiano o spettatore, come elemento costitutivo dello spettacolo […]. Ciò che ci interessa è che nel seguito delle arti riunite, lo spettatore sia alla fine incluso”.

In Voyage e in Le dernier caravansérail l’inserimento dello spettatore nell’apparato scenico e la sua messa in vibrazione con la scena, si intrecciano alla scelta degli elementi di composizione utilizzati. Sia Dumb Type che il Soleil si preoccupano di costruire nello spettacolo la percezione dello spettatore attraverso l’integrazione sulla scena di elementi che costituiscono la realtà tecnologica attuale. Dumb Type, servendosi della proiezione di immagini digitali ad altissima definizione, di un sistema di illuminazione complesso e di un impianto di diffusione del suono estremamente potente, crea un ambiente immersivo, in cui la sala e la scena sono investite dalle medesime vibrazioni acustiche e visive. Significativo è il quadro in cui una danzatrice si muove in maniera scarmigliata davanti allo schermo su cui sono proiettati dei segnali elettronici impazziti, cui corrispondono dei fortissimi segnali acustici. Lo spettatore, coinvolto in questo delirio sensoriale, diventa il doppio immobile della danzatrice sul palco: uno stato di emozione e di ansia pervade la scena e la sala; la rappresentazione diventa una discesa nelle profondità travagliate e lacerate dell’interiorità umana. Il quadro conclusivo dello spettacolo, che chiude circolarmente lo spettacolo, perviene invece ad una diretta implicazione del pubblico nell’azione. Nella scena di apertura infatti, lo spettatore si trova davanti al palcoscenico scuro in cui spiccano tra sfere di luce al centro delle quali una ballerina compie pochi gesti lenti e ieratici. Tuoni, rumori di bombardamenti accompagnano i suoi movimenti in un crescendo del volume. Si diffonde una condizione di irrequietudine, di attesa, un’evocazione di cose terribili ma ancora lontane. Agli spettatori viene dato di guardare la terra dall’alto dell’universo. Questa distanza, alla fine del “viaggio-spettacolo” è irrecuperabile. Torna sul palco la stessa ballerina, a compiere i medesimi gesti sui medesimi suoni; ma questa volta sullo schermo e rfilesso nello specchio appare l’immagine di un mirino digitale, di quelli utilizzati dai moderni bombardieri per compiere “attacchi intelligenti”. Il mirino ruota su se stesso, punta strade, edifici, in un movimento circolare multiplo che ipnotizza lo spettatore. Spettatore che diventa ora carnefice, e la cui responsabilità nella storia viene invocata da un percorso visivo e uditivo vertiginoso.

Nel lavoro del Soleil, il punto di vista dello spettatore diventa una componente fondamentale della composizione scenica: esso è introdotto e moltiplicato sulla scena in una duplice maniera. Da un lato grazie ai carrelli mobile, al loro movimento, alle loro “finestre”, l’occhio dello spettatore acquista la molteplicità di prospettive della macchina da presa o della videocamera, e la capacità di concentrarsi ora sull’insieme ora sul dettaglio. Inoltre l’entrata e l’uscita dei carrelli per ogni singola azione, sottolinea il valore di “apparizioni” di questi brandelli di vita, che tornano a scorrere per brevi tratti sulla scena. Dall’altro, l’utilizzazione delle proiezioni di sottotitoli per la traduzione dei dialoghi e delle testimonianze registrate, genera una partizione dell’attenzione spettatoriale, che si divide fra parola scritta e parola detta, fra azione e scrittura. Infine la presenza del complesso impasto sonoro creato da Jean-Jacques Lemêtre genera un’ulteriore complicazione percettiva.

Per entrambi gli spettacoli le nuove tecnologie con i loro linguaggi e con i modi di percezione cui esse danno luogo, sono un punto di riferimento imprescindibile per creare una composizione scenica che tocchi il vivo della contemporaneità. La questione cruciale che essi pongono è però un’altra: il valore di maschera che le tecnologie devono assumere sulla scena per dare luogo ad una valida creazione teatrale.

Maschera e tecnologia

Voyage e Le dernier caravansérail mostrano che non è la quantità e la qualità delle tecnologie utilizzate sul palcoscenico ad essere fondamentale, ma il fatto che le tecnologie diventino un mezzo per dare respiro alla scena, per offrire all’attore una nuova base all’azione e alla trasformazione, per coinvolgere gli spettatori nell’esperienza teatrale.

Abbiamo parlato della maschera come cavità risonante e strumento di metamorfosi. Questa cavità, negli spettacoli di Dumb Type e del Soleil, diventa la scena intera, che da fissa diventa mobile, al contrario del volto che con la maschera da mobile diventa fisso. La maschera rende possibile un ribaltamento e un superamento della realtà nell’invenzione di un nuovo universo. Nel caso del Soleil, i carrelli diventano insieme l’essenza dei personaggi e l’occhio degli spettatori. Essi portano ad una trasfigurazione degli attori e ed evocano suggestioni profonde. I profughi, sempre in movimento, non sono in realtà liberi di costruirsi il percorso della propria vita. Le lingue parlate dai personaggi non sono un elemento di realismo, ma anch’esse sono una parte di questa maschera: nella loro presenza caotica sul palcoscenico e nel loro divenire scrittura francese sono l’emblema dell’incomunicabilità, della differenza, che il teatro può trasformare in un’effimera ma preziosa occasione di incontro e comprensione, facendo risuonare queste parole nel suo ventre ed trasformandole in scie di scrittura luminosa. In Dumb Type la visione digitalizzata del mondo diventa la maschera degli attori, che si muovono in quest’universo ove tutto è mediato dall’artificiale. Lo schermo e il palco, il gioco di riflessioni e di doppi percettivi, acquistano il loro senso nel momento in cui sono agiti dagli attori e condivisi dagli spettatori. Questi spettacoli hanno quindi creato delle maschere contemporanee che abitano la scena e invadono la sala, coinvolgendo gli spettatori in una partecipazione profonda, individuale e collettiva, agli eventi e alle lacerazione del mondo contemporaneo.

DUMB TYPE – VOYAGE

Nel cimitero del teatro, per stanare Carmelo.
39

Suggestioni critiche di Fernando Mastropasqua su A Carmelo, per il Bene di tutti di Erika Di Crescenzo/Cie La Bagarre.

 

La sensazione generale è quella di trovarsi davanti a uno spazio liminare nella stessa posizione in cui si veniva a trovare l’antico spettatore greco davanti alla skené una soglia che immetteva in un territorio proibito, dove solo il teatro ardiva avventurarsi, un luogo della morte, tanto è vero che qui si commemora (si cerca, si evoca, si tenta di scovare un fuggente morto del teatro).

Ma a differenza della skenè greca qui la scena è modernissima, anzi oltre la modernita (ignorandone pero la tecnologia piu avanzata e fredda e conservando la vecchia calda tecnica artigianale del teatro), una scena che costringa a evocare un altro grande morto del teatro, quel Gordon Craig che aveva pensato alla scena come luogo che agisce in combutta con l’attore, con la sua mimica gestuale, con il virtuosismo della sua voce, con la musica, una scena mobile ed espressiva, non decorazione né ambientazione, ma che si trasforma nel tempo dello spettacolo fino a diventare all’estremo limite la scure che distrugge lo stesso teatro come luogo fisico. Tale richiamo non può che stanare il morto commemorato che alla fine del suo processo artistico aveva risucchiato ogni arte del teatro nella pura phonè. La prima sensazione che si prova è proprio questa, quasi che un sottotitolo nascosto dello spettacolo (Per il Bene di Carmelo) potrebbe essere Stanare Carmelo, intrappolarlo nella rete delle quinte mobili in più e inaspettate direzioni, una scena in movimento che lo insegue, lo avvolge e dalla sua voce si lascia avvolgere: le quinte-letti funebri danzano nell’aria, a volte rivelano squarci di luoghi deputati, come il cimitero-orto, il pupazzo fissato a cantinelle in forma d’aratro, sostengono i corpi delle due attrici in azione o li abbattono come inesorabili ghigliottine; nel loro moto generano tenebre o lampi improvvisi, mostrano situazioni o fanno precipitare silenzi improvvisi e buio, accompagnando voci sorte dal nulla, abbandonandosi al ritmo di suggestioni musicali che piombano nell’area d’azione.

Tale luogo inaudito è il cimitero del teatro che accumula polvere e voci. Gli spiriti soffiano da punti diversi e spiriti forse sono le due attrici che agiscono in scena insieme alle quinte e alle luci: sono alla ricerca del morto fuggente, sono fantasmi che celebrano un rito notturno e ritornante, sostenute o spente dalle quinte mobili, aiutate o ostacolate da una tomba scrivania (metafora di sapienza teatrale) che esse stesse muovono, aggrediscono, percorrono, nascondendosi o salendovi sopra, mentre il terribile soffio vitale del morto in fuga le circonda, le copre, le esalta, le invade di infinita ironia; come quel ritratto dell’attore oppure la mano scheletrita che non può non ricordare il gioco cinico degli attori a Elsinore che si rimpallano le ossa di morti (Amleto di Carmelo Bene).

 Il rito non finisce con il (falso) finale: quando Flora muore e su di lei si abbatte e si stende come un sudario la quinta funebre, dopo gli inevitabili applausi e gli altrettanto inevitabili ringraziamenti e ripetute chiamate, lo spettacolo ricomincia, riprende un parlottare, un duettare, un misurarsi, un nuovo viaggio sulla scrivania in quel cimitero nutrito da morti sapienti e nutriente, in quel cimitero che produce fiori, ma anche ortaggi, cibi dello spirito della carne, della vanità e della gloria narcisistica, come anche dell’umile ma necessario mangiare, della contadina fatica, dell’affiorare dalla polvere morta del ritorno della vita eccessiva del teatro. Tra gli oggetti simbolo fondante, che appare in posizione diverse e in rapporto prima all’una e poi alla seconda attrice, è infatti la vanga, che dissoda il terreno che scava, che copre e diseppellisce. Come non pensare alla scena dei becchini nell’Amleto di Shakespeare? Altri oggetti si palesano in scena in funzioni diverse, come il cannocchiale, il cimitero-orticello, i cespi di fiori, il pupazzo retto da cantinelle in forma d’aratro, illuminato da un’alzata di quinta, ecc.

Il falso finale potrebbe far pensare a uno spettacolo circolare che finisce per riprendere da dove è iniziato; in realtà il movimento non è circolare, perché si ricomincia ma da un nuovo punto, ovvero da una nuova scoperta, da una nuova fuga dell’attore morto, eccetera. E’ piuttosto un movimento a spirale, per cui il cerchio non si chiude ma si muove per dare forma a un nuovo cerchio che ugualmente non si chiuderà, ma guadagnerà un livello superiore. E’ il moto del labirinto. E nello stesso tempo, direbbe Henry Miller, è un insulto all’arte. E questo sarebbe piaciuto molto a Carmelo.

Cie La Bagarre

Fernando Mastropasqua, già docente associato di Storia del Teatro all’Università di Pisa e di Antropologia teatrale al Dams di Torino, ha pubblicato numerosi saggi e volumi sul teatro greco, sulla regia moderna, sulle feste della Rivoluzione francese e su Carmelo Bene. Tra i titoli: Metamorfosi del teatro, Maschera e rivoluzione, In cammino verso Amleto. E’ nel comitato scientifico di “Critica d’arte”, storica rivista d’arte visiva creata da C.L.Ragghianti.

Hypersurface and mediafaçade: URBAN SCREEN
38

Pubblicato su Digimag

Lev Manovich once said that the deep change which is affecting culture in the era of computerized media revolution also concerns space and its representation and organization systems. Space becomes a media itself: just like all other media – audio, video, images and text – nowadays space can be transmitted, stored and recovered in a snapshot. Space can be squeezed, re-formatted, changed into a flow, filtered, computerized, programmed and interactively managed (L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media). Manovich also said that if all actions take place in a near future within the virtual and simulation space, the screen – which is the last appendix of frame perceived as divided physical space that prevent the observer to move – will completely disappear in favour of a shaded compositional effect which looks for “fluency and continuity”.

The virtual reality will reduce to a chip implanted in the retina and connected to the net through aether. From that moment on, we will bring with us our prison, not to happily confuse representations and perceptions (like in cinema), but to be always in contact, connected, linked. Retina and screen will end up being the same thing.

Screens have not been eliminated but rather widened. The main feature of scenes in the last years was in fact the phenomenon of gigantism. People speak about “hyper surfaces”, “interactive media facades” when referring to those permanent or temporal architectural walls, aimed at hosting bright and coloured surfaces, mega projections and plasma screens. Giant projections with images and writings are part of the metropolitan landscape and form the basic of advertisement equipment. Digital signage reach enormous and terraqueous formats (e.g. the 24 m advertising maxi screen put on an airship and visible from 4 km). The ultimate medialization of urban context is nearer than we believe and corresponds to the great dimensions of advertisements of the great distribution: megastores, supermarkets, fairs, non-places we go through and patronize everyday and which are the subject of Stefano Boeri and Vittorio Gregotti’s book – sponsored by Marc Augé – “La civiltà dei superluoghi” (The society of super places). According to Simone Arcagni, the experiential dimension of public space, squares, stations and undergrounds is linked to the more intimate, individual and television one through multidimensional schemes: “Media, city planning and performances concur to form a new spectatorial experience, which is partly also cinematographic” (“Il sole 24 ore on line”).

Urban architectures and large public spaces host special events, 3D video projections and led screens placed on building walls: urban screens, architectural mapping, facade projection, 3D projection mapping, video projection mapping, display surfaces, architectural Vj sets are only some of the words used in this field, which is called “Augmented Reality” (even if Lev Manovich prefers to speak about Augmented Space because there is an overlapping of electronic elements in a physical space). This is a technique that makes reality and its digital reproduction interact and modifies its visual perception overlapping it until it is totally twisted also in its dimensions.

Starting from these experiments of “augmented reality”, video works of art have been created in a “site specific” way and with great dimensions. Even theatre shows have been created with a virtual scenery/actor with 2 and 3D mapping and an absolutely real effect. This phenomenon is reaching wider and wider dimensions and an international diffusion, so that it has also been the topic of many international conferences organized by the International Urban screen association, as well as of various events (in Manchester and Amsterdam) and of specialized literature which can be completely downloaded from the website Networkcultures.org

For any further in-depth study, we suggest you to read the article online titled “Public space and the transformation of public space” and also the special edition on the Urban Screen published in the peer reviewed journal “First Monday”.

Important characters in this field are  Urban Screen, architects specialized in digital displays and installations, also in urban areas. They were born as group in 2008, but have been working in this sector since 2004 with headquarter in Bremen, Germany. They work in the field of entertainment, advertisement and show business using new digital medias and video projections. Open to cooperation with artists who work in the field of motion graphics and video, they created a new kind of public art, strictly digital. The artistic operation they inaugurate with techniques and programmes suitably created is an operation which foresees an accurate surface mapping (the question is right an exact homographic study) and the projection of a video or animated digital covering, perfectly shaped on the architectonical background. This creates extraordinary events and tridimensional effects, as much improbable as phantasmagorian.

The perception illusion, in the most successful cases is the illusion of a “liquid architecture” which adheres as a film or can be detached from the real surface. Particles of surfaces as Lego bricks try to create an optical illusion with a strong impact, everything under the eyes of an unaware public or people who do not distinguish between the real and the virtual architectonic frame. This technique has been immediately bought by great International brands for advertisements and the launch of new products. The technique lets make out also a possible performative digital use which would definitively combine video art, installations, graphic art, light design and live theatre.

House and church façades with single architectonic elements which break up, become moving pictures/paintings, enriched by light and colour stains that modify according to the music, digital characters climbing on windows, doors, roofs in this new medial and medial-performative art. The theatre borders have become wider and wider: the environment acts no more as background but as work of art itself.

Urban screen explains its work by saying: “Through our experience with scenery architecture we developed a procedure for projections adapted to surfaces and we created the socalled LUMENTEKTUR. Through the exact measurement, the projection was perfectly adapted to space. This allows having a direct point of reference and interaction with the background. Therefore, beside being a technical registered procedure, LUMENTEKTUR has also become an important approach to creative process. The overlapping of material structures with a virtual covering that completely covers them opens in fact the way to a creative potential that we are sistematically aiming at.

555 Kubik is maybe the media-façade event that made them more famous: architecture becomes a moving TASTIERA which a hand is layed on and follows the movement of. The architectonic feature of the building and the 3D projections contribute to the perception of an “augmented reality”. The application of this technique to theatre is also very interesting, since it creates an idea of hologram. The same happens in Goodbye in cooperation with the Bremer Theatre. In the same way, in Jump! the building façade becomes a sort of free climbing wall or circus arena for jumping and climbing actors who hide among the windows. In order to have a more specific idea of the many proposals in this field, please visit the videogallery of the channel I love mapping on the website Vimeo.com.

 Manovich – in one of his essays on this topic titled “The poetics of urban media surfaces”, dreams of a union between material and immaterial architecture: “Architects together with other artists could go a little bit forward and consider the ‘invisible’ space of electronic flows as a matter instead of a vacuum, i.e. as something which needs a structure, a politics, a poetics”.

Videomapping: il Metodo NuFormer
37

Intervista a Rob Delfgaauw/NuFormer in collaborazione con Enzo Gentile

Pubblicato su Digimag

Le superfici proiettabili delle metropoli sono diventate le facciate dei grandi palazzi. Abbiamo intervistato Nu Former società olandese che ha diffuso in tutto il mondo la modalità spettacolare di mapping e proiezione video 3D su edifici tale da rispecchiare perfettamente i volumi esistenti e alterare la percezione dell’oggetto statico da parte del pubblico. Spettacoli, campagne pubblicitarie, grandi eventi. Il loro video promo Projection on Buildings da una originale video-live performance con i palazzi che sembrano sfaldarsi sotto gli occhi del pubblico o riempirsi di palline colorate, ha fatto il giro del web. Lo stile NuFormer prende campo e fa scuola.

nuformer_450Biosensori, sistemi acustici, magnetici, ottici, elettromeccanici di motion capture, messaggi MIDI: con i nuovi media si assiste a una performance live dell’attore-danzatore con la macchina “processore di media” (Lev Manovich) e con il corpo usato come hyper instrument, visto che il performer può gestire in modo interattivo e in tempo reale con il solo movimento, input provenienti da diverse periferiche e animare oggetti, ambienti, grafica, immagini, suoni, personaggi 3D. Assistiamo così alle più svariate tecnomutazioni digitali dell’attore e contestualmente anche a quelle della scena, che indossa gli attributi altrettanto proteiformi e metamorfici della maschera elettronica: trame di luci, landscape visuali e sonori, schermi trasparenti che accolgono corpi e immagini senza soluzione di continuità, dispositivi digitali interattivi che sollecitano livelli diversi di percezione, strategie spaziali immersive per soddisfare un’esigenza di mobilità, prossimità e azione del pubblico rispetto all’evento. Ambienti “reattivi” ed “esecutivi”, virtuali e “intelligenti”, vanno a configurare un nuovo spazio teatrale: non più luogo neutro contenitore di eventi, ma spazio sensibile, estensibile, modellante e modulabile.

La scena contemporanea ha sviluppato insolite modalità di proiezione su superfici diverse. Si ricerca l’effetto sfumato ed evanescente dell’immagine nascondendone la cornice schermica: proiezioni su superfici sferiche e mobili (come già in Intolleranza 1960 di Josef Svoboda e Luigi Nono), su doppio velo di tulle con l’attore reale incastonato in mezzo, (come nel concerto scenico Cos’è il fascismo e per il reading multimediale Qual è la parola di Giardini Pensili). Pannelli mobili e proiezioni su materiali dalla trama sottile che si lascia trapassare dalla luce e che mostrano immagini vaghe, memorie video di forme archetipiche sono quelle delle Crescite della Tragedia Endogonidia della Socìetas Raffaello Sanzio per mano di Carloni e Franceschetti; perfino proiezioni non più su superfici piane ma sullo spazio, su elementi naturali e gassosi come l’aria e l’acqua vaporizzata. Fabio Iaquone con il suo Digital Versatile Theatre sta sperimentando proiezioni su gas e fumo, ricreando il mito delle apparizioni fantasmatiche, mentre l’artista visiva Paola Lo Sciuto prova a incastonare a teatro un “film tridimensionale” con un sistema scenotecnico di proiezioni e rifrazioni da lei brevettato che consiste in schermi e specchi che spostano l’immagine dal piano parallelo a quello perpendicolare.

 

Ancora, enormi superfici schermiche che raddoppiano la struttura scenografica occupandone i piani alti (in By Gorky di New Riga Theater), o che delimitano la circonferenza dello spazio della rappresentazione (in Ta’ziyé di Abbas Kiarostami, un’elaborazione teatrale che recupera un antico rito Iraniano). Multipli e giganteschi sono i dispositivi per le proiezioni dell’Ospite che i Motus hanno tratto da Teorema. La scena diventa un ciclorama in (Or) o un mondo dalle proporzioni surreali in Voyage di Dumb Type, un claustrofobico cubo di schermi in (a+b)3 di Mutaimago, un enorme cilindro a specchi per immagini e luci abbaglianti nella Damnation de Faust e una gabbia di plexiglass in Metamorphosis della Fura dels Baus. La modalità di videomapping apre a soluzioni di proiezioni su enormi superfici. Proviamo a chiederlo a NUFORMER:

Anna Monteverdi: Potete raccontarci in breve qual è il vostro background artistico e tecnico e come avete cominciato?

Rob Delfgaauw: NuFormer è una società multimedia specializzata in produzioni video e progetti web. L’ufficio ha sede nei Paesi Bassi. Dopo aver visto alcuni esempi su Internet di progetti artistici relativi al mapping video è scattata in noi la scintilla di voler provare a realizzare progetti simili. NuFormer ha tutta la competenza tecnica in sede (per la modellazione 3D e animazione 3D, progettazione motion graphics, editing video e programmazione) e grazie alle nostre capacità di progettazione, siamo riusciti a creare e poi sviluppare proiezioni 3D di alto livello su edifici.

Anna Monteverdi: Da dove traete spunto per le vostre idee, a cosa vi ispirate? Ci sono progetti specifici a cui avete guardato?

 Rob Delfgaauw: Nella maggior parte dei casi lavoriamo da suggerimenti generali che vengono dati dai nostri stessi clienti. Da lì partiamo poi, per progettare il contenuto specifico per e “mappare” in modo molto accurato l’architettura dell’edificio su cui proietteremo. Le nostre idee sono originali sebbene certamente, possono prendere spunto o ispirazione da progetti visti su Internet.

 Anna Monteverdi: Sviluppate proiezioni 3D di alto livello; quali i dettagli tecnici?

 Rob Delfgaauw: Sfortunatamente non possiamo rivelare tutte le specifiche tecniche riguardanti la nostra attività e competenza. Possiamo dire comunque che usiamo un mix di tecniche tradizionali per adattare l’animazione e il materiale di archivio fotografico e video che usiamo, alle caratteristiche architettoniche dell’edificio. Ma la maggior parte del lavoro è fatto in ambiente 3D.

Anna Monteverdi: Fate disegni preliminari prima del modeling o dell’animazione?

 Rob Delfgaauw: Cominciamo con una sessione di brainstorming da cui viene fuori un’idea. Questo concept viene poi sviluppato e arriviamo a uno story board più dettagliato che rappresenta la base del processo di produzione. Partiamo da lì per il modeling, il compositing e infine per creare l’animazione 3D.

Anna Monteverdi: Che programmi usate per le proiezioni? Usate animazione vettoriale (come flash), strumenti multipurpose come vvvv o solo modellazione 3D e animazione per la creazione digitale dell’architettura di un edificio?

 Rob Delfgaauw: Usiamo molti editor 2D (vettoriali) e 3D.

 Anna Monteverdi: Come risolvete il problema dell’omografia nelle proiezioni e come riuscite a mappare precisamente la forma architettonica? Qual è il programma o il metodo?

 Rob Delfgaauw: Lo risolviamo unendo i dati e lavorando nella maniera più accurata possibile usando tecniche e strumenti avanzati.

 Anna Monteverdi: Realizzate proiezioni 3D con un gran numero di potenti proiettori. Quanti nello specifico e di che potenza luminosa? Quali o programmi per il loro controllo?

 Rob Delfgaauw: La dimensione dell’edificio e la situazione luminosa d’ambiente e altre circostanze determinano il numero di proiettori da usare. Noi usiamo diversi pacchetti software per controllare le uscite. La maggior parte dei proiettori, per lo più usati impilati, hanno una potenza luminosa di ventimila ansilumen.

Anna Monteverdi: Quanto tempo occorre per la modellazione e l’animazione?

 Rob Delfgaauw: Quello dipende veramente dalla lunghezza dell’animazione ma generalmente abbiamo bisogno di due mesi per realizzare un intero progetto.

 Anna Monteverdi: Come preparate l’ambiente urbano?

 Rob Delfgaauw: Lavoriamo con dei local manager. Loro hanno il compito di vedere quanta luce d’ambiente può essere “dimmerata”. E si preoccupano di fornire assistenza sul posto e rendere il luogo adatto al pubblico.

Anna Monteverdi: Spesso parlate di applicazioni in esterno per lanci pubblicitari, eventi e concerti. Avete anche esperienza di applicazione nell’ambito della scenografia teatrale?

 Rob Delfgaauw: Abbiamo richieste per spettacoli, performance, eventi e concerti. Siamo sviluppando una tecnica per usare proiezioni 3D all’interno specialmente per teatri in occasione di concerti. Attualmente la nostra ricerca riguarda come trovare la modalità più adatta per unire le proiezioni 3D con l’interattività e comunicare l’esperienza al pubblico. Dal momento in cui c’è abbastanza buio e la luce d’ambiente è bassa, noi possiamo proiettare indifferentemente all’esterno o in un teatro all’interno.

 Anna Monteverdi: Le vostre proiezioni sono basate su facciate architettoniche statiche. Che problemi tecnici potrebbero esserci nel caso di oggetti non statici, ovvero per seguire un oggetto in tempo reale e proiettare su di esso un video volumetrico?

 Rob Delfgaauw: Il fattore che cambia maggiormente rispetto alla proiezione su oggetti in movimento o statici è l’allineamento della proiezione sull’oggetto. Da lì la proiezione deve seguire l’oggetto in modo molto preciso, accurato. Abbiamo sviluppato speciali tecniche proprio per questo e funzionano molto bene.

Annamaria Monteverdi: Ritenete che la vostra tecnica potrebbe essere un valido supporto per gli artisti e come?

 Rob Delfgaauw: Gli artisti hanno di fronte un nuovissimo modo e un nuovo ambiente con cui esprimersi. Prova a considerare un enorme edificio come se fosse il fondale animato di un palcoscenico. E’ impressionante. Soprattutto se il contenuto viene generato in tempo reale.

 Anna Monteverdi: Avete qualche consiglio per chi comincia a lavorare nell’ambito della grafica animata, del video?

Rob Delfgaauw: Il cielo non ha limiti,lanciatevi.

 

 

 

 

L’installazione “Il soffio sull’angelo” di Studio Azzurro. Testo di Anna Monteverdi dal Catalogo
36

Da sempre, penso, l’uomo ha avuto la necessità di costruirsi degli schermi, di limitare le misure e confinarle entro più lati, di dare cioè, una dimensione all’infinito che gli stava davanti. E’ per vincere definitivamente questo sentimento della paura, di limite che si potrebbe avere nella percezione dell’infinito che l’uomo genera il suo capolavoro: non più porre limiti dentro la realtà, ma porre la realtà dentro i limiti, reinventandola.  Paolo Rosa

Spazio-limite, spazio-possibilità

Tre paracadute sono sospesi nel vuoto della stretta e lunga ex struttura industriale della Marzotto – ora sede dei Dipartimenti Scientifici dell’Università di Pisa – che limita lo sguardo e impedisce loro di spiccare il volo; all’interno e all’esterno del reticolato a velatura sottile del paracadute sono proiettate immagini messe in movimento mosse da un getto d’aria direzionato su alcune zone sensibili del telone. I corpi nudi, quasi navigando in assenza di gravità, si depositano, si avvolgono nella concavità-convessità del paracadute, ripiegandosi come in un ventre. Tre paracadute dalla trama-tela di ragno che respira e si lascia attraversare dall’aria si srotolano in sospensione: sono incatenati, trattenuti nella loro dilatazione “alare” da una barriera architettonica. Il limite svelato è il mondo e il contesto è lo spazio: è lo spazio negato, lo spazio della costrizione, della distanza e dell’assenza; il limite-cornice della struttura architettonica isola e separa da ogni contatto, nega ogni “convivenza ambientale”.  L’installazione è un “osservatorio” sulle possibilità di espansione, ma non di dominio, dell’uomo: si estende dal microcosmo della tela-paracadute all’infinito dello “spazio extraplanetare” della sensibilità umana. Dal recinto architettonico che aggredisce e racchiude in gabbia il corpo colto nel suo tentativo negato di librarsi in aria (e con esso tutto il territorio dell’agire artistico e tutto il sistema dell’arte del vedere e dell’sporre) alla riappropriazione dello spazio vitale, fuori da ogni cornice-confine-schermo che rinchiude e fissa le regole dello spazio di movimento.

Cerchio, ellissi e levitazione 

La calotta del paracadute avvolge in un abbraccio parabolico i corpi che, come satelliti solidali, sono in movimento orbitante di rotazione-rivoluzione intorno al proprio o altrui asse. La circolarità è il principale tema visivo, ripetuto, in un contenimento delle varianti, nei movimenti e negli oggetti – palla, ruota, anfora – e nella forma stessa del dispositivo che li ospita, da dove partono e dove rientrano. Restare nell’orbita umana significa includere le leggi del suo esistere, correggere l’errore di parallasse, cercare altre coordinate, altri centri di gravità, altri punti di osservazione, rivendicare una presenza e una posizione nel mondo.  La forma del paracadute rimanda alla familiare sfera schiacciata ai poli, che ci contiene, il movimento elissoidale dei corpi-pianeti, alle leggi di Keplero. Ma soprattutto il volo del paracadute sopra la verticale dell’esistenza di ognuno, riconduce a un sollevarsi interiore, a una tensione di ascesa, al desiderio di oltrepassare ogni limite, staccare le ali da terra per ritornarvi, rivitalizzati da una nuova consapevolezza. Lo spettatore, collocato dentro il cerchio iniziatico dell’installazione, prende fiato, recupera le proprie forze e il proprio corpo, atrofizzato nella posizione rigida imposta dal sistema, si riappropria del proprio spazio vitale, sola sopra i confini di stati sovrani, stabilisce nuovi rapporti.  Nella città che ospita il battaglione della Folgore, quello stesso dispositivo usato dai paracadutisti diventa il simbolo di una necessaria mutazione-trasformazione dell’esistenza. Studio azzurro ci ha abituato a operazioni di straniamento di questo tipo: i raggi infrarossi – triste ricordo di una guerra del Golfo vissuta attraverso la sua versione spettacolare televisiva – in Il giardino delle cose, bucavano e rendevano concreto il buio; i raggi X ad uso della polizia aereoportuale in Il viaggio, esploravano storie intime e private; in Kepler’s Traum le immagini satellitari del Meteo ci ricordavano la comune condizione dell’essere sospesi nel cosmo mentre due quarti del pianeta combatte per un lembo di terra.

Il fiato sospeso 

L’intero atto teatrale è un rituale concepito per rinnovare la nostra vitalità, per liberarci dalla morte e ciò si compie con un respiro. Questo respiro comincia con un ansito, come quello di un bambino appena nato. Il teatro senza questo ansimare ci soffoca. Insisto sul teatro. Insisto su di esso perché lo riconosco come un rituale senza cui la nostra sopravvivenza perde terreno davanti ai confini della morte sempre invadente, la morte cala su di noi con il suo silenzio senza respiro.Lo scopo del teatro è far ansimare il pubblico.  (Julian Beck)

Il soffio anima i corpi, il respiro dà loro moto, quell’impulso generativo-cardiaco di corrente senza il quale sono materia inanimata, persi e risucchiati nel vortice profondo del vuoto dell’esistenza inautentica. Nell’installazione il respiro che riporta alla vita torna a far gonfiare il diaframma e a dar voce a grida, ha la forza propulsiva del getto d’aria artificiale all’uscita del labirinto degli specchi del Luna Park, il ritmo dell’inspirazione-espirazione degli astronauti e dei subacquei in assenza di ossigeno e la qualità rigeneratrice del pranayama yoga (letteralmente respiro guaritore”).  Il respiro è nuova creazione, apre a nuovi orizzonti, nuovi mondi e modi possibili del vivere e del sentire e assume nella sua funzione liberatrice e illuminante, la forma iniziatica di un rituale contenuto nella vita quotidiana: un rituale rigenerativo che si compie all’interno del “sacro recinto” del paracadute semplicemente con un respiro perché “Nulla è più naturale del cambiamento” (Julian Beck).  Attraverso il respiro consapevole e un sentire collettivo che elimina ogni separazione, l’uomo recupera il significato profondo delle cose, ne scopre le intime relazioni (la trama e l’intreccio). La forza gravitazionale attrae verso l’uomo in una nuova dimensione dove i corpi danzano come in un’armonia celeste, vagano nell’etere, viaggiano sulle frequenze, sulle onde hertziane e sopra gli stati.

Nuovo sito amm
35

Il primo post esce on line l’1-1-2014 così lo terrò a mente.

Piacere di conoscervi.

Qua raccolgo un po’ di memorie, testi pubblicati, saggi inediti, articoli, recensioni e tutto quanto ho gettato nella rete dal 1-1-2000 quando ho co-fondato il sito ateatro.it. Tra teatro, videoarte e digital performance. Testi, saggi brevi miei e di persone a cui ho chiesto di scrivere o ripubblicare materiali e che ho deciso di rimettere in circolazione in una nuova veste. Inauguro con un testo del prof. Fernando Mastropasqua da cui ho appreso i primi rudimenti di teatro all’Università, dal titolo significativo Entrare in scena dedicato al Living e allo storico incipit dell’Antigone degli anni Sessanta con due storiche fotografie datemi da Evandro Costa a illustrare il saggio. Quale migliore auspicio per iniziare una nuova attività di scrittura sul teatro? A seguire una memoria che ho scritto per Culture teatrali su Paolo Rosa, scomparso recentemente, da cui ho appreso la bellezza della tecnica.

Segnalerò siti speciali, blog, magazine di teatro e di arti interattive di tutto il mondo ma anche bandi di comune utilità. La Monteverdipedia è la piccola enciclomedia made in amm dove riunisco una decina degli autori più significativi a cui mi sono dedicata in questi anni. King of the list Mr Robert Lepage!

Se a qualcuno interessa, informo anche della mia attività dentro e fuori l’Accademia di Belle Arti.

E buon 2014!

pallone-mondiali-2014-brasile-brazuca-03-la-presentazione

 

 

Entrare in scena, di Fernando Mastropasqua.
34

Dedicato a Julian Beck, con foto di Evandro Costa.

Entrare in scena è l’atto con cui si dà inizio allo spettacolo. Un semplice passare dal non visto al guardato, dalla confortevole tenebra delle quinte alla luce priva di ripari del palcoscenico, un passo, un semplice passo e si scavalca un confine, quella soglia di morte, la cui presenza i Greci avvertivano nel suono della parola skené. Per entrare dove? Nel teatro inutile direbbe Julian Beck: 

E’ questo forse un posto per esseri umani, questa insinuazione di lusso e ori, la pompa di queste scale, l’ingannevole grandiosità di questo candelabro, questo moderno teatro un’opera d’arte? O architettura dei potentati! O puzza di denaro! E’ qui che ha volato l’Uccello dello Spazio? Dove sono i facchini, gli operai tessili, i meccanici? Non ci sono contadini qui, nessuno di coloro che costruirono questo edificio, nessuno che abbia coltivato alimentari, qui non ci sono neri, nessuno che pulisca le fogne, nessuno che cucia nei laboratori. Per chi è questo palazzo? Dov’è il popolo? Che cosa si fa qua dentro che non li riguarda? Il tappeto è fatto per pallidi piedi patrizi, le poltrone procurano una comodità che aliena all’azione, che ostacola la partecipazione, che indulge alla passività del corpo. Muri di separazione! O possa questa nostra sonora arringa far tremare e cadere i muri, crollare prigioni, abbattere le fortezze della falsa industria, e tutte le case di divisione. Unità. La si ha, quando le persone stanno insieme e non si mettono una contro l’altra, esiste quell’armonia che dissipa la disperazione, estende l’essere e rende possibili tutte le speranze più impossibili.

Foto di Evandro Costa. Qua una più ampia gallery

Quando mi siedo nella poltrona di velluto, circondato da fibre acetiche, se una persona grida, se un uomo muore è solo un’interruzione. Non sono preparato a reagire alla vita. Osservo soltanto. Circondato da gelidi compagni in un’atmosfera d’inganno, siedo nella fastosità. Son venuto qui per morire congelato? Come posso prorompere in emozioni? Investito di una regalità di rayon. Come posso trascendere in un ambiente di velluto, come posso trovare la chiave nell’oscurità di questa sala? Solo sognando. Ma questo sogno è menzogna, non sento nulla. E’ tutto menzogna, non ho carne, sono essenzialmente asessuato. E tutto avviene a causa della mia presenza qui.” (J.Beck, La vita del teatro, Torino, Einaudi, 1975, pp.13-14). 

L’attore entrando in scena entra nell’orrore del mondo, in quegli inferi che sono la vita stessa, e di fronte a sé trova gelidi compagni, ombre esangui, pronte a cibarsi di lui risucchiandogli la linfa vitale con gli occhi, appuntiti vogliosi taglienti come i canini di un vampiro. Il passo che ha scavalcato il confine rivela quanto questo fosse irrilevante, come un abisso dipinto. Dal mondo di morte quotidiano a quel cimitero imbellettato che è il luogo teatrale. Entrare in scena deve dunque voler dire di più, non passare un confine, ma definire un confine, perché solo tracciandolo può esserne disarmata la funzione menzognera: si può oltrepassare e lasciarselo alle spalle. Si apre, per virtù dell’attore, un luogo che è oltre la tetra esistenza di lutti presenti e di inferni promessi, nel quale il pubblico di insaziati dormienti dalla vista assassina possa balzare dalle non più comode poltrone e accogliere il respiro dell’attore:

Ansimando in cerca d’aria – è così che il pubblico viene a teatro, rigidamente avvolto dal corsetto della convenzione (legge e conformismo). Il pubblico può respirare a malapena. Si sente morire. L’intero atto teatrale è un rituale concepito per rinnovare la nostra vitalità, per liberarci dalla morte, e ciò si compie con un respiro. Questo respiro comincia come un ansito, come quello di un bambino appena nato. Il teatro senza questo ansimare ci soffoca, poco importa che ci possa divertire, lasciamo sempre il nostro spirito ancora più fiaccato dalla delusione. Insisto sul teatro. Insisto su di esso perché lo riconosco come un rituale senza cui la nostra sopravvivenza perde terreno davanti ai confini della morte, sempre invadente, la morte che cala su di noi con il suo silenzio senza respiro. Insisto che si vada a teatro in cerca di rivitalizzazione, le renouveau, sì, come pazienti che vanno all’ospedale. Stiamo morendo e andiamo a teatro in cerca d’aria fresca all’interno di un’atmosfera sempre più contaminata. Lo scopo dell’arte è far ansimare il pubblico.” (J.Beck, Theandric, Roma, Socrates, 1994, p.24) 

Considerando i primi spettacoli del Living, come un solo lungo spettacolo, potremmo riconoscere l’entrata per eccellenza nell’incipit dell’Antigone e l’uscita per eccellenza, come viaggio oltre il confine designato e distrutto, l’esodo di Paradise Now: il teatro è nella strada. Come si può stabilire il confine? Nell’Antigone l’attore invece di offrire la gola allo sguardo dello spettatore gli pianta gli occhi in faccia, come Amleto per scrutare il comportamento del re davanti allo spettacolo che rivela il suo delitto [Amleto, III,2, 85], sguardo contro sguardo, nemico contro nemico. Judith Malina ricorda che ogni attore aveva il compito di individuare il nemico in un determinato spettatore e che questo serviva ad incrinare l’unità della massa del pubblico (v. a questo proposito C. Valenti, Dove gli dèi ballano, in F. Mastropasqua, Maschera e rivoluzione, Pisa, BFS, 1999, p.38, nota 24).

L’entrata degli attori in scena obbliga ad avere la consapevolezza che tutti si è entrati in un luogo sospeso, dove non hanno più senso le convenzioni abituali, del teatro come della vita. Anche il pubblico si trova al di là del confine che gli attori hanno tracciato proprio là dove non era pensabile, e i corpi – non più le ombre infere della consuetudine – si impossessano dell’antico respiro perduto e diventano presenze, non per dimenticare il mondo, ma per rovesciarlo. Perché si entra nel teatro attraverso il mondo. Virtù anche questa dell’aver determinato il confine e averlo scavalcato. Il passo che ha permesso di superare quella soglia, si è lasciato alle spalle il mondo dell’orrore, ma non lo ha cancellato. Ognuno di noi se lo porta dentro. Risuona l’insegnamento di Amleto: l’orrore che vediamo intorno a noi è dentro di noi: “Che ci sta fare uno come me a strisciare fra cielo e terra?” [III,1,129]. Ed è proprio questa coscienza che permette ai corpi entrati in scena (attori e spettatori) di rovesciare la bruttezza in bellezza, la malvagità in pietas, il dolore in gioia:

“Si entra nel teatro attraverso il mondo, mondo che è sacro, mondo che è imperfetto, si entra nel teatro attraverso la consapevolezza di una bruttezza indistruttibile. La bruttezza della vita. Si abbraccia questa bruttezza e si dimentica ciò che è bello. […] Non vorrei dare pièces di dolore, di problemi, di idee difficili, ma di gioia, piacere, riso, esultanza, non risate crudeli, niente satira, ma gioia. Ma è faticoso provare gioia, e quindi ancora più faticoso conoscere la gioia, quando si è pallidi e il mondo è estraneo e moribondo. Desiderio di un teatro diverso, che valga ciò che siamo realmente, speranza che il teatro cambierà, ma quel che vogliamo davvero è cambiare noi stessi, cambiare tutti insieme, e che cambiando cambi il mondo.” (J.Beck, La vita del teatro, cit., p.11, 15).

 Link to Txt: Frankenstein del LIVING  by AMM

Si ringrazia Evandro Costa per la concessione delle fotografie dal suo archivio personale.

Per Paolo Rosa in memoriam
33

Pubblicato su Culture teatrali

La notte tra il 19 e il 20 agosto di quest’anno è mancato Paolo Rosa. L’ultimo sguardo lo ha rivolto all’azzurro del Mediterraneo, in Grecia, a Corfù dove stava trascorrendo le vacanze con gli amici di sempre e con la moglie Osvalda. Aveva 64 anni. Ha ragione Giacomo Verde: un brutto anno questo per le arti elettroniche. La morte di Paolo Rosa rinnova il dolore per la perdita di Antonio Caronia, entrambi compilatori (tra gli altri) del Manifesto per una cartografia del reale (1992).

 Rosa era uno degli artisti visivi più talentuosi della sua generazione, fondatore insieme a Leonardo Sangiorgi e Fabio Cirifino dello Studio Azzurro, ambito di studio e di sperimentazione audiovisiva e interattiva che ha creato un nuovo modo di pensare l’arte in rapporto con la tecnologia, rendendo quest’ultima, un fondamentale strumento linguistico ed espressivo. Paolo Rosa ci teneva a ricordare sempre nei suoi incontri, la fondativa esperienza nell’ambito del Laboratorio di Comunicazione militante negli anni Settanta a Brera, dove ha mosso i primi passi esplorando fotografia e cinema, ma propendendo per quest’ultima. Disegnatore, pensatore, progettista multimediale e docente d’Accademia, Paolo lascia fiumi di riflessioni e pensieri sull’etica dell’arte nel suo faccia a faccia con la complessità contemporanea, con i “media-mondo”, e sulla sua fondamentale funzione collettivizzante e socializzante. Lascia in eredità a tutti noi il patrimonio inesauribile delle sue straordinarie pratiche artistiche visionarie che affondano le radici in una volontà d’arte totale che lambisce architettura, teatro, danza, cinema, grafica, pittura, video. Come dissociare i lavori di Studio azzurro dagli splendidi disegni preparatori da lui realizzati, che dell’opera formata (sia essa installazione, video o spettacolo tecnologico) diventano la sinopia, il bozzetto preparatorio, le fondamenta dell’intero edificio artistico ma con un forte valore estetico a sé.

Lo Studio Azzurro con Paolo Rosa ha abituato il pubblico a immergersi nella bellezza e talvolta nello stupore della tecnica, conducendolo nei territori dell’io attraverso monitor, schermi e dispositivi interattivi. Ma Paolo era ben consapevole che la potenzialità della tecnologia nelle mani di un artista non dovesse limitarsi a un puro uso funzionale o a un solo ambito estetico o poetico, ma applicarsi ad una vera mutazione sociale e antropologica della società: “Sperimentare questi linguaggi – scriveva nel 1994 – induce a confrontarsi continuamente sull’impatto che essi hanno nella società. Davvero in questo ambito di ricerca si ha la sensazione di sperimentare anche nello spazio sociale, inciampando spesso in qualche nervo scoperto della contemporaneità”. L’artista si appropria dei media per dar loro un senso diverso dalla finalità tecnica per cui sono stati progettati: con questo approccio legato all’idea di “reinventare il medium”, le tecnologie non sono più “semplici attrezzi del mestiere, docili e inerti, ma diventano portatori di senso, di una nuova visione del mondo”.

Studio azzurro ci ha abituato a operazioni di ribaltamento straneante della funzione originaria delle tecnologie, una volta approdate nell’arte: i raggi infrarossi – triste ricordo di una guerra del Golfo vissuta attraverso la sua versione spettacolare televisiva – ne Il giardino delle cose, bucavano e rendevano concreto il buio; i raggi X ad uso della polizia aereoportuale in Il viaggio, esploravano storie intime e private. In Kepler’s Traum, opera musicale ispirata alla teoria di Keplero sul movimento dei pianeti, Studio Azzurro porta in scena su uno schermo semicircolare i diversi segnali e le immagini del nostro pianeta provenienti in diretta dal satellite Meteosat, in una potente metafora della necessità di osservare la sfera che ci ospita da un insolito punto di vista, tecnologicamente “aumentato”.

Parafrasando una frase dal libro scritto a quattro mani con Andrea Balzola, L’arte fuori di sé, diventato il suo testamento teorico, la sua arte era “plurale” non solo nella condivisione della progettualità ma anche nel linguaggio e nella tecnica. Non più il solo video monocanale, non solo la semplice videoinstallazione ma videoambienti, narrazioni complesse, plurali appunto, perché si relazionano contemporaneamente con lo spazio, con la luce e con lo spettatore; sono quadri in movimento, architetture visuali e sonore che strabordano dai confini e dagli steccati a senso unico dell’arte. Il visitatore scopre dentro il cerchio iniziatico dell’opera, un nuovo mondo, talvolta un mondo interiore e può decidere con quale senso appropriarsene, o semplicemente abbandonarsi al flusso mai interrotto di stimoli, percezioni, sensazioni. “Installazioni come luogo in cui stare dentro una narrazione”. Così per CoroTavoliSensitive CityIl soffio sull’angelo e l’ultimo lavoro In Principio (e poi), ideato per il padiglione della Santa Sede della Biennale di Venezia. Se i nuovi media promuovono la creazione di uno spazio sensoriale dinamico e sollecitano a una visione e un ascolto sinestetico, nelle installazioni interattive di Studio Azzurro cosmografie di corpi giocano con il soffio, con il battito delle mani, con il suono, con luci impalpabili che danno forma a un volto. Nell’estetica liquida “sottrattiva” e relativa poetica della trasparenza di Studio Azzurro, prende campo un’interattività che si libera dall’evidenza delle corazze tecnologiche per operare in uno spazio sgombro ma sensibile, ricco di sollecitazioni emotive dove il vuoto è forma da riempire di “vibrazioni, sovrapposizioni, oscillazioni, contrasti, che sono la spina dorsale della nuova narrazione”. Per la serie di installazioni che compongono Mediterraneo gli elementi naturali, la moltitudine di lingue, il lavoro dell’uomo sono messi in connessione con la tecnologia, che è la chiave di accesso al paesaggio, ai colori, ai suoni. Si entra nell’interattività con un gesto naturale e con un corpo senziente. Ha ragione la videomaker Agata Chiusano a dire che le videoinstallazioni di Studio Azzurro “hanno conquistato uno spazio fino allora inesplorato: quello della fisicità emotiva dello spettatore”.

Questa modalità di naturale artificialità, che prevede l’esposizione di “ambienti sensibili” al calore umano, al suono prodotto dal battito di una mano, che escludono qualunque interfaccia tecnologica e promuovono, come ben stigmatizza Valentina Valentini, “lo spettatore come io narrante”, è una costante della ricerca di Studio Azzurro sin dagli esordi. Nel Nuotatore, una delle prime installazioni del gruppo, lo spettatore è materialmente immerso nella vasca vuota di acqua ma riempita di monitor sincronizzati ricostruita dentro Palazzo Fortuny ed è sollecitato a immaginarsi una storia seguendo il nuotatore nella sua linearità di percorso acquatico ma anche i relitti e le tracce inattese che interrompono la serialità dell’azione. Perché in fondo “L’idea di interattività era latente nelle nostre videoinstallazioni. Un’interattività concettuale, non fisica o parzialmente fisica perché si poteva interagire con lo spazio

Non c’è dubbio che la data di nascita del videoteatro sia sancita proprio dagli spettacoli di Paolo Rosa e Studio Azzurro in collaborazione con Giorgio Barberio Corsetti: da Prologo a diario segreto contraffatto (1985) a Camera astratta (1987), quest’ultimo considerato un “esempio-faro” del teatro elettronico italiano e che raccoglie l’eredità lasciata dal Teatro Immagine di Memé Perlini, nome storico dell’avanguardia romana.  Il Dams di Bologna nel 2003 organizzò un importante convegno dal titolo Lo schermo e lo spazio, coordinato da Gerardo Guccini, in cui Paolo Rosa intervenne proprio a spiegare le ragioni dell’innovazione del lavoro teatrale insieme con la Gaia scienza di Corsetti in cui la tecnologia entrava non quale elemento decorativo ma come appendice fondamentale per l’attore e per lo sviluppo stesso della drammaturgia: “Sono spettacoli che ci introducono alla ‘doppia scena’ e al dialogo tra personaggio naturale e personaggio artificiale, che ci dava insomma la consapevolezza che usare la tecnologia in scena voleva dire pensarla in termini drammaturgici prima ancora che scenografici. I monitor recitano, si muovono, si stancano come gli attori, mostrandosi in tutta la loro fisicità e fragilità.”

Paolo odiava correnti ed etichette e per questo motivo si tirò ben presto fuori dal contesto della videoarte e, in generale, dal cosiddetto “sistema dell’arte”. L’arte elettronica, era solito dire, ha una forza dirompente tale che fa saltare il problema disciplinare: “La videoarte ci sembrava che fosse come la bodyart, come la conceptual art, una delle tante forme e tendenze delle arti visive”.

Di Paolo Rosa ci mancherà la gentilezza, la generosità e la passione che metteva nel suo lavoro; ci mancherà il sorriso e la disponibilità a confrontarsi e a dialogare, a mettersi a disposizione di tutti, di studenti e neofiti dell’arte elettronica come di critici acclamati. Ci mancherà la persona impegnata nel suo tempo, preoccupata di dar vita più a “contesti partecipati” che a opere, a connessioni e relazioni più che a creazioni artistiche.

Avevo sentito Paolo poco prima di Ferragosto: ci legavano amicizia, studi e lavoro in Accademia a Brera. Era stato Paolo a introdurre il mio libro Nuovi media nuovo teatro a Book city a Milano.
Mi congedo facendo mio questo commosso ricordo di Sandra Lischi, studiosa di media e cinema che mi ha permesso di conoscere, all’Università di Pisa, la straordinaria lezione d’arte e di umanità di Paolo:

Ripenso all’impressionante qualità e quantità dei doni di Paolo: le sue folgoranti, problematiche sintesi teoriche; i suoi film, con quella particolare libertà di sguardo; la sua infaticabile attività di insegnante; i suoi innumerevoli testi; la sua disponibilità e curiosità umana; il suo modo di pensare, progettare e accompagnare la creazione artistica; la sua idea di impegno; la sua serietà; il suo sorriso; la grazia che metteva in tutto; e anche la garbata fermezza, la lucidità critica, lo scontento per un paese e per un sistema dell’arte sordo e cieco; la rivendicazione di spazio alla poesia e alla bellezza mai disgiunte dal senso del vivere civile, della memoria, del potere rivoluzionario del linguaggio. Sono ormai un patrimonio inciso a fondo nel nostro percorso le sue riflessioni sulla tecnologia, il suo pensiero critico sull’interattività non come dispositivo tecnico ma come possibile attivazione di sensibilità, di intelligenza coniugata con la meraviglia; la sua teoria di una ricerca che può e deve essere donata anche in una dimensione di “spettacolo” (togliendo a questa parola la pesantezza volgare che l’ha avvolta in quest’epoca); la sua consapevolezza culturale e la sua capacità visionaria. La sua teoria si incarnava nella vita stessa di Paolo: l’importanza e la responsabilità del comportamento, l’etica, l’idea del “dono” che emergono dai suoi scritti sull’arte erano anche nel suo modo di essere.

http://www.youtube.com/watch?v=N88xXGWoSXs&feature=share&list=PLKQi86dfXuoZBfN6GOTKT1tOKUyLyuG_T

Mi presento…
32

Sono esperta di digital performance e video teatro; ho conseguito il dottorato di ricerca all’Università di Pisa in Stili forme e codici della rappresentazione teatrale, cinematografica e audiovisiva studiando a Québec city presso Ex machina di Robert Lepage, sul quale ho scritto una monografia (Il teatro di Robert Lepage, Bfs 2004).

Ho insegnato per molti anni al Corso di laurea in Cinema Musica e Teatro all’Università di Pisa, al Dams di Bologna e al Dams di Imperia. Docente a contratto di Digital video e drammaturgia multimediale all’Accademia di Brera Titolare della cattedra di Storia dello spettacolo prima all’Accademia di Torino e attualmente a Macerata

Ho pubblicato diversi volumi e antologie tra cui: Le arti multimediali digitali (con A. Balzola, Garzanti 2004), Nuovi media nuovo teatro (2011), Frankenstein del Living Theatre (2004) con prefazione di Judith Malina. Sono cofondatrice del webmagazine ateatro.it e scrivo per diverse riviste cartacee e on line: Rumorscena.com, cultureteatrali.it, Hystrio, Juliet-Art magazine, Digimag. Ho scritto per riviste universitarie di teatro: Teatro e Storia, Elsinore. Ho scritto su William Kentridge, Motus, Bob Wilson, Heiner Goebbels, Marcel.lì Antunez Roca, Critical Art Ensemble.

Co-curatrice (su incarico del Diras di Genova) del progetto europeo triennale IAM su realtà aumentate applicate allo spettacolo e ai beni culturali.

Giurata a Festival di cortometraggi e drammaturgia, presente a conferenze internazionali tra cui: The global electronic Shakespeare Company (Università di Pisa), Embodiment of Authority (Helsinki, Sibelius Academy);The local, the global, and interdisciplinary performance in the works of Robert Lepage (London, British Association for Canadian Studies), Scenes-digitales- Le théatre dans la sfére du numérique (Parigi, Centre Pompidou); Convegno Bande dessinée, animation e spectacle vivant, Università di Lyon 2; Architectural mapping e interaction design (Bibliotheca Alexandrian, Alessandria D’Egitto), Le nuove tecnologie applicate all’espressione artistica (Pesaro Film Festival), Dal teatro “rimediato” al teatro “aumentato” (Teatro Valle occupato, con E.Gentile), Gli scrittori e la scena (Associazione nazionale docenti di Italianistica, Università di Sassari), Performance e performatività (Convegno annuale dell’Associazione per gli Studi di Teoria e Storia Comparata della Letteratura- Università di Messina), Rete critica  (Teatro Olimpico, Vicenza).

Da alcuni anni mi sto occupando del Teatro in Kosovo e sto traducendo l’opera del drammaturgo Jeton Neziraj per le edizioni Cut up. Location manager per MASBEDO ho collaborato con il duo di videomaker all’allestimento dell’installazione Schegge d’incanto in fondo al dubbio per la Biennale di Venezia 2009 e per Distante un padre, cortometraggio per l’ONU. Link su AMM: EduEda Educational Encyclopedy, Noemal, VuotocicloStamp ToscanaFrancoAngeli, ArteDonna Golfo dei Poeti Film Festival, Armando Adolgiso

annnnnnnnnnnn

Mapeando superficies. Artículo de A.M.Monteverdi y Enzo Gentile
31

Artículo de Anna Maria Monteverdi y Enzo Gentile que hace un recorrido de las técnicas de video mapping y contextualiza esta nueva técnica artística en el contexto teatral y su historia.  www.xanela-rede.net (tradotto in spagnolo da Konic thtr; in italiano su Interactive-performance). 

 

images (1)Primero era la video proyección. Entonces llegó el mapeo de vídeo digital y eclipsó todo lo demás. El mapping arquitectónico, façade mapping, 3D vídeo mapping, videoprojection mapping, architectural VJ, son algunas de las expresiones utilizadas para definir estos nuevos formatos artísticos. El ámbito de aplicación de estas técnicas es la llamada Realidad Aumentada, una superposición de revestimiento virtual sobre estructuras materiales con el objetivo de modificar la percepción visual.

Sobre la base de estos experimentos de realidad aumentada se crearon obras videográficas y arquitectónicas intrínsecamente nocturnas, y espectáculos teatrales que juegan con escenografías / actores virtuales y proporcionan un mapeo (mapping) 2D y 3D de gran realismo con proyecciones sobre enormes superficies: paredes de palacios, castillos, torres, pero también telones teatrales.

Animación, música, experimentaciones videográficas e interactividad se prestan al desarrollo de innovadores objetos multimediales y artísticos. Esta técnica agrega una audaz interacción entre la solidez de la arquitectura y la fluidez de las imágenes en movimiento.
Si el artista callejero norte-americano Julian Beever – rebautizado familiarmente Pavement Picasso – usa la tiza para crear efectos ilusionistas tridimensionales en el suelo de las calles (3D street art), ahora es la tecnología vídeo aquella capaz de engañar al ojo y de hacernos creer ver lo que no hay.

 En Italia son especialistas en este campo Apparati Effimeri (creadores del visual de Madre assassina por Teatrino Clandestino), Roberto Fazio, Luca Agnani, AreaOdeon, Claudio Sinatti, Enzo Gentile/Giacomo Verde de White Doors Vj e Insynchlab. En el mapa internacional destacan los alemanes Urban Screen, arquitectos especializados en instalaciones digitales e instalaciones también en áreas urbanas. Nacidos como grupo en el 2008 pero activos ya desde el 2004 con sede en Brema, trabajan en el campo del entretenimiento, de la publicidad y del espectáculo usando los nuevos medios de comunicación digitales y las videoproyecciones. Abiertos a la colaboración con artistas que trabajan el motion graphic y el video, han creado un nuevo género de arte público estrictamente digital.

El trabajo artístico se inició con las técnicas y programas creados específicamente para ello y se basa en una reproducción precisa de la superficie del elemento arquitectónico que se va a intervenir y la proyección de un video digital o de animaciones perfiladas con exactitud sobre este fondo arquitectónico. Esta proyección da lugar a extraordinarios acontecimientos y a efectos tridimensionales improbables cuanto fantasmagóricos.

Real o virtual? Desde la perspectiva de Video Mapping monumentista. 

La ilusión perceptual, en los casos más exitosos de Video Mapping, es la de una “arquitectura líquida”, flexible, que se adhiere como una película o se separa de la superficie real. Los fragmentos de superficies crean una ilusión óptica de impacto como si fueran piezas de Lego, todo bajo la mirada del público o del transeúnte, que ya no pueden distinguir entre la trama arquitectónica real y virtual.

Inmediatamente adoptado por las grandes marcas internacionales para su publicidad y el lanzamiento de nuevos productos, la técnica hace también entrever un posible empleo performativo digital, que permite unir vídeo arte, animación, instalaciones, artes gráficas, diseño de iluminación y teatro en vivo. Fachadas de casas e iglesias con cada uno de sus elementos arquitectónicos que se disgregan, se convierten en imágenes / cuadros en movimiento, adornados con manchas de luces y colores que cambian al ritmo de la música, personajes digitales que se encarnan en las ventanas, portones, techos: es un nuevo arte medial, un arte media-performativo.

La técnica es la del mapeo y del uso de máscaras, que explotan la pre-distorsión de la imagen o del vídeo para que aparezca no distorsionado sobre la superficie mapeada. La proyección tiene que ser ante todo perfectamente homógrafa: dos planos resultan ser homógrafos cuando los elementos geométricos de un plano corresponden a los del otro de manera biunívoca. Cualquier alteración de la distancia y del ángulo de incidencia del haz de luz implica alteraciones de la perspectiva de la imagen y por consiguiente de las irregularidades geométricas. Se tiene que considerar también la posición de los espectadores (una desviación máxima de + o – 15° con respecto a la proyección) para percibir los elementos en 3D no natural (que son en 2D…)

Estamos frente a una renovada “máquina de visión”. En el fondo, el Video Mapping se basa en el mismo principio que las “visiones inefables” del siglo XVI, es decir, aquellos que son sujetos a la anamorfosis, a los extremos de la perspectiva lineal del Renacimiento. En las obras anamórficas, la realidad sólo puede ser percibida a través de un espejo deformante, mientras que el mapeo de vídeo no es más que una máscara que distorsiona / crea una realidad inexistente. La historia del arte nos ha aportado no sólamente la perspectiva exacta “a la italiana”, pero también los puntos de vista, el “sfondati prospettici “, la concatenación de los planos y múltiples puntos de vista que plantean el problema de la profundidad en la pintura, la expresión en un solo plano de la tercera dimensión. Un antecedente histórico y artístico de esta técnica de ilusión tridimensional sobre la arquitectura, lo podemos encontrar en la perspectiva monumental y la pintura barroca (el llamado quadraturismo, en palabras de Vasari, con referencia a la representación de la perspectiva de la arquitectura que “rompe” los límites del espacio real engañando al ojo, y que Omar Calabrese define como “triple espacialidad en la pintura) y el trompe-l’oeil.

Vasari_frescos

Frescos del gran salón del palacio de la Cancillería, de Vasari.

La sugerencia y construcción ficticia del espacio mediante la unión entre el fondo y el primer plano, y el artificio ilusionista resultante, es la base del arte monumental: desde Vasari con sus Frescos de la Cancillería a los frescos en el Palazzo Labia de Tiépolo, de la Cena en casa de Levi de Veronese hasta la pintura de Miguel Ángel en la Capilla Sixtina, la pintura se une a la arquitectura y se fusiona con ella. Así lo afirma Charles Bouleau en La geometría secreta de los pintores:

“La perspectiva monumental es el conjunto de la convenciones que impone a una obra de arte el espacio que ocupa dentro del monumento. El caso es que no exista confrontación, sino armonía entre la obra representada historiada o no y el monumento que es también a su vez obra. El monumento exige que se conserve cierta relación con sus muros, con sus proporciones, y que se respete su escala. Los pintores no deben destruir mediante las ilusiones que crean, la superficie mural, y por otra parte los escorzos no deben perjudicar a las pinturas en sí mismas”.

Peruzzi

Bibbiena_Villa_Prati

Arriba: la escena de Baldassarre Peruzzi para La Calandria la escena comica de Serlio. Abajo: los frescos de Bibbiena a Villa Prati.

Haciendo un recorrido por la historia del teatro, es imposible no mencionar las técnicas de representación gráfica del espacio con un fondo pintado en perspectiva, la escenografía del ilusionismo de los siglos XVI y XVII y el conjunto de obras y tratados relacionadas con estas técnicas: de los dibujos de Baldassarre Peruzzi para la Calandria (1514) a las escenas clásicas en los dibujos de las escenas de Serlio para la comedia, para la tragedia y para escena rústica(1545) a la sección teatral de la obra Perspectivae libri sex de Guidubaldo (1600), los libros de Andrea Pozzo (1693) y Ferdinando Gallos Bibbiena (1711), pasando por la famosa Pratica di fabbricar scene e machine ne’ teatride Nicolò Sabatini (1638) (sobre esto, ver los estudios específicos y en particular el volumen de Ferruccio Marotti Lo spazio scenico. Teorie e tecniche scenografiche in Italia dall’età barocca al Settecento, Bulzoni, 1974).

En la época actual, podemos mencionar:

Lepage1

Lepage2

- el landscape, el cubo de Lepage para Andersen Project, un dispositivo cóncavo que acoge las imágenes de vídeo proyectadas y que gracias a la elevación de la estructura parece tener una corporeidad tridimensional.  

Motus
-la jaula en perspectiva en L'Ospite de Motus, una escenografía monumental y apremiante constituida por un plano inclinado cerrado por tres lados todos ellos convertidos en pantallas que dan la sensación de aplastar a los personajes. El ingenio de esta puesta en escena permite una integración artesanal y eficiente del cuerpo y la imagen gracias a una ligera elevación de la estructura central, dando la ilusión de volumen y profundidad a las imágenes proyectadas.

 La técnica de videomapping está despertando gran interés, y ahora no hay prácticamente ningún gran evento, noche en blanco, celebración de centenario que no incluya un videomapping. El videomapping también se ha convertido en un paso “obligado” para el lanzamiento de las grandes marcas: hemos pasado de los carteles e impresiones enmarcadas con luces de neón a la señalización digital (la publicidad en formato electrónico, los LED de las pantallas LCD o las de plasma, las pantallas táctiles en los espacios públicos). A menudo, estos eventos no sólo son financiados pero también promovidos por grandes empresas como Toshiba, Nokia, Sony, Smasung, LG, para demostrar la potencia de sus proyectores (ya que, obviamente, los usuarios principales de proyectores de decenas de miles de lúmenes son los mega-eventos en estadios, conciertos, promocionales).


Las fachadas de edificios se han utilizado como grandes telones de fondo y acompañan conciertos en vivo, como en la Piazza Duomo, en 2008, con un concierto de Christian Fennesz con imágenes de Giuseppe La Spada. El evento fue firmado por la empresa italiana Urban Screen Spa, a cargo del primer proyecto de medialización urbana en Milano con una mediafachada de 487 metros cuadrados (patio Arengario, Piazza Duomo, Milán, proyecto Mia, Milan El Alto): Mia es la arquitectura multimedia de LED más grande en Europa. Se multiplican los festivales internacionales dedicados al género, como el Mapping Festival en Ginebra o el Kernel Festival en Desio, entre otros. El fenómeno, a medida que ha ido adquiriendo proporciones cada vez mayores y una difusión internacional, ha sido también el tema de conferencias internacionales organizadas por la Asociación Internacional Urban Screen, con eventos (en Manchester y Amsterdam) y la primera publicación exclusivamente dedicada a este tema y de descarga gratuita desde el sitio web Networkcultures.org. En el Festival des Lumières de Lyon en 2010, el Grupo 1024 Architecture produce una pieza notable, que cubre literalmente el palacio con una el  palacio con una máscara interactiva.

Grupo1024

En este miesmo año, el Festival Kernel nos muestra una sucesión de colapsos, grietas e intrusión de plantas y de ciencia-ficción en la fachada del Palacio Tittoni en Desio. O bien el mapeo de la tierra de las pistas de tenis para el Master de Francia en París Bercy, activado por un controlador de PS3 y el software MadMapper (siempre a manos de Arquitectura 1024). También Studio Azzurro realizó en noviembre de 2011 un videomapping titulado Awakening, una alegoría de las figuras de la música en la plaza Scala de Milán: para la inauguración de los Museos “Galerías de Italia”, dedicado al siglo XIX, el mapping se proyecta en los cuatro principales palacios a la vez, el Palacio Beltrami, el Palacio Anguissola, la Scala y el Palacio Marino. En consonancia con la poética de Studio Azzurro, las figuras de las pinturas cobran vida, flotan, fuera del marco e invitan a la gente a entrar en el museo. White Doors VJ utiliza la superficie arquitectónica mapeada como un “lugar” para una acción videoperformativa en vivo, en la que Giacomo Verde actúa al ritmo de la música, generando efectos digitales sobre unas formas y objetos filmados en directo que se mezclan al contenido del videomapping. Es una variación significativa de su “Videofondali” diseñado para la lectura de poesía en vivo, eventos coreográficos o sonoros.

Se ha logrado una verdadera ilusión óptica en este evento en Berlín, un mapeo con ilusiones en 3D el donde el edificio se convierte en un robot, un cubo de Rubik, un transformador, un palacio de hielo.

Herramientas:

Los software más usados para el videomapping son: vvvv (o V cuatro), processing (de código abierto); KPT (gratis), Isadora, Adobe Flash, MAX / MSP/Jitter, Pure Data (código abierto), OpenFrameworks (código abierto) . En 3D: Blender (open source), 3D Studio Max , Cinema 4D.

Processing es un lenguaje de programación basado en Java, a su vez heredero del antepasado de todos los lenguajes orientados a objetos – el C – con el que se pueden desarrollar aplicaciones visuales impresionantes, gestionar la interacción entre sonidos y entorno visual y crear simulaciones realistas para juegos o contenido interactivo. Tiene una sintaxis muy lineal, y puede alcanzar altos niveles de complejidad. Es particularmente adecuado para aplicaciones multimedia distribuidas con licencia de código abierto. El lenguaje, que tiene versiones en todas las plataformas (Windows, Mac, Linux, Android…), cuenta con una amplia comunidad internacional, donde uno puede disfrutar de un diálogo continuo y compartir sus logros. Sitio de referencia: www.processing.org.

VVVV es otro entorno de programación multimedia libre para uso no comercial. Permite manejar gráficos, audio y video en tiempo real a través de una interfaz visual de tipo diagrama de flujo, que no se basa en código escrito sino en objeto-iconos que le confieren características interactivas y una edición visual. Es una forma de programar por “objetos” con un enfoque intuitivo, especialmente adecuado para aquellos que están acostumbrados a tratar con representaciones visuales de comunicación. Sitio de referencia principal: www.vvvv.org

Mapeando objetos. Cualquier objeto se puede mapear, no solamente las superficies de paredes, sino también (y de manera más fácil) los pequeños objetos, muebles a medida, o incluso maniquíes. Por lo tanto, el mapping se puede utilizar en campos como la escenografía, el vestuario, las salas de exposición o el diseño de interiores. En esta demo se muestran las infinitas posibilidades de videomapping a pequeña escala, utilizando como superficie de proyección un maniquí que gracias al mapping se ve vestido videodigitalmente de mil maneras distintas.

Original e inquietante es la máquina humana diseñada para la instalación Locomotoras creada y mappeada en la Place des Arts del grupo canadiense Departement: una maraña de cuerpos pasan a formar un engranaje corpóreo en un mosaico de pantallas.

Locomotive – Place des Arts – Espace culturel

 Impresionante también son las instalación de AntiVJ, que trabajan con elementos orgánicos en proyectos como Paleodictyon para el Centre Pompidou en Metz.

PALEODICTYON

 Del cubo a la catedral


Podemos considerar que Urban Sreen con su 555Kubik fueron los que iniciaron el genero de vídeo mapping a gran escala en 2009.

UrbanScreen

Una mano gigante y un teclado se posan sobre un edificio en forma de cubo, mientras que los cuadros que forman la superficie de la pared parecen salir de ella en un juego de geometría intrigante. En este contexto, también encontramos Rose Bond, Fokus Productions, Telenoika, Paradigma, AntiVJ, Obscura Digital (quien creó el mapping tanto para el aniversario de Coca Cola, como para un evento de interacción inspirado en el mundo de Facebook durante una reunión de los desarrolladores de la red social).

AntiVJ

Fueron Obscura Digital, quienes después de trabajar para la Sydney Opera House, quienes crearon la proyección de vídeo más espectacular que se haya realizado hasta ahora, sobre la Gran Mezquita de Abu Dhabi para celebrar la Unión de los Emiratos Árabes. Las cifras hablan por sí solas: 44 proyectores para un total de 840.000 lúmenes cubrieron un área de 180 metros de ancho y 106 de alto.

Sheikh Zayed Grand Mosque Projections

Los presupuestos que manejan las grandes empresas para estos eventos, no son obviamente al alcance de la mayoría de los artistas independientes. Por tanto, es necesario centrarse en las ideas innovadoras para hacer frente a esta limitación. La proyección arquitectónica en un espacio cerrado, preferiblemente interactiva, es una gran oportunidad que los artistas y los diseñadores tienen a su disposición para representar sus ideas.

El vídeo mapping puede aplicarse en espacios cerrados, en teatros equipados, sin tener que utilizar los grandes proyectores que tienen un coste equivalente al de comprarse una vivienda. En este tipo de situaciones, emociones e ideas pueden prevalecer sobre el gigantismo tan de boga en estos momentos.Eso es lo que el mappimg viene aplicando en la cultura vj, para los clubes, discotecas y otras salas abarrotadas, donde la música tecno es siempre acompañada de vídeo en directo. En Ibiza el grupo Palnoise entretiene a la audiencia con un mapping abstracto pegado al ritmo salvaje de un DJ. Pero el mapping de audiovisuales más espectacular ha sido el de Amon Tobin: sus actuaciones se caracterizan por una estructura geométrica en el centro de la escena, en la que se proyectan las imágenes. El impacto visual proporciona un excelente soporte a su peculiar sonido.

El grupo Le Collagiste VJ, como indica su nombre, propone soluciones espectaculares de VJ mapping.

El público está particularmente atraído por estas formas de espectáculo visual y musical, no sólo por su novedad, sino también por la fascinación hacia las convulsiones de la percepción, la creación de objetos ‘imposibles’ y la precisa sincronización entre imagen y sonido.

Nos referimos al canal de vídeo Vimeo dedicado a videomapping con actualizaciones continuas: ilovemapping

y por supuesto a los numerosos blogs, sitios web y “tutoriales” en la red que explican el procedimiento y el funcionamiento de los distintos programas de software.

El paso siguiente en la evolución de esta técnica ha sido la incorporación de la interacción del público: un ejemplo de mapping de proyección interactiva es Dancing House, por el artista austríaco Klaus Obermaier / Exilio para Lichtsicht, (Bad Rothenfelde, Alemania).

 Roberto Fazio con Nicholas Saporito está experimentando con el mapeo arquitectónico interactivo con vvvv. La interacción se produce a través del movimiento humano captado por una Kinect, pero también puede interactuar cantando o hablando en un micrófono como en este mapping de 1024 Architecture para el Festival Lumière de Lyon, fachada del teatro Célestin.

Nuform nos propone también utilizar el IPad: el público puede elegir el color, la iluminación de efectos especiales y otras maravillas que se proyectan en los edificios. NuFormer, una compañía con sede en los Países Bajos, se ha especializado en la comunicación digital, motion graphics, películas digitales y proyecciones en 3D para eventos de negocios: extraordinario efectos en su Projection on Buildings.

NUform

El vídeo de esta fachada de edificio que parece desmoronarse bajo los ojos del público o que se llena de bolas de colores ha recorrido los todos los sitios dedicados al arte digital, aportando el éxito a esta muy especial y nueva forma de arte.

NuFormer Showreel 2011

Così Rob Delfgaauw de Nuformer: 
 Tenemos solicitudes de espectáculos, performances, conciertos y eventos. Estamos desarrollando una técnica para usar proyección 3D en interior y específicamente para teatros y en contexto de conciertos. En la actualidad, nuestra investigación se centra en cómo encontrar la forma más adecuada para combinar la interactividad con proyecciones en 3D y comunicar la experiencia al público. Desde el momento en que hay suficiente oscuridad y la luz ambiente es baja, podemos proyectar de la misma manera en exteriores o en el interior de un teatro. Los artistas tienen que hacer frente a una nueva forma y un nuevo entorno con el cual expresarse. Trate de considerar un gran edificio como si se tratara de fondo animado de un escenario. Es impressionante. Sobretodo si el contenido se genera en tiempo real.”(entrevista de Anna Maria Monteverdi/Enzo Gentile, 2010).

Il Teatro in Kosovo
30

Kosovo: i protagonisti del nuovo teatro e i centri culturali della capitale.

Pubblicato su Rumor scena 

Passaggio nei Balcani. (1)

Nonostante il conflitto nei Balcani sia terminato quattordici anni fa e il Kosovo si sia autoproclamato Repubblica dal 2008 (NSK), ancora profonde sono le cicatrici della guerra contro la Serbia, che ha riconosciuto una linea amministrativa di confine (Abl) ma non l’indipendenza della sua ex regione meridionale. Per le strade si vedono sempre meno i mezzi della sicurezza internazionale (Kfor, Unmik, Eulex, Osce), considerato che da giugno 2014 molte delle missioni militari chiuderanno e si darà il via a un processo di “normalizzazione” nell’amministrazione del governo locale. La questione dei confini e la tematica del nazionalismo sono tuttavia, laceranti e palpabili, e ad attraversare queste zone, soprattutto nella parte settentrionale del Kosovo, dove è presente l’enclave serba di Mitrovica, tornano in mente le parole dello scrittore triestino Claudio Magris: “I confini muoiono e risorgono, si spostano, si cancellano e riappaiono inaspettati. Segnano l’esperienza, il linguaggio, lo spazio dell’abitare, il corpo con la sua salute e le sue malattie, la psiche con le sue scissioni e i suoi riassestamenti, la politica con la sua spesso assurda cartografia”. (Come i pesci il mare, “Nuovi Argomenti”, 1991).

Lo sviluppo urbano dopo la fine del conflitto, ha avuto una progressione vorticosa (il cosiddetto “turbo-urbanism”), apparentemente senza un vero piano regolatore, lambendo anche aree collinari un tempo preservate dal cemento perché situate in zona sismica. Coesistenze anche violente di stili e architetture poco coerenti con il paesaggio, fanno di Pristina, la capitale, una città caotica e ben poco riconducibile a una sola tipologia edilizia. L’esterno della Biblioteca Nazionale (iniziata nel 1975) ha un’improbabile e assai orribile germinazione di 99 cupole di vetro ricoperto di rete metallica: è stata inserita tra gli edifici più brutti del mondo, nella classifica del Daily Telegraph. Allo stesso stile – Brutalismo– sono riconducibili anche il Centro sportivo (una specie di fantascientifica astronave) e il Grand Hotel. Il cuore pulsante della città si snoda sul lungo Boulevard Madre Teresa, oggi definitivamente terminato con l’allestimento di una fontana che si illumina di luci colorate e sbuca direttamente dalla pavimentazione proprio davanti al Teatro Nazionale. AI lati del Boulevard, venditori di castagne arrostite, di libri usati e di schede telefoniche si alternano a bambini rom che suonano percussioni. Non sembra, comunque, di essere in Kosovo. Piazze nuove di zecca, illuminazione, fontane, negozi e moda in vetrina che guarda all’Europa dell’Ovest, sia pur con qualche anno di ritardo. Certo, questa immagine di Pristina non rappresenta la realtà kosovara, povera e con case sovente senza acqua e elettricità. Ben due statue dedicate ad eroi o “amici” del Kosovo, fanno bella mostra di sé: una è dedicata a Ibrahim Rugova, primo presidente e capo, all’epoca del conflitto, di una sorta di movimento autonomista pacifico, e l’altra è la controversa statua dedicata al “liberatore” Bill Clinton nell’omonimo viale. Uno dei tanti segnali tangibili dei forti contrasti che qua convivono. E’ chiaro che Pristina sta vivendo una rinascita che la potrà portare ad essere in questo processo di lento decentramento culturale verso Est, una delle città europee della cultura.

Luoghi e centri culturali.

Il Teatro Nazionale di Pristina (Teatri Kombetar) è uno spazio culturale istituzionale di limitate dimensioni come capienza (300 persone circa), una pianta a ferro di cavallo senza ordini di galleria ed è considerato il “salotto buono” della città. Le attività teatrali vengono insegnate alla Facoltà d’Arte dell’Università di Pristina che ha materie come scenografia, regia, recitazione, storia del teatro e una sala teatrale interna per gli esami di profitto, anche se vengono usate metodologie d’apprendimento e repertori drammaturgici più conservativi che non innovativi.

Le istituzioni culturali di Stato sono presenti, poi, con il Museo Nazionale (che ospita sia il Museo archeologico con la famosa terracotta neolitica della Dea sul trono, emblema della città, che una terrificante esposizione stabile dedicata alla presenza militare dell’Onu in Kosovo) e il Museo etnografico ricavato da un complesso residenziale di impianto ottomano ben conservato. Capitolo a parte la Galleria Nazionale d’arte contemporanea il cui conservatore nonché artista Erzen Shkololli organizza mostre collettive della cosiddetta Balkart di notevole interesse e convegni che fuoriescono dai puri slogan nazionali: se l’evento del 2012 era stato Adrian Paci, nel 2013 si sono susseguite mostre organizzate da curatori internazionali (Charles Esche, Christine Frisinghelli e Galit Eliat). Un padiglione della 55° Biennale d’Arte di Venezia era dedicata al Kosovo.

Più che le strutture istituzionali, sono i piccoli spazi culturali decentrati i luoghi dove si concentrano le forze migliori e giovani per un possibile e radicale cambiamento di rotta verso una cultura identitaria che si emancipi ma guardi anche a Ovest dell’Europa. Per avere un’idea della vivacità e della crescita artistica del nuovo Kosovo, può essere utile consultare il sito Kosovo 2.0, rivista on line che ha un corrispettivo quadrimestrale stampato dall’ottima qualità di testi e grafica. Sono quattro fondamentalmente i centri di aggregazione della capitale: si parte da Qendra Multimedia, nel quartiere Dardania, di fatto la struttura produttiva che supporta le migliori realizzazioni nel campo teatrale e letterario del Kosovo anche grazie ai finanziamenti europei. Ideato da Jeton Neziraj, giovane drammaturgo e personaggio tra i più autorevoli nei Balcani, Qendra ha prodotto spettacoli e pubblicato un interessante volume dal titolo New literature from Kosovo elencando autori, traduttori e registi presenti in questo territorio tra cui Beqe Cufaj, Visar Krusha, Shpetim Selmani e molti altri.

adrian Paci

  Adrian Paci all’opening della mostra di Pristina, foto Enver Bylykbashi

Tetris è, invece, un open space, un locale alternativo dove vengono proposti concerti, mostre e iniziative letterarie: ricavato da un appartamento privato, il luogo è accogliente e caldo e si può bere dell’ottima Rakija (la grappa aromatizzata locale) mentre si chiacchiera con i giovani creativi della capitale che qua si danno appuntamento. All’epoca della mia presenza a Pristina, a fine novembre era in programma un vernissage dell’artista Rron Qena, pittore di talento che mescola avanguardie nei suoi coloratissimi ritratti al femminile.

Imperdibile il caffè-libreria Dit’e’ Nat, luogo molto “trendy” della capitale dalla vaga atmosfera parigina, che a certe ore del giorno (a pranzo) e della sera (dopo cena) si riempie all’inverosimile di giovani studenti universitari o intellettuali, per bere e mangiare ma anche per consultare e comprare libri e ascoltare musica jazz dal vivo. Qua è possibile conversare con la co-fondatrice, la regista cinematografica Kaltrina Krasniqi che ha fatto del locale anche il luogo di incontri mensili con il cinema. Infine da segnalare tra i luoghi d’arte alternativi Stacion – Center for Contemporary Art. Fondato nel 2006 da Albert Heta e Vala Osmani, Stacion è uno spazio per artisti, architetti, pensatori, critici, e ospita eventi e conferenze internazionali.

I Teatri.

Il teatro indipendente ODA è stato fondato nel 2002 da Lirak Çelaj, attore e Mehmeti, regista. Oltre alle sue produzioni ospita compagnie teatrali dall’Albania, Macedonia e altri paesi balcanici, Europa e Stati Uniti. Oda è membro di vari network teatrali in Europa.

Il Teatro Dodona fondato nel 1985 da Rabije Bajrami e un gruppo di altri artisti come i registi Melehate Qena eIsmail Ymeri è invece un vero simbolo di resistenza. Dedicato espressamente ai ragazzi, questo teatro è stato l’unico spazio culturale rimasto aperto durante il conflitto. Quando le scuole e le istituzioni albanesi chiusero dopo la revoca da parte della Serbia, dell’autonomia del Kosovo, il Teatro Dodona divenne un luogo di incontro per la comunità albanese, e nonostante il rischio, gli spettacoli continuavano a essere programmati; fu, come ricordò il famoso attore e regista kosovaro Faruk Begolli, direttore del Dodona “una protesta contro la violenza, una manifestazione di orgoglio e dignità, una forma di resistenza”. Dalla fine del conflitto sono stati ospitati più di 370 produzioni.

                                                          Jeton Neziraj e la drammaturgia in Kosovo.

Neziraj è la coraggiosa voce politica (spesso censurata) nel teatro del nuovo Kosovo. Autore di oltre 15 commedie (tra cui The last Supper, Yue Madeline yue; The demolition of the Eiffel Tower; Patriotic hypermarket, The bridge, War in time of love) rappresentate in tutto il mondo, discute nelle sue opere, di terrorismo, razzismo, discriminazione, corruzione, e in generale del “chaotic post-war Kosovo”, la qual cosa non è stata senza conseguenze: per la sua collaborazione con Saša Ilić sulla antologia serbo-kosovara Iz incontaminate, s ljubavlju / Nga Beogradi, mi Dashuri (Da Pristina, con Amore / Da Belgrado, con Amore) ha perso la sua posizione di direttore artistico del Teatro Nazionale del Kosovo nel 2011. Neziraj pone al centro della sua riflessione, una critica alla propaganda governativa che non risparmia neanche il teatro, e sottolinea l’importanza dell’arte in una società democratica: “Un’ondata di mania patriottica ha riempito i teatri del paese che producono sempre lo stesso noioso discorso politico: quello nazionalista”.

Neziraj ha collaborato con il famoso CZKD (Centro per la decontaminazione culturale) di Belgrado diretto daBorka Pavicevic e ha realizzato l’evento Polip International Literature Festival. La nuova scena teatrale non dovrà restare ancorata al passato, alle separazioni del conflitto, ma sicuramente dovrà essere uno strumento per il superamento del trauma, per la ricostruzione, per un nuovo dialogo e una nuova identità. La natura politica del lavoro di Neziraj, le cui opere sono state tradotte in numerosi paesi fuori dalla cerchia balcanica, è nello svelare l’ambiguità della Storia e la sua irriducibilità a un racconto coerente, e come tale, non può che essere esposta in modo distorto, sarcastico, surreale e in uno stile asciutto che taglia l’inessenziale. Neziraj mette al centro dei suoi testi, personaggi emblematici di una condizione non solo sociale e politica ma anche e soprattutto “geografica”, addirittura di frontiera: il Kosovo post-jugoslavo; le circostanze in cui essi si trovano a vivere (guerre, divieti, soprusi, persecuzioni) rendono la loro quotidianità non così lineare, sempre in balìa di deviazioni catastrofiche. Con Peer Gynt dal Kosovo, Neziraj ha scritto una storia paradigmatica della migrazione europea: il suo eroe ingenuo proveniente dal Kosovo vaga attraverso l’Europa, dove sentirà la differenza tra il sogno della libertà e la realtà. In Yue Madelein Yue, una giovane Rom espulsa dalla Germania in Kosovo viene ferita in un cantiere edile: mentre combatte per la vita, il padre combatte per avere giustizia. Ma il grande detonatore dei testi di Jeton Neziraj è l’umorismo. Mille sono le battute nascoste tra le pieghe delle frasi, richiami parodici dietro cui distruggere il potere: la vedova di guerra si innamora dell’addetto all’ufficio Missing person dove era andata a denunciare la scomparsa del marito, l’uomo che fa indossare alla sua donna il burqa, non la riconosce più, in mezzo a troppe donne velate, l’attore che deve leggere il discorso sull’indipendenza del Kosovo del Primo Ministro è in crisi perché non sa quando ci sarà questa indipendenza. Testi critici su Neziraj sono stati pubblicati su Theater der Zeit (dicembre 2013); in Italia sono apparsi alcuni articoli su Post teatro (blog di Repubblica), ateatro.it, Laspeziaoggi, e prossimamente su Hystrio (gennaio 2014) e Teatro e Storia (Febbraio 2014), tutti a mia  firma.

                                    

Il Crollo della Torre Eiffel: dal testo alla scena. Il debutto a dicembre 2013 a Pristina

The demolition of the Eiffel Tower è stato scritto durante una residenza artistica di Neziraj in Francia, in Val de Reuil, a seguito di un invito da parte del regista Patrick Verschueren ed è stato realizzato in forma di reading a New York (al Gerald W. Lynch Theater) in occasione il decennale della commemorazione dell’11 settembre. Agli inizi di dicembre, quest’anno, il testo ha avuto il suo primo debutto teatrale comleto di scrittura scenica al Teatro Nazionale di Pristina con la regia della moglie di Jeton, Blerta Neziraj. Blerta si è avvalsa della dramaturg Borka Pavicevic e di professionisti internazionali (per le coreografie Violeta Vitanova e Stanislav Genadiev, per le voci e musiche diGabriele Marangoni, per le ombre e marionette Clément Peretjatko) che affiancavano gli attori, tutti provenienti dal Kosovo. L’autore “tratta” la tematica urgente del terrorismo come una conseguenza dei conflitti religiosi e politici globali. Tra divisioni, fraintendimenti, fanatismi, violenze (vere e presunte), il testo smonta certezze e luoghi comuni e fa convivere il mito di Orfeo e Euridice con una fiaba (inventata) di atmosfera ottomana.

Due terroristi vogliono distruggere l’emblema dell’Europa per un atto sacrilego compiuto da un francese che va in giro per Parigi a sollevare indisturbato il velo alle donne che indossano il burka. Una serie di fraintendimenti portano alla verità: l’uomo cerca solo di ritrovare la donna che ama, confusa tra mille altre dietro il velo. Quindi si tratta non di una storia di sangue, di vendetta ma di una storia d’amore tra due ragazzi che si conoscono in strada vendendo rose e giornali. Intrecciata a questa vicenda, altre storie si inanellano, creando una drammaturgia costruita con sapienza, su piani paralleli. Si va da quella quasi fiabesca del condottiero Osman che distribuisce veli alle giovani donne (ma anche lui si innamorerà e vagherà a ricercare la sua amata nascosta dal velo da lui donato, cercandone lo sguardo, come Orfeo), a quella piena di non sense dei terroristi improvvisati che arrivano a Parigi per far saltare la Torre Eiffel. Tutto il dramma di Neziraj è una questione di punti di vista, di sguardi alterati o offuscati, di visioni non cristalline, di veli che impediscono la vista o la acuiscono, di sguardi negati. In buona sostanza, di filtri che ci impediscono di leggere la realtà.

Della coppia di terroristi (a metà tra Didi e Gogo di Beckett e Totò e Peppino) che vogliono far cadere il simbolo dell’Europa, viene data un’immagine non molto edificante. Criticano i modi di vita europei, additano la pornografia, litigano tra i componenti delle varie correnti religiose islamiche e conoscono, apparentemente, una sola legge, quella della vendetta. Alla fine l’unica torre che viene distrutta è quella fatta di cerini: qua Jeton Neziraj incontra felicemente lo scrittore Etgar Keret, nato a Tel Aviv l’anno della guerra dei Sei giorni (1967) i cui libri, apertamente ironici sui luoghi comuni della cultura israeliana, sono intrisi di vero humour nero.

In scena quattro attori di talento: Shengyl Ismaili, Ernest Malazogu, Armend Ismajli, Adrian Morina diretti daBlerta Neziraj in un allestimento originale che “intellettualizza” la drammaturgia e la restituisce attraverso corpi che si alternano alle marionette (e talvolta scambiandosi con queste): ne esce una perfetta partitura orchestrale per voci e ombre di grande effetto, ma anche una partitura di movimenti simile agli Actes sans paroles di Beckett. Centrale sia la progettazione di una scenografia da teatrino d’ombre, sia soprattutto l’apparato sonoro e vocale composto da Gabriele Marangoni, a lungo collaboratore della compagnia, che funge da accompagnamento ritmico dando una potente ossatura strutturale musicale dentro cui inserire una gestualità rituale e una mimica non naturalistica. Attori-manovratori di marionette, attori-cantanti, attori-acrobati: una vera prova di bravura da parte degli interpreti, molto apprezzata dal pubblico che ha affollato il teatro.

Il teatro di figura, con i cartoncini e le sagome dei personaggi restituisce la sensazione di atemporalità, perfettamente adatta alla storia leggendaria di Osman. Talvolta, nel compiere movimenti banali come in un rituale, nel ripetere come fossero nenie religiose delle frasi comuni, i personaggi stessi prendono dei tratti automatici e deumanizzanti, in un meccanismo dell’assurdo che dipinge a pieno la nostra società. Infatti la sensazione che la “burattinizzazione” sia dell’intero Occidente è forse un livello di lettura che andrebbe la pena di sondare. E se fossero la politica e la religione stessa a “tenere i fili” dei personaggi (terroristi o capi della rivolta, mandanti o esecutori) e a manovrarli? In scena ci sono figure sicuramente ridicole, private di un pensiero proprio. A loro calza perfettamente la metafora della marionetta senza volontà. Unica, viva, la donna con il burka che rispetto a tutti loro, ciechi o accecati appunto da un potere del tutto arbitrario, vede e ha la libertà agli altri mancata, di agire e scegliere. Blerta porta alla superficie sia una dimensione di affermazione di diritti che l’avversione per “tutto ciò che sembra”. Se nella società contemporanea il potere obbliga a indossare maschere sociali di finzione (che genereranno il conflitto), invece il velo non cambia la persona e il suo modo di essere: l’ironico e profondo brano cantato dalla protagonista velata, dal significativo titolo Io vedo corrisponde nella sostanza, alla frase di Amleto: Io ho dentro ciò che non si mostra.

www.qendra.org

http://www.jetonneziraj.com/

http://www.kosovotwopointzero.com/

Masbedo: dal video alla performance
29

Pubblicato su Interactive-performance

Era a Prato, al Museo d’arte contemporanea in occasione della mostra “Nessuna paura”; mi colpì molto la modalità e la dimensione della installazione di Masbedo dal titolo 10 insects to feed (la multivisione, con tre pannelli incorniciati a formare un trittico di gigantesche proporzioni), la perfezione tecnica (la qualità della fotografia, la luce, le campiture cromatiche degli abiti, la scelta cinematografica delle inquadrature e delle immagini), e non ultima, l’interpretazione degli attori basata un’improvvisazione fisica estrema a raccontare panico improvviso, soffocamento e delirio: in sostanza, mi colpì la forza complessiva dell’opera video nel suo insieme.
L’impressione fu quella di avere di fronte artisti che, pur giovanissimi come Jacopo Bedogni e Niccolò Massazza, avevano già trovato la corretta grammatica per un’arte video di grande valore e sviluppato una conseguente sintassi coerente e originale. I loro lavori sono caratterizzati proprio, sin dagli esordi, da una fase di pre-produzione studiata nei dettagli, articolata e complessa, che mette in campo ogni volta, un vero staff cinematografico di professionisti della scrittura e dell’immagine e che produce come risultato finale, video opere di grande rigore stilistico e formale.

Il contenuto, sempre fortemente drammatico, della trama video, non è mai realistico: tende a mostrare, evocandoli, luoghi dell’interiorità, affrontando immaginari mentali che partono sì dalla realtà ma per trasfigurarla. Da qui l’accostamento a Bill Viola la cui arte video, su sua stessa ammissione, è volta a “oltrepassare una soglia, allontanarsi dal mondo fisico e entrare nel mondo metafisico” (Bill Viola, The Landscape within, Conferenza alla Scuola Normale Superiore, Pisa, 2001).

Le ambientazioni dei video dei Masbedo (Schegge d’incanto in fondo al dubbioTeorema d’incompletezzaGlima) grondano potenti metafore esistenziali: le vette impervie e le cime innevate del Monte Bianco, le grandi profondità marine, il mare in tempesta della Francia del Nord, il paesaggio glaciale e vulcanico dell’Islanda non sono altro che potenti e drammatiche istantanee interiori, un veritiero e scomodo specchio dell’anima; dentro questo panorama desolato un uomo e una donna nella solitudine più sfrenata ma anche nella resistenza più accanita, sono intenti in quella lotta quotidiana nel “gran mare dell’essere” (come scriveva Giacomo Leopardi).

 

Un “esistenzialismo tecnologico” in cui Masbedo si riconoscono e coltivano una loro estetica fortemente connotata e riconoscibile. Testi importanti accompagnano i loro story board, scritti da Aldo Nove o ispirati alla filosofia di Houellebecq; ma sono più importanti i sottotesti, suggeriti dalle atmosfere cupe e avverse che avvolgono un lui e una lei imprigionati, in eterno, vicendevole conflitto che approda a un temporaneo stato di tregua, fisica e mentale. Come Amleti irrequieti, vaganti nel vuoto pneumatico di una condizione tragica, evocata nella sua abissalità da una camera iperbarica o da interminabili silenzi, vivono distillandosi l’ossigeno per una rinascita, o almeno, per una via di fuga.

 

Masbedo, Leopardi e gli altri
Le tematiche comuni alla quasi totalità dei video dei Masbedo (Teorema di incompletezzaGlimaAutopsia del tralalaTogliendo tempesta al marePerson) sono il senso di vuoto, di disincanto e di precarietà esistenziale, l’incomunicabilità, l’isolamento volontario come rifugio ultimo, la custodia sisifica dei valori societari, l’arte che trattiene gli ultimi brandelli di umanità, la sterilità dei rapporti umani nel generale inaridimento e decadenza morale della società occidentale. Il bisogno di infinito.

masbedo2-1102111746590 (1)                                         

Nel video Teorema di incompletezza è assente, esattamente come nelle Operette morali di Leopardi, la figura umana: il paesaggio intorno quasi agli estremi confini della terra, è di una alterità spiazzante. La camera è pressoché fissa, registra con pochi cambi di inquadratura, ciò che ha davanti come se non ci fosse nessuno a comandarla; del resto non c’è neanche un vero soggetto ma solo un gioco tra un sorvegliante impersonale e forse automatico e un sorvegliato altrettanto inanimato (ricordando questo l’occhio della macchina elettronica di Der Riese di Michael Klier e il famoso video e relativa installazione di Michael Snow La Région Centrale creato con un dispositivo di ripresa automatico che registrò per 5 giorni in tutte le possibili angolazioni, il paesaggio montuoso del Québec). La scena è composta infatti da un’insolita “natura morta”: una tavola di legno con due sedie, apparecchiata con una serie di bottiglie e bicchieri vuoti che vengono frantumati da una pallottola sparata con grande conflagrazione in un paesaggio lavico sconfinato e lontano da ogni socialità. Quello che era un rassicurante paesaggio di oggetti della più pura quotidianità, fatto di contenitori trasparenti integri e lucidi, diventa un attimo dopo lo sparo dell’invisibile cecchino, un universo di vetri acuminati, taglienti mentre il rivolo d’acqua continua, testimone indifferente, a scorrere sotto la tavola. InSchegge d’incanto in fondo al dubbio un uomo e una donna sono intenti in una lotta di proporzioni titaniche: da una parte l’uomo si trascina faticosamente nella neve con un paracadute aperto e tenta ostinatamente di opporsi alla violenza elementale, dall’altra la donna si accinge a salvare suppellettili domestiche impregnate di riferimenti psicologici e simboli di sesso e di fede. Nuota a fatica nella marea fangosa dell’esistenza inumana che l’ha travolta, portando se stessa e i propri oggetti di affezione e memoria lontano, al riparo dalla civiltà, o tutto quello che ne rimane. In entrambi i casi Masbedo usa un linguaggio figurato, fatto di pregnanti metafore visive: l’ordinario e lo straordinario convivono insieme. La deriva esistenziale dei video di Masbedo ha sempre un suo correlativo oggettivo in una natura matrigna che ha già dimenticato l’uomo.                                                 

Come nel quadro di Caspar David Friedrich Il mare di ghiaccio la cui ispirazione gli fu offerta dalle spedizioni al Polo Nord avvenute per nave nel 1819 e nel 1824 o nei quadri di Ruskin, qua si annulla il succedersi dei giorni e delle stagioni, tutto è eterno e quest’eternità è di ghiaccio; non si può non vedere nei video di Masbedo un riflesso del “pensiero poetante” di Leopardi (da una definizione di Benedetto Croce). In Dialogo della Natura e di un Islandese o ne La ginestra la natura non è mai confortante. E’ nemica o almeno è ostile:

“(L’Islandese si rivolge alla Natura: A questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria… tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi).”

Valgono anche per Masbedo le parole di Asor Rosa sulla Ginestra di Leopardi:

“Leopardi esprime con estrema forza il valore morale di un comportamento che non s’illude di trovare a questa infelicità un risarcimento spirituale ma nella resistenza disillusa e pur fiera alle avversità della natura crede di assolvere al compito naturale assegnato alla ragione dell’uomo e su questa matura consapevolezza, senza speranza alcuna ma anche senza vigliaccheria, fonda il rapporto uomo-natura, che è ormai un rapporto antagonistico e agonistico, di lotta reciproca e senza cedimenti.”

Indeepandance: o del meticciare linguaggi 
E’ del 2008 il concerto video live Indeependance (Arena Civica di Milano) in cui Masbedo provano a mescolare in una dimensione da grande palco, formati e generi artistici in un potente e spettacolare live electronics. Un progetto pilota che voleva unire video live, teatro, poesia e musica grazie a collaborazioni con etichette e artisti internazionali (dalla Real World di Peter Gabriel a Bjork a Steward Copeland a Howie B) in un format a metà tra il palcoscenico dei concerti rock e le installazioni multimediali e in un coinvolgimento sensoriale potente e ipnotico: il pubblico era collocato al centro di una piattaforma da cui erano governati suoni e immagini live mentre il perimetro dell’arena era delimitato da quattro schermi avvolgenti di grandi dimensioni.

Masbedo con questo progetto incarna il concetto prettamente postmoderno esposto da Frederic Jameson di “saturazione estetica”, una saturazione totale e complessiva dello spazio culturale da parte dell’immagine, una permeazione dell’immagine nella vita sociale e quotidiana. Masbedo si muovono proprio in un libero e ambivalente universo cross mediale e amano definire i loro interventi un “meticciare i linguaggi”, o creare “un’arte bicefala” poiché privilegiano allo specifico del medium, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno artistico dal doppio codice genetico, affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo per espandersi tra territori diversi oltre al video: teatro, cinema e pittura. Un’arte intermediale, un’arte espansa. Come ricorda Bruno Di Marino citando le esperienze di Nam June Paik ma anche quelle successive di Laurie Anderson, Peter Gabriel, Metamkine nei cui concerti la componente sia visuale che multimediale “arricchiva notevolmente il loro immaginario musicale in direzione spettacolare” la musica il cinema, il video e la performance sono sempre stati strettamente collegati. (B. Di Marino, Interferenze dello sguardo. sperimentazione audiovisiva tra analogico e digitale, 2002).

E’ quindi un naturale territorio multidisciplinare quello in cui si muove il video sin dal suo esordio dalla metà degli anni Sessanta (dai protagonisti del movimento Fluxus a Paik a Cage), come ricorda Simonetta Cargioli “fecondo terreno per sperimentazioni di incroci attraversamenti e transizioni. In questo contesto di effervescenza creativa e sperimentale il medium video ha vissuto in perfetta promiscuità con le altre arti con le quali si intreccia, si mescola, si confronta, che ingloba, di cui prende a prestito qualche cosa provocandone alterazioni radicali. La performance, la danza, la poesia, il cinema, tra gli esempi numerosi, diventano altra cosa dopo il video o perlomeno, dopo averne assorbito il contatto” (S. Cargioli, Introduzione a Le arti del video, 2004).
Così Masbedo ripropongono in chiave attuale una modalità video dialogica e intermediale ampiamente sperimentata proprio dai pionieri dell’art vidéo. I loro video traggono ispirazione dalle pitture antiche (i loro personaggi assomigliano nelle pose e nei sembianti a figure mitologiche, ricordano pitture prerinascimentali o preraffaellite e sculture tardo romane) e assorbono credito vitale dall’improvvisazione teatrale degli attori privati di sceneggiatura e posti di fronte a canovacci con poche battute; la performatività di alcuni loro video è talmente evidente che lo sfociare nel teatro vero, fatto di palcoscenico come “arena degli attori” diventa (come lo è stato alla fine degli anni Ottanta per Studio Azzurro a coronamento della loro attività video artistica con Camera astratta) quasi una necessità o uno sconfinamento naturale.

Glima.

Il video Glima nato dall’esposizione di una proposizione base, sviluppata dagli attori senza indicazioni registiche dettagliate, è diventato performance video-corporea di enorme fisicità e di grande impatto (grazie anche alla musica live di Lagash e Gianni Moroccolo) in occasione del Festival di Dro nel luglio 2010.

Un uomo e una donna lottano legati da vincoli di lacci in pelle come un’appendice organica che rimanda a un rito di possessioni sadomasochistico e afflizioni autoindotte (intensa l’interpretazione diErna Ómarsdóttir e Damir Todorovic come si vede dalle fotografie di Iris Stefansdottir); intorno a loro una terra vulcanica, l’Islanda, paese che sta subendo un processo di erosione millenario.

Il paesaggio non è estraneo, entra nella violenza perpetrata nei corpi dove alternativamente uno diventa carnefice e l’altro vittima; in questo rituale della coercizione sotto cui si può leggere la generale volontà a non integrarsi, a non piegarsi e a non sottomettersi alle regole del mondo e la generale riluttanza ad obbedire all’ordine sociale i protagonisti hanno abbandonato la civiltà ma non la disponibilità a combattere magari in nome di un’ipotetica causa comune che presuppone l’unirsi degli uomini in una catena umana a difesa del proprio patrimonio di valori. La performance con due schermi e una pedana ad altezza del pubblico, prevedeva anche un’interazione degli attori con una webcam montata su un robot dalla forma aracnoide telecomandato che catturava i dettagli dei volti.

Pathei Mathos (Apprendo dalla sofferenza)

Il video Schegge d’incanto in fondo al dubbio è ricchissimo di riferimenti iconografici alla classicità e alla mitologia greca, e numerose sono anche le citazioni al codice di stile della pittura fiorentina trecentista rivolta alla concretezza dei contenuti umani delle immagini sacre (per la figura femminile la raffigurazione drammatica della Madonna in pietà o della Maddalena sotto la croce, per l’uomo l’immagine titanica del Prometeo incatenato: “ritto”, “insonne”, “temerario”).
La donna, novella Antigone, opponendosi all’omologazione del mondo, alla vita umiliata, compie un gesto impetuoso e solenne di ribellione: fugge e trascina dietro di sé gli oggetti che sono inseparabili dal suo corpo perché ne rappresentano la vita vissuta; infine, ferma immobile su un piedistallo in mezzo al mare, con gesti plastici e una torsione del corpo ricchi di pathos – come nella raffigurazione scultorea ellenistica del Galata morente – accende un fuoco come a chiedere aiuto.

In questo gesto plastico l’attrice evoca miti tragici e archetipi del femminile che raccontano come la vita umana, pur nelle difficoltà e nel dolore, lasci dietro di sé schegge di bellezza. Se l’uomo incarna il motivo dell’audacia di chi ha osato ribellarsi e andare oltre il limite estremo (“Io, invece, che avrei dovuto saper morire, per essere andato oltre la parte a me assegnata, vivrò una vita infelice”, Euripide, Alcesti) la donna mostra una maschera del dolore, un urlo muto che porta con sé tutto il lamento dell’esistere.

Il video trasmette proprio quel senso profondo e necessario di purificazione e metamorfosi dell’essere e quel bisogno di rivelazione da cui nasce la tragedia attica antica e che ci è stato trasmesso dalle pitture vascolari greche: “desistere dal ciclo prendere fiato dalle miserie” (frammento orfico da Proclo, cit. da G. Colli, La sapienza greca).

“Nello sperimentare il tragico a teatro, gli spettatori si trovano di fronte al colmo dell’orrore, a crisi di instabilità e a prove di resistenza, ovvero di fronte a esperienze che nessuno si augurerebbe mai di dover affrontare nella vita reale. Ma poi alla fine dello spettacolo, nessuno ne esce morto o traumatizzato. L’esperienza dell’abisso, il viaggio nell’instabilità a teatro sono vissuti – visti, ascoltati – in una forma che ha bellezza. La poesia, la danza, la musica, i costumi e le voci, l’armonia di suono e azione collaborano a rendere l’esperienza teatrale un momento da cui l’uomo può trarre non abbattimento e debolezza, ma energia. Quello che fanno questi splendidi vasi è di distillare bellezza dalla confusione di tutta questa nostra vita umana. Le pitture vascolari, le tragedie, i vasi e gli spettacoli interagiscono al fine di rinnovare nell’uomo la forza di resistere alla morsa delle tenebre.
(Oliver Taplin, Professore di Lingue e Letterature Classiche e Direttore dell’Archive of Performances of Greek and Roman Drama all’Università di Oxford, testo della conferenza tenuta all’Università di Catania, 18 gennaio 2010).

Jeux de cartes: intervista a Robert Lepage
28

Pubblicato su Interactive-performance.it

Traduzione di Giancarla Carboni

Alla presentazione del progetto Reseau 360°, in occasione del debutto francese di Jeux de Cartes, fa gli onori di casa Philippe Bachman, direttore del teatro La Comete a Chalons en Champagne e anche progettista e ideatore della Rete. Bachman ricorda che sin dalla sua prima stagione nel 2005, aveva programmato Le Projet Andersen: in quell’occasione propose a Lepage di visitare il vicino circo costruito all’inizio dell’Ottocento, che oggi ospita la scuola nazionale delle arti circensi. Si tratta di uno spazio dove negli anni, sono stati programmati anche concerti e spettacoli tradizionali. Proprio durante una conversazione sugli spazi a pianta centrale, Lepage gli suggerisce alcuni spazi simili in Inghilterra (come la Roundhouse, che ospita concerti) e così inizia da parte di Bachman, una ricerca di altri luoghi aventi palcoscenici circolari nell’Europa dell’Ovest e dell’Est, spazi con origini diverse dal circo. 

Si arriva a una interessante mappa di edifici che si originavano dal patrimonio industriale o storico (come gasometri e cisterne d’acqua) riconvertiti in tempi recenti, a spazi per eventi. Questi luoghi molto particolari condividevano – a detta di Bachman – due caratteristiche: il fatto di essere isolati e a pianta centrale.

A questo punto Lepage prende la parola per raccontare, con umiltà e semplicità, la genesi del progetto teatrale vero e proprio. Sono diversi i “temi” affrontati dal regista canadese: la ricerca della forma, la scrittura drammaturgica come un continuo “non finito”, il “racconto in cerchio”, il richiamo al circo e allo show musicale ma anche ai match di improvvisazione e al teatro medioevale… E racconta cosa significa sentirsi “attore bidimensionale” like an Egyptian”.

 

La rottura della frontalità: il teatro degli anni Sessanta

L’idea di lavorare in uno spazio circolare mi interessava. Ho ripensato al teatro gli anni Sessanta, Settanta sino agli anni Ottanta. In quel periodo il teatro provava a rompere la quarta parete e la scena tradizionale lavorando anche in spazi circolari oppure faccia a faccia col pubblico. Si recitava spesso in luoghi industriali, insomma il teatro voleva liberarsi. Si era consolidato un vocabolario legato al vecchio teatro tradizionale all’italiana dal quale ci si voleva liberare: stile di recitazione, messa in scena, tutto era messo in discussione. Era in atto una rivoluzione che avrebbe cambiato le cose. Incastrato dentro una scena video-frontale, mi sono ritrovato come un’immagine “all’egiziana”. 

Negli anni Novanta il teatro comincia ad integrare sempre più spesso le immagini. La tecnologia era più disponibile, più malleabile, più accessibile. Si usava il video, si lavorava col bidimensionale e gli spettacoli erano diventati col tempo, prigionieri di questa forma. Anche io sono tornato a quello schema frontale di scena e mi sono ritrovato “come un’immagine all’egiziana”. Tutto questo era molto interessante e divertente, certamente si stava creando un nuovo vocabolario ma io mi sono sentito imprigionato in questa nuova dimensione. L’idea iniziale infatti, era quella di liberare la scena grazie al video, ma la cosa poi, è ricaduta in una sorta di immobilismo. Nei primi spettacoli, come  che era bi-frontale (le azioni si svolgevano di fronte e dietro uno schermo ndr), non ci si preoccupava necessariamente di quello che la gente vedeva o non vedeva, sentiva o non sentiva ma si cercava di trovare una chiave di recitazione che facesse arrivare la storia agli spettatori. Così mi sono ritrovato invece, nei miei spettacoli alla fine degli anni Novanta schiacciato come in una sorta di sandwich.

La scena a cerchio con Peter Gabriel: il ritorno alla teatralità 
Nel 2001 ho collaborato, per la seconda volta, con Peter Gabriel per il suo tour Growing up Live. Il palco era circolare e molto simile a quello di questo spettacolo. Nonostante non fosse uno show perfetto, mi aveva fatto ripensare all’idea di liberarmi del quadrato. Il solo modo di superare il problema di lavorare in un’area circolare, è quello di reinventarne il vocabolario. Quando c’è un gruppo che suona, si pongono dei problemi legati alla gestione dello spazio: per esempio, il chitarrista per chi deve suonare? Deve guardare il pubblico o altrove? Non era certo la prima volta che un gruppo rock suonava in uno spazio del genere, ma per me era la prima volta. Mi ponevo anche il problema del video: se non c’è uno sfondo o uno schermo, come si fa?
Mi piaceva molto l’idea del cerchio, il fatto che lo spettatore vedesse lo spettacolo e allo stesso tempo vedesse se stesso. Il pubblico guarda lo spettacolo, cerca di capire quello che succede ma allo stesso tempo vede l’eco della sua stessa reazione, si è consapevoli di far parte di una sorta di comunità. Mi sembrava che tutto ciò avesse una teatralità che io avevo perso nei miei spettacoli e avevo voglia di tornare a questo. 
Ho iniziato Jeux des cartes consapevole che sarebbe stato molto problematico lavorare in uno spazio circolare: trovare il livello di recitazione, decidere di recitare di fronte a solo una parte del pubblico ma necessariamente di spalle a qualcun altro, fare attenzione che il dettaglio sia visibile, che arrivi un’immagine molto precisa perché tutti la vedano e capiscano. Ma allo stesso tempo è questa la bellezza delle cose. E’ necessario mettersi in pericolo soprattutto a teatro, bisogna rischiare.

C’è una cosa che ho riscoperto dopo lo show di Gabriel e ancor più col Cirque du Soleil, (parlo dello spettacolo nel tendone dove non c’è uno spazio esattamente a 360° ma semicircolare, un po’ elisabettiano): l’idea che mi ha subito affascinato è che il pubblico vede la performance ma allo stesso tempo gli spettatori. Questo fa sì che il pubblico sia consapevole che si racconta una storia ma allo stesso tempo si crea anche una distanza.

Circolarità e verticalità: il circo, il teatro medioevale 
L’elemento che hanno in comune tutte queste esperienze è l’idea della verticalità. Quando il direttore del Cirque du Soleil mi chiese di collaborare con loro, mi disse che potevo fare ciò che volevo ma dovevo necessariamente sviluppare l’azione coprendo tutti i livelli dal suolo al soffitto. Mi disse che questa linea immaginaria verticale doveva essere il mio riferimento costante. Mi ha fatto capire una cosa importante e cioè che il circo è verticale, che quando si lavora su uno spazio circolare c’è necessariamente l’esigenza anche della verticalità.

 

Nel XX secolo siamo ossessionati dal cinema, dove l’immagine è orizzontale ed è la telecamera che si muove e ritrae l’uomo e il suo ambiente. Il teatro, al contrario lavora da sempre sulla verticalità. L’uomo è sulla terra, verso l’alto sono le sue aspirazioni, il suo dio, la sua morale.
Anche le storie da sempre erano scritte in quel senso: c’è l’uomo e in alto la sua volontà di crescere, le sue aspirazioni e la sua morale, più in basso il diavolo, l’inferno. Mi sono accorto che anche noi di Ex Machina, nel modo di raccontare le storie, avevamo eliminato il diavolo e dio (non ci chiamiamo infatti Deus ex machina ma solo Ex Machina dunque dall’inizio abbiamo eliminato la parola dio); volevo tornare a questo modo di raccontare le storie dove la verticalità ci forzava a ricongiungerci un po’ di più alla poesia, alla mitologia. Il cerchio insomma, ci ha messo di fronte a cose che non avevamo mai fatto, che non conoscevamo.
Per me è un’esperienza davvero molto ricca. Con l’organizzazione Reseau 360° e con Philippe è interessante discutere su cosa vuol dire lavorare in uno spazio circolare e che cosa vuol dire raccontare una storia in cerchio, quali sono i punti forti e quelli deboli, quali sono i vantaggi e quali i pericoli. Trovo che questo sia molto sano. In questo momento, non dico che le persone amino la facilità, ma c’è una sorta di accettazione degli standard industriali che dicono che tu devi raccontare una storia frontalmente, seguendo degli schemi fissi. Certo, ci sono quelli che lo fanno bene e quindi tanto meglio per loro, ma io amo complicare le cose!

Tecnici e attori dentro e sotto la scena 
Ci sono dodici persone che lavorano nello spettacolo tra attori e tecnici. Noi parliamo di tecnici ma si tratta di manipolatori che come con le marionette, muovono la struttura partecipando attivamente al racconto della storia. Si cerca con loro di capire come fare le entrate e le uscite in una struttura circolare. A partire dal momento in cui abbiamo cominciato a improvvisare, a esplorare le storie, gli attori suggerivano dei personaggi o delle situazioni e ci siamo ritrovati che erano dentro delle camere d’hotel. Allora ci siamo posti il problema di come rendere le quattro pareti delle camere; io amo molto gli ostacoli, amo molto i problemi e così proviamo varie soluzioni direttamente in scena. Prima dello spettacolo gli attori stanno almeno una ventina di minuti sotto il palco ad aspettare perché non possono entrare dopo gli spettatori, non possiamo vederli entrare. Gli attori hanno una sorta di volontà elastica per fare il vuoto nella mente e aspettare! Questa dimensione circolare è un’altra cosa rispetto a quello a cui siamo abituati, e sono queste le cose che mi attraggono..

Processo di scrittura: le carte in mano 
Io non ho tutte le soluzioni in tasca, le regole o le chiavi di ingresso: ci si imbarca in un’avventura in cui ogni tanto si trovano delle soluzioni che funzionano. C’è anche il pubblico che ci dice quello che funziona, quello che ha capito o meno e questo fa parte del processo creativo. Ci siamo riuniti attorno ad un tavolo, attori e non attori. Nei miei spettacoli ci sono sempre artisti che arrivano da diversi ambienti (cantanti lirici, imitatori, non attori etc.), che arrivano con un bagaglio di esperienza diversa. In questo caso ho dato loro le carte da gioco, che non sono esattamente un tema ma una risorsa, e insieme abbiamo giocato e parlato, abbiamo fatto delle improvvisazioni e anche delle ricerche.
Lo spettacolo è un po’ l’immagine di qualcosa che funziona bene ma prima di prendere la sua forma finale passa attraverso molti stadi e prove. Concentrando le prove in brevi blocchi di tempo (qui a La Comete 5 giorni, a Québec 10 giorni in cui abbiamo messo in piedi la struttura dello spettacolo e lo abbiamo presentato, abbiamo fatto 3 prove pubbliche) c’è sempre molto poco tempo per sviluppare il lavoro.
Tra questi blocchi ci sono 4, 5, 6 mesi. Ciò significa che non si fanno molte prove, tutto succede durante la tournèe. Arriviamo in una città dove ci prendiamo qualche giorno per discutere cosa cambiare, valutando ogni volta quello che ha funzionato o meno e si cambiano delle cose. Gli attori decidono a volte, anche di scambiarsi le battute.
Tra Madrid (dove è avvenuto il debutto assoluto, ndr) e qua a Chalons sono cambiate molte cose, a Madrid lo spettacolo infatti durava 3 ore, qui 2 ore e mezzo. I personaggi prima di trovare la linea interpretativa improvvisano, tentano degli esperimenti. All’inizio si cambiano molte cose perché ci si accorge di volta in volta di quello che non funziona e a forza di recitare, lo spettacolo inizia a prendere forma, a scolpirsi, il testo si affina e i personaggi trovano il loro percorso e la loro collocazione. Non c’è una visione di partenza di un grande autore che dice “si scrive così, si fa così”, la scrittura fa parte della dinamica del gruppo. Questo è uno spettacolo che ha bisogno di un grosso montaggio, sono necessari 2 o 3 giorni di lavoro e noi ne approfittiamo per far arrivare gli attori un po’ prima e discutere con loro. Alla fine di queste riunioni si prova e si fa una generale tecnica per capire se tutto funziona. Durante la generale tecnica si provano anche varie soluzioni drammaturgiche.

Cambiamenti dell’ultimo momento. Il teatro è uno sport 
Da quando è iniziato questo spettacolo abbiamo fatto 15 repliche. Ci sono dei punti che rimangono stabili perché funzionano. Ci sono molte cose che cambiano e altre che si solidificano, si fissano. In questa scelta, in questo modo di lavorare (ed è ciò che ci piace) c’è la scelta di mettersi in una condizione di pericolo. Le persone si affezionano ai punti più forti dello spettacolo, quelli che funzionano, quelli emozionalmente solidi. Sappiamo ad esempio, che la fine dello spettacolo sarà con il personaggio che soffre di gioco compulsivo e il suo sciamano, ma quello che dice e quello che succede cambia ogni volta, ancora non abbiamo trovato la chiave. Anche stasera cambieremo qualcosa, riscriviamo. Ma questo è il nostro sport! E’ molto sportivo quello che facciamo.  Ci sono delle cose che il pubblico non capisce ma ce ne sono altre che lo incollano alla storia. Noi ascoltiamo, arricchendo il nostro lavoro di nuovi elementi. Questo è un modo particolare di lavorare, fuori dal sistema nel quale ci si aspetta lavori subito pronti all’uso.

La narrazione non è all’altezza di un autore come me? Ma la storia non è ancora finita… 
La storia non è ancora cresciuta, i miei spettacoli sono così, può darsi che qualcuno abbia visto miei spettacoli più completi; è vero, ciò non scusa certe lacune drammaturgiche dello spettacolo. Ma è così che procediamo. Ancor prima che lo spettacolo venga scritto o messo in scena ci diciamo cosa vogliamo dire e fare e mettiamo in piedi il progetto scenografico che ci offre un terreno di gioco. Da qui partiamo per raccontare le storie e in questo terreno di gioco le cose nascono e crescono. Non sappiamo sempre dove siamo rispetto al percorso evolutivo dello spettacolo. Per esempio, quando abbiamo fatto Lipsynch a Londra c’era un ottimo impianto scenografico a supporto di idee che avevamo in testa ma che ancora non avevano trovato una forma. E la storia non reggeva ancora. Dopo tante repliche, lo spettacolo ha preso una forma precisa, esatta. E’ il mio modo di lavorare, non posso fare diversamente. Non ci sono certezze. E’ così che ho sempre sviluppato i miei spettacoli e a parte questo, c’è anche un fattore culturale. Cioè a dire che ci sono degli spettacoli che evolvono meglio all’interno di un contesto, in una certa cultura e che per diversi motivi rendono possibile la crescita dello spettacolo. Anche solo il fatto che all’inizio non ci si accorge che è mal scritto perché magari va in scena in un paese di lingua diversa. Anche questo fa parte dell’evoluzione dello spettacolo. L’itinerario dello spettacolo partecipa al suo sviluppo. Penso che dopo le date in altre città francesi (Lyon, Amiens) e inglesi (Londra), alla data di marzo a Parigi il pubblico vedrà uno spettacolo più completo. E’ sempre una nuova esperienza per chi si interessa al processo creativo, a me interessa soprattutto a quello. Ci sono persone infatti che vengono più di una volta agli spettacoli (indica Anna Monteverdi ndr) La delusione fa parte del processo ma a me questo piace.

Una questione di perfezione: il regista è un vigile urbano 

Ho una preoccupazione di perfezione per la scrittura e anche per la drammaturgia. Ma questa cresce lentamente perché si lavora con materiale umano. La tecnologia la si programma e si fa ciò che si vuole. Gli umani invece sono complessi! Per me questo è un lavoro necessario da fare, per gradi, una scoperta: non so dove andiamo ma so che c’è sempre un continente. Non sono un autore e un regista che dice “Seguitemi so dove andiamo”. Gli attori sono molto coraggiosi: nel momento in cui mi chiedono cosa devono fare nello spettacolo io rispondo che non lo so. Ed è vero, so solo che parla del gioco delle carte. Non ho subito la storia, io scavo e scolpisco il materiale che ho a disposizione. Le persone portano le loro esperienze, le loro idee e io divento un vigile urbano e a un certo punto, quando le cose circolano bene, sono in grado di vedere davanti a me le storie e di scolpire il personaggio, ma all’inizio non ci sono che idee e bisogna avere pazienza. Non sono quel tipo di artista che arriva con la visione di quello che vuole fare. Di sicuro sono come il capitano della nave che dice che non sa dove si va e quando si arriverà ma solo che c’è un continente, e che quindi si toccherà sicuramente terra. Si continua a lavorare sino a quel momento.

Il segreto: lavorare con l’agilità del rettile 
Lo spettacolo dipende anche dal tipo di tensione che si dà agli artisti. Noi pensiamo di presentare al pubblico delle cose interessanti, delle idee davanti alle quali può, più o meno, rimanere colpito, ma creiamo comunque un interesse. Anche se il pubblico non ha capito tutta la storia per intero, lo si ascolta cercando di capire se ci sono dei punti forti da valorizzare. E’ il nostro modo di aprire i giochi, mettere in campo anche la nostra ignoranza, ma c’è sempre grande fiducia. Anche se non c’è una garanzia assoluta in questo metodo di lavoro collettivo di Ex Machina, è necessario passare dagli spettatori e anche dalla critica. Raccogliamo i punti di vista e li mettiamo dentro unmulinello e ci lavoriamo.
E’ molto difficile il momento della ghigliottina della prima, il debutto: io sono riuscito a evitarla. Noi lavoriamo con l’agilità del rettile (sposta la mano da una parte all’altra mimando il serpente, ndr), cioè cerchiamo continuamente nuove vie. Ogni pubblico vuole cose diverse. Anche questo fa parte del mio lavoro. Ho detto prima della questione culturale, mi viene in mente La face cachée de la lune. Non avevo idea che trattasse temi universali e non sapevo in che modo li trattasse. Ho portato lo spettacolo in Europa ed è andato bene sino a quando non sono arrivato in Corea e il pubblico fece delle riflessioni importanti sui due fratelli della storia e su cosa significava per loro, e così mi sono reso conto che c’era una dimensione universale, ma questo non l’avevo messo in conto nel mio spettacolo, è una cosa che è nata li. Così mi sono rimesso a scrivere e ad arricchire la storia sulla base di questa riflessione. Io non so quale spettacolo lo spettatore vedrà ma cerco di confrontare sempre la storia con diverse culture e diverse persone, e questo è una vero lusso.

L’attore? E’ un cantore, uno che fa, uno che mostra 
Un buon attore normalmente è quello che partendo da un testo fa un’ ottima interpretazione e il regista può lavorare faccia a faccia con lui perché tutto è dentro il testo. Noi non abbiamo testo e allora il gioco è davvero un gioco e al momento giusto si finisce per ricreare e rifare da zero. Si cambia in continuazione e alla fine è come se avessimo avuto un buon testo sin dall’inizio. Ma il testo in realtà all’inizio non c’è, quindi io non posso dirigere l’attore, si può parlare delle idee. L’attore diventa più un cantore, uno che fa, uno che mostra.

Never ending stories 
Noi non abbiamo modo di prenderci due anni di lavoro su un solo spettacolo in Canada. Bisogna lavorare su più spettacoli e non si può provare concentrando il numero di ore a disposizione. Noi preferiamo prendere questo numero d’ore e allungarlo sui due anni di lavoro. In questo spazio di tempo le persone pensano allo spettacolo e fanno delle ricerche, tornando con delle buone idee. Utilizziamo il numero d’ore a nostra disposizione allungandole su un periodo più lungo. Si comunica con tutti i mezzi quando non ci si vede (mail, telefono etc) perché, non essendo una compagnia, lavoriamo con persone che fanno anche altre cose e vivono in città e stati diversi. Ma il lavoro di messa in pratica si fa quando siamo riuniti in gruppo prima dello spettacolo. Ad esempio, ogni volta vediamo il video dell’ultimo spettacolo per capire ciò che si è cambiato e va bene, e quello che si deve cambiare. Gli attori allo stesso tempo hanno una visione della scena nel suo complesso, a volte addirittura rimangono sorpresi vedendo quello che succede in scena e in relazione anche a questo cambiano delle cose dei loro personaggi. Quando ci incontriamo la volta successiva tutti hanno molte nuove idee. Questa è una dinamica che io trovo molto eccitante, c’è un’effervescenza… ed è sempre il rifiuto della ghigliottina della prima: si prova uno spettacolo per un anno, si fa qualche anteprima e poi il debutto e da quel momento non si muove più nulla, se alle persone piace, bene, se non piace.. è tutto finito. La ghigliottina. Io non ho voglia di stare dentro un sistema così, io penso che si debba lavorare su un progetto sino a farlo funzionare. E’ difficile farlo nel sistema attuale ma noi crediamo fermamente in questo processo creativo.
Gli attori hanno sempre voglia di recitare come quando si fanno i match di improvvisazione: non si sa se funzionerà o meno. Bisogna essere un po’ dipendenti dall’adrenalina per lavorare così.
Questo non giustifica nulla, se ci sono dei problemi drammaturgici ne siamo coscienti e cerchiamo di fare meglio. Ma è lo sport che pratichiamo, è uno sport diverso.

La creazione collettiva? Un’idea fricchettona a cui io credo ancora 
Siamo partiti da un gioco di carte, se giochiamo insieme e io chiedo ad esempio “A cosa vi fa pensare il colore rosso o il nero nel gioco delle carte?” Mi direte qualcosa e io non potrò mai essere in disaccordo con un’impressione di un altro, quindi non ci sono mai dei conflitti da questo punto di vista. Ma se si facesse così col tema della guerra nascerebbero subito dei conflitti perché tutti arrivano da una classe sociale differente e da un posto diverso e sul tema abbiamo opinioni diverse.
Si inizia con delle cose più poetiche e chiedo ad esempio ciò che le carte evocano e le persone raccontano fatti personali. Io prendo tutto questo materiale cerco di analizzarlo e intrecciarlo, cosicché il lavoro prende il colore di chi partecipa e questo spettacolo è davvero il risultato di queste sei persone più me.
Può capitare che per ragioni professionali qualcuno non possa continuare la tournèe e venga sostituito da un altro attore che cambierà ancora il colore dello spettacolo, e farà delle cose migliori o anche peggiori. Io so che in tutte le creazioni non c’è niente che si perde e niente che si crea. Molto spesso ci si riunisce intorno al tavolo portando delle idee che poi vengono abbandonate, addirittura buttate via ma che poi in qualche modo finiscono per riaffiorare facendosi strada in diversi modi e risalendo a galla per trovare la loro collocazione.
E’ così: una vecchia idea fricchettona degli anni Sessanta di creazione collettiva ma io ci credo ancora, ci sono persone che sono più al loro agio con questo modo di lavorare piuttosto che in una dittatura di regia.

L’attore deve essere in pericolo: la regola del teatro dai match di improvvisazione 
Noi non ci aspettiamo che lo spettatore si interessi al lungo processo di creazione. Noi cerchiamo di fare il meglio nel momento in cui lo stiamo facendo, per lo spettatore che c’è in quel momento, in quel luogo, senza giustificare nulla di quello che accade in scena facendo riferimento agli spettacoli precedenti o a quelli futuri. Tutte le sere cerchiamo di fare il meglio. C’è un motivo per il quale procediamo così, ed è per il fatto che il teatro abituale, convenzionale non suscita in noi lo stesso interesse. Non è una critica, non dico che quello non è un buon teatro, dico solo che quel tipo di teatro non ci mette in pericolo ogni volta che lo mettiamo in scena. Più regole ci sono, meno interessante sarà per un attore o per un regista.

Io arrivo dai match di improvvisazione e ho lavorato per il circo dove gli artisti provano i numeri di giocoleria ma non sono mai veramente sicuri di essere pronti. Credo però che lo spettatore riceva comunque qualcosa di importante ed è per questo che io difendo questo modo di fare e tutti i rischi che questo comporta. Cerchiamo di fare il meglio che si può la sera che si fa lo spettacolo; poco importa se a volte la drammaturgia è un po’ in bilico; il pubblico vede delle persone che sono in “pericolo”, che hanno questa energia e a volte questo fa scattare il miracolo, a volte è davvero miracoloso! A volte per niente.. Succede sempre che c’è qualcosa che fa scattare la molla della soluzione giusta, ci prendiamo il rischio di offrire questo.

Una drammaturgia a incastri 
Siamo sicuri che faremo come spettacolo: picche, cuori, danari e fiori ma queste carte prima eranospade, coppe, danari e bastoni. Questo perché le carte arrivano dal mondo arabo. Picche, ovvero spade è legato al mondo militare; il cuore/coppe è legato all’idea dell’amore ma è anche il sacro Graal, quindi è una carta legata alla religione, alla magia, alla superstizione, (si svolgerà un po’ nel mondo della magia a Parigi nel diciannovesimo secolo e non ha nulla a che vedere con lo spettacolo in corso).
L’altro è denari, che in inglese è diamonds, cioè legato a qualcosa che ha valore. Prima questa carta era rappresentata dalla moneta, quindi è legata al mondo del commercio; l’ultimo è fiori/bastoni che rappresenta l’agricoltore, l’operaio, ma rappresenta allo stesso modo la rivolta.
Adesso abbiamo toccato il tema militare nel prossimo ci sarà il tema della magia poi mondo degli affari e così via. Sono tutti temi collegati ed è importante per noi che nel primo spettacolo siano rappresentati tutti i semi.
E’ la prima volta che cerchiamo di seguire quattro storie contemporaneamente, normalmente negli spettacoli seguiamo le storie una dopo l’altra, qui cerchiamo di farlo contemporaneamente.

 C’è in queste quattro storie un rappresentante per ogni seme:
♠ spade/picche (la storia militare);
♥ cuori/coppe (la coppia che si sposa a Las Vegas;ci sono anche dei riferimenti alla fede e al sistema religioso);
♦ danari/ori (il mondo degli affari, col personaggio che soffre di gioco compulsivo che viene a Las Vegas per affari);
♣ bastoni/fiori (il mondo proletario, gli impiegati del casinò e della caffetteria che sono tutti immigrati e parlano in spagnolo).
Per noi è importante che le quattro carte siano rappresentate nella prima uscita in una sorta di microcosmo che inizi l’intreccio. Non sappiamo ancora se queste quattro storie avranno un legame ma sappiamo ci saranno dei temi che si intrecciano e si faranno eco lungo tutto il progetto. Il grande desiderio è quello di presentare in futuro i quattro spettacoli.

13 carte, 7 attori 
Non abbiamo ancora ingaggiato tutti gli attori ma ci saranno 7 attori per cuori. Abbiamo 13 carte, 6 attori per picche e 7 per cuori. Ci sono delle regole anche per questo: mescoleremo le carte per poi dividerle in due mazzi e decidere chi farà la terza parte e chi la quarta.
Anche per chi fa il montaggio dello spettacolo è chiara questa situazione in cui delle immagini trovano lentamente la loro collocazione, ma non si può mai forzare questo processo in modo definitivo.

Film e teatro: “Il teatro è NOW!” 
Una differenza tra far dire una cosa a un film e farla dire a uno spettacolo è che nel film si ha il materiale relativo alle riprese e si può solo cercare di incastrarlo col montaggio, cercando di far parlare le immagini ma resta tutto nelle immagini. Io invece posso benissimo dire ai miei attori, in qualsiasi momento di fare una cosa con un’intenzione completamente diversa e loro rimetteranno tutti gli orologi a zero. Nel cinema questo ovviamente, non si può fare perché è già tutto registrato. Per questo che trovo interessante recitare con questa particolarità del teatro: ogni giorno è un nuovo giorno e non si sa mai cosa accadrà.
Io non faccio molto cinema ma le prime volte che l’ho fatto, scrivevo la sceneggiatura, si girava si faceva il montaggio, poi il film veniva distribuito e durante il tempo di distribuzione magari ad un festival, parlavo con la gente del mio film e avevo l’impressione di vedere il fantasma delle mie idee passate. Quello che vedevo era quello che ero, magari due anni prima! Questo a teatro non succede mai. A teatro si parla di ciò che abbiamo fatto ieri, che faremo oggi e domani, anche se la tournèe è iniziata da cinque anni. E’ sempre now! Per questo io mi sento molto più vicino al teatro.

Di Anna Monteverdi e Giancarla Carboni.

Ricordando Julian Beck, testo di Gerald Thomas
27

Note inedite raccolte da Anna Monteverdi

 Nel 1985 il giovane regista Gerald Thomas che aveva già lavorato con John Cage (qui una testimonianza di CAGE sul suo lavoro) diresse per l’ultima volta Julian Beck in un piéce da Beckett, That Time prima della sua morte. L’ho raggiunto via mail e mi ha lasciato questa testimonianza inedita.

Samuel Beckett e Gerald Thomas

Quando Julian Beck mi invitò a dirigerlo, quasi svenni. La ragione? Era uno degli uomini di teatro che avevo maggiormente ammirato (e seguito) durante la mia giovinezza a Londra, a New York e in Brasile, e improvvisamente, questa Icona, uscita per un momento dal suo Living Theatre mi invitava a dirigerlo.

Ero già conosciuto a New York per il mio legame diretto con Samuel Beckett e avevo già allestito in anteprima mondiale alcuni dei suoi testi al teatro La MaMa e in altri luoghi, con grandi risultati, non solo a New York ma anche oltre oceano. Ci presentarono. Era già molto malato e io ero senza parole.

Julian mi lasciò libero di scegliere quale testo di Beckett rappresentare, e io decisi per That Time, una premiére assoluta per l’America. Inoltre avrebbe richiesto molto poco sforzo fisico per Julian. Il brano consisteva di un personaggio che ascoltava la sua stessa voce divisa in tre parti, raccontare del suo passato. Era immobile, o almeno io l’ho reso così, con un piccolo tocco della mano sul volto ogni tanto, quando veniva pronunciata la frase “when was that?

Poiché Julian non poteva parlare con chiarezza per lungo tempo all’epoca (il cancro gli aveva colpito le corde vocali) andammo in studio e registrammo tutto, parola per parola. Prevedendo che il risultato finale sarebbe potuto essere noioso per il pubblico, decisi di usare partiture musicali. Una di John Cage, l’altra di un mio ex compagno di lavoro artistico Luciano Berio (in Zaide a Firenze, 1995, Maggio Musicale). E così il testo divenne, in qualche modo, musica. Julian sembrava sorpreso e felice dell’idea. Ricordo che che quando ascoltò per la prima volta il registratore chiese: “Sono io o avete trovato un altro attore con una voce simile a me che può cantare così meravigliosamente?” Tutti in teatro risero.

E la conclusione non fu altro che un enorme successo. Andavo a prendere Julian a casa sua (nel West End Avenue, 98th Street, a Manhattan) ogni giorno per lo spettacolo. Facemmo tutto esaurito in teatro un mese prima. Lo spettacolo si spinse fino al Theater Am Turm di Francoforte e progettammo altri viaggi, ma Julian si ammalò sempre di più durante la trasferta e dovemmo cancellare la data di Belgrado e altre ancora. Ritornammo tutti a New York. Lo spettacolo fece a un gran successo in Germania, e sullo spettacolo il critico Peter Iden scrisse un articolo molto lungo che entrava nel merito soprattutto del mio metodo del metalinguaggio teatrale: un vero uomo che stava realmente morendo, recitava sulla scena un uomo che stava morendo.

Pochi mesi dopo Julian morì. Ero a Rio e tornai subito a New York in tempo per i funerali, Allen Ginsberg fece una registrazione video della sepoltura nel New Jersey.

Questa fu una tra le più onorevoli e incredibili esperienze della mia vita. Julian mi disse: “Se vuoi fare una cosa falla grande, e più grande ancora, vattene da New York. Vai in Brasile”. L’ho fatto. Ho seguito ogni singolo consiglio che lui mi diede. Julian non era di questo mondo. Devo gran parte della mia posizione artistica oggi (71 testi e opere liriche rappresentate in 12 Paesi) al consiglio di Julian.

Dio ti benedica Julian. E’ duro credere di essere stati su questo pianeta per vent’anni senza di te. Ricordo ogni ruga sul tuo volto, tutte le volte che hai sorriso, nonostante il tuo dolore, il tuo enorme dolore metafisico di non essere stato in grado di cambiare il mondo come avevi sognato. Ma, d’altra parte, ti sei salvato dalle atrocità di George W. Bush e dalla militarizzazione ed egemonia degli Stati Uniti nel mondo, dall’invasione dell’Iraq, dalla morte di 200.000 civili che non c’entravano niente, tutto in nome del Petrolio, dell’avidità e oggi c’è ancora più discriminazione di quando eri tra noi. Il mondo è tornato indietro. Viviamo in una società orribile, Julian. Tu ci hai lasciato appena in tempo, quando la corruzione si poteva appena vedere o sospettare. Ora infetta tutti i media, tutte le istituzioni, governi e società. In qualche modo sono felice che tu non sia testimone di questa globalizzazione.

D’altra parte però sono infelice che il mondo abbia perso uno dei suoi più valorosi guerrieri. Forse se tu fossi qui, tutto questo orrore sarebbe stato colpito allo stomaco e al cuore, non avrebbe resistito al tuo carisma. Il tuo incredibile carisma. Mi spiace, sto piangendo e non riesco più a scrivere. Mi manchi troppo.

 LOVE

 Gerald Thomas-

Website: www.geraldthomas.com; videosite: http://geraldthomas.net

Photo: a sinistra Judith Malina e Julian Beck; al centro Gerald Thomas con Samuel Beckett; a destra Julian Beck in That time ritratto da IRA COHEN;

BIO: Born in 1954,Gerald Thomas has spent his life partly in the United States, England, Brazil and Germany, graduating as a reader of Philosophy at the British Museum Reading Room and “officially” beginning his life in the theater at La MaMa Experimental Theater (but having received early on in life a great inspiration by watching the rehearsals of Victor Garcia’s masterpiece staging of Genet’s Balcony in Sao Paulo in the seventies. A year later, at the Aldwych in London, Thomas was able to become an ‘intruder’ in Peter Brook’s rehearsals of the RSC in the Midsummer Night’s Dream. Back in the US, at La MaMa, Thomas became an illustrator for the Op-Ed page of the New York Times while also conducting workshops at La MaMa, where he adapted and directed a few world premiere Samuel Beckett prose and dramatic pieces. In the early eighties, Thomas began working with Beckett, the man himself, in Paris (after a lot of correspondence had been exchanged between them for almost two years), adapting new fiction by the author. Of these, the more notorious were “All Strange Away” and “That Time” staring the legendary Living Theater founder, Julian Beck in his only stage acting role outside of his own company, The Living Theater. In the mid-eighties, Thomas became involved with German author Heiner Müller, directing his works in the US and in Brazil, and began a long term – and highly questionable partnership with American composer Philip Glass.

Heiner Goebbels e il Festival di Ruhr
26

Pubblicato su Juliet Art Magazine

La Triennale di Ruhr (2012-2014) in Germania conclusasi a ottobre, è stata una delle manifestazioni artistiche più complete e ricche dell’anno. Merito del direttore, al suo secondo e penultimo anno di incarico: il compositore e regista teatrale tedesco Heiner Goebbels, una delle personalità di rilievo nel panorama della sperimentazione musicale e multimediale contemporaneo.

heiner

                                                                           Heiner Goebbels
 

Il fittissimo calendario di un mese e una settimana di programmazione prevedeva concerti, installazioni audiovisive, spettacoli teatrali, eventi di music theatre con supporto di visual, molti dei quali debutti assoluti, co-produzioni o proposte site specific. L’opening era dedicato al musicista americano, famoso per le sue composizioni in microtonalità, Harry Partch (1901-1074) con l’allestimento dell’opera Delusion of the Fury in formato multimediale a firma dello stesso Goebbels, che è stata salutata unanimemente dalla critica come l’evento musicale dell’estate. Sulle scelte artistiche di Goebbels –che ha voluto proporre opere di videoarte, musica, danza, digital performance– i nomi dicono già tutto: Robert Wilson, Douglas Gordon, Robert Lepage, Anna Teresa De Keersmaeker, Ryoji Ikeda, Quai Brothers, Rimini Protokoll, oltre allo stesso Goebbels che ha riallestito per l’occasione Stifter dinge sia in versione teatrale che installattiva.

Douglas-Gordon

                              Silence, Exile,Deceit, installazione audiovisiva di Douglas Gordon 
 

Esperienze percettive, opere che interagiscono con lo spettatore, installazioni immersive in spazi densi di significato, di memoria, di storia. Il Festival era dislocato in varie aree geografiche intorno a Essen, seguendo un’idea cara alla ricerca, di drammatizzazione di luoghi industriali o non convenzionali; il più spettacolare di questi era il distretto carbonifero di Zollverein dove, grazie a un programma europeo di finanziamento, è stata rifunzionalizzata per una fruizione culturale, una ex area produttiva industriale per l’estrazione e lavorazione del carbone, molto vasta e affascinante per la presenza di macchinari, ciminiere e strutture adattate al nuovo uso. Così il videomaker Douglas Gordon ha lavorato dentro l’area del Kokerei per una installazione (o meglio, pantomina industriale, come viene definita dall’autore) molto suggestiva dal titolo SIlence, Exile, Deceit. Qua immagini video da incubo proiettate su pareti, tra luci spettrali e sonorità liriche, apparivano all’improvviso in mezzo a fiammate, fumi e voli di scale, in una struttura che calava in verticale nelle viscere della terra a raccontare storie enigmatiche alla Edgar Allan Poe.

jeuxdecartes

                                        Jeux de cartes-Coeurs, spettacolo di Robert Lepage
 

Il giapponese Ikeda nella stazione di Duisburg invece, ha tradotto in installazione audiovisiva di tipo immersivo, i dati digitali che ci circondano nella vita quotidiana. Il canadese Robert Lepage, ovvero il nome più autorevole nel teatro visuale contemporaneo, è sbarcato qua per il debutto del secondo atto dello spettacolo multimedia Jeux de cartes avente una originale scenografia a pianta centrale mobile con personaggi che spaziavano dal Québec contemporaneo all’Algeria della guerra d’indipendenza, in una successione di quadri e di eventi dal chiaro gusto cinematografico. Stifter dinge di Goebbels invece, è una raffinata e insieme stravagante proposta di spettacolo senza attori, con pianoforti assemblati insieme a oggetti, che scorrono su binari suonando senza musicista, avanzando verso il pubblico, sopra vasche con acqua e con intorno proiezioni video e suggestioni sonore e letterarie, in un’utopia di “macchina celibe” di duchampiana memoria che ha richiamato alla mente anche operazioni avanguardistiche storiche (dal Dadaismo a Fluxus). Un Festival che “non istruisce e non intimorisce ma offre un’esperienza per tutti i nostri sensi” secondo la volontà del suo direttore, frase che suona per molte ragioni, come un vero e proprio manifesto programmatico d’arte contemporanea. Polifonica.

Un teatro attraversato da visioni: il Théâtre du Soleil
25

Silvia Bottiroli e Roberta Gandolfi, Un teatro attraversato dal mondo. Il Théâtre du Soleil oggi, Titivillus, 2011

Gli autori di questo importante libro su Ariane Mnouchkine sono Silvia Bottiroli (direttrice del Festival di Sant’Arcangelo) e Roberta Gandolfi (ricercatrice all’Università di Parma) e la collaborazione per gli apparati critici, di Erica Magris. Il titolo è ben spiegato dalle stesse parole della Mnouchkine che compaiono nella introduzione (Teatro, mondo, utopia) scritta insieme, o per dirla con la parafrasi più amata dalla Mnouchkine “in armonia con” la drammaturga Hélène Cixous:  

Ho l’impressione che il nostro teatro – come gli altri del resto – sia attraversato non solo dall’eco del mondo ma dal mondo stesso… Ci siamo talvolta sentiti assediati dalle persone che venivano da fuori, che avevano bisogno di stare da noi, che volevano farsi ascoltare, avevano bisogno della nostra protezione, avevano cose da raccontarci, da comunicarci, da insegnarci. Penso che il meno che si possa dire è che in questo momento il Théâtre du Soleil è attraversato dal mondo, ci sono persone d’ogni dove.

Un libro importante (edito da Titivillus) considerato che, assai colpevolmente, in Italia non era uscita finora, neanche una monografia sul gruppo. Gandolfi e Bottiroli indagano nello specifico gli ultimi tre spettacoli della compagnia (Le Dernier Caravansérail, Les Ephemères, Les Naufragés du Fol Espoir) con interventi critici oltre che delle autrici, anche di Béatrice Picon-Vallin, direttrice del CNRS di Parigi e studiosa del teatro del Novecento che ha seguito con grande passione la compagnia sin dai suoi esordi, svelando per prima il meccanismo della “cineficazione teatrale” dei suoi lavori. Ed infine, il libro ospita le voci dal Soleil, ovvero le testimonianze dirette tra gli altri, di Charles- Henri Bradier, condirettore del Soleil e Duccio Bellugi Vannuccini, co-creatore. Un libro che racconta le diverse prospettive di lavoro (attoriale, scenografico, tematico) del Soleil e che ci aiuta a scovare quella gemma di bellezza immersa nelle profondità marine che, nella metafora preferita della Mnouchkine, diventa l’obiettivo della ricerca teatrale.

Poche compagnie teatrali possono vantare la longevità del Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine, regista francese che ha messo in scena la Storia, la Rivoluzione e la lotta dei popoli per la libertà (1789, 1793, L’Age d’Or). Stare una sera alla Cartoucherie, sede storica della compagnia nel bel mezzo del Bois de Vincennes, è un’esperienza unica che, per chi ama il loro teatro, giustifica da solo, un viaggio a Parigi. La cena, un caffè o la limonata del deserto insieme agli attori e agli altri spettatori prima e dopo lo spettacolo, la visione ravvicinata degli artisti che si truccano, Mnouchkine che si intrattiene a parlare “in amitié” con chiunque, è qualcosa che difficilmente si cancella dalla memoria.

Personalmente ho visto tutti gli spettacoli del Soleil dal Tartuffe (1995) in poi e tutti quelli raccontati nel libro (alcuni anche più volte e fuori della sede parigina: Tambours sur la Digue lo vidi nel 2001 al Festival dei teatri delle Americhe di Montréal, in un gigantesco Palazzetto del Ghiaccio sold out da svariati mesi). L’ultima avventura teatrale della Mnouchkine, Les Naufragés du Fol Espoir è una curiosa rielaborazione cine-teatrale dal romanzo postumo di Jules Verne che diventa una sorta di viaggio anche per gli spettatori: la storia, ambientata agli inizi del Novecento durante un film in corso di lavorazione negli scantinati di un ristorante, esplora gli ideali e le utopie socialiste che in quegli anni infiammavano nobili animi. Così, mentre si gira il film ispirato all’attraversamento in nave delle lande ghiacciate, si indaga la psicologia dei naviganti e dei viaggiatori: chi alla ricerca dell’oro, chi alla ricerca di un lavoro, chi alla ricerca di un luogo dove piantare la bandiera del socialismo. Ma la nave è il microcosmo del mondo dove viltà e coraggio, nobiltà e avidità, amore e odio si scontrano per approdare nel deserto ghiacciato di una terra vuota e inutile ma che pure è contesa dall’Inghilterra e dall’Australia.

Qual è dunque, il luogo dove far crescere gli ideali del socialismo? Nessuno, non più, neppure nella lontana terra ghiacciata dove nulla cresce, perché neanche lì gli uomini riescono a vivere in armonia accecati come sono dal denaro, dal potere, dalla vendetta. A questa conclusione amara viene il sospetto che Mnouchkine aggiunga un sotteso happy end: la terra promessa esiste, ed è proprio la Cartoucherie il luogo del suo teatro che ha dimostrato a tutti che si può vivere in comunità condividendo vita, ideali e utopie dentro e fuori il teatro e trasmettendo a tutti le bonheur della concordia. Qua la rivoluzione francese ha avuto esito positivo, e Ariane Mnouchkine ha usato la scena per portare alla luce i problemi concreti dell’umanità non sottraendosi dunque, a quel dovere del teatro, a cui spesso le compagnie invece, si fanno latitanti, di ficcare gli occhi in faccia alla vita: la tragedia dei profughi, le violenze, le persecuzioni, le emarginazioni, la mancanza dei diritti civili nei paesi totalitari, le torture, le discriminazioni. La Cartoucherie è veramente la no man’s land dove tutti hanno diritto di cittadinanza, dove è possibile incontrare il teatro degli oppressi, il teatro d’Oriente, quello di Baghdad e dove conoscere altre culture, altre lingue. Les Ephemères è un vero spettacolo-fiume in cui si raccontano quasi sottovoce, le piccole cose della vita, ricordi lontani e dolori familiari che offrono uno scorcio assai realistico delle variegate vicende umane e delle relative problematiche e divisioni sociali. Il tutto (attori e oggetti di scena) raccontato in una pedana mobile mossa all’uopo da servi di scena (repousseur), modalità inaugurata dal gruppo ai tempi di Le Dernier Caravansérail. Un libro importante da aggiungere alla biblioteca ideale che racconta i protagonisti di questo “teatro vivente”.

Addio a Berlino di Christopher Isherwood
24

Pubblicato su Laspeziaoggi.it

Ristampato da Adelphi in questi giorni Addio a Berlino è il romanzo da cui Bob Fosse nel 1972 ricaverà la trama del film Cabaret con Liza Minnelli. Pubblicato originariamente nel 1939 è uno spaccato della Berlino del 1930-1933, anni in cui il protagonista arriva a vivere il clima brulicante di arte e vitalità della Repubblica di Weimar. Da un’affittacamere il protagonista Chris conosce la sensuale Sally Bowles, aspirante attrice svampita, seducente frequentatrice di cabaret e caffè (quelli immortalati da Otto Dix) e insieme incontrano personaggi emblematici di un’epoca: Natalia, rampolla di una colta famiglia ebrea dell’alta società,Fritz, ricco faccendiere tedesco, Paul Rakowsky, truffatore polacco…

Per chi vuole conoscere il clima in cui Brecht inizia a scrivere le sue opere drammaturgiche,  quello del teatro di massa proletario di Platon Kerzhenev e il teatro dell’agit prop non può ignorare questo testo. Lo zoo sociale de L’opera da tre soldi rappresentato per la prima volta il 31 agosto del 1928, l’apice più grandioso del suo “teatro antigastronomico” che sancisce anche la relazione tra Brecht e il musicista Kurt Weill, si ispira direttamente a questa atmosfera. E se nel contenuto dell’opera brechtiana si sancisce l’assunto fondamentale che i metodi della malavita non sono poi così diversi dalla borghesia (Dice il capo dei banditi Macheath “Perché le leggi ci prendono di mira? Siamo forse più disonesti degli altri?”), nella forma sono presenti le famose song che rimandano proprio al cabaret, alle sue ballate brillanti, esplicite e i suoi mascheramenti, quel cabaret imperante nella Berlino degli anni Venti e primi anni Trenta così ben raffigurata da Isherwood.

:: digital performance interactive arts